Come è noto, in inglese
‘Crossroads’ significa incrocio. Nell’immaginario della musica rock, e prima
ancora in quella del blues, è soprattutto il titolo di una canzone anni ’30 di
Robert Johnson, il quale, presso un incrocio (appunto), avrebbe stipulato un
patto con il diavolo per diventare il chitarrista più bravo di tutti i tempi.
E’ inoltre chiamato così, in riferimento a tutto questo, anche il famoso
festival che Eric Clapton organizza periodicamente per dare spazio a
chitarristi famosi e non. Nel caso di questo libro, invece, ci si riferisce
soprattutto all’idea di fondo: quella, cioè, di non trattare la biografia di un
singolo gruppo musicale, bensì di intrecciare le carriere di diversi gruppi
rock degli anni ’70, nel momento in cui un qualche “incrocio” permette di
passare dalla storia dei Led Zeppelin a quella dei Black Sabbath, e poi a
quella dei Jethro Tull o dei Genesis, proseguendo con questo “escamotage
narrativo” ad una sorta di excursus in grado di raccontare carriere e aneddoti
riguardanti alcuni dei miei gruppi preferiti. Il tutto scrivendo ‘a memoria’,
volutamente senza il supporto di aiuti esterni, ma, al tempo stesso,
rinunciando ai mille dettagli che pure si sarebbero potuti inserire, in favore
di una lettura più scorrevole, in grado di interessare sia gli intenditori che
i neofiti, se così vogliamo dire, raccontando delle carriere e dello spirito
dell’epoca ed evitando il rischio di risultare pedanti, mettendo in luce
notizie meno note e punti di vista più personali.
LED ZEPPELIN
I Led Zeppelin avevano grinta
vendere. Ma, unitamente a questa, anche un sound granitico e ben riconoscibile,
oltre ai riff immortali creati dalla stupefacente chitarra di Jimmy Page. Non
ultimo, la presenza di una sezione ritmica tanto precisa quanto devastante, con
un batterista dalla potenza fuori dal comune. Il boss della casa discografica
americana Atlantic intendeva mettere sotto contratto solo i gruppi che avessero
tra le loro fila almeno un musicista straordinario: ebbene, nel caso degli
Zeppelin, gli elementi straordinari erano quattro su quattro! Jimmy Page e John
Paul Jones si conoscevano già prima di formare la band perché, a dispetto della
loro giovane età, durante gli anni ‘60 erano entrambi stimatissimi (e molto
richiesti) musicisti da studio. Jimmy guadagnava bene limitandosi a registrare
le parti di chitarra che gli venivano richieste. E questo per una infinita
varietà di artisti. A volte si trattava di nomi famosi, e in questo caso il suo
nome non compariva neanche nei credits di copertina, per non far sfigurare il
chitarrista “ufficiale” della band: il che non doveva risultare particolarmente
gratificante per il giovane Page. Inoltre, era spesso costretto a suonare
musica che non gli piaceva per niente. Oppure, dopo aver tanto lavorato su
qualche parte, poteva capitargli di ascoltare il disco per scoprire che i suoi
sforzi erano stati vanificati da un missaggio nel quale la sua chitarra si
sentiva poco o niente. Così cominciò a stufarsi di quel lavoro, e prese a
suonare dal vivo con vari gruppi. Oppure a partecipare alle jam sessions che si
tenevano al ben noto Marquee di Londra, facendosi subito apprezzare. Anzi, ci
fu pure chi decise di “appendere la chitarra al chiodo”, dopo aver visto quel
giovane, così gracile e minuto, fare cose pazzesche con il suo strumento. Anche
John Baldwin cominciava ad essere stufo delle sessioni da studio, fatte con o
senza Jimmy. Qualcuno gli disse però che avrebbe dovuto cambiare il suo nome in
John Paul Jones. Quest’ultimo era in realtà un personaggio storico, un
ammiraglio che si era fatto valere nella guerra dei nascenti Stati Uniti contro
gli inglesi, nel ‘700. Al tipo in questione quel nome era piaciuto, anche se
probabilmente non sapeva niente di
questo riferimento storico. Fatto sta che John Baldwin, eccellente
bassista, tastierista ed arrangiatore, divenne da allora in poi John Paul
Jones. Il cantante Robert Plant ed il batterista John Bonham, detto “Bonzo”,
invece, suonavano già insieme nella Band Of Joy (nome che Plant avrebbe poi
“riesumato” alcuni decenni dopo). Rispetto a Page e Jones, loro due erano i
“campagnoli” provenienti dalle Midlands. Più precisamente, dalla zona
denominata “Black Country” (da qui il titolo del brano ‘Black Country Woman’
degli Zeppelin), per via del fatto che il terreno, a causa dell’estrazione del
carbone, era tutto nero. Bonham dormiva in una roulotte davanti casa dei suoi e
tirava a campare vendendo anche di nascosto articoli del negozio di sua madre.
Mentre Robert, che stava insieme alla
ragazza indiana Maureen (in seguito sua moglie) si dava da fare asfaltando le
strade. Naturalmente erano soprattutto musicisti di grande talento in attesa
della grande occasione. Ma era un’attesa che non desideravano durasse in
eterno. Al punto che Robert ebbe a dichiarare che avrebbe mollato tutto se non
fosse riuscito a sfondare entro i suoi 20 anni (e 20 anni li avrebbe compiuti
di lì a pochi mesi!) Singolarmente, molti personaggi divenuti in seguito veri e
propri divi del rock, attivi ancora oggi, provenivano da quella stessa zona del
Regno Unito, dalle parti di Birmingham.Tra questi, oltre ai due futuri
Zeppelin, anche i Black Sabbath, Steve Winwood (poi leader dei Traffic), Robbie
Blunt (chitarrista del primo Plant solista, già suo amico prima degli Zeppelin)
e Glenn Hughes (in seguito nei Deep Purple). Quest’ultimo, nonostante Robert
all’epoca non fosse ancora nessuno, lo ricorda con un atteggiamento già da
rockstar, sfacciato e sicuro di sé, certo del proprio luminoso futuro, con un
grande carisma e sempre in compagnia di belle ragazze: quando Jimmy Page gli
offrì il posto di cantante del suo nuovo gruppo, Robert Plant non disse subito
di si, tutto preso da un suo nuovo gruppo dal nome impronunciabile. Ebbe modo
di parlarne con John Osbourne (detto “Ozzy”, di lì a poco vocalist dei Black
Sabbath), e quest’ultimo non riusciva a capacitarsi del fatto che Plant potesse
nutrire dei dubbi nell’accettare quella proposta: nell’ambiente Jimmy era una
celebrità, soprattutto perché nel frattempo era diventato il chitarrista degli
Yardbirds: una band di successo, che suonava regolarmente anche in America ed
aveva singoli in classifica. Incredibilmente questo gruppo aveva visto
succedersi tra le sue fila prima Eric Clapton, poi Jeff Beck, quindi Jimmy
Page, vale a dire tre tra i più grandi chitarristi del Regno Unito! Jeff e
Jimmy erano amici fin dall’adolescenza, suonavano ed ascoltavano il blues
insieme: così, quando si liberò un posto come bassista, Beck introdusse Page
nella band. Naturalmente quest’ultimo, da anni un gran virtuoso della chitarra
elettrica, al basso era decisamente
sprecato. Eppure accettò l’offerta, pur di lasciare il monotono lavoro di
turnista da studio. Dopo qualche tempo gli Yardbirds, provvedendo diversamente
per il ruolo di bassista, poterono permettersi di sfoggiare per circa sei mesi
entrambi i formidabili chitarristi. Per inciso proprio questa formazione, con
Beck e Page insieme, appare nel film ‘Blow Up’ di Michelangelo Antonioni,
ambientato nella “Swinging London” della fine degli anni ’60, con Jeff Beck che
sfascia la sua chitarra contro l’amplificatore (in effetti Antonioni avrebbe
voluto gli Who, che davvero distruggevano i loro strumenti alla fine dei
concerti, mentre gli Yardbirds non erano soliti indulgere in questo tipo di bizzarre
attività). Il brano che eseguono nel film è ‘Train Kept A Rollin’: proprio il
pezzo (una cover) che gli Zeppelin avrebbero suonato durante la loro prima
prova, e che avrebbero utilizzato anche come apertura dei primi concerti. E
anche degli ultimi, oltre 10 anni dopo, nel 1980, quasi a chiusura di un
cerchio magico. Ad ogni modo, Beck decise di piantare la band nel bel mezzo di
un tour negli USA. E così Jimmy divenne l’unico chitarrista della band,
sostenendo benissimo il nuovo ruolo. Con gli Yardbirds si esibiva già con
l’archetto nel brano ‘Dazed And Confused’ e, seduto da solo sul palco, anche
nell’orientaleggiante ‘White Summer’. Entrambi i pezzi (il secondo con
l’aggiunta di ‘Black Mountain Side’) sarebbero entrati nella scaletta degli
Zeppelin. Il brano speziato di oriente, sempre eseguito con la chitarra
Danelectro, sarebbe stato anche documentato nel famoso filmato della Royal
Albert Hall del 1970, per essere rimesso in scaletta anche in occasione dei due
concerti di Knebworth ’79, e nell’ultimo tour della band (“Led Zeppelin Over
Europe”, 1980). Anche ‘Tangerine’ era un brano degli Yardbirds lasciato in
eredità al Led Zeppelin. Beck invece formò il suo Jeff Beck Group, con Rod
Stewart alla voce. Questa band fu anche invitata a partecipare al leggendario
festival di Woodstock dell’ agosto 1969, ma si era sciolta poco prima. Anche
Led Zeppelin e Jethro Tull furono invitati, ma non parteciparono perché
impegnati in altre date, sempre negli Stati Uniti: un vero peccato! Del resto,
nessuno avrebbe potuto immaginare il successo che avrebbe avuto quel festival,
anche per merito del film, uscito l’anno dopo. Se avessero partecipato a
Woodstock, sarebbe stata una fantastica occasione poter vedere questi due
gruppi inglesi su pellicola, con ottima qualità audio e video, e proprio nel
momento della loro esplosione oltre Atlantico. Dei Jethro Tull il bassista
Glenn Cornick si sarebbe sempre rammaricato per l’occasione perduta. Ian
Anderson, invece, si disse felice di non essere andato al festival, ritenendo
che i partecipanti avrebbero per sempre legato il loro nome a quell’unico
evento. Cosa avvenuta forse per Joe Cocker, con la sua strepitosa
interpretazione di ‘With A Little Help From My Friends’: forse l’unico caso di
una cover migliore dell’originale (un’innocua marcetta dei Beatles cantata da
Ringo Star). Per inciso, la chitarra della versione di Cocker su disco (1968)
era, manco a dirlo, di Jimmy Page. Quest’ultimo prese invece a prestito il
‘Beck’s Bolero’ per inserirlo all’interno di ‘How Many More Times’, il brano
che avrebbe chiuso l’album d’esordio dei Led Zeppelin, registrato nell’ottobre
del 1968 agli Olimpic Studios di Londra per una spesa irrisoria.
BLACK SABBATH
Il già citato Ozzy Osbourne non
ricorda affatto come il suo vero nome, John, avesse potuto trasformarsi in
“Ozzy”. Ad ogni modo, si tolse lo sfizio di tatuarsi quelle quattro lettere
sulle nocche di una mano, quando era ancora adolescente. E sono lì ancora oggi.
Disegnò pure una faccina sorridente sopra una delle sue ginocchia, perché lo
aiutasse a tirarlo un po’ su mentre se ne stava comodamente seduto sulla tazza
del water. Abitava ad Aston (come tutti gli altri membri dei futuri Black
Sabbath) insieme alla famiglia, in una casetta incastrata tra tante altre,
tutte in fila lungo una via che all’epoca gli sembrava lunghissima, ma che non
lo era affatto. Coi suoi amici andava a giocare in una casa bombardata dai
tedeschi, ed era convinto che fosse tutto diroccato apposta per permettere ai
ragazzini di giocarci dentro. A scuola faceva lo scemo, e fu in questa veste
che lo conobbe Tony Iommi, intimo amico di John Bonham. Osbourne inoltre era un
po’ dislessico, veniva trattato male dai professori e preso in giro dai
compagni. Il suo senso di auto-stima era decisamente basso. Se ne andava in giro
senza scarpe e con un rubinetto appeso al collo, perché non avrebbe potuto
permettersi una collana. Non gli riuscì bene neanche la carriera di ladro,
visto che venne subito “beccato”, e a 17 anni era già in prigione: l’esperienza
si rivelò talmente traumatica che decise di non ricaderci mai più. La sua
fortuna fu quella di appendere un manifestino in un negozio di Birmingham,
frequentato da tutti i musicisti della zona: con questo foglietto Ozzy
annunciava di essere un cantante in cerca di una band. E, soprattutto, di
essere in possesso di un’amplificazione propria (quella appena compratagli dal
padre). Una frase magica da quelle parti, in grado di catturare l’attenzione di
molti. E infatti tutti i futuri Black Sabbath finirono per bussare presto alla porta
di casa sua: prima “Geezer”, il bassista (che allora suonava la chitarra),
quindi Bill Ward, il batterista, che comparve insieme a Tony Iommi. Il tutto in
una successione quasi surreale, perché, dalla
finestra di casa sua, John Osbourne vedeva quella processione di
personaggi che sembravano tutti uguali: baffi e capelli lunghi, abiti
trasandati. Tony però lo riconobbe subito come lo scemo della scuola e disse a
Bill Ward di lasciarlo perdere, senza neppure metterlo alla prova. Iommi era
già un chitarrista molto stimato nella zona, ed era anche un po’ più grande.
Bill però insistette perché ad Ozzy fosse concessa almeno una possibilità e,
sorpresa, alla prima prova cantò bene: era intonato e sapeva trovare linee
vocali interessanti ed azzeccate. “Geeser” passò al basso, si unirono altri
musicisti, si cambiarono un po’ di nomi per la band (compreso quello di una marca di borotalco!)
e si cominciò ad andare in giro a suonare. Quando infine decisero di rimanere
in quattro, alla fine degli anni ’60, il nome del gruppo divenne Earth. In
seguito videro il manifesto di un film, in bella vista davanti alla loro sala
prove: era un horror italiano che si intitolava ‘Black Sabbath’. Così Tony
Iommi, notando che la gente faceva la fila e pagava per essere spaventata,
pensò che quello sarebbe diventato il nome definitivo del gruppo, e che la loro
musica avrebbe virato verso atmosfere più tenebrose ed inquietanti. Già in una
lettera spedita alla madre mentre rientravano da Amburgo, Ozzy annunciava
entusiasta che al ritorno a casa si sarebbero chiamati Black Sabbath. Proprio
ad Amburgo si erano sentiti quasi arrivati perché suonavano allo Star Club, lo
stesso locale che aveva visto abituali protagonisti i primi Beatles, il
quartetto di Liverpool che aveva
cambiato la vita di Osbourne, quando alla radio aveva ascoltato per la prima
volta She Love You: fu allora che capì di voler far parte di quel mondo.
Purtroppo, dopo tanti anni quel locale era diventato ormai un postaccio. E loro si ritrovarono pure a
derubare le gentili fanciulle con le quali si intrattenevano dopo i concerti
pur di “arrotondare”: mentre uno della band si appartava con qualche tipa,
l’altro entrava di soppiatto nella stanza e frugava nella borsetta della
malcapitata. Non sarebbero andati fieri
di tutto questo, ma, come diceva Ozzy, dovevano pur mangiare. Si spostavano da
una città all’altra con un furgone scassato: pioveva, nevicava, e i
tergicristalli non funzionavano. Così uno di loro si affacciava da un
finestrino, l’altro da quello opposto, e tiravano i tergicristalli con le mani,
ora in un verso, ora nell’altro, per permettere a chi guidava di vedere
qualcosa attraverso il parabrezza. Un
escamotage che utilizzavano pur di suonare era tanto bizzarro, quanto logorante:
si piazzavano con il furgone carico della strumentazione davanti ai locali nei
quali era previsto il concerto di un gruppo già affermato, e, nel caso la band
in questione non avesse potuto esibirsi, si sarebbero proposti loro.
Incredibilmente, intorno alla fine del 1968, la cosa riuscì: in una data
imprecisata della fine del 1968 i Jethro Tull, infatti, non furono in grado di raggiungere il locale
davanti al quale si erano “appostati” i Sabbath, e Ozzy e compagni riuscirono a
suonare al loro posto. Ian Anderson riuscì ad arrivare e a mescolarsi tra il
pubblico, mandando in estasi il giovane Osbourne perché, mentre questi cantava,
poteva intravedere Anderson (già famoso
in Inghilterra) muovere la testa su e giù, seguendo la musica. In effetti il sound
dello sconosciuto gruppo di Aston era ancora più pervaso dal blues che dai
suoni funerei che li avrebbero caratterizzati di lì a poco. E c’era molto blues
anche nel primo disco dei Jethro Tull (This
Was, l’unico che avevano pubblicato fino a quel momento). Ma ad attrarre
l’attenzione di Ian Anderson doveva essere stata soprattutto la performance di
Tony Iommi: Ian doveva trovare un sostituto di Mick Abrahams, il chitarrista
dei Tull, e Iommi sembrava essere l’uomo giusto. Del resto, se si ascoltano
certi pezzi dei primi lavori dei Black Sabbath, quando Tony Iommi suona da
solo, con la stessa Gibson SG rossa che utilizzava Abrahams, sembra
assomigliargli molto. In qualche caso, quando la chitarra ha un sound più blues
e carico di riverbero, accompagnata solo da un rutilante sottofondo di basso e
batteria, sembra proprio di ascoltare ‘Cat’s Squirrell’, dal disco d’esordio
dei Jethro. Tony ricevette la proposta di entrare nella band di Anderson, e con
la morte nel cuore, dovette comunicare ai compagni che avrebbe dovuto
lasciarli. Ozzy e gli altri sentirono in quel preciso momento i loro sogni di
gloria andare in pezzi: non sarebbero potuti andare da nessuna parte senza il
talento di Tony Iommi. Sarebbero dovuti tornare a lavorare in fabbrica, o a
fare gli altri i lavori frustranti che facevano prima. E questo proprio quando
le cose sembrava cominciassero a funzionare. Eppure, in una maniera che può
anche essere ritenuta commovente, trattennero le lacrime e si congratularono
con il loro amico, felici per lui. Di lì a poco, tanto per cominciare, Tony
avrebbe partecipato coi Jethro Tull al programma televisivo ‘The Rolling Stones
Rock And Roll Circus’ insieme a gente del calibro di John Lennon (allora ancora
nei Beatles), The Who, Mitch Mitchell (il batterista di Jimi Hendrix) e,
naturalmente gli stessi Stones (ancora con Brian Jones, ritrovato morto nella
piscina di Mick Jagger nell’estate del 1969). Toni Iommi, lavorando in
fabbrica, qualche tempo prima si era visto tranciare di netto la parte
superiore delle dita della mano destra da un macchinario che non sapeva ancora
usare bene. E dal momento che era mancino, si trattava proprio delle dita che
avrebbero dovuto scorrere sulla tastiera della chitarra! La sua carriera di
musicista sembrava finita. E invece si era fabbricato da solo delle protesi simili
a ditali che gli avevano permesso di riprendere a suonare (protesi che utilizza
ancora oggi). E adesso, con quel nuovo ingaggio, aveva l’occasione di passare,
in pochi anni, dalla triste certezza di aver chiuso per sempre con la musica
alla concreta possibilità di diventare il chitarrista di un gruppo importante.
Le cose sarebbero in effetti andate così, ma non nel modo che sembrava aver
prefigurato il destino. Iommi, infatti, partecipò alle riprese del ‘Circus’ coi
Jethro Tull, nel dicembre del 1968, ma lasciò quella band dopo un paio di
settimane, preferendo tornare coi suoi vecchi compagni: troppo strette erano
risultate per lui la disciplina, la
professionalità e la serietà che Ian Anderson imponeva alla band (a dispetto
dei suoi 21 anni), e ben presto avrebbe preso il sopravvento la nostalgia per
il divertimento, le follie e le risate con Ozzy e compagni. Il suo posto nei
Jethro Tull sarebbe stato infine preso da Martin Barre (che non lo avrebbe
mollato per 40 anni!), mentre gli Earth, divenuti nel frattempo Black Sabbath,
avrebbero sfondato al primo colpo con l’omonimo disco d’esordio, uscito nel
1970 e registrato praticamente dal vivo in 12 ore, prima di tenere un concerto
a Zurigo. Quando poi lo ascoltarono, quasi svennero per la felicità: il suono
era pazzesco, erano state aggiunte campane e pioggia all’inizio del disco e la
copertina (alla quale non avevano in alcun modo preso parte) era strepitosa. A
quel tempo tutti e quattro portavano al collo grosse croci di ferro, fabbricate
dal padre di Ozzy. E a quel punto fecero addirittura il bis, ottenendo ancora
più successo con il successivo ‘Paranoid’: questo secondo lavoro avrebbe dovuto
in realtà chiamarsi War Pigs, come
uno dei brani contenuti nel disco (e come voleva suggerire la copertina
stessa). Ma la casa discografica aveva preferito evitare problemi con quella
che sarebbe stata facilmente interpretata come un’aperta denuncia contro la
guerra in Vietnam, all’epoca in corso, e preferì attribuire all’album il titolo
di un brano che la band aveva registrato all’ultimo momento, giusto perché
c’era ancora spazio per un’altra traccia: il pezzo era appunto ‘Paranoid’, che
sarebbe diventata la loro hit più famosa in assoluto, e avrebbe addirittura
gettato le basi per quello che sarebbe diventato il genere heavy metal. Se
anche i Black Sabbath si fossero sciolti subito dopo quei primi due dischi,
avrebbero comunque marchiato con indelebili lettere di fuoco il libro della
storia del rock.
DEEP PURPLE
La triade classica dell’hard rock
con radici blues rimane quella rappresentata da Led Zeppelin, Black Sabbath e
Deep Purple. Nel 1969, dopo un loro concerto, a questi ultimi si era presentato
un giovane commesso chiamato David Coverdale, che chiese a Jon Lord di essere
preso in considerazione come vocalist del gruppo. Gli fu gentilmente risposto
che i Purple stavano provando Ian Gillan, il nuovo cantante, ma che, nel caso
non avesse funzionato, si sarebbero ricordati di lui. Invece Gillan andò alla
grande, fin quando, per puro caso, Coverdale diventò davvero la voce dei Deep
Purple, nel momento in cui Gillan lasciò la band, nel 1973. Ad ogni modo,
durante quel primo incontro, la band britannica aveva già sfornato tre dischi
ed una hit (“Hush”, grande successo negli USA) con Rod Evans alla voce e Nick
Simper al basso. Gli altri non erano però soddisfatti del corso intrapreso, e
decisero di sostituire Rod e Nick con due componenti degli Episode Six: Ian
Gillan, appunto, e Roger Glover. Oltre a Lord alle tastiere i Purple avevano
Ian Paice alla batteria (unico dei componenti originari rimasto oggi del
gruppo), più il talentuoso Ritchie Blackmore alla chitarra. Quest’ultimo
comunicò a Simper che, come bassista, Glover non era in realtà più bravo di
lui, ma che la decisione era ormai presa. E Simper non la prese tanto bene,
come si può immaginare. Qualche anno dopo, paradossalmente, lo stesso Blackmore
pose come condizione che Roger Glover venisse a sua volta sostituito,
altrimenti avrebbe abbandonato egli stesso i Deep Purple. Ancora prima di
Coverdale, nel 1973 arrivò così Glenn Hughes, già cantante e bassista dei
Trapeze: Ritchie e gli altri andarono a vederlo mentre si esibiva, e gli
proposero di unirsi alla band. A Roger Glover cadde il mondo addosso nel
momento in cui venne a sapere della sua estromissione, proprio quando la band
aveva raggiunto il massimo della sua popolarità, soprattutto a seguito di “Made
in Japan”. Per inciso Blackmore, che non aveva nulla di personale contro Roger,
non ebbe il coraggio di comunicargli la sua esclusione, e fu uno dei due
manager dei Purple ad assumersi
quest’onere. Glenn Hughes aveva anche una voce strepitosa, ed era in
grado di raggiungere acuti impressionanti: avrebbe dunque potuto anche essere
lui la nuova voce della band. Si preferì comunque un cantante che, come Gillan,
avesse una bella immagine e nessuno strumento appeso al collo: Ritchie avrebbe
voluto Paul Rodgers, ma questi, dopo lo scioglimento dei Free, si era ormai
impegnato con i Bad Company (in seguito l’unica band di successo della label
‘Swan Song’ degli Zeppelin), e dunque “ripiegò” su David Coverdale, che aveva
una vocalità in qualche modo simile. Alla fine, con questa nuova formazione
(denominata Mark III), finirono per alternarsi alla voce (o ad unirsi nei cori)
sia Glenn che David, dal vivo come sui dischi del periodo ’74-’75: Burn, Stormbringer e Come Taste the
Band). Se l’essenza più “funky” è documentata soprattutto sul live Made in Europe, quella della precedente
line up con Gillan e Glover (la “classica” formazione Mark II) è invece
immortalata sul leggendario Made in Japan,
uno dei dischi dal vivo più celebri della storia del rock. Paradossalmente, i
Deep Purple non si resero subito conto del potenziale straordinario di quest’
album, e quasi se ne disinteressarono: concessero che venisse pubblicato solo
in Giappone, e solo a patto che fossero utilizzati i loro fonici (Martin Birch
in particolare). Inoltre, il disco non sarebbe uscito affatto se a loro non
fosse piaciuto. Solo qualcuno della band si degnò di partecipare ai missaggi.
Le registrazioni erano state effettuate durante tre spettacoli, tra Tokyo e
Osaka, nell’estate del 1972, e catturavano i Deep Purple al massimo del loro
splendore: non appena Made in Japan
venne importato negli USA, all’inizio del 1973, il gruppo esplose. Si trattava
quasi di un’esecuzione live del nuovo
disco, Machine Head, ma con una
potenza ed una personalità quasi sfacciata, che sembrava sbattere in faccia al
mondo un perentorio “I più grandi siamo noi!”. La versione dal vivo di ‘Smoke
on the Water’ divenne ancor più celebre di quella in studio. E questo brano è
passato alla storia come il pezzo rock più famoso di sempre, conosciuto
praticamente da tutti. Il testo racconta la storia di quel che successe
effettivamente ai Deep Purple: la band si era recata a Montreaux, in Svizzera,
per registrare quello che sarebbe divenuto Machine
Head (1971) con uno studio mobile all’interno del Casino di Montecarlo.
Andarono a vedere Frank Zappa and The Mothers esibirsi in quello stesso luogo,
che era anche una sala da concerto. Ad
un certo punto, però, a qualcuno del pubblico venne la bella idea di lanciare
un bengala (o qualcosa del genere) verso il soffitto, e l’intero locale andò a
fuoco, con conseguente interruzione del concerto ed un generale “si salvi chi
può”: i Deep Purple non sapevano più dove registrare il nuovo disco. Dalla
finestra dell’albergo Ian Gillan si ritrovò ad osservare mestamente il fumo
(“Smoke”) del Casino andato in cenere alzarsi sopra (“on”) le acque del lago
(Water). Il gruppo non si perse d’animo e registrò comunque il nuovo materiale
utilizzando lo stesso albergo nel quale era alloggiato: i cavi dello studio
mobile posteggiato all’esterno percorrevano i corridoi, e nelle varie camere
dell’hotel si piazzarono Lord, Paice, Gillan, Glover e Blackmore, che portarono
alla fine la registrazione del lavoro. Se Il primo album con Ian Gillan alla
voce (il concerto per gruppo e orchestra, registrato e filmato alla prestigiosa
Royal Albert Hall di Londra nel settembre del 1969) non aveva permesso a Ian
Gillan di esprimersi in tutta la sua potenza,
con i successivi In Rock, Fireball e Machine Head i Deep Purple definirono il nuovo concetto di hard
rock, estremo, eppure impreziosito da momenti di grande classe, venato di
blues, contaminato da influenze di musica classica e caratterizzato da
grandiosi momenti di pura improvvisazione, con lo spettacolare e continuo
incrociarsi tra la chitarra elettrica di Ritchie Blackmore e l’ organo Hammond
di Jon Lord. Sfortunatamente la magica alchimia si ruppe quando i rapporti
personali tra Ritchie e Gillan si guastarono: già alla fine del ’72 il vocalist
inviò una lettera ai manager Edwards e Coletta nella quale manifestava la sua
intenzione di lasciare i Deep Purple.Concluse comunque il tour in corso (un po’
come avrebbe fatto in seguito Peter Gabriel coi Genesis), e infine, nel 1973,
annunciò al pubblico giapponese che quello che si era appena concluso era il
suo ultimo show con la band. Ma i Purple non potevano sciogliersi proprio
mentre, specie dopo il sopracitato successo di Made in Japan, era in classifica con più dischi e più singoli
contemporaneamente. Jon Lord ammise che Gillan e Blackmore non potevano stare
insieme non solo nello stesso gruppo, ma neppure nella stessa città. E così,
messo alla porta Roger Glover e con Ian Gillan dimissionario, i Deep Purple si
“reinventarono” con David Coverdale e Glenn Hughes, sfornando l’ottimo Burn: l’unica testimonianza filmata di
un concerto con questa nuova line-up rimane l’incredibile partecipazione della
band al gigantesco festival americano denominato ‘California Jam’, svoltosi
nell’aprile del 1974, con il nuovo disco uscito da poche settimane. In realtà
il pubblico avrebbe preferito vedere sul palco Ian Gillan, e non lo sconosciuto
David Coverdale, ma lo show fu strepitoso ugualmente. Ritchie Blackmore era
però coi nervi tesi perché non avrebbe voluto esibirsi prima del calar del
sole. Né sopportava le telecamere sul palco, quando queste si avvicinavano
troppo a lui: alla fine di ‘Space Truckin’ ne prese una a colpi di chitarra,
causandole danni considerevoli, mentre un’ eccessiva carica d’esplosivo concludeva la loro pirotecnica esibizione
incendiando mezzo palco con un’ esplosione assordante, che stordì gli stessi
musicisti. La band scappò via con lo sceriffo della Contea alle calcagna, e fu
in grado di ripagare i danni provocati solo coi proventi che ricevette per la
concessione dei diritti TV. Made in
Europe avrebbe documentato invece gli ultimissimi concerti (aprile ’75) di
Blackmore con i Deep Purple degli anni ’70, prima della sua decisione di
lasciare i suoi compagni per formare i Raimbow insieme a Ronnie James Dio, il
cantante degli Elf, gruppo spalla di quell’ultimo tour. Oggi, anche
riascoltando Made in Europe o Live in Paris, sembra impossibile
credere che un musicista possa aver deciso di abbandonare un gruppo di quella
levatura per lanciarsi in un possibile salto nel buio: ma Blackmore era (ed è)
un’artista, e lo stile che la band stava abbracciando collimava sempre meno con
i suoi gusti: Ritchie non amava il “funky”, e questa componente stava prendendo
sempre più spazio tra le pieghe della musica dei Purple: caratteristica che si
sarebbe accentuata ancora di più con l’arrivo del nuovo chitarrista, Tommy
Bolin (già con Billy Cobham), nel quale Hughes e Coverdale trovarono un ottimo
alleato per il nuovo corso del gruppo. Come
Taste The Band, pur eccelso nella sua miscela di hard rock, soul e funky,
ai vecchi fans non sembrò neanche un disco dei Deep Purple. Né le cose vennero
facilitate dal fatto che Bolin dovesse spesso sentire qualcuno del pubblico urlare che voleva
Ritchie Blackmore sul palco, e non lui. Ancora meno fu d’aiuto il fatto che
Tommy Bolin fosse purtroppo tossicodipendente, particolare del quale gli altri
del gruppo, pur buoni bevitori, non erano affatto a conoscenza. Iniziò male e
finì peggio: il disco non sfondò, il tour in Giappone (degli ultimi mesi del
’75) vide un Tommy Bolin spesso in cattive condizioni, e, in un caso,
addirittura a rischio della vita. Nel febbraio del ’76, durante il tour
americano, i Purple riuscirono a tornare a livelli accettabili. Ma poco dopo,
in Inghilterra, i loro ultimi concerti finirono tra i fischi, e a Liverpool
David Coverdale lasciò il palco in lacrime. I Deep Purple si sciolsero e Tommy
Bolin morì a causa di un overdose alla fine di quello stesso 1976: ancora una
volta, un talento che si butta via, un po’ come Paul Kossoff dei Free, Jim
Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin e tanti altri. Ad ogni modo Blackmore
vinse la sua scommessa con i Raimbow, mentre Coverdale resuscitò alla grande
con gli Whitesnake (fra i quali, fra l’altro, avrebbero militato anche alcuni
dei vecchi amici dei Purple, a cominciare da Jon Lord). Ma, nel 1984, i tempi
erano maturi per un ritorno del gruppo nella formazione Mark II (proprio quella
di Made in Japan), con il
sorprendente disco Perfect Strangers.
Il sottoscritto ha avuto modo di vedere questi Deep Purple a Cava dei Tirreni
nel 1988, e altre due volte in anni più recenti. A parte una “temporanea
estromissione” di Ian Gillan nel 1990, è stato poi Blackmore ad abbandonare di
nuovo il gruppo nel bel mezzo del tour del 1993, costringendo i suoi compagni
ad ingaggiare provvisoriamente Joe Satriani, e, dal 1996 ad oggi, Steve Morse.
Jon Lord ha dovuto lasciare prima i Deep Purple per motivi di salute all’inizio
degli anni 2000. E successivamente tutti noi, purtroppo, nel 2012, per problemi
di salute. Don Airey (già con Raimbow, Ozzy Osbourne e Jethro Tull) ha preso il
suo posto. Dei “vecchi” sono rimasti Ian Gillan, Roger Glover e Ian Paice. Una
storia ancora senza fine, con dischi nuovi, concerti in tutto il mondo e la
riproposizione dei vecchi, immortali “cavalli di battaglia”, con un Ian Gillan
che, pur non avendo più l’incredibile estensione vocale dei tempi di ‘Child in
Time’ (1970), conserva ancora un bel timbro. Il sopracitato Don Airey potè
diventare il nuovo tastierista del gruppo solo perché si salvò da una brutta
(quanto assurda) avventura agli inizi degli anni ’80: era in tour con Ozzy
Osbourne (che, coi suoi primi due dischi, stava riscuotendo più successo
rispetto ai Black Sabbath senza di lui), e il bus sul quale in quei giorni
viaggiava la band negli USA fece una sosta in un un prato. L’autista conosceva
un tizio che possedeva un piccolo aeroplano: era in grado di pilotarlo, e
propose a vari componenti della band e dell’entourage di fare un giro con lui.
Don Airey partì con il primo gruppo, ed atterrò poco dopo sano e salvo. Ma
nessuno sapeva che quell’autista era in realtà un alcolizzato privo anche del
patentino di pilota. E al secondo gruppetto non andò altrettanto bene. Dopo
qualche evoluzione il piccolo aereo si abbassò e squarciò il tetto del tour
bus, per andarsi a schiantare un po’ più lontano in una nuvola di fuoco. Tutti
gli occupanti, compreso Randy Rhoads (il chitarrista di Ozzy) persero la vita.
Lo stesso Ozzy, che stava dormendo nel bus con la moglie (figlia del suo
manager) fu svegliato di soprassalto da quella botta sul tetto del bus e, tra
le fiamme, si gettò fuori, portando con sé la sua signora (che tale è ancora
oggi), certo che si fosse trattato di un incidente stradale: non sapeva che il
bus era fermo in un campo, e rimase sorpreso dal fatto di non essersi ritrovato
sull’asfalto della strada. Fece comunque in tempo a vedere l’aeroplano
esplodere, senza capire e senza credere ai propri occhi. Ancora più difficile
fu riuscire ad accettare la perdita di Randy: Ozzy aveva trovato in lui il
partner ideale, ed era rimasto senza parole quando aveva assistito alla sua
audizione, quando era alla ricerca di un chitarrista. Inoltre Randy Rhoads era
un bravo ragazzo e non, per ammissione dello stesso Osbourne, uno di quei tipi
“fuori di testa” (a cominciare da Ozzy stesso!) che erano soliti gravitare
nell’orbita dell’ hard rock. Giusto la sera prima lo stesso Randy aveva
comunicato all’ex Sabbath che avrebbe lasciato la band (insieme ai lauti
guadagni) per dedicarsi allo studio e all’insegnamento della chitarra. Era
legatissimo alla madre, e a lei aveva dedicato un brano molto toccante. John
“Ozzy” Osbourne si era molto affezionato a lui, e non riusciva a capire perché
quella fine fosse dovuta capitare proprio a Randy. Da allora non smise mai,
ogni anno, di mandare fiori sul luogo del suo ultimo riposo.
GENESIS
Anni prima, nel settembre del
1970, Phil Collins riuscì ad entrare nei Genesis: Peter Gabriel capì che Phil
era bravo non appena vide come si sedette sul seggiolino della batteria. Phil
leggeva di continuo che questi Genesis, nonostante avessero pubblicato due
dischi dalle vendite piuttosto modeste (From
Genesis To Revelation e Trespass)
suonavano da tutte le parti. Cosa che non riusciva alla sua band, i Flaming Youth.
Dunque teneva molto ad entrare nella band, e si recò alla casa dei genitori di
Peter Gabriel, dove si tenevano le audizioni per tutti gli aspiranti
batteristi, insieme al suo amico Ronnie Caryl, che sperava di essere preso come
chitarrista, dal momento che Anthony Phillips aveva lasciato i Genesis qualche
mese prima. Mentre aspettava il suo turno, gli venne offerto di fare un bagno
in piscina: e così, sguazzando in acqua, Phil Collins, a 19 anni, in
quell’estate del 1970, ebbe modo di ascoltare gli altri batteristi, capendo al
volo cosa volevano i Genesis, quello che avrebbe dovuto fare, e soprattutto
quello che avrebbe dovuto evitare. Tornando verso casa il suo amico Ronnie si
disse convinto di aver ottenuto lui il posto. E invece le cose andarono esattamente
al contrario. E quando i Genesis telefonarono a casa Collins per comunicargli
che il posto era suo, lui fu felice al punto da abbracciare sua madre. Il
gruppo aveva già avuto tre batteristi prima di Phil: Chris Stewart sul singolo
‘The Silent Sun’, John Silver sul disco d’esordio (registrato durante le
vacanze estive del 1968, quando andavano ancora tutti a scuola), più John
Mayhew su Trespass. I Genesis erano
nati dalla fusione di due gruppi scolastici, gli Anon e i Garden Wall. Ma le
severe regole della Charterhouse, riservata ai figli delle famiglie più
facoltose, li aveva resi ragazzi piuttosto chiusi ed infelici. Solo la musica
era in grado di dar loro entusiasmo e di salvarli da quell’ambiente tanto
austero: quella scuola somigliava ad una cattedrale gotica, e i familiari erano
sempre lontani. Inoltre suonare la chitarra elettrica veniva considerato più o
meno un atto rivoluzionario. Anche i pur prolifici sei mesi trascorsi a provare
in un cottage isolato, tra il 1969 ed il 1970, risultarono piuttosto pesanti
per tutti. Phil Collins portò nel gruppo quella ventata di allegria e
spensieratezza che erano necessarie. Oltre ad un sound molto più preciso e
professionale, che trasformò completamente la band. In meglio, naturalmente. E
così fu con lui che i Genesis intrapresero il tour di Trespass il 2 ottobre 1970, nonostante non avessero ancora trovato
qualcuno che sostituisse Anthony Phillips alla chitarra. Ant era un elemento
importantissimo per la band, al punto che si pensò seriamente allo scioglimento
quando, subito dopo la registrazione di Trespass,
Ant (come veniva chiamato) annunciò che avrebbe lasciato il gruppo. Era lui,
alla 12 corde, l’elegante tessitore delle delicate trame chitarristiche
caratteristiche dei primi Genesis ed il loro motore trainante. Affiancava
inoltre la sua voce a quella di Gabriel, e poteva anche scatenarsi con
l’elettrica in un brano come ‘The Knife’, che chiudeva sia Trespass che i concerti dal vivo. Nonostante non avrebbe poi
partecipato alla registrazione del successivo Nursery Cryme, anche
l’immortale ‘The Musical Box’ era in buona parte farina del suo sacco.
Paradossalmente Phillips, che lasciò perché veniva colto da crisi di panico
ogni volta che doveva esibirsi, pur vivendo ancora oggi di musica, non si è mai
più esibito in pubblico (dunque dal 1970!).
Alla fine comunque il gruppo decise di proseguire in quartetto: Peter
Gabriel, Tony Banks, Mike Rutherford e Phil Collins. Tony simulava le parti di
chitarra applicando un distorsore alle tastiere. L’amico di Phil, Ronnie Caryl,
riuscì a fare con loro qualche concerto. E per un paio di mesi il loro
chitarrista fu Mick Barnard, che comparve anche in TV durante l’esecuzione di
‘The Knife’(filmato purtroppo andato perduto). Ma tutti sapevano che quella era
una soluzione provvisoria e, a seguito di un annuncio di Steve Hackett sul
Melody Maker, andarono ad ascoltare il nuovo aspirante chitarrista a casa sua,
mentre proponeva loro stili diversi, accompagnato dal fratello John al flauto.
Capirono subito che quello era il musicista che faceva al caso loro: abile sia
nelle parti “bucoliche” con la chitarra classica, come pure in quelle più
aggressive alla chitarra elettrica, strumento dal quale riusciva a tirare fuori
suoni particolarissimi, utilizzando con gusto vari effetti a pedale, senza
cercare mai di stupire con “assolo” alla velocità della luce (cosa che loro non
avrebbero gradito affatto) Così, quando Steve andò a vedere i Genesis al Lyceum
nel dicembre del 1970 con Mick Barnard
alla chitarra, sapeva già di essere lui il loro nuovo chitarrista. Per
il nuovo album,Nursery Cryme(1971),
ai due nuovi arrivati, Phil e Steve, fu concesso di inserire un loro brano,
intitolato ‘For Absent Friends”. Quello era anche il primo pezzo cantato da
Phil Collins invece che da Peter Gabriel. Un altro sarebbe stato ‘More Fool Me’
su Selling England By The Pound
(1973), pezzo che avrebbe visto Collins in piedi e al microfono anche durante
il relativo tour. Si trattava comunque di due canzoni molto brevi e quiete:
nulla avrebbe lasciato presagire che un giorno Phil Collins sarebbe diventato
il cantante dei Genesis, dopo che anche Peter Gabriel, nel 1975, avrebbe
lasciato la band, alla fine del tour di The Lamb Lies Down On Broadway. Le
copertine dei dischi del periodo ‘magico’ (Trespass,
Nursery Crime e Foxtrot) furono opera di Paul Whitehead, che realizzò
dipinti perfettamente in assonanza con la musica di quei solchi. Con Selling England by The Pound il loro
stile sarebbe cambiato, in favore di una padronanza tecnica sbalorditiva, a
partire da brani quali ‘Dancing with the Moonlit Knight’, ‘Firth of Fifth’ e
‘The Cinema Show’. Personalmente ho visto i Genesis a Nizza nel 1992: ricordo
che prima del concerto la folla aveva accolto con un gran boato un video del
Gabriel solista, ed ho sentito un giovane chiedere alla sua ragazza il perché
di quella reazione entusiastica: il tipo in questione non sapeva che Peter
Gabriel era stato il cantante dei Genesis! E probabilmente sono ancora in tanti a non saperlo. Riavvolgendo il
nastro, per l’assolo di ‘The Musical Box’ Hackett (che avrebbe lasciato a sua
volta la band nel 1977) utilizzò anche qualche idea di Mick Barnard. E inventò
la tecnica del “tapping”sulla chitarra, diversi anni prima di Eddie Van Halen.
All’inizio del 1971 i Genesis partirono con la nuova formazione (poi divenuta
quella “classica”) in un tour insieme ai Van Der Graaf Generator e agli
Audience, tutti facenti parte dell’etichetta “Charisma”. Sul tour bus, come
amava rammentare scherzando Peter Hammill, leader dei Van Der Graaf Generator,
ai primi posti erano seduti i Genesis coi loro cestini da pic-nic; al centro
gli Audience con le birre, e in fondo gli stessi VdGG con le droghe. In quel
momento erano proprio i Van Der Graaf il gruppo di maggior richiamo. Fino a
quando, concerto dopo concerto, i Genesis riuscirono a conquistarsi sul campo
(anzi, sul palco) il titolo di attrazione principale, semplicemente perché era
diventato impossibile fare meglio di loro, come avrebbe ammesso lo stesso
Hammill. Nel marzo del 1972 vennero filmati per mezz’ora di musica dal vivo
alla TV belga, consegnandoci il documento (peraltro di ottima qualità, e a
colori) più “datato” che sia possibile reperire.
Altre riprese professionali dei
Genesis con Peter Gabriel sarebbero rimaste
solamente quelle relative al Bataclan di Parigi del gennaio 1973,
più il filmato realizzato agli
Shepperton Studios nell’ottobre del 1973 e al programma televisivo francese
‘Melody’ del febbraio 1974. Esistono in
realtà altri due brani ripresi in occasione dell’ allora celebre “Atomic
Sunrisre festival” tenuto alla Roundhouse di Londra nel 1970, con Phillips e
Mayhew ancora in formazione: ma è un filmato senza sonoro, con l’audio dei
pezzi (‘Looking For Someone’ e ‘The Knife’) sovrapposto in un secondo tempo, e
non proveniente da quell’evento (al quale partecipava anche David Bowie). Nell’
occasione suonarono anche ‘Twilight Alehouse’. Altri documenti (solo audio) dei
Genesis del 1970 riemersi dall’oblio dopo decenni sono i “Jackson Tapes”, più le registrazioni effettuate alla
trasmissione radiofonica “Nightride”, rispettivamente del gennaio e del
febbraio del 1970, entrambi realizzati per la BBC. I primi risalgono più
precisamente al 9 gennaio: cioè alla stessa sera che vedeva i Led Zeppelin
filmati in concerto alla Royal Albert Hall, da un’altra parte di Londra, il
giorno del ventiseiesimo compleanno di Jimmy Page, che dietro le quinte,
avrebbe conosciuto proprio in quell’occasione la sua futura moglie (per inciso,
quel film degli Zeppelin, ritenuto troppo scuro nelle immagini, rimase nel
cassetto, per essere finalmente pubblicato nel doppio dvd antologico del 2003
con un fantastico suono stereo). Le registrazioni dei Genesis di quel 9 gennaio
‘70, recuperate miracolosamente in tempi più recenti, risultano
interessantissime, per quanto brevi: si possono ascoltare infatti i Genesis,
ancora senza Collins e Hackett, suonare non solo spezzoni di ‘Looking For
Someone’ (poi su Trespass, 1970), ma
anche di ‘The Fountain Of Salmacis’, ‘The Musical Box’ (entrambe su Nursery Cryme, 1971) e addirittura di
‘Anyway’ (in seguito su The Lamb Lies
Down On Broadway, 1974). I Genesis dei primi anni ebbero più successo in
Italia che in patria: così vennero in tour nel nostro Paese sia nell’aprile che
nell’agosto del 1972. All’inizio con un semplice furgone, in seguito con una
strumentazione più ingombrante, mentre in sala stavano registrando Foxtrot, il disco che permise loro di
cominciare a vendere e ad essere considerati anche in altri Paesi. E questa
volta Gabriel si era rasato sulla fronte una porzione dei suoi lunghi capelli
neri. In Italia suonarono anche con gli Osanna, e forse i costumi di scena ed i
volti truccati del gruppo partenopeo ispirarono Gabriel per i suoi successivi
travestimenti. Tornarono in occasione del ‘Charisma Festival’ nel gennaio del
1973, e ancora per il tour di Selling
England by the Pound, nel 1974; quindi per quello di The Lamb con l’unica data di Torino, nel 1975. Fu possibile
rivederli nel nostro Paese (naturalmente senza Gabriel) solo nel 1982 (tour in
cui tornò in scaletta ‘Supper’s Ready’, per festeggiare i 10 anni dell’epica
suite contenuta su Foxtrot) e nel
1987 (anno nel quale io vidi Peter Gabriel a Roma). Saltò invece la data del
1992 a Torino, spostata a Nizza, dove, ebbi modo di vederli per l’unica volta.
Essendo Phil Collins divenuto il vocalist della band già dalla metà degli anni
’70, si era resa necessaria la presenza di un secondo batterista: prima Bill
Bruford (ex Yes e King Crimson) per la tournèe di A Trick Of The Tail del 1976; quindi Chester Thompson, dal 1977 in
poi. In realtà, quando Peter lasciò, vennero provati molti possibili sostituti,
che dovevano seguire la “guida vocale” cantata da Phil. Ma, alla fine, ci si
rese conto che nessuna di quelle voci era migliore di quella dello stesso
Collins e così, nonostante la sua iniziale riluttanza, divenne lui il nuovo
cantante dei Genesis. Alla chitarra (ma anche al basso) il sostituto di Steve
Hackett divenne invece Daryl Stuermer (americano come Thompson), che esordì con
loro in occasione del tour di And Then
There Were Three, del 1978. Con questo quintetto i Genesis si esibirono in
tour fino al 1992. E, dopo 15 anni di ‘stop’, tornarono in pista con questa
stessa formazione nel 2007, per una serie di concerti in Europa e negli Stati
Uniti. Il dvd del concerto gratuito al Circo Massimo di Roma (di fronte a mezzo
milione di persone) avrebbe documentato questa reunion. Si era in effetti
parlato di un ritorno “on stage” con Peter Gabriel, ma la cosa non andò in
porto. Un vero peccato che Peter non abbia pensato di tornare coi suoi vecchi
compagni almeno per il bis finale di Roma: il pezzo sarebbe stato ‘The Carpet
Crawlers’, e sentirglielo cantare (anche sul relativo dvd) coi Genesis sarebbe
stato molto emozionante. Invece, a conti fatti, l’unica volta di Peter Gabriel
di nuovo con la sua vecchia band, per un concerto intero (e con Steve Hackett
nel bis) sarebbe rimasto soltanto quello dell’ottobre 1982 a Milton Keynes, in
Inghilterra, sotto la pioggia. Riascoltando la scaletta di quella sera, si
potrebbe pensare che i Genesis avessero dovuto riprovare dopo tanti anni tutti
quei vecchi brani: in effetti non è del tutto vero, perché molto del materiale
dell’era Gabriel veniva ancora portato in tour nel corso dei primi anni ’80:
solo che veniva omesso in occasione delle pubblicazioni ufficiali (come Three Sides Live), per lasciare posto al
nuovo corso intrapreso dalla band, con sonorità decisamente più pop. Così, in occasione di quella reunion, le
iniziali ‘Back in N.Y.C.’, il medley tra ‘Dancing With The Moonlit Knight’ e
‘The Carpet Crawlers’ venivano suonate ancora nel 1980; ‘Firth Of Fifth’ nel
1981, così come ‘The Lamb Lies Down On Broadway’. Anche la versione ridotta di
‘The Knife’ chiudeva i concerti del 1980, (il “Duke Tour”), mentre l’intera
‘Supper’s Ready’, come detto, veniva eseguita proprio durante la tournèe di
quello stesso 1982. Per non parlare di ‘In The Cage’, sempre presente in
scaletta, pur senza Gabriel, dal 1978 in avanti. Così, alla fine, i brani che
vennero davvero “riesumati” dopo tanto tempo furono la versione integrale di
‘The Musical Box’ e qualcosa da The Lamb.
Ma il bello, naturalmente, era la possibilità di sentire di nuovo Peter alla
voce e Phil alla batteria su tutto questo materiale. La registrazione di una
prova precedente questa reunion rivela un Gabriel un po’ impacciato, che
dimentica anche alcuni testi. Ed è qui che si può sentire Phil Collins
“suggerire” da dietro la batteria: proprio come a scuola! A Milton Keynes Gabriel tirò di nuovo fuori i
costumi ed il vecchio flauto traverso, mai utilizzato durante la sua carriera
solista. Aveva indossato per la prima volta dei costumi sul palco a Dublino,
durante il tour di Foxtrot: sulla
copertina di quel disco era riportata l’illustrazione di una figura in abiti
femminili rossi, con una testa di volpe. E questo fu esattamente l’abito di
scena che Gabriel decise di indossare alla fine di ‘The Musical Box’,
cambiandosi nei camerini mentre il resto della band portava il brano alla sua
sezione finale. Lo shock fu collettivo nel vero senso del termine, perché Peter
non aveva avvertito nemmeno i suoi compagni, che rimasero di sasso almeno quanto
gli spettatori nel momento in cui lui comparve sul palco con quel vestito da
donna (un abito lungo di sua moglie Jill) e la testa di volpe, per cantare la
parte conclusiva del brano. Del resto lui sapeva benissimo che, se avesse
chiesto il parere della band, si sarebbe sentito rispondere di no. Ad ogni modo
gli altri quattro non ebbero più nulla da obbiettare quando quei travestimenti
portarono i Genesis direttamente sulle copertine delle principali riviste
musicali britanniche. Nel 1975 alcuni membri dei Genesis ascoltarono in
macchina il pezzo nuovo di un gruppo che non riconobbero subito: erano i Led
Zeppelin, ed il brano in questione era ‘Kashmir’. Phil Collins impazzì per il
suono massiccio e l’incedere imponente di quella batteria, e provò a fare qualcosa
del genere in una canzone che stavano provando per il primo disco dell’era
post-Gabriel: Il pezzo, intitolato ‘Squonk’, si rivelò perfetto sia per
l’inizio dei concerti del 1977 che per l’apertura del doppio dal vivo
pubblicato quello stesso anno, intitolato Seconds
Out. Fu questo il disco che mi introdusse nel mondo dei Genesis, quando ero
ancora adolescente. Nel 1988 telefonai ad Armando Gallo, autore della foto di
copertina di quel disco (nonché amico personale dei Genesis fin dai primi anni
’70), parlai con lui e mi feci spedire una copia del suo (ormai davvero mitico)
libro a loro dedicato. Gli chiesi un autografo per me e per i Malibran, il mio
gruppo, che all’epoca muoveva i suoi primi passi. Fu una vera fortuna riuscire
a “beccare” Armando nella sua casa romana, dal momento che viveva (e vive)
anche a Los Angeles, e che stava partendo (sempre in qualità di fotografo) per
l’Australia al seguito degli INXS, band di successo di quegli anni. Un altro
importante “riferimento Genesis” per l’Italia sarebbe poi divenuto Mario
Giammetti: sulla prima pagina di un numero della sua fanzine “Dusk”, mentre io
mi trovavo in condizioni critiche all’ospedale, nel 2012, volle gentilmente
rivolgermi un saluto in prima pagina, definendomi “musicista raffinato”, “leader dei Malibran”,
e aggiungendo che “tutto il mondo del Prog” mi aspettava “a braccia aperte”.
Davvero un bell’attestato di stima, fortunatamente non isolato.
KING CRIMSON
In sala prove i Genesis tenevano
appesa alla parete la copertina di In the Court of the Crimson King, lo strabiliante disco d’esordio
(ottobre 1969) dei King Crimson di Robert Fripp, oggi considerato da tutti il
vero precursore del rock progressivo: al suo interno erano presenti infatti
tutte le componenti (e la strumentazione) caratterizzanti questo genere
musicale: brani complessi alternati a ballate romantiche, grande tecnica, suoni
mai uditi prima, contaminazioni varie, flauti traversi e mellotron, grafica di
grande impatto, testi ora allucinati ora fiabeschi. Lo stesso Steve Hackett
aveva visto i King Crimson al famoso locale Marquee Club di Londra, rimanendone
quasi folgorato: e,
una volta entrato
nei Genesis, coincidenza, prese a suonare seduto e con una Gibson Les Paul
nera, proprio come Robert Fripp. Anche nei Genesis fece la sua comparsa il
mellotron, strumento in grado di simulare sonorità orchestrali (archi ed
ottoni), che divenne (insieme al Moog) lo strumento tipico di quella nuova musica
dall’approccio “sinfonico”. I King Crimson, dopo una lunga gavetta in piccoli locali,
ebbero l’occasione di stupire un pubblico di vastissime proporzioni in
occasione del festival gratuito di Hyde Park nell’estate del 1969 (dal quale i
Rolling Stones avrebbero tratto il loro film ‘The Stones in the Park’). I brevi
appunti del diario di Fripp rivelano come egli stesso si fosse reso conto di
quanto quel singolo show avrebbe potuto segnare una svolta nella carriera del gruppo,
nonostante il loro primo disco non fosse neanche uscito. E così fu. Eppure,
incredibilmente, subito dopo il tour americano del dicembre 1969, i King
Crimson si erano già sciolti. Per lo meno, quelli della prima formazione
(Fripp, Lake, Giles e McDonald). Greg Lake accettò di cantare anche sul secondo
disco (In the Wake of Poseidon, 1970), ma subito dopo passò con gli ELP di Keith
Emerson, che fecero il loro esordio all’Isola di Wight nell’agosto del 1970.
Fripp non si perse d’animo e reclutò altri musicisti (anche di estrazione
jazz), dando alle stampe Lizard (con
la partecipazione di Jon Anderson degli Yes sul brano omonimo) e Islands, ma tornando a suonare dal vivo
solo nel 1972, insieme a Mel Collins, Ian Wallace e Boz: a quest’ultimo,
divenuto il nuovo cantante, insegnò pure a suonare il basso. E con questa
formazione venne pubblicato un disco dal vivo (Earthbound, 1972) suonato male e registrato peggio: scelta davvero
incomprensibile, dal momento che molti anni dopo sarebbero saltate fuori ottime
registrazioni di quel periodo, che finirono per rivalutare questa line-up.
Quella successiva si rivelò però la migliore (soprattutto in concerto): con
John Wetton (ex Family) al basso e alla voce, David Cross al violino e Bill
Bruford (che dovette pagare una penale per lasciare gli Yes) alla batteria,
quest’ ultima incarnazione dei King Crimson degli anni ’70 (attiva dagli ultimi
mesi del 1972 al 1974) si rivelò una vera macchina da guerra, tanto precisa
quanto in grado di divagare sul palco in fantastiche improvvisazioni
strumentali, che finirono in parte anche sui dischi in studio (Larks’ Tongues in Aspic e Starless and Bible Black). Red fu l’ultimo lavoro ufficiale, se non
si considera il disco dal vivo (USA)
pubblicato quando la band si era ormai sciolta, nel 1975. La scelta di scrivere
la parola “fine” a quell’esperienza fu dello stesso Fripp, che lasciò
totalmente sconcertati i suoi compagni, che mai avrebbero pensato di smettere
proprio in quel momento. L’ultimo concerto tenuto da quei King Crimson si tenne
a New York nell’ambito dello stesso festival estivo al Central Park al quale
partecipò pure la nostra PFM, che utilizzò parte di quelle registrazioni per il
suo Live in USA. All’album Red parteciparono, in qualità di ospiti,
diversi ex Crimson, quasi come per un saluto finale. E ‘Starless’, il brano che
chiude quel lavoro, rimane a mio parere uno dei pezzi più belli del rock
progressivo di sempre. Bill Bruford si unì ai Genesis per il tour del 1976
mentre Boz, Il bassista del biennio 1971-1972, passò ai Bad Company degli ex
Free Paul Rodgers e Simon Kirke: vale a dire, come detto, l’unica band di
successo dell’etichetta Zeppelin ‘Swan Song’, che avrebbe chiuso i battenti nel
1982. I King Crimson tornarono comunque in attività nel 1980, ancora con Fripp
e Bruford, ai quali si aggiunsero Tony Levin al basso e Adrian Belew alla voce
e alla chitarra: dunque, questa volta, niente più bassista-cantante, un inedito
(e magistrale) intreccio fra due chitarre (divenute ormai una sorta di “generatori
di suoni”), niente più fiati, né i due mellotron bianchi sul palco (una delle
caratteristiche dei vecchi tempi): il tutto in favore di una musica totalmente
nuova, ma ancora una volta in grado di sorprendere e di affrontare gli anni a
venire con un passo più avanti rispetto agli altri. Dopo vari cambi di
formazione, i King Crimson sono attivi ancora oggi.
LED ZEPPELIN (II)
Come detto, nel 1975,
ascoltandoli in macchina, i Genesis non avevano riconosciuto i Led Zeppelin,
perché questi, nel frattempo, erano cambiati un bel po’. Con il nome di ‘New
Yardbirds’ nel 1968 avevano intrapreso un tour in Scandinavia, che si era
rivelato utilissimo per mettere a punto i brani per il disco d’esordio sotto la
nuova denominazione. Degli Yardbirds rimanevano non solo Jimmy Page, ma anche
il manager Peter Grant, più il tour manager Richard Cole, che ai tempi delle
tournèe con la vecchia band divideva la stanza con lo stesso Page. Nel film
‘The Song Remains The Same’ del 1976 Cole, tra l’altro, è la prima faccia che compare,
interpretando il gangster barbuto che
viene fuori da una casa, seguito dalla mole immensa di Peter Grant e da un
altro tizio, tutti armati di mitra a tamburo. Jimmy pagò di tasca sua la
registrazione del primo album degli Zeppelin, avvenuta in sole trenta ore
nell’ottobre del 1968, e con pochissime sovra-incisioni. A Robert Plant non
sembrava neanche vero di trovarsi in uno studio, e quando ascoltò la musica in
cuffie andò letteralmente in estasi. John Paul Jones e Jimmy Page, invece,
registravano già da anni, ma fu Page a
guidare tutte le operazioni, sapendo perfettamente cosa voleva ottenere, e come
ottenerlo. Si occupò in prima persona anche del fenomenale suono della batteria
che sarebbe venuto fuori dal disco (benché in buona parte generato dalla stessa
potenza di John Bonham), tenendo i microfoni a distanza per “generare
profondità”, come era solito asserire. Peter Grant adorava e rispettava Jimmy.
Soltanto una volta John Bonham ebbe a polemizzare con Page, durante le registrazioni, sempre a
proposito della batteria. E Grant intimò a “Bonzo” di fare quello che diceva
Jimmy Page, perché, in caso contrario, l’avrebbe sbattuto fuori dal gruppo (e
probabilmente anche dalla finestra). Per inciso, nessun altro si sarebbe potuto
permettere di parlare in quel modo a John Bonham senza rischiare di farsi male
sul serio! Ma lui fece buon viso a cattivo gioco, perché aveva capito che quello
era il gruppo giusto per combinare qualcosa di veramente importante. E per
questo aveva rinunciato a possibili lavori con gente del calibro di Chris
Farlowe e Joe Cocker. Lo stesso John Paul Jones l’aveva capito, e disse che di
lì a poco avrebbe fatto un sacco di soldi: e infatti, in poco tempo guadagnò
due milioni di sterline! Gli Zeppelin, dopo la Scandinavia, fecero ancora
qualche data inglese (anche al noto Marquee di Londra) come ‘New Yardbirds’.
Quando infine esordirono con il nuovo nome ‘Led Zeppelin’ (in un primo tempo
scritto ‘Lead Zeppelin’, da un’idea di Keith Moon, il batterista degli Who, che
intendeva formare un “super-gruppo” con membri degli stessi Who e dei futuri
Zeppelin), la scritta ‘ex Yardbirds’ era più grande della scritta ‘Led Zeppelin’
sull’insegna del locale dove si sarebbero esibiti. Ma la mente di Grant e Page
era già rivolta agli States, e, ottenuto un vantaggiosissimo contratto con
l’Atlantic Records, proprio nei giorni di Natale volarono in America, accolti
all’aeroporto da Richard Cole. Quella fu anche l’unica volta in cui Peter Grant
non partì con loro, con suo successivo grande rammarico: non sarebbe successo
mai più. Quello con gli USA fu amore a prima vista: all’inizio il nome del
gruppo compariva anche storpiato sulla insegna dei club dove avrebbero suonato.
Ma poco dopo i ragazzi americani impazzirono sia per il disco appena uscito,
sia per le loro esibizioni dal vivo. Rubarono la scena anche ai Doors. Jones
raccontò di essersi reso conto dell’effetto che avevano sul pubblico quando
notò che c’erano giovani che battevano addirittura la testa contro il palco,
mentre loro ci davano dentro. Steve Tyler, in seguito cantante degli
Aereosmith, racconta di aver pianto dopo aver visto gli Zeppelin in azione per
la prima volta. E di aver pianto di nuovo quando vide la sua ragazza uscire
dalla stanza di Jimmy Page! Mentre a Plant e a Bonham non sembrava vero di
essere in America, Jimmy camminava impettito, sicuro di sé, già ben nota star
degli Yardbirds anche a quelle latitudini. Ma il gruppo stava comunque bene
insieme: era sempre unito, non solo sul palco, ma anche nei locali dove andava
a mangiare e a bere. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, le due “coppie”
interne alla band non erano erano Page e Plant da un lato e la sezione ritmica
dall’altro, bensì i ragazzi delle “Midlands” da una parte (Plant e Bonham), e i
più esperti “meridionali” di Londra (Page e Jones) dall’altra, con conseguenti
(affettuose) prese in giro reciproche. Robert e “Bonzo” litigavano spesso, ma
solo per stupidaggini, proprio come fratelli. E si intendevano a meraviglia,
anche senza parlare: cosa che non sarebbero stati capaci di fare con gli altri
della band. L’intesa perfetta tra tutti e quattro era in ogni caso soprattutto
quella che si accendeva sul palco: un’alchimia magica, che li portava ad andare
nella stessa direzione e a fare le stesse cose, gli stessi stacchi, anche senza
averle mai provate prima. Fu così che le versioni live dei brani assunsero una
vita propria, con versioni diverse (e molto dilatate) rispetto a quelle incise
sui dischi. Nel corso del 1969 Jimmy passò dalla Telecaster alla Gibson Les
Paul. Il secondo LP, intitolato Led
Zeppelin II (solo con The House Of
The Holy, registrato nel ’72 ed uscito nel ’73, si sarebbero decisi a
pubblicare un disco con un vero titolo) fu praticamente registrato in vari
studi sparsi qua e là, mentre erano in tour negli USA.’Hearthbreaker’,
addirittura, venne registrato in una sala, mentre l’assolo di Page, contenuto nello stesso brano, fu inciso
altrove (e infatti il suono è diverso). Plant compose finalmente il suo primo pezzo (‘Thank You’),
anche se a farla da padrone sarebbe stato il micidiale riff di apertura
dell’album: quello di ‘Whole Lotta Love’, divenuto ben presto uno dei brani
hard rock più famosi della storia: Jimmy
Page l’avrebbe suonato anche in occasione della cerimonia di chiusura dei
giochi olimpici di Pechino del 2008, con il “passaggio di testimone” per quelli
di Londra del 2012, a rappresentare lo stesso Regno Unito. Per il terzo disco (Led Zeppelin III) la band decise di
cambiare registro: si trasferì con famiglia, tecnici e strumenti a Bron-Yr-Aur,
una tranquilla dimora in una zona sperduta del Galles, senza corrente elettrica né acqua corrente, e con
le chitarre acustiche cominciò a comporre brani più tranquilli, di matrice
decisamente folk. Pezzi di questo tipo erano in realtà presenti anche sugli
album precedenti: solo che questa volta occupavano una buona metà del lavoro!
Ciò nonostante, il disco si apriva con ‘Immigrant Song’, uno dei brani più
devastanti della discografia Zeppelin, utilizzato anche come inizio dei
concerti del periodo ’71-’72. Tra parentesi, nei loro 12 anni di carriera gli
Zeppelin non tennero alcun concerto negli anni 1974, 1976 e 1978. E solo
quattro show nel 1979. Su quel terzo disco erano presenti anche altri brani
“elettrici” quali ‘Celebration Day’ e ‘Out On The Tiles’ (il cui inizio si
rivelò poi utile come apertura delle versioni live di ‘Black Dog’). E c’era
anche quel lento, straziante, epico blues “bianco” intitolato ‘Since I’ve Been
Loving You’: catturato praticamente dal vivo, non si preoccupava di nascondere
qualche pecca (una nota dei bass pedals di Jones sbagliata, la cinghia della
cassa di Bonham che si sente fin troppo distintamente), in favore di una
spontaneità e di un’enfasi fuori dal comune: la voce di Plant comincia sulle
tonalità basse, per lanciarsi verso la fine in acuti vertiginosi; l’organo di
John Paul Jones (niente basso elettrico su questo pezzo) è straordinario; ogni
colpo di cassa o rullante di “Bonzo” suona come una sentenza, possente,
implacabile. Page alterna arpeggi e contrappunti delicatissimi ad un assolo
sfrenato, a velocità forsennata, eppure emozionante in ogni sua nota: il
semplice controllo delle dinamiche da parte di tutta la band per ottenere un
risultato strepitoso. Anche ‘Bron-Yr Aur Stomp’ era nato come brano elettrico,
per essere poi trasformato in un incalzante “stomp” (appunto) acustico, utile
anche per i concerti. Così pure ‘That’s The Way’ (durante la registrazione
della quale pare che Jimmy abbia concepito la sua prima figlia) e ‘Tangerine’
erano contraddistinti dalle chitarre acustiche. E lo stesso può dirsi riguardo
all’ultimo brano (chitarra con il “bottleneck” e voce con effetto “tremolo”),
dedicato già nel titolo al cantautore Roy Harper. Quest’ultimo si era esibito
ad Hyde Park con i Jethro Tull e i Pink Floyd il 29 giugno 1968 (lo stesso
giorno in cui usciva il secondo LP di questi ultimi, A Saucerful Of Secrets, con David Gilmour al posto di Syd Barrett).
Roy avrebbe anche cantato ‘Have A Cigar’ su Wish
You Were Here dei Floyd nel 1975, e avrebbe suonato con Page nel 1984, sia
su disco che dal vivo. Con riferimento ai costumi di scena, lo stesso Page ne
avrebbe sfoggiato uno nero tra il 1972 ed il 1973, sostituendolo con uno bianco
per il tour del 1977. Dal canto suo, Peter Grant non permetteva che gli Zeppelin pubblicassero
singoli, né che andassero in TV. E così i filmati professionali che li
riguardano sono davvero pochi: qualche pezzo ripreso alla TV danese, poco altro
dalla trasmissione francese “Tous en Scène”, un brano per il film “Supershow”:
tutto materiale dei primi mesi del 1969. Poi, su pellicola, la Royal Albert
Hall del ’70 ed il Madison Square Garden del ’73 (quest’ultimo per il film ‘The
Song Remains The Same’). E qualche frammento di Sidney ’72. Per fortuna
esistono le riprese effettuate per i maxi-schermi durante i concerti di Earl’s
Court ’75, Seattle ’77 e Knebworth ’79, altrimenti avremmo ben poco a
documentare la band in azione. In ogni caso, filmati a parte, la vera “pietra
miliare” della discografia Zeppelin sarebbe venuta fuori sul quarto album (di
fatto senza titolo): piazzata spesso al primo posto nei sondaggi riguardanti le
canzoni più belle di tutti i tempi, ‘Stairway To Heaven’ si staglia imperiosa
tra gli altri brani del disco (comunque eccellenti): anche qui, un grande
lavoro di dinamiche, dall’inizio quieto e celtico, con il delicato, evocativo
(e conosciutissimo) arpeggio di Page, il mellotron di Jones (a simulare i
flauti) e la voce morbida di Plant, fino all’esplosione dell’assolo di chitarra
(una Fender Telecaster sul disco, la mitica “doppio manico” dal vivo) ed alla
sezione finale, con la voce di Plant che diventa acutissima, per tornare
morbida solo sull’ultimissima frase, che suggella il brano proprio con quello
che è il suo titolo: “And she’s buying a stairway to heaven”. Il pezzo ‘Rock
and Roll’ si rivelò invece utile per l’apertura dei concerti del 1973 e del
1975. Il successivo album, The House of
the Holy, venne registrato nel 1972 con l’ausilio di uno studio mobile, e
procurò agli Zeppelin altri ‘classici’ da eseguire dal vivo nel corso degli
anni, quali ‘The Song Remains the Same’ (con la quale avrebbero aperto i
concerti del 1977 e del 1979), ‘No Quarter’ (oscura ed ipnotica) e ‘The Rain
Song’. Quest’ultima era una dolcissima mini-sinfonia, che Page, a quanto si
dice, compose in risposta ad un appunto che George Harrison dei Beatles gli
aveva mosso: quello, cioè, di non mettere mai nei dischi ballate quiete. E,
infatti, i primi due accordi di ‘The Rain Song’ sono i medesimi della splendida
‘Something’ dello stesso Harrison. Nel 1974 il gruppo non andò in tour, ma
fondò la propria etichetta discografica
‘Swan Song’, con la quale avrebbe pubblicato tutti i dischi successivi
(quelli precedenti erano usciti per l’Atlantic Records). Nel corso di
quell’anno furono inoltre effettuate riprese ‘integrative’ per il film ‘The
Song Remains the Same’ che, girato alla fine del tour americano del 1973 (nel
corso delle ultime tre date di New York nel mese di luglio), aveva rivelato dei
‘buchi’ senza immagini, cui si rimediò con la band che faceva finta di suonare
in concerto, trovandosi invece su un set cinematografico allestito per
l’occasione. Furono inoltre aggiunte le immagini ‘fantasy’ quali quelle di
Robert Plant nelle vesti di un cavaliere che salva la sua dama prigioniera in
un castello, Page che si inerpica sulla montagna per incontrare l’eremita
incappucciato, e Jones che cavalca mascherato tra paesaggi misteriosi. Il 1974
fu anche l’anno in cui i Led Zeppelin registrarono i brani per il nuovo album
(il doppio Phisical Graffiti, 1975),
cui aggiunsero alcuni pezzi rimasti fuori dai lavori precedenti. Tra questi,
cosa singolare, anche ‘The House of the Holy’, che aveva dato il titolo al
disco omonimo. Furono comunque solo i brani nuovi ad entrare nelle scalette dei
concerti: ‘Sick Again’, ‘Kashmir’, ‘In My Time of Dying’, ‘Ten Years Gone’ e
‘Trampled Underfoot’. ‘The Wanton Song’ venne utilizzata solamente all’inizio
del tour del 1975, per poi ‘ricomparire’ come apertura dei concerti di Page
& Plant del 1995 e del 1998. Nel corso del 1976, a Monaco, venne registrato
l’album Presence, cui non poté far
seguito il relativo tour, dal momento che Robert si era rotto una gamba dopo un’ incidente
stradale sull’isola di Rodi, dove era in andato vacanza con la moglie Maureen.
Solo due brani di quel disco (‘Achilles Last Stand’ e ‘Nobody’s Fault But
Mine’) vennero eseguiti durante il tour del 1977, svoltosi solamente negli USA,
e che si rivelò, a detta di tutti, meno divertente dei precedenti. Ognuno di
quei concerti, tra l’altro, durava oltre tre ore, compresi i lunghissimi
‘assolo’ di Bonham prima, e di Page subito dopo, con una scelta poco felice
che, di fatto, impediva al pubblico la possibilità di vedere tutta la band sul
palco per un tempo lunghissimo. Per la prima ed unica volta venne eseguita
l’acustica ‘The Battle of Evermore’, con la voce di John Paul Jones a sostituire
quella di Sandy Denny (non esattamente coi medesimi risultati, come si può
immaginare). Se il tour del 1975 era stato interrotto dall’incidente occorso a
Robert Plant, quello del 1977 lo fu addirittura a seguito della morte del
figlio di quest’ultimo, Karak. E i Led Zeppelin non sarebbero più riusciti a
fare una tournèe negli States. Il ritorno ‘in grande stile’, dopo varie voci di
scioglimento, avvenne durante il doppio concerto di Knebworth, nel Regno Unito,
in occasione dei due concerti ‘gemelli’ tenuti per due sabati consecutivi (il 4
e l’11 agosto 1979) davanti ad un pubblico immenso. Nell’occasione il gruppo,
che presentava anche il nuovo disco In
Through the Out Door, apparì su un palco gigantesco (con tanto di maxi-schermo)
vestendosi in maniera identica per entrambe le serate: eseguirono brani tratti
da tutti i loro dischi e Robert Plant, di nuovo in buona forma, intrattenne
anche la vasta platea che affollava il prato scherzando tra un pezzo e l’altro,
mentre Jimmy si dimenava con scioltezza in camicia azzurra e scarpe dello stesso colore, unitamente a pantaloni
bianchi. Entrambi portavano i capelli meno lunghi rispetto ai vecchi tempi. La
scaletta fu quasi identica per le due serate. ‘Ten Years Gone’ venne eseguita
solo il 4 agosto, per problemi tecnici relativi alla chitarra a più manici
utilizzata da Jones, mentre il bis finale fu in un’occasione ‘Communication
Breakdown’ e nell’altra ‘Heartbreaker’. I Led Zeppelin suonarono per l’unica
volta in Italia il 5 luglio del 1971 . Ma solo per 26 minuti! Al velodromo
Vigorelli di Milano era prevista infatti una delle tappe del cosiddetto
“Cantagiro” (con gruppi e cantanti che attraversavano appunto il Bel Paese al
posto dei ciclisti del “Giro d’Italia”). Alla “tappa” di Milano il celebre
gruppo inglese, dopo una conferenza stampa, si sarebbe esibito in qualità di
ospite della serata. Quando però Page e soci cominciarono il loro show (un po’
in anticipo rispetto ai tempi previsti), i ragazzi ancora fuori dal velodromo
cominciarono a pressare per riversarsi all’interno della struttura. La polizia
reagì sparando i gas lacrimogeni. Plant dovette interrompere lo show e, ignaro
di quanto stesse accadendo, sollecitò il pubblico a “smettere di accendere
fuochi”. In quel periodo gli Zeppelin, tra parentesi, portavano tutti la barba,
Robert sfoggiava una tunica colorata e Page dei vistosi pantaloni a quadri.
Sarebbe stato un bellissimo spettacolo, ma la gente, ancora prima degli
incidenti, era già ammassata non solo sotto il palco, ma anche attorno e dietro
(come testimoniano le foto di quel giorno). Quando il fumo dei lacrimogeni
costrinse tutta quella folla di giovani ammassata nel velodromo a cercare
scampo in direzione del palco, la strumentazione finì per essere travolta, con
i roadies che tentavano disperatamente di salvare il salvabile. Gli Zeppelin
provarono una sola volta a riprendere lo show, ma la situazione era ormai fuori
controllo, e dovettero cercare rifugio nei camerini. In quell’occasione si
erano esibiti anche i New Trolls e i Pooh, ed anche questi ultimi dovettero
rinchiudersi, senza per questo riuscire a sfuggire alle esalazioni dei gas.
Robert Plant andò via in lacrime (più per la rabbia che per i lacrimogeni),
giurando “Mai più in Italia” (come avrebbe titolato anche qualche giornale, dopo
quegli sciagurati eventi). E purtroppo così fu. Io stesso avrei visto Page e
Plant, sempre a Milano, solo nel giugno del 1995: ma non erano più i Led
Zeppelin, appunto. Anche se suonarono quasi tutti brani del vecchio
“dirigibile” (con qualche sorpresa, come ‘Dancing Days’ ed una brillante ‘The
Song Remains The Same’ con tanto di chitarra “double neck” rossa, come ai bei
tempi). Purtroppo pioggia, fango e ressa guastarono in parte quel concerto.
GLI SCONTRI PER LA MUSICA GRATIS
In ogni caso gli scontri tra
polizia e pubblico (soprattutto contro quelli che reclamavano “la musica
gratis”) finirono per protrarsi per tutti gli anni ’70, con incidenti in
occasione del concerto dei Jethro Tull a Bologna nel ’73, i palchi di Lou Reed
e Santana dati alle fiamme (rispettivamente nel 1975 e nel 1977), più i
“processi politici” a Francesco De Gregori ed Antonello Venditti. I manager
italiani (soprattutto Zard, Mamone e Sanavio), che portavano in Italia i grossi
gruppi stranieri, venivano accusati di arricchirsi a spese dei giovani.
Soprattutto, si pretendeva che la musica fosse
“di tutti”, e che non si dovesse pagare per ascoltarla: Gianni Nocenzi
(del Banco Del Mutuo Soccorso) si disse d’accordo, a patto che fosse il
pubblico ad onorare le cambiali per gli strumenti acquistati! I Gentle Giant,
spesso in Italia, cercarono di far capire che, tolte le spese, anche i
musicisti dovevano poter mangiare, e che la musica era il loro lavoro. La PFM
subì un’aggressione, con Franco Mussida pronto a fronteggiare i più esagitati stringendo
la chitarra per il manico, come fosse una clava. Nell’occasione Franz Di
Cioccio, il batterista della stessa “Premiata” (come veniva chiamata all’epoca
la band) la mise sul ridere: chiamò sul palco uno dei contestatori, gli consegnò le bacchette e gli disse: “Ah,
la musica è di tutti? E allora suona tu”. Il risultato di tutto questo
trambusto fu comunque che l’Italia venne praticamente cancellata dai tour di
tutti i grandi gruppi inglesi e americani. I Van Der Graaf Generator,
riformatisi nel ’75 (dopo lo scioglimento del ’72) si fecero vedere solo perché
riuscirono ad esibirsi sulla riviera romagnola, in un clima di vacanze ed
ombrelloni. Quando suonarono a Roma, nel dicembre del 1975, subirono però il
furto del furgone con tutti gli strumenti dentro, e, nonostante fossero
riusciti a recuperare quel materiale, se ne tornarono a casa; sarebbero dovuti
venire a suonare anche nel Sud Italia e a Catania quello stesso mese, ma, dopo
i fatti di Roma, tutte le date rimanenti
vennero cancellate. Ed il sottoscritto
li avrebbe visti solo 30 anni dopo, nel 2005, a Roma e a Taormina. Di fatto il
nostro Paese perse l’occasione di vedere i gruppi più grandi della storia del
rock proprio nel momento del loro massimo fulgore. I Genesis ed i Jethro Tull
si sarebbero rifatti vivi solo nel 1982, quando le acque si furono calmate.
MALIBRAN
Ma ecco venirmi in mente qualche
aneddoto un po’ più piacevole e divertente riguardante i Malibran: una volta
Jerry stava provando una chitarra in un negozio di strumenti, in Veneto, accennando qualche
pezzo nostro: un cliente del posto, fan dei Malibran, gli chiede come facesse a
conoscere quei pezzi, non riconoscendolo come un componente del gruppo: Un po’
come se ( senza fare paragoni! ) un fan degli Zeppelin sentisse un tizio
suonare “Stairway To Heaven” in un negozio, per poi scoprire che il tipo che
suona è Jimmy Page! Una persona dal Brasile mi ha scritto di aver comprato per
7 volte il nostro primo disco, perché, essendo
questo in vinile, rovinava tutte le copie a furia di ascoltarlo. Un
altro fan dal Messico, a proposito del nostro live “In Concerto”, mi ha scritto
che per lui noi siamo come i Genesis, i King Crimson, o altri gruppi prog di
questo livello (esagerato!). Un altro, dagli Stati Uniti, non si aspettava che
il sottoscritto rispondesse personalmente ad una sua mail, e solo per questo,
mi ha confessato di essere andato in giro tutto il giorno con un gran sorriso
stampato in faccia. Un giapponese mi comunica di aver appena visto il nostro
disco d’esordio in un negozio di Tokyo: lui comunque l’aveva già. Ad un mio
amico, in vacanza in Messico, un tizio che vendeva dischi ha proposto il nostro
primo album, parlando di un’ottima prog band italiana, non immaginando certo
che lui ci conoscesse di persona. Nel 1991 eravamo nel negozio Black Widow di
Genova (oggi anche etichetta discografica), pieno di nostri estimatori che ci
chiedevano di autografare il nostro primo disco (in vinile), che era anche in
vetrina: un ragazzo aveva già la sua copia a casa, ma pur di averne una
autografata, ne ha comprata un’altra sul posto; un altro aveva il personaggio
di quella copertina (The Wood Of Tales)
tatuato sul braccio. Mentre eravamo sul palco negli USA, tutti i cd nostri che
ci eravamo portati dietro sono stati venduti in pochi minuti. E quando abbiamo
suonato alla Festa dell’Unità di Catania, nel settembre del 1991, Carmen
Consoli a fine concerto è salita sul palco per abbracciarci, urlando “ma dove
(bip) la prendete tutta questa grinta?”.
Un fan dalla Germania ed uno dal Nord Italia, pur avendo già tutti i
nostri dischi, mi hanno richiesto “in blocco” anche i 50 (!) concerti inediti
che avevo messo su CD. Arturo Stalteri dei Pierrot Lunaire ( gruppo prog
italiano anni ’70 ben noto ai cultori del genere ) ha scritto:”Mi piacciono i
Malibran”. Oggi conduce programmi di musica classica su Radio Rai 1, ma non ha
affatto rinnegato il progressive ed ama gli Stones. Nel 1988 avevo registrato
un suo speciale in tre puntate tutto dedicato ai Jethro Tull, sempre sulla RAI.
Mentre suonavamo prima del Banco del Mutuo Soccorso, nel 1999, vedevo Vittorio
Nocenzi godere muovendo la testa dietro di noi, durante l’incalzante parte
finale di ‘On The Lightwaves’: sulla mia macchina ha poi avuto bellissime
parole nei nostri confronti. Qualche ora prima sulla mia vecchia Panda avevo
con me Francesco Di Giacomo, in cerca di dolci da portare alla famiglia: come,
per un fan degli U2, andare in giro con Bono e The Edge, per poi andare a cena
insieme a loro! Un libro sulla PFM ci paragona alla ‘Premiata’ riguardo alla
spettacolarità sul palco: La PFM per gli anni ’70 e i Malibran per gli anni
’90. Ian Anderson ha apprezzato il cd italiano di tributo ai suoi Jethro Tull:
come pezzo di apertura era stata scelta la nostra versione di ‘Bourèe’, che è
dunque il primo brano che ha ascoltato. Un nostro estimatore romano ci ha visti
suonare vicino Roma nel 1989: aveva 12 anni, e quello era il primo concerto
della sua vita! Due anni dopo è venuto a vederci ancora all’Alpheus (oggi
Planet Club), sempre a Roma. Un fan dal Costarica, poi, pur avendo tutti i nostri dischi, mi ha chiesto
anche un bel po’ di materiale inedito. Qualcuno scrive di aver visto copie del
nostro The Wood of Tales in un
negozio finlandese, e si augura che anche gli altri nostri dischi vengano
ristampati in vinile. Durante il
festival di Altomonte, con Malibran e Osanna tra i gruppi partecipanti, ho
avuto una bella conversazione con Lino Vairetti, che, in qualità di leader
degli Osanna, aveva diviso il palco coi Genesis nel 1972, scattando anche qualche
foto a Peter Gabriel sulla spiaggia di Viareggio. Franz Di Cioccio, a sua
volta, mi ha inviato una e-mail di congratulazioni per la nostra prevista
partecipazione ad un festival in Francia. E con il suo caratteristico slang
“anglo-lombardo” si diceva "very gasato", perché stava partendo per
Tokyo con la PFM (ne avrebbero tratto Live
in Japan 2002), preannunciandomi che avrebbe di nuovo indossato il kimono,
come negli anni '70. Un fan dal Belgio paragona la nostra suite, ‘Le Porte del
Silenzio’ a ‘Supper’s Ready’ dei Genesis (questa poi!). Ed il nostro disco
dallo stesso titolo, uscito nel 1993, è stato inserito tra i 10 lavori più
belli del progressive italiano degli anni ’90 sulla rivista ‘Prog Italia’, in
edicola nel gennaio del 2015.
JETHRO TULL
Tornando di nuovo indietro nel tempo, nei pensieri di Ian Anderson, agli inizi della
carriera dei Jethro Tull, c’era la presenza un po’ ingombrante di Mick
Abrahams. Quest’ultimo era un eccellente chitarrista, ma anche un cantante ed un’autentica “prima donna”,
che avrebbe voluto guidare la band e lasciare Anderson un po’ sullo sfondo
durante i concerti, giusto per qualche intervento al flauto o all’armonica. Ma
fu Ian a divenire presto la figura di
riferimento della band (nata alla fine del 1967): un po’ per il suo carisma, e
un po’ per quella sua bizzarra idea di
inserire il flauto traverso (strumento utilizzato solitamente in contesti jazz
o di musica classica) in un gruppo rock-blues. Ian Anderson aveva in realtà
cominciato con la chitarra, ma, dopo aver visto Eric Clapton, si era reso conto
che non sarebbe mai riuscito a fare di meglio. Così rivolse la sua attenzione a
quello strano strumento argentato, esposto in un negozio, e che non aveva mai
visto prima. Imparò ‘Serenade To A Cuckoo’ (un brano strumentale di Roland
Kirk) e migliorò tantissimo nel giro di pochi mesi, utilizzando l’aggressiva
tecnica di “cantare” con la voce “dentro” le note che suonava, agitandosi
davanti all’asta del microfono e reggendosi su una gamba sola, tenendo l’altra
sospesa a mezz’aria: uno spettacolo nello spettacolo, che avrebbe contribuito
non poco alla fortuna sua e del gruppo. I Jethro Tull esordirono
discograficamente con un 45 giri accreditato erroneamente ai “Jethro Toe”. E,
fin dall’inizio del 1968, cominciarono a farsi le ossa come band live suonando
in giro per i locali ed i club dell’Inghilterra. Soprattutto al ben noto
Marquee di Londra, fino a quando non riuscirono
a conquistarsi lo “status” di
attrazione principale delle serate: per questo dedicarono un pezzo (in bilico
tra jazz e swing) al proprietario del locale (‘One For John Gee’), al quale
dovettero molto, al tempo dei loro primi passi. Durante l’estate di quello
stesso anno registrarono This Was, il
loro primo LP (nonché l’unico con Mick Abrahams alla chitarra): un lavoro
piacevolissimo, con poche sovra-incisioni, intriso di blues e di venature
vagamente jazz, con Ian e Mick a scambiarsi i ruoli di cantanti e di solisti,
ciascuno al proprio strumento. Questo è l’unico album della band a contenere
due brani nei quali Ian Anderson non compare: ‘Move On Alone’ (cantata da Mick)
e ‘Cat’s Squirrell’, che lascia spazio alla chitarra distorta di Abrahams, con
il solo supporto della sezione ritmica di Glenn Cornick al basso e Clive Bunker
alla batteria: in questo pezzo i Jethro Tull si trasformano in una sorta di
“Power Trio”, tipo i Cream, la Jimi Hendrix Experience o i Taste di Rory
Gallagher. Ed il lavoro del chitarrista di Luton è comunque pregevole e
raffinato su tutto This Was, tra
assoli ricchi di gusto ed eleganti e
sofisticati accordi jazz-blues. Non era
questa però la strada che la band avrebbe continuato a percorrere. Abrahams
aveva ottenuto il suo spazio e ‘Cat’s Squirrel’ era la sua passerella personale
per i concerti dal vivo; ma il gruppo stava per cambiare direzione, affidandosi
completamente alla guida (e al flauto) di Ian Anderson. L’ultima incisione di
Mick con la band è degli ultimissimi mesi del 1968, con il brano ‘Love Story’:
un singolo che, dall’altro lato (‘A Christmas Song’) vede Ian Anderson
impegnato alla voce e al mandolino (strumento mai utilizzato su This Was), accompagnato dai soli Clive e
Glenn, oltre che da un bell’arrangiamento d’archi. Oltre a Tony Iommi la band
proverà anche David O’List, il chitarrista dei Nice (il gruppo di Keith Emerson
prima degli ELP). Ma, alla fine, opterà per il tranquillo e malleabile Martin
Barre, dopo un’audizione (con ‘Nothing is Easy’, in seguito sul loro secondo
album) avvenuta alla fine del 1968. All’inizio la scelta non sembrò
rappresentare un gran passo avanti rispetto all’abilità e alla sicurezza di
Mick Abrahams: nella registrazione del concerto insieme a Jimi Hendrix
(Stoccolma, 9 gennaio 1969) il nuovo chitarrista, un po’ impacciato (e ancora
senza barba) non appare del tutto convincente. Poco dopo, però, durante il
primo tour in USA, Martin Barre acquista sempre maggior sicurezza, e per 40
anni (!) diverrà la fidata “spalla” di Ian Anderson. Nel 1969 i Tull sono in giro per gli States anche con
i Led Zeppelin (Mick Abrahams non amava viaggiare: altro punto a suo sfavore!).
Esiste anche una bella foto, coi Jethro Tull che impazzano sul palco e John
Bonham, seduto dietro di loro, intento a seguire il lavoro di Clive Bunker alla
batteria. E proprio mentre erano in tour in America, fu Joe Cocker ad annunciare
loro che in Inghilterra erano arrivati primi in classifica con il singolo
‘Living In The Past’. Con il supporto di John Evan al piano e all’organo
Hammond (John avrebbe fatto parte della band dal 1970 al 1980), i Jethro Tull
continuarono a suonare negli States anche per tutto il 1970, senza però mancare
all’appuntamento dell’ Isola di Wight, alla fine di agosto di quello stesso
anno. Quando però si concluse l’ultimo tour americano, a novembre, Ian Anderson
decise di “scaricare” Glenn Cornick: erano tutti all’aeroporto, in procinto di
tornare a casa, e Ian prese da parte Glenn, annunciandogli senza mezzi termini
che era fuori dal gruppo, e che sarebbe addirittura rientrato con un altro
volo. Possiamo immaginare con che stato d’animo quello che era stato fino a
quel momento il bassista dei Jethro Tull avrà fatto quel viaggio di ritorno, da
solo, dopo gli anni ‘di gavetta’ trascorsi insieme ai suoi compagni della band,
i concerti, gli hotel, i viaggi e le risate insieme. Ho parlato con lui di
persona nel 2006, ma ho preferito non toccare l’argomento, perché sapevo che
Glenn Cornick non aveva ancora dimenticato. E si può anche capire. Dopo This Was, Stand Up e Benefit Glenn
era anche riuscito a sfiorare il colpo grosso, arrivato con il successivo album Aqualung, perché aveva fatto in tempo a
registrare alcuni pezzi di quel disco, poi rifatti nel febbraio del 1971 dal
vecchio amico di Anderson, Jeffrey Hammond Hammond, che sarebbe rimasto nella
band fino al 1975. Uno dei ricordi più belli per Glenn rimase comunque il
festival gratuito di Hyde Park, come detto, insieme a Pink Floyd e Roy Haper,
il 29 giugno 1968. In quei giorni non avevano pubblicato neanche il loro primo
disco, ma, avendo raccolto tanti estimatori suonando al Marquee ed in altri
mille piccoli locali britannici, ecco che avvenne qualcosa di inaspettato:
tutti i loro fans si raccolsero a quel festival, e quando un roadie salì sul
palco, poggiandovi sopra una borsa, dal pubblico partì un boato: tutti sapevano
che quella era la sacca nella quale Ian Anderson teneva i suoi vari strumenti a
fiato: era dunque “il segnale” che al
festival stavano per suonare i Jethro Tull! Gerry Conway, un batterista amico
di Clive Bunker (poi a sua volta nei Tull del periodo ’81-’82), aveva saputo da
quest’ultimo che suonava con una band in
piccoli locali, e vedendo tutto questo, ad Hyde Park, pensò di essere stato
preso in giro da Clive. La verità era invece che neanche gli stessi Jethro Tull si sarebbero
aspettati un successo simile a quel festival. In un solo giorno, passarono
dallo “status” di piccolo gruppo a quello di grande band. E tutto cambiò. Per
inciso ad Hyde Park ‘68 i Jethro Tull (che stavano registrando il primo album
in quello stesso periodo) si esibirono di giorno, vestiti come nelle foto che
li ritraggono al Marquee il 3 maggio 1968, per quella che fu la loro prima data
come gruppo principale in cartellone (Ian con un giubbotto corto, Glenn con il
cappellino, il nome del gruppo stampato in caratteri gotici sulla cassa della
batteria). Qualche mese dopo, al “Sanbury Jazz Festival” dell’agosto 1968
appariranno invece con gli stessi abiti della copertina di This Was (escluso il trucco da vecchietti), con Ian Anderson in
cappottone verde e Glenn Cornick in gilet giallo e bombetta rossa. Così come
appaiono anche durante le riprese del ‘Rolling Stones Rock And Roll Circus’,
alla fine di quello stesso anno, con Tony Iommi alla chitarra. Stranamente,
come nel caso degli Zeppelin, anche dei Jethro Tull non esiste molto materiale filmato degli “anni d’oro”: quasi niente, in
pratica, tra il 1970 (anno ricco di riprese, a cominciare dai festival di
Tanglewood e dell’Isola di Wight) ed il 1977 (fino a che non è apparso metà
dello show del 1976 a Tampa). Niente neanche per quanto riguarda gli anni del
loro massimo successo, e cioè quelli di
Aqualung e Thick As A Brick, tra
1971 e 1972 (a parte i filmini in super 8, muti, girati da qualcuno del
pubblico). Come detto, dopo aver “liquidato” Glenn Cornick, Ian Anderson aveva
fatto entrare nella band il suo vecchio amico Jeffrey Hammond, al quale aveva
già dedicato tre brani sui dischi precedenti. Nel dicembre del 1970 i Tull
registrarono con Jeffrey alcuni brani per
Aqualung, rifatti poi, come accennato, nel febbraio del 1971 direttamente
per il disco, che sarebbe uscito a marzo. Quando dunque il gruppo arrivò in
Italia per la prima volta, nel febbraio ’71 al teatro Smeraldo di Milano e al
Brancaccio di Roma, il disco non era ancora uscito, anche se quei pezzi
venivano già suonati “on stage”. Ian Anderson iniziava il concerto con ‘My
God’, voce e chitarra acustica, quasi al buio, dicendo che i Jethro Tull si
erano sciolti e che avrebbe tenuto il concerto da solo. Frattanto gli altri del
gruppo scivolavano ai loro posti, nascosti nell’oscurità. E quando il brano
esplodeva, si accendevano le luci, partiva la batteria insieme a tutti gli
altri strumenti e Ian Anderson con un piede gettava per aria la sedia sulla
quale aveva iniziato lo show, aggredendo il microfono con il flauto e lasciando
di stucco gli spettatori con un impatto devastante. Pochi mesi dopo il
batterista Clive Bunker lasciò la band e, con l’ingresso di Barriemore Barlow,
si ricostituì di fatto quella che negli anni ’60 era stata la John Evan’s band
(eccettuato Martin Barre), sotto la nuova sigla di Jethro Tull, che era in
realtà il nome di un agronomo del ‘600 inventore di una nuova macchina
seminatrice. La prima registrazione di Barlow coi Tull avvenne in occasione
dell’EP Life Is A Long Song,
contenente quattro brani, quando era ancora il 1971. E, a seguito del successo
di Aqualung, Barlow si vide
catapultato di colpo dai piccoli pub inglesi alle grandi arene americane, di
fronte a migliaia di persone. Quel disco, per inciso, avrebbe dovuto
intitolarsi My God (e a questo brano
si riferiscono le note di copertina, vergate in caratteri gotici): ma la vasta
diffusione di un bootleg dallo stesso titolo portò al cambiamento del nome, e
l’album si chiamò come il brano d’apertura,
Aqualung, che parte con uno dei riff di chitarra più conosciuti del rock
dei seventies. In seguito, sempre nel 1972, uscì la raccolta Living In The Past, contenente rarità,
inediti ed estratti dal concerto alla
Carnegie Hall di New York del 4 novembre 1970 (in seguito pubblicato per
intero). I due album successivi, Thick As
A Brick (1972) e A Passion Play
(1973) erano entrambi due concept album contenenti ciascuno un solo brano lungo
quanto tutto il disco. A seguito delle aspre critiche (ingiustamente) rivolte a
quest’ultimo lavoro, Ian Anderson decise di prendersi una pausa, ed i Tull si
ripresentarono (con look rinnovato e annessa ‘photo session’) solo in occasione
della conferenza stampa del gennaio 1974 a Montreaux, per presentare il nuovo
progetto denominato War Child, che
avrebbe dovuto essere sia un disco che un film. Il film però non si fece mai, e
rimasero solo alcuni brani orchestrali che avrebbero dovuto far parte della
colonna sonora. Un paio di pezzi di questo nuovo disco (‘Skating Away’ e ‘Only
Solitaire’) provenivano in effetti da alcune registrazioni che la band aveva
effettuato in Francia nel settembre del 1972, ma che aveva deciso di lasciare
nel cassetto. Qualcosa di questo materiale era anche stato utilizzato per A Passion Play. Quel disco inedito
registrato nei pressi di Parigi (un doppio album incompleto, rimasto senza titolo)
uscì solo in minima parte in occasione dei 20 anni della band, e quasi per
intero in occasione dei 25 ( con un flauto aggiunto per l’occasione). Infine,
con il remix di Steven Wilson del 2014, il lavoro è stato finalmente pubblicato
nella sua interezza. Su War Child e Passion Play Ian Anderson fa per la
prima (ed ultima!) volta largo uso del sax (soprattutto di quello soprano: cioè
quello “dritto”, per intenderci). Utilizzerà il sax dal vivo fino al 1975, e lo
riesumerà solo per la rara traccia ‘Beltane’ del 1977. Barriemore Barlow
detestava quel sax, e sperava sempre che Ian tornasse al flauto! Anche il
costume di scena di Anderson in questo periodo cambia completamente: non più il
giaccone a scacchi rossi e neri, per gli spettacoli del periodo ’74-’75, bensì
un elegante (quanto surreale) costume da principe del ‘500, con un sospensorio
in bella vista, capelli meno folti e barba più curata. Barlow adesso siede alla
batteria con canottiera e pantaloncini corti; John Evan con abito bianco e
cravatta rossa a pallini bianchi. Barre invece alterna una giacca “floreale” ad
un'altra di un rosso smagliante, mentre Jeffrey fa sfoggio di abiti e strumenti “zebrati”, tutti a strisce
bianche e nere. Se prima era soprattutto Anderson a fare scena durante gli spettacoli,
adesso sono i componenti di tutta la band a dimenarsi e a correre su e giù per
il palco, nonostante la difficoltà sempre maggiore delle partiture. In
tour viene anche portato un quartetto
d’archi tutto femminile, che viaggia con loro da una città all’altra, in varie
parti del mondo, Australia compresa. L’album Minstrel In The Gallery, del 1975, viene registrato con il supporto
di uno studio mobile installato su un furgone rosso: è un ottimo lavoro, ma, a
parte la “title track”, non viene mai eseguito in concerto. Con Too Old To Rock’n’ Roll, Too Young To Die
il bassista John Glascock (proveniente dai “Carmen”, già gruppo spalla dei
Tull) prende il posto del dimissionario Jeffrey Hammond (che preferisce tornare
alla sua antica passione per la pittura) e rimarrà nei Jethro fino al 1979. Con
lui la band entra nel suo “periodo folk-rock”, registrando Songs From The Wood (1977) ed Heavy
Horses (1978), in coincidenza con il trasferimento di Anderson (e consorte)
dalla vita di città a quella di campagna. Oltre alla musica, anche l’aspetto
del leader dei Tull subisce un nuovo cambiamento, con abiti da signore della
campagna inglese, bombetta e gilet rossi, capelli più corti, basette e
pizzetto. Nonostante ci si trovi in piena epoca punk, questa svolta folk viene
sorprendentemente salutata con favore dalla critica. E il suggello a questo
periodo felice avviene sia con la pubblicazione del live Bursting Out che con il concerto al Madison Square Garden di New
York, trasmesso in diretta ‘trans-oceanica’ a beneficio di vari Paesi (Italia
esclusa), entrambi del 1978. Questo concerto (e questa tranche americana del
tour) vedono però Tony Williams al basso al posto di John Glascock:
quest’ultimo soffre infatti di problemi al cuore, e, anche se tornerà con la
band per i concerti negli States dei primi mesi del ’79, riuscirà a registrare
solo qualche pezzo per l’album Stormwatch,
di quello stesso anno (con Ian Anderson al basso sugli altri brani). Glascock purtroppo morirà poco tempo dopo nel
corso di un intervento al cuore, e Barriemore Barlow, a lui molto legato, si
ritroverà a suonare piangendo quando il gruppo viene raggiunto dalla notizia
mentre è in tour negli States. Il suo posto viene preso dal Dave Pegg, bassista
dei Fairport Convention, band amata da Page e Plant, che avevano voluto la loro
cantante Sandy Denny per ‘The Battle Of
Evermore’ sul quarto album degli Zeppelin. A sua volta Dave Pegg era amico di
John Bonham fin dagli anni ’60. Dave si divise tra i due gruppi fino al 1995.
Poi decise di lasciare, rimpiazzato da Jonathan Noyce. Ma quando entrò nei
Jethro Tull, nel 1979, fece in tempo a far parte della formazione che schierava
ancora John Evan, Barriemore Barlow e David Palmer. Quest’ultimo aveva
arrangiato e diretto le sezioni orchestrali dei brani di Ian Anderson fin dal
1968, ma solo dal 1976 era diventato un componente del gruppo a tutti gli
effetti. Ad ogni modo, nel 1980, Ian mischiò le carte in tavola e cambiò la
formazione per il disco A ed il
relativo tour. In effetti quello avrebbe dovuto essere un suo disco solista (A stava per Anderson), ma la casa
discografica lo aveva convinto a farlo uscire come il nuovo disco dei Jethro
Tull, con Eddie Jobson e Mark Craney (violino e tastiere il primo, batteria il
secondo). E così Barlow, Palmer ed Evan appresero solo dai giornali che non
facevano più parte della band. Gli anni ’80 erano appunto iniziati, e questo
disco, come i successivi Broadsword And
The Beast (1982), il primo disco solista di Anderson Walk Into Light (1983) e Underwaps
(1984) sono più o meno infarciti di suoni elettronici a discapito del flauto,
che quasi scompare. Un disco con la formazione Anderson, Barre, Pegg, Conway e
Vettese avrebbe anche potuto uscire nel 1981, data la gran quantità di brani
registrati quell’anno: ma non sarà così, e tutto quel materiale riemergerà solo
in occasione delle celebrazioni dei 20 e 25 anni di attività del gruppo. Broadsword, con quella stessa
formazione, è un buon disco, ed il relativo tour è anche l’ultimo a vedere
Anderson con la voce e l’aspetto dei vecchi tempi. La sua voce comincia infatti
ad avere problemi dopo il tour di Underwraps.
Nel 1985 i Jethro Tull tengono un solo concerto, dedicato a J. S. Bach, a
Berlino, con Eddie Jobson (lui e Craney rimasero nella band solo nel periodo
’80-’81) in veste di ospite alle tastiere. Per inciso, questa è anche l’ultima
occasione in cui possiamo vedere Martin Barre con la barba! Anche nel 1986 non
ci fu altro che un breve tour estivo (denominato infatti “Summer Raid”),
compresa una data diurna a Milton Keynes (proprio il luogo della reunion dei
Genesis con Peter Gabriel) prima dei Marillion, che all’epoca, dopo l’uscita
dell’esplosivo Mispaced Childhood
(1985) erano davvero sulla cresta dell’onda (con conseguente beneficio per
tutto il “movimento prog”, che vedeva finalmente un gruppo suonare quel genere
musicale riuscendo anche a scalare le classifiche). I Tull sembravano viceversa
ormai sul viale del tramonto: anche fisicamente Ian Anderson, pur non avendo
ancora compiuto 40 anni, appariva come un vecchione imbolsito, barba
imbiancata, cappellino, pantaloni rigonfi ed un giubbotto di pelle senza
maniche a renderlo ancora più appesantito. Dopo A sia Jobson che Craney erano stati sostituiti appunto da Peter
Vettese e Gerry Conway, a sua volta rimpiazzato dietro i tamburi da Doane Perry
(che, sarebbe divenuto il batterista più “longevo” della storia del gruppo).
Don Airey fu alle tastiere per il tour del 1987, ma non sul disco di
quell’anno, A Crest Of a Knave, che
segnò il “ritorno” dei Tull in grande stile, con brani accattivanti quali
‘Budapest’ e ‘Farm On The Freeway’, nuovi classici per gli spettacoli dal vivo.
E, dopo il tour del 1988 per il ventennale del gruppo, e l’album Rock Island del 1989, coi Tull premiati
quale migliore band heavy metal (!?), ecco la rinascita: nel 1991 tornano in
scena incredibilmente ringiovaniti: Ian Anderson con un semplice gilet sul
torso nudo, muscoloso e scattante, coi pantaloni attillati come negli anni ’70;
Martin Barre, che pochi anni prima appariva come un attempato impiegato di
banca, di nuovo coi capelli lunghi, dimagrito, agile e con un bellissimo suono
di chitarra. All’album e al tour di Catfish
Rising di quello stesso anno (con più strumenti acustici e piacevoli folate
di blues) seguì il triplo tour del 1992, il disco semi-acustico dal vivo A Little Light Of Music, l’arrivo
dell’ottimo Andy Giddings alle tastiere e l’inizio degli spettacoli con
Anderson in giacca e cilindro neri. Quindi le varie celebrazioni per i 25 anni
della band, fra 1993 e 1994: box set, il doppio cd di rarità Nightcup, tour
mondiale e Ian e Martin ancora vivaci e con un look accattivante. Brillanti,
poi, gli inizi dei concerti, con la rivisitazione dei brani di inizio carriera:
‘My Sunday Feeling’ in apertura, poi ‘For A Thousand Mothers’, quindi ‘Living
In The Past’, con Ian Anderson che irrompeva sul palco con una festosa giacca
multicolori. Questo periodo scintillante fu però anche l’ultimo per i Jethro:
l’album Roots To Branches del 1995 fu
seguito da un tour più dimesso, senza Dave
Pegg al basso (sostituito da Jonathan Noyce) e con Anderson e Barre meno in
forma. Nel 1996 lo stesso Anderson rimase vittima di un’embolia ad una gamba
che lo costrinse alla sedia a rotelle per diverse date: durante il tour dei 20
anni, all’inizio del concerto (quando io ebbi modo di vederli per la prima
volta, nel 1988) compariva sul palco suonando per scherzo il flauto su una
sedia a rotelle (a voler sottolineare che erano diventati “troppo vecchi per il rock’n’roll”), per
liberarsene subito dopo, alzandosi in piedi per cantare una scoppiettante ‘Cross-eyed Mary’: adesso, invece, la
carrozzina doveva usarla sul serio! Anche se per un breve periodo,
fortunatamente. L’album successivo uscì solo quattro anni dopo, nel 1999: si
intitolava Dot Com, era buono,
registrato bene, e con ottime spruzzate di prog. Ma sarebbe rimasto l’ultimo
disco dei Jethro Tull. Sarebbero seguiti infatti altri lavori, su cd o dvd, in
studio e dal vivo, ma non si sarebbe più trattato di veri album composti da
materiale interamente inedito. Negli ultimi tempi, poi, anche l’inossidabile
Martin Barre non fa più parte della band, e il suo leader si presenta ormai
sotto la sigla “Ian Anderson’s Jethro Tull”, lasciando intendere che il gruppo
in quanto tale ha chiuso i battenti. Dischi, foto e documenti filmati
rimarranno però a testimoniare la grande forza che aveva questa band nei suoi
anni migliori.
MALIBRAN E JETHRO
TULL
Quando
apprendo che i Jethro Tull avrebbero suonato a Palermo l’8 luglio 2003 (prima
volta in Sicilia) al Teatro di Verdura (anfiteatro all’aperto, sorta di
“appendice estiva” del Teatro Massimo), mi attivo subito per “piazzare” i
Malibran come gruppo di apertura del loro show. Li avevo visti dal vivo
numerose volte in giro per l’Italia. E, soprattutto, erano da sempre il mio
gruppo preferito. Dunque, esibirmi con loro sullo stesso palco, magari
conoscendoli di persona, e poterlo fare davanti ad un pubblico numeroso (e
presumibilmente “affine” al nostro tipo di proposta musicale) sarebbe stato
quanto di meglio avrei potuto chiedere. Mi metto subito al lavoro per rendere
concreta anche questa possibilità, come quattro anni prima con il Banco:
contatto Aldo Tagliaferro, il presidente del “fan club” italiano dei Tull, che conosce di persona Ian Anderson & Co.
Anzi, da semplice loro fan, era ormai diventato un po’ il “referente italiano”
del gruppo: durante i tour, è lui che va a prenderli all’aeroporto, li porta
nei vari hotel e ristoranti, da una città all’altra, e tutto il resto. Mi metto
anche in contatto con la “Blue Sky”, l’agenzia che porta i Tull (e Steve
Hackett) in Italia: loro sono sempre gentilissimi, e, “in sinergia” con Aldo,
si cerca di rendere concreta la cosa: Malibran e Jethro Tull insieme a Palermo.
Passano mesi di telefonate, con conseguente alternanza di speranze e delusioni:
“si può fare”, “anzi no”, e così via. Alla fine Aldo mi chiama, non mi trova,
ma parla coi miei: ed io, al mio rientro a casa, trovo un biglietto sul tavolo:
“suonerete coi Jethro Tull”: meglio del biglietto vincente della lotteria di
Capodanno! Si entra nei dettagli: Ian Anderson ha apprezzato il cd di tributo
ai Tull (Songs for Jethro), aperto da
una nostra versione di ‘Bourèe’. Ma pone delle condizioni: innanzitutto, non
dobbiamo essere una cover band dei Jethro, ma un gruppo con una discografia
propria. E in effetti è proprio così. In secondo luogo, io non posso suonare il
flauto: Ian Anderson non vuole infatti altri gruppi che suonino questo
strumento (tanto peculiare per il suono e l’immagine dei Jethro Tull) prima che
sia lui a salire sul palco. La cosa mi sembra comprensibile, e per noi non è un
problema: di fatto sono pochi i brani nei quali, dal vivo, io utilizzo il
flauto: dopo che Benny (il tastierista) ha lasciato i Malibran insieme a
Giancarlo (flauto e sax) nel 2001 io, oltre a cantare, con la chitarra devo
anche coprire i vuoti lasciati dai due “transfughi”. E dunque sarà sufficiente
non mettere in scaletta alcuni brani. Ecco però in arrivo un altro guaio: Alessio, il nostro batterista (nonché mio
fratello), quel giorno potrebbe non essere disponibile, e cominciamo a
considerare l’ipotesi di un sostituto. Ma come? Eravamo in sei e adesso
diventiamo in tre, più un batterista “esterno” che non conosce i nostri pezzi?
E questo proprio nell’occasione più importante? Comunque la cosa si risolve:
Alessio ci sarà, e si comincia ad entrare nei dettagli tecnici: noi dovremo
suonare 40 minuti e lasciare il palco ad una certa ora. Non potremo usare la
strumentazione dei Jethro Tull, dal momento che verremo solo collegati all’impianto
principale. Dunque il mio amico Riccardo, che ha un service, mi presterà i
microfoni, mentre Ignazio (un altro amico) sarà al mixer per noi. In cambio
chiede solo se sarà possibile far entrare la moglie senza farla pagare: giro la
richiesta, che mi viene accordata. Per Ian Anderson, la band, il loro storico
tour manager inglese e per quello italiano è tutto ok, la cosa si farà. Noi ci
limitiamo a fare una sola, normale prova, avendo conferma che il nostro show
funzionerà anche senza il flauto. Sul giornale ‘La Sicilia’ esce un paginone
tutto dedicato a questo concerto, che abbina i siciliani Malibran e i
leggendari Jethro Tull, con belle foto a colori e biografie di entrambi i
gruppi. Ma, appena un paio di giorni prima della data tanto attesa, ecco una laconica
e-mail da parte del tour manager italiano, che mi comunica quanto segue: “per motivi tecnico-burocratici
non potrete suonare con i Jethro Tull”. Non capisco: era tutto definito nei
minimi dettagli, c’era l’ok di Ian Anderson e di tutto l’entourage della band,
e adesso non possiamo suonare? Chiamo il tour manager italiano, poi anche
l’organizzatore dell’evento a Palermo. E
mi sento dire, addirittura, che se suoneremo noi, non suoneranno neanche i
Jethro Tull! Alla fine si scopre che l’agenzia Blue Sky, purtroppo, aveva
pensato più che altro al benestare di Ian Anderson, ma non a comunicare la
partecipazione dei Malibran agli organizzatori di Palermo, i quali avevano
probabilmente saputo della cosa proprio dal giornale, sentendosi “scalzati”, e
senza essere in possesso della necessaria documentazione (EMPALS, ecc.)
riguardante noi. Otteniamo solo il “contentino” di assistere gratis al concerto
dei Jethro Tull, che si svolge senza alcun gruppo di apertura. Ci andiamo
comunque con il macchinone di Jerry, e
arrivati sul posto (dove vedrò Steve Hackett l’anno seguente) sento Aldo al
telefono: lui è lì, ma non riusciamo ad incontrarci. Riesce comunque a farci
entrare senza pagare (e vorrei vedere!). Il bello (si fa per dire) è che un
tipo seduto davanti a me si lamenta del fatto che non c’è un gruppo ad
intrattenere il pubblico in attesa dei Jethro Tull. Scherzando, quando qualcuno
mi chiedeva se non ero emozionato per il fatto che avremmo suonato insieme al
mitico gruppo di Ian Anderson, io
rispondevo che sarei stato soddisfatto solo quando i Jethro Tull
avessero fatto da gruppo spalla a noi! Ad ogni modo sul giornale del giorno
dopo scrivono che i Malibran avevano suonato prima dei Jethro Tull. Ma come li
scrivono certi articoli? Da casa? E’ vero, noi c’eravamo: ma tra il pubblico!
Personalmente, in seguito, ho davvero suonato prima di Ian Anderson a Novi
Ligure, nel 2006, nel corso della Convention annuale di “Itullians”. La nostra
versione di ‘Bourèe’ si sentiva in diffusione, mentre io partecipavo come
flautista a due brani dei Jethro (‘We Used To Know’ e ‘Weathercock’) in qualità
di ospite del cantante-chitarrista Andrea Vercesi. C’erano anche gli ex Jethro
Glenn Cornick, Clive Bunker e Dave Pegg, più l’ex batterista dei Gentle Giant
John Weathers. Tutti loro avrebbero suonato in serata, su un palco più grande.
Sempre a proposito dei Jethro Tull, vorrei concedermi qualche considerazione a
proposito di Jeffrey Hammond, il bassista del loro periodo 1971-1975, vecchio
amico di Ian Anderson prima ancora di entrare a far parte di quella band, che
decise poi, come detto, di abbandonare per tornare a dipingere. Ho letto più
volte che Jeffrey Hammond Hammond (con il secondo “Hammond” aggiunto all’epoca
per puro sfizio) sarebbe stato un bassista “mediocre”: ebbene, mi permetto di
dissentire: ascolto molta musica, suono, e proprio non riesco a capire questo
giudizio: Quelli erano gli anni nei quali la band si sbizzarriva nelle
composizioni più difficili ed articolate: nessun bassista “mediocre”, pur non
componendo in prima persona quelle partiture, avrebbe potuto eseguirle. E non
solo in studio, ma anche dal vivo. La sola A
Passion Play, suite lunga un intero album, era complicatissima da ricordare
e suonare tutte le sere, senza una parte che si ripetesse due volte, con una
infinità di note, stacchi e passaggi articolati. Eppure Jeffrey suonava tutto questo con disinvoltura ad ogni
concerto, nonostante si muovesse come un pazzo sul palco, correndo su e giù e
incrociandosi di continuo con Martin Barre: perché, proprio in quegli anni,
come detto, non era più il solo Ian fare lo show, bensì tutti e cinque i Jethro
Tull, impegnati a saltellare a destra e a sinistra come indemoniati. E con
Jeffrey che esibiva abiti di scena, basso e contrabbasso tutti a strisce
bianche e nere durante il tour ’74-’75. Bassista mediocre? Anche il basso del
disco War Child è strepitoso. Così
come quello di Thick As A Brick. E
che dire di Minstrel In The Gallery?
Tutti ricordano che quest’ultimo suona quasi come un album “solo” di Ian Anderson
nelle sue parti più acustiche. Ma in quelle elettriche? ‘Black Satin Dancer’,
‘Cold Wind To Valallah’ e la stessa ‘Minstrel in The Gallery’ sono tra le cose
più potenti che i Jethro abbiano mai fatto, con un suono di basso e batteria
poderoso. Bassista mediocre? Per qualunque grande bassista di oggi non sarebbe
affatto facile suonare quei brani, facendo anche spettacolo sulla scena. La
verità è che i primi tre bassisti dei Jethro Tull, Glenn Cornick, Jeffrey
Hammond Hammond e John Glascock sono
stati tutti musicisti meravigliosi e personaggi incredibili.
MALIBRAN IN
USA
Tornando
ai Malibran, partiamo per gli USA dall’aeroporto di Catania i primi di ottobre
2000: lì trovo Carmen Consoli, che va a suonare a Bari: ci conosciamo da anni,
e la riprendo un po’ con la mia videocamera, facendole una finta intervista.
Lei, come sempre, mi chiama “Scaravilli”. Poi la lascio a farsi le foto con un
nugolo di ragazzine. C’è anche un mio ex compagno di banco del Liceo che parte
per il viaggio di nozze. Tra andata e ritorno, per suonare negli States,
dobbiamo prendere 6 voli (Catania-Roma-Newark-Raleigh, e poi
Raleigh-Newark-Milano-Catania). Ma è bello attraversare l’Atlantico per andare
a suonare la propria musica. E pagati per questo! Jerry porta con sé moglie e
figlia di 7 mesi (il che non contribuisce certo a conferirci un aspetto molto
rock). Lui, Giancarlo (fiati) e Angelo (basso) sono gli unici a partire con i
propri strumenti personali, mentre io e gli altri utilizzeremo quelli che
troveremo in America. Per arrivarci voliamo per 9 ore sull’Oceano. Guardiamo
pure un film. Quando arriviamo fa un gran caldo, e quelli del “ProgDay
Festival” vengono a prenderci e a trasferirci in hotel. Il palco è collocato in
un prato verde. Il posto si chiama “Storybook Farm”, ed è a Chapel Hill, vicino
Raleigh, in North Carolina. La gente, proveniente da vari Stati, ascolta i
gruppi che si alternano, provenienti da varie parti del Mondo (anche dall’India
e dalla Svezia); oppure passeggia sull’erba, compra qualche cd negli stand
sparsi qua e là. Qualcuno ci conosce e ci chiede un autografo. Noi ci sdraiamo
sul prato, chiacchierando con Leonardo Pavcovich, che 2 anni dopo porterà la
PFM in Giappone (comparirà anche sul loro dvd, e verrà ringraziato al microfono
da Franz Di Cioccio). C’è un bel sole, ma per il giorno dopo (quando toccherà a
noi) è previsto un peggioramento: gli organizzatori chiedono a tutte le band se
preferiranno suonare in un luogo chiuso, ma tutti rispondono di no. Il giorno
dopo, in effetti, il clima è completamente cambiato: dall’estate all’inverno in
24 ore! Freddo, giubbotti, cappucci in testa e cioccolate calde. Senza la
nostra strumentazione noi non abbiamo neanche un gran suono, e fa talmente
freddo che il basso si scorda in continuazione; mentre io, dopo qualche pezzo,
mi vedo costretto ad indossare il giubbotto!
Naturalmente, devo anche parlare in inglese al microfono, improvvisando
sul momento, presentando i brani, il gruppo, e ringraziando per gli applausi dopo
ogni pezzo. Il giorno dopo andiamo a New York, questa volta in veste di
semplici turisti: saliamo in cima all’Empire State Building, entriamo nelle
Twin Towers (senza immaginare che verranno giù meno di un anno dopo!) e vediamo
a distanza la Statua della Libertà, il Madison Square Garden ed il Radio City
Music Hall. Per pura coincidenza incontriamo i Mary Newsletter, l’unico gruppo
italiano presente al festival oltre noi. E anche (ci eravamo divisi) Alessio e
l’amico Alfredo (che vendeva i nostri cd mentre noi suonavamo) al Central Park. Un tassista sudamericano
(anche lui musicista) ci porta in giro, e riesco a comunicare con lui
utilizzando un mix tra inglese e il messicano dei fumetti di Tex Willer! Il
tipo si dimostra una grande persona: dopo averci lasciati all’aeroporto, mentre il nostro volo
per il rientro a casa sta per partire, Jerry si accorge di aver dimenticato la
sua chitarra sul taxi. Ma il tassista, invece di tenerla per sé, appena si
accorge di avere lo strumento in macchina, fa il giro dell’aeroporto e riesce a
raggiungere Jerry, che frattanto correva di qua e di là, cercando disperatamente di contattarlo (ci
aveva lasciato il suo numero di telefono). Alla fine l’abbraccio fra i due è
quasi commovente!
BANCO DEL MUTUO
SOCCORSO E MALIBRAN
Il
29 agosto 1999 i Malibran hanno diviso il palco con il Banco del Mutuo
Soccorso. La data avrebbe dovuto in verità essere solo nostra: con più tempo
per noi ed un compenso maggiore. Ma mi era stata offerta l’occasione di suonare
insieme ad un gruppo di rilievo, ed io,
che avevo sempre amato il Banco, conoscevo anche qualcuno a Roma che avrebbe
potuto portarmi fino a loro: dunque non avevo avuto dubbi nella scelta. In
effetti, tramite questa persona (Aldo Pancotti)
riesco a tessere la tela che renderà fattibile quello che un tempo avrei
creduto irrealizzabile: poco tempo dopo, eccomi al telefono con il manager del
Banco Del Mutuo Soccorso. E, successivamente, con Vittorio Nocenzi e Rodolfo
Maltese, che sono in macchina: la cosa è quasi surreale, perché parliamo come
se ci conoscessimo già. “Ti passo Vittorio” mi dice Rodolfo. Ed ecco quella
voce bassa e pastosa: La stessa che recitava: “Lascia lente le briglie del tuo
Ippogrifo, O Astolfo” all’inizio del primo disco del gruppo (1972). Con la
piccola differenza che adesso sta parlando con me, mentre io sono a casa. La
cosa ancora più strana è che io, forse proprio per la cordialità e la
semplicità con la quale Vittorio mi parla, non mi sento emozionato, e comunico
con lui e Rodolfo come se fossimo amici e colleghi da anni. Ci risentiamo, e parliamo
dell’aspetto tecnico del concerto: naturalmente suoneremo prima noi, e Vittorio
Nocenzi mi chiede se sarà possibile fargli trovare reggi-tastiere e sgabello.
La mattina del 29 andiamo a prenderli all’aeroporto, io e Giancarlo dei
Malibran, più l’amico Ignazio, che si presta gentilmente ad ospitare qualcuno
della band nella sua macchina. Io avevo già conosciuto Rodolfo Maltese prima
del concerto del Banco alle Ciminiere di Catania, nel 1997. In quell’occasione
lui era rimasto un po’ sorpreso quando lo avevo anticipato, dicendo di sapere
della loro esibizione al teatro Malibran di Venezia del 1975. Ma non credevo
che mi avrebbe subito riconosciuto, due anni dopo. E invece, appena mi vede,
all’aeroporto di Catania,il suo volto barbuto si illumina in un ampio sorriso,
ed alza un braccio per salutarmi, segnalandomi così che sono arrivati. Poco
prima avevano suonato in Messico, accolti come star. Qui nessuno ci importuna
ed io, oltre a parlare con loro e con Carlo Di Filippo, il loro fidato fonico
(eccezionale il suono di “Nudo”, nella parte live registrata a Tokyo), mi metto
pure a fare le riprese con la videocamera, indovinato regalo di Laurea. Chissà
perché, temo che Vittorio Nocenzi possa infastidirsi. E invece, mentre lo
inquadro, lui saluta sorridente! Fa un gran caldo, e mentre viaggiamo in
macchina alla volta di Belpasso (dove si suonerà la sera stessa), il cielo è
azzurro. Li lasciamo a riposare in un albergo del paese, rimanendo a conversare
ancora un po’ nella hall: Francesco Di Giacomo mi racconta di quando suo
suocero gli diceva: “Si, vabbè, ho capito, tu suoni…ma di mestiere…che fai?”.
Come se la musica non potesse essere anche un lavoro. Solo quando aveva
realizzato che Francesco si era comprato una casa coi proventi di quel
“passatempo” si era finalmente reso conto che di musica si poteva anche vivere!
Frattanto io ricordavo quando, da piccolo, avevo visto il Banco in TV ed avevo
appreso il nome del cantante dalla sua stessa voce, al microfono: presentando
uno per uno i componenti del gruppo, lui aveva concluso infatti dicendo: “Ed
io, Francesco Di Giacomo”. Doveva essere più o meno il 1980 e Rodolfo suonava
anche la tromba. Adesso, a Belpasso, “Big” Francesco indossa una maglietta nera
con la copertina del disco in cui si vede lui stesso lanciare per aria una
scarpa (Banco, del 1975, coi testi in
inglese di brani del primo e terzo disco, edito dalla ‘Manticore’ degli ELP):
un ricordo della allora recente trasferta messicana. In seguito, nel 2006,
prima di un loro concerto a Cittanova (in Calabria) mi racconterà invece di
essersi ritrovato ad alloggiare in un postaccio senza doccia, vedendosi
costretto a lavarsi con un secchio d’acqua! Sempre nel 2006 coi Malibran saremo
di nuovo con il Banco al festival di Andria, anche se loro suoneranno la sera
dopo di noi, che divideremo il palco con Il Balletto di Bronzo. Ad ogni
modo, in quel 1999 torno a casa e mi
riposo. Nel pomeriggio, ecco la sorpresa: brutto tempo. Ma come, di mattina il
sole spaccava le pietre e adesso, a poche ore dal concerto, si mette a piovere?
Non solo: è arrivato il camion con tutta la loro strumentazione, e ha trovato
il palco “recintato” da assi di legno, che impediscono di scaricare il tutto.
Mi chiama il manager e mi intima che, se il palco non sarà accessibile, il
Banco non suonerà. Giusto per stare tranquilli! Così contatto un addetto del
Comune, il quale, per fortuna, riesce a far rimuovere quei pannelli che
“recintavano” il palco. Il tempo è ancora incerto, ma adesso non piove, e porto
Francesco Di Giacomo ad un bar che conosco, non lontano dalla piazza dove in
serata terremo il concerto: vuole prendere dei dolci tipici da portare a casa.
E nel frattempo mi racconta un sacco di cose. Anche che, mentre suonava in un
locale in Germania (presumo con “Le Esperienze”) ha conosciuto un tipo chiamato
Richie Blackmore (!). Il tutto prima della nascita sia del Banco che dei Deep
Purple. Mi manifesta stima nei confronti di Piero Pelù, mentre torniamo dal bar
alla mia macchina. Ed è in quel momento che noto un particolare cui non avevo
fatto caso, vedendolo solo sul palco: trascina un piede. Inoltre non è più
grosso ed imponente come una volta. Un’immagine che mi aveva colpito fin da
bambino. E che anche mio padre riconosce, pur ascoltando esclusivamente musica
classica: vede l’immagine di Francesco e dice: “Banco”. Anche mio padre li
vedrà, quella sera. E alla fine commenterà, semplicemente, che il paese neanche
se lo sarebbe neanche meritato un gruppo di quel livello. D’altro canto sento
anche alcune ragazzine lamentarsi confabulando tra loro e dicendo “Ma chi sono
questi? Non potevano portare Nek?” Peggio in un’altra occasione, a Centuripe:
Banco Del Mutuo Soccorso in azione sul palco, e altre ragazzine a strillare:
“Respiri piano per non far rumore…”: quella è stata l’unica volta in cui ho
visto Francesco, davvero stizzito, voltarsi verso Vittorio Nocenzi e sbottare
in un “A Vittò…”. A Belpasso, invece, l’unico problema può essere rappresentato
da un’eventuale acquazzone, dal momento che il cielo non promette niente di
buono. Comunque io sono sul palco e filmo sia le prove del Banco che il Di
Giacomo mentre si intrattiene con alcuni estimatori del posto, compreso qualche
amico mio. Anche a Cittanova 2006 riprenderò le loro prove, oltre a parlare con
Tiziano Ricci (il bassista) del loro show pomeridiano al concerto del 1° maggio
2002 in Piazza S. Giovanni, con Morgan E John De Leo come ospiti. A Cittanova
avevo anche consegnato a Francesco un cd contenente una mia versione del loro
“Canto di Primavera”, e poi avevo filmato tutto lo show, che si sarebbe aperto
con “Metamorfosi”. E che dunque avrebbe visto Francesco entrare in scena solo
dopo 10 minuti di musica esclusivamente strumentale. Avevo parlato con lui già
dopo un concerto del Banco nel 1991, mentre mi facevo fare un autografo per me
e la band: e a quel punto lui mi aveva chiesto: “Ma tu lo sai chi era la
Malibran?”, riferendosi alla cantante d’Opera dell’800, aggiungendo: “E pare
che morì cadendo da cavallo…Ah, se allora ce fossero stati i taxi…”.
All’interno del teatro Nino Martoglio di Belpasso ci cambiamo, sia noi che i
componenti del B.M.S: i camerini sono diversi, ma le porte non sono chiuse e
possiamo anche guardarci a vicenda, senza problemi. Quando mi ritrovo sul
palco, so che suonerò la chitarra utilizzando l’amplificatore di Rodolfo
Maltese, mentre Alessio suonerà la batteria di Maurizio Masi. Dovevamo essere
noi a prestare qualcosa al Banco, e invece sta succedendo il contrario! Anche
noi riusciamo comunque ad essere loro d’aiuto: proprio per il bis finale (“Non
mi Rompete”) Rodolfo Maltese ha bisogno del capotasto per la chitarra, ma non
lo trova: chiede se ne abbiamo uno noi, e Jerry gli presta subito il suo.
Rodolfo è salvo! Dietro di me Vittorio Nocenzi mi sollecita a partire
immediatamente con il nostro show: se piove prima che cominci il concerto,
nessuno verrà pagato! Così iniziamo, praticamente senza fare sound check (del
resto mi fido di Carlo Di Filippo al mixer). La piazza è piena, ma non quanto
avrebbe potuto esserlo se il tempo fosse stato migliore. Laura, la mia ex
ragazza, vorrebbe fare le riprese con la mia videocamera, ma quest’ultima è
chiusa in macchina, e non ho il tempo per cercare le chiavi: attacchiamo, e
suoniamo bene. Durante la parte finale della nostra ‘On the Lightwaves’, sul tempo dispari, con Jerry che
si scatena nel suo assolo, intravedo Vittorio Nocenzi, accovacciato dietro di
noi, che gode come un pazzo muovendo la testa a tempo ed agitando i capelli,
invece di starsene nascosto: un grande! A fine concerto sarà lui a salire sulla
mia macchina per andare a mangiare qualcosa nel pub poco più sopra della
piazza: si congratula con noi, parla bene di Jerry, aggiungendo che siamo tutti
bravi. Detto da lui, devo crederci per forza! Mentre suonano loro, invece, io
canto tutte le canzoni insieme a Laura: bellissimo! Al tavolo del pub, nel
cortile interno, sono con Vittorio alla mia destra e Rodolfo di fronte: dunque
parlo a lungo con entrambi. Rodolfo è una splendida persona, e non mi nasconde
la sua gioia per il privilegio di poter vivere facendo della sua passione (la
musica) il suo lavoro. Tempo dopo mi invierà i suoi auguri di Natale. Purtroppo
adesso anche Rodolfo ci ha lasciati. Al pub non mangiamo molto, perché a
quell’ora la cucina del locale è ormai
chiusa. Ci rifaremo l’anno dopo: io e Giancarlo andremo a vedere Francesco
cantare pezzi dei Beatles (e qualcosa del Banco) a Caltanissetta, accompagnato da un semplice “duo” acustico
(compreso Rodolfo Maltese): alla fine dello show, gentilmente, Di Giacomo
ringrazierà “i Malibran”. E questa volta ceniamo insieme come si deve, parlando
di musica e di qualsiasi altra cosa. E’ in questa occasione che lui sbotta in
un simpatico: “E mò basta cò stò Darwin, vojo cantà Papaveri e papere!”.
Durante il Festival di San Remo del febbraio 2014, quando Fabio Fazio comunica
in diretta che Francesco era scomparso quello stesso giorno (un malore mentre
guidava, con conseguente incidente stradale), io avevo appena spento la TV, e
apprendo il tutto la mattina dopo. Ed è stato come aver perso un parente. Il
pubblico dell’Ariston, alla notizia, si era alzato in piedi ad applaudire,
mentre veniva mostrata una sua immagine. Vittorio, che lo aveva visto poco
prima, viene a conoscenza del fatto attraverso una telefonata, e in un primo
momento aveva pensato ad uno scherzo. “Non mi svegliate, ve ne prego, ma
lasciate che io dorma questo sonno”, sembrava invece cantarci già da altri
luoghi Francesco Di Giacomo, soprannominato da quanti gli erano più vicini “Capitano,
mio capitano” (dal film ‘L’attimo fuggente’). Il Banco deciderà di proseguire
perché, citando ancora una loro canzone, quel progetto è “Un’idea che non puoi
fermare”. Ma arriveranno i guai di salute di Vittorio, e adesso chissà.
VAN DER GRAAF GENERATOR
Viceversa,
pur essendo parte a tutti gli effetti del cosiddetto “progressive rock”, i Van
Der Graaf Generator hanno fatto (e continuano a fare) semplicemente musica dei
Van Der Graaf Generator. Il primo disco, The
Aerosol Grey Machine (1969) avrebbe dovuto essere pubblicato come disco
solista del giovane cantante (nonché chitarrista e pianista) Peter Hammill, ma,
alla fine, uscì a nome della band. Per anni, in Italia, si nutrirono anche
dubbi se questo lavoro esistesse davvero , e divenne reperibile solo nel 1974.
Nell’album successivo al bassista Keith Ellis subentrò Nic Potter e,
soprattutto, il sassofonista e flautista David Jackson, che divenne una sorta
di icona non solo “sonora”, ma anche “visiva” della band, con la sua
caratteristica di suonare due sax elettrificati contemporaneamente,
seminascosto dai capelli lunghi che venivano fuori da un berretto di pelle con
visiera e dagli occhiali. Quando Potter abbandonò il gruppo, i VdGG non lo
sostituirono, utilizzando per le frequenze basse i pedali dell’organo di Hugh
Banton. Si costituì in questo modo la formazione “classica” che schierava
Hammill, Banton, Jackson ed il funambolico batterista Guy Evans. Il brano
‘Killer’ fece furore soprattutto in Italia. La band, come accennato,
rappresentava l’attrazione principale del “Six Bob Tour” del 1971, che portava
in giro per il Regno Unito sia loro che
Audience e Genesis (ai quali si era aggiunto da poco Steve Hackett). La loro
musica alternava momenti di caos ad altri molto melodici, se non addirittura strazianti.
E a Peter capitava davvero di avere le lacrime agli occhi, mentre cantava con
le cuffie in sala di registrazione. Per il resto la sua voce, a volte soffusa,
veniva più spesso travolta da un’enfasi rabbiosa, con note lunghe e potenti, in grado di mandare in
frantumi i bicchieri. O i timpani, a seconda dei gusti. Il punto era comunque
che si trattava di un gruppo rock senza né la chitarra elettrica né il basso
(una specie di contraddizione in termini), ma capace di sprigionare ugualmente
un fragore ed un impatto mai sentiti prima. Lo stesso Jackson, quando imparò a
collegare i suoi sax all’impianto di amplificazione, era rimasto impressionato
dalla potenza che riusciva a sprigionare coi suoi strumenti, facendo quasi
fatica a gestire e a controllare quei suoni. Ancora in Italia il grande
successo arrivò con l’album Pawn Hearts:
il disco conteneva solo tre brani (altri sarebbero riemersi in ristampe
successive), ma uno di questi era la lugubre suite ‘A Plague of Lighthouse
Keepers’: una lunghissima cavalcata sonora ricca di stacchi, cambi di dinamiche
e indovinati chiaro-scuri che indusse Peter Hammill a ritenere, quando il
gruppo ascoltò per la prima volta l’intero pezzo, che a quel punto avrebbe
anche potuto morire. Stranamente, però, i Van Der Graaf non misero mai in
scaletta questa suite, se non durante l’apparizione alla TV Belga del 1972,
decidendosi a farlo solo nel 2013. Durante il loro primo tour italiano del ‘72,
mentre si recavano in macchina al luogo nel quale si sarebbero esibiti, videro
una folla enorme e chiesero dal finestrino cosa accidenti stesse succedendo.
“Suonano i Van Der Graaf Generator!” fu la risposta. Non se lo aspettavano.
Come già i Genesis e i Gentle Giant, fu infatti nel nostro Paese che raccolsero
i primi grandi consensi di massa. Nonostante ciò quello stesso anno decisero di
sciogliersi, per motivi mai chiariti del tutto. Peter Hammill proseguì con la
sua carriera solista (mai abbandonata, in verità), e nel dicembre di quello
stesso 1972 aprì i concerti de Le Orme, mentre David Jackson, l’anno
successivo, accompagnò in tour un Alan Sorrenti non ancora “figlio delle
stelle”. Nei lavori solisti di Hammill, comunque, gli altri componenti della
band continuavano a partecipare, e nel 1975 il gruppo tornò insieme, sia su
disco che in tour: uscirono Godbluff
(1975), Still Life (1976) e World Record (ancora 1976: album
seguito da un tour che li avrebbe portati per la prima volta negli USA). Dopo
questo breve ma intenso “tour de force” di fatto il gruppo si scioglie di
nuovo: per lo meno, perde Banton, Jackson ed anche la parola “Generator” dal
proprio nome. Torna la chitarra acustica di Hammill (abbandonata nel periodo
’75-’76), mentre il violino sostituisce il sax, con conseguente, inevitabile
mutamento del sound complessivo. Il maestoso organo di Banton, in ogni caso, in
quella che era ormai diventata l’era del punk, sarebbe risultato probabilmente
fuori luogo. I Van Der Graaf Generator manterranno negli anni il loro felice
rapporto con l’Italia: mentre sono in tour dalle nostre parti, nel ’72,
ascoltano volentieri in macchina i gruppi rock italiani: come detto, Peter
Hammill aprirà da solo il tour de Le Orme nel dicembre di quello stesso anno, e
nel 1973, oltre a tornare a farci visita in veste da solista, curerà la
versione inglese del disco “Felona e Sorona” delle stesse Orme. David Jackson
vi aggiungerà anche un sax, ma le sue registrazioni verranno sciaguratamente
cancellate. Paradossalmente, invece, lo stesso David Jackson, pur fuori
dalla formazione del gruppo con violino
e violoncello, è presente su entrambi i dischi pubblicati dai nuovi ‘Van Der
Graaf”: i suoi strumenti a fiato (anche se poco e male) possono sentirsi
infatti sia sul disco in studio del 1977 (The
Quiete Zone / The Pleasure Dome) che in quello dal vivo del 1978 (Vital), mentre il gruppo riesce a
conservare una sua credibilità pur con il cambiare dei tempi: il cantante dei
Sex Pistols, che usava esibire la maglietta con la scritta “Odio i Pink Floyd”,
verrà notato fare la fila per uno show dei Van Der Graaf, mentre gli altri
“dinosauri” del rock più “magniloquente” venivano massacrati o dimenticati
dalle nuove leve della critica musicale. Anche se, in verità, erano sempre Pink
Floyd, Genesis e Led Zeppelin a riempire gli stadi, e non certo i Sex Pistols,
i Damned o i Clash. Con tutto il rispetto, si intende. Ad ogni modo anche
questa incarnazione del gruppo cessa la sua attività nel 1978, per decidersi a
riprenderla quasi trent’anni dopo, nel 2005, con nuovo disco (Present) e relativo tour, nella classica
formazione di Pawn Hearts (io
riuscirò a vederli a Roma e a Taormina). Quello però è anche l’unico anno che
vede David Jackson far parte della band: per motivi mai chiariti i Van Der
Graaf Generator proseguiranno fino ad oggi in trio. Rimanendo insieme, a
volerci far caso, più in tempi recenti che negli anni ’70. I pochi filmati dei
vecchi tempi che ci sono rimasti sono un paio di brani eseguiti al ‘Beat Club’
nel 1970, qualche spezzone in bianco e nero al Bataclan di Parigi del marzo
1972, la mezz’ora alla Tv belga di pochi giorni dopo, i brani di Goodbluff suonati dal vivo a Charleroi
nel 1975 e poco altro del periodo 1977-1978.
ROCK PROGRESIVO
ITALIANO
David
Jackson farà parte degli Osanna in tempi recenti. L’uomo “dal doppio sax” non
ha mai capito perché il pubblico italiano degli anni settanta andasse pazzo per
i gruppi inglesi, dal momento che ha sempre ritenuto quelli italiani di livello
addirittura superiore. E le band italiane dell’epoca (solo successivamente
ricondotte nell’alveo del cosiddetto “rock progressivo”) vedevano infatti tra
le loro fila gruppi di successo internazionale, quali Premiata Forneria Marconi
e Banco Del Mutuo Soccorso, ma anche innumerevoli altri gruppi di grande
qualità, che incidevano dischi (a volte uno solo, in seguito oggetto di culto
per appassionati e collezionisti), quali Biglietto Per L’Inferno (che, a
dispetto del nome, avrebbe visto il suo istrionico cantante, Claudio Canali,
diventare in seguito frate cappuccino), Trip, New Trolls, Delirium (con Ivano
Fossati sul disco d’esordio, Dolce Acqua).
E ancora Quella Vecchia Locanda, Acqua Fragile, Raccomandata con Ricevuta di
Ritorno (ebbene si, andavano di moda i nomi corti), Balletto Di Bronzo,
Rovescio Della Medaglia, Metamorfosi, i Saint Just con la bella voce di Jenny
Sorrenti, Celeste, Reale Accademia Di Musica, Il Volo, Procession, Città
Frontale, Nuova Idea e tanti altri. Oltre ai già citati Osanna e Le Orme. I
Semiramis avevano in formazione un giovanissimo Michele Zarrillo, in seguito
cantante di successo in ambito di musica leggera. Ed anche Giampiero Artegiani,
che avrebbe poi scritto il testo di ‘Perdere l’amore’ per Massimo Ranieri.
Buoni ultimi, ma solo in ordine di tempo, i componenti de La Locanda Delle
Fate, che, con il loro Forse Le Lucciole
Non Si Amano Più, del 1977, avrebbero di fatto chiuso la stagione di questo
genere musicale. Come detto, anche il primo Alan Sorrenti era parte di questo
“movimento” (non solo musicale), al pari del Franco Battiato dei dischi più
sperimentali. Michele Zarrillo partecipò ai vari festival dell’epoca coi
Semiramis e con il loro unico album, Dedicato
a Frazz (nome composto dalle iniziali dei cognomi dei singoli componenti).
Aveva solo 15 anni, ma sembrava più
grande della sua età: alto, con la sua Gibson SG ed una gran massa di capelli ricci,
fece anche in tempo a diventare il cantante del Rovescio della Medaglia, prima
che questa formazione si sciogliesse definitivamente dopo il furto degli
strumenti. Il Biglietto Per L’Inferno pubblicò l’album omonimo nel 1973,
caratterizzandosi per gli accenti più hard rock, la voce e la presenza scenica
del sopracitato Claudio Canali (anche al flauto e al flicorno), e il discreto
successo del brano “Confessione” (“Non posso salvarti dal fuoco eterno, hai
solo un biglietto per l’inferno”). Registrarono anche un secondo disco, prima
dello scioglimento, nel 1975: era Il
Tempo Della Semina, che però vide la luce solo nel 1992, pubblicato dalla
Mellow Records (l’etichetta di gran parte dei dischi dei Malibran) in una
versione che non era quello che avrebbe dovuto rappresentare il prodotto
definitivo, con suono e missaggio non all’altezza. Un lavoro comunque
apprezzabile, anche se inferiore al primo. Non esistono filmati d’epoca del
“Biglietto”: erano stati ripresi dalla TV svizzera, ma non è stato possibile recuperare
quel documento. Una registrazione dal vivo del 1974 (solo audio) è però
riemersa qualche tempo fa, mentre si esibivano nella loro città natale (Lecco)
di spalla agli UFO. Un episodio divertente vide Claudio Canali prendersi un
grande spavento quando, risvegliatosi in macchina al posto del passeggero, vide
il suo collega di band dormire beatamente al volante: terrorizzato, gli urlò di
svegliarsi subito, ma non si era accorto che la loro auto, avendo subito un
guasto mentre lui dormiva, giaceva sopra un carro-attrezzi che procedeva tranquillamente sulla strada.
Un altro episodio esilarante riguardò i Metamorfosi: con il loro ottimo album Inferno avevano trasposto in musica
episodi dalla Divina Commedia, “aggiornando” i dannati descritti da Dante in
più moderni spacciatori di droga, politicanti corrotti, ecc. Alla fine della
rappresentazione il cantante Jimmy Spitaleri (ancora oggi con gli stessi
capelli lunghi e lisci che sfoggiava all’epoca) doveva finire sulla sedia
elettrica: ma in un’occasione, quando scese sotto il palco ( per ricomparire
poi sulla sedia elettrica) si smarrì in un meandro di corridoi, non trovando
più la strada per tornare in scena: e così l’esecuzione finale avvenne senza di
lui! A parte questo piccolo “infortunio” quel disco era molto valido, guidato
dalla voce possente e minacciosa dello stesso Spitaleri e dai lugubri e
maestosi suoni d’organo di Enrico Oliveri, senza che si sentisse affatto la
mancanza della chitarra elettrica. Anche la copertina, con le figure dolenti dei
dannati disseminate non nel fuoco, bensì in un paesaggio ghiacciato, è molto
bella, indovinata e ricercatissima dai collezionisti, molti dei quali sono
giapponesi. Come altri gruppi dei rock progressivo italiano degli anni ’70,
anche i Metamorfosi si sono riformati, e coi Malibran eravamo allo stesso
festival di Andria nel 2006: tra le “vecchie glorie” c’erano anche gli Osanna,
il Balletto di Bronzo e il Banco Del Mutuo Soccorso. Jimmy Spitaleri, tra
l’altro, sarebbe diventato (ma solo per qualche anno) il cantante de Le Orme.
Anche La Locanda Delle Fate è tornata sulla scena, realizzando nel 2010 il suo
dvd ufficiale al Bloom di Mezzago (Milano), dove coi Malibran io stesso ero
stato nel 2003. E pure il Museo Rosenbach si è riunito, sempre con Giancarlo Golzi
(dei Matia Bazar) alla batteria. Purtroppo, anche Joe Vescovi dei Trip e Golzi
del Museo ci hanno lasciati. I Goblin conobbero il successo soprattutto grazie
alle colonne sonore che resero ancora più tenebrosi i film di Dario Argento (Profondo Rosso in primis). Tante di
quelle band degli anni ‘70 sono tornate, mentre alcune non si sono mai sciolte.
C’è però da chiedersi se siano ancora sufficientemente credibili Le Orme senza
la voce ed il basso di Aldo Tagliapietra, il Banco senza la voce ed il volto di
Francesco di Giacomo o la PFM senza Franco Mussida. Figure troppo
“identificative” perché la loro assenza (avvenuta per ragioni diverse) possa
non lasciare il segno. E questo, beninteso, senza nulla togliere al rispetto
dovuto alla voglia di continuare e di rimettersi in gioco di tutti questi
storici gruppi. Del 1973 è anche il terzo album del Banco, Io Sono Nato Libero (il primo con Rodolfo Maltese alla chitarra,
seppure in veste di ospite), ispirato, nel suo splendido ‘Canto Nomade Per Un
Prigioniero Politico’, al golpe militare avvenuto quello stesso anno in Cile.
Ma ricordato soprattutto per il successo della più accessibile (ma pur sempre
bellissima) ‘Non Mi Rompete’. Fuori dal coro, non possiamo dimenticare gli
incredibili (e non facilmente etichettabili) Area, guidati dalla stupefacente
voce di Demetrio Stratos (purtroppo spentasi per sempre nel 1979). E, in un
ambito più accostabile al jazz rock, gruppi quali Il Perigeo (che i Weather
Report non vollero più come gruppo spalla, perché ritenuti troppo bravi!), Il
Baricentro e Napoli Centrale (con il sax di James Senese, che avrebbe
introdotto nella band un giovane Pino Daniele come bassista). Tornando per un
attimo a Demetrio Stratos (già ne “I Ribelli” all’epoca del “beat” degli anni
‘60), quando si ammalò e venne ricoverato a New York nel 1979, all’Arena Civica
di Milano si tenne un concerto (poi divenuto anche un disco) che riuniva una
moltitudine di artisti per raccogliere fondi al fine di pagare le cure mediche
necessarie. Quando però giunse la notizia della morte di Stratos (Demetrio era
il cognome e Stratos il nome, contrariamente a quanto si potrebbe pensare),
quel concerto si trasformò in una raccolta fondi per la vedova. Anche in
quell’occasione non mancarono né il Banco, né la PFM.
PREMIATA FORNERIA
MARCONI
La
Premiata Forneria Marconi (PFM) aveva mosso i suoi primi passi già negli anni
’60, chiamandosi ‘I Quelli’, suonando nei brani di grande successo di Mina e
Battisti, ma ottenendone molto poco a proprio nome. Curiosamente, anche il futuro
comico Teo Teocoli fu per un breve periodo il loro cantante. E furono sempre
loro (non ancora PFM) a suonare su La
Buona Novella di Fabrizio De Andrè, nel 1970, prima del loro rinnovato
connubio per il tour a cavallo tra ’78 e ’79, di enorme successo (così come il
disco dal vivo che ne sarebbe stato tratto). Con l’ingresso di Mauro Pagani
(flauto e violino) e l’esplosione del nuovo “verbo” musicale (in seguito
denominato “Prog”), la band prese il nome di ‘Forneria Marconi’, con l’aggiunta
di ‘Premiata’ (quella forneria esisteva davvero, tra l’altro) e cominciò ad
aprire i concerti dei grandi gruppi stranieri di passaggio in Italia (Yes, Deep
Purple, ecc.). Erano soliti suonare pezzi famosi di gruppi quali King Crmson,
Focus e Jethro Tull, più loro improvvisazioni interamente strumentali. Quando
finalmente eseguivano il loro unico pezzo cantato in italiano (‘La Carrozza di
Hans’), il pubblico capiva che non si trattava di una band inglese, ma
italianissima! Erano già famosi prima di pubblicare un disco. Nel 1971 ‘La
Carrozza di Hans’ (composta da Mussida mentre guidava) sarebbe uscita come lato
B del loro primo singolo: il lato A conteneva invece quello che si sarebbe
rivelato il loro più grande successo di sempre: quella Impressioni di Settembre che, con il suo celebre motivo di Moog al
posto di un più canonico “ritornello”, ed il bellissimo testo di Mogol, sarebbe
diventata il simbolo stesso di un’epoca. Nel 1972 sarebbe uscito il loro primo
disco, Storia di un Minuto, contenente entrambi i titoli del singolo, ma anche ‘E’ festa’ (più nota
nella versione inglese con il titolo di ‘Celebration’), vale a dire l’altro
inno (una sorta di trascinante tarantella prog-rock) della PFM. Era ancora il
1972 quando uscì anche il secondo lavoro, Per
un Amico, altrettanto bello. Anche il gruppo romano Banco del Mutuo
Soccorso, nel corso di quello stesso 1972, riuscì a pubblicare entrambi i suoi
capolavori: B.M.S. (con la famosa
copertina a forma di salvadanaio) e Darwin:
un periodo di creatività veramente incredibile! Per il tema “chiave” di ‘Impressioni
di Settembre’ quelli della PFM cercavano uno strumento adatto, che non volevano fosse né la chitarra, né il flauto.
Trovarono questo strumento appunto nel neo-nato Moog (dal cognome del suo
inventore), un piccolo strumento con tastiera e manopole varie, in grado di
creare questo suono arioso, sintetico, eppure ricco di vivacità e gioia. Lo
scoprirono ascoltando ‘Lucky Man’ degli ELP, ma non avevano i soldi per
acquistarlo. Proposero dunque al rivenditore di farglielo utilizzare per il
brano: se dopo la pubblicazione del singolo il tipo fosse riuscito a venderne
almeno dieci esemplari, loro avrebbero potuto tenere lo strumento senza
pagarlo. E così fu. Anche il mellotron, che, viceversa, simulava soprattutto
“tappeti” d’archi o di ottoni (una sorta di orchestra simulata, tutta dentro
una tastiera molto pesante da portarsi in tour) fu utilizzata in Italia dalla
PFM in anteprima, rispetto agli altri gruppi italiani. E loro si procurarono
questo strumento “soffiandolo” ai New Trolls: il gruppo genovese aveva infatti
prenotato quel mellotron presso un negozio di strumenti musicali, ma quelli
della PFM arrivarono poco tempo dopo, pagarono in contanti e se lo portarono a
casa. Ad ogni modo, con Photos of Ghosts
la band italiana cominciò ad acquisire la sua “statura internazionale”, con la
versione in inglese di alcuni brani dei primi dischi. A quel punto Patrick
Djivas, bassista del primo album degli Area, rimpiazzò Giorgio Piazza: durante
una delle consuete jam session all’Altro Mondo di Rimini, infatti, Franz Di
Cioccio si trovò talmente bene a suonare con lui da proporgli su due piedi di
passare armi e bagagli con loro. E Djivas, più interessato alla musica (e al
crescente successo della PFM) che all’impegno politico degli Area, accettò,
suonando su l’Isola di Niente del
1974, e andando con la band in tour negli Stati Uniti quello stesso anno. Il
disco Live in USA documentò questa
esperienza incredibile, con un gruppo italiano, che, senza pizza e mandolini,
era in grado di fare bene quanto gli artisti coi quali si ritrovò a
confrontarsi nel corso di vari festival americani, grandi nomi compresi.
Pubblico e giornalisti rimasero a bocca aperta. Diversi pezzi di quel disco dal
vivo furono registrati al Central Park di New York, proprio durante il festival
che vide anche l’ultimo concerto dei King Crimson degli anni ’70. Già nel 1973
la PFM aveva partecipato al noto festival di Reading, in Inghilterra, coi
Genesis in cartellone: ma quella volta “sforarono” coi tempi, e la corrente
elettrica venne staccata dal palco senza tanti complimenti, prima che il gruppo riuscisse a portare a
termine il proprio show. Oltre che in Italia continuarono a suonare all’Estero
(Giappone compreso) fino al 1977. E, tra il 1975 (con l’album Chocolate Kings) e i primi giorni del
1979 ebbero Bernardo Lanzetti (già vocalist degli Acqua Fragile) come cantante
“di ruolo”. Furono anche l’unico gruppo italiano ad esibirsi al noto programma
musicale della TV inglese ‘The Old Grey Whistle Test’. Mauro Pagani lasciò la PFM senza astio nel
1976 (per inciso l’astio ci fu invece con Lanzetti), sostituito prima da Greg
Bloch (solo per l’album Jet Lag e
relativo tour, nel 1977), e in seguito da Lucio Fabbri (dal 1979 in avanti).
Furono quasi sempre presenti ai vari festival che si svolsero in Italia in
quegli anni: uno dei più noti fu quello del Parco Lambro, tenutosi dal 1974 al
1976.
I FESTIVAL DI ROCK
PROGRESSIVO E GLI AREA
Ma,
PFM a parte, i festival di musica “progressiva” che si susseguirono nel nostro
Paese furono tantissimi. Solo per citare i più noti: Terme di Caracalla, Re
Nudo, Avanguardia e Nuove Tendenze (a Viareggio nel 1971, a Roma nel 1972) e
Villa Pamphili. Con la possibilità per tantissimi gruppi di mettersi in mostra
(alcuni pur senza essere riusciti a pubblicare un solo disco) anche a fianco di
ospiti stranieri quali i Van Der Graaf Generator. Durante uno di questi
festival, nel 1972, durante le prove del suono di questi ultimi, Peter Hammill
stupì tutti (compreso Francesco Di Giacomo) coi suoi vocalizzi al microfono,
senza alcun accompagnamento strumentale. In qualche modo l’edizione 1976 del
Parco Lambro sancì la fine di tutto, con politica, droga, scontri,
polemiche e “cattive vibrazioni” a
prendere il sopravvento sulla musica. Proprio come era avvenuto nel 1970
all’Isola di Wight rispetto al festival di Woodstock dell’anno precedente.
Beppe Crovella, tastierista degli Arti e Mestieri (apprezzata band in bilico
tra jazz-rock e prog, appartenente al giro degli Area e della loro etichetta
‘Cramps’) ebbe modo, per qualche bizzarra coincidenza, di vedere nel 1972, in
Italia, sia i Genesis che i Van Der Graaf Generator proprio nelle loro due esibizioni più strane: era infatti tra il
pubblico in occasione del concerto che i Genesis tennero praticamente senza
Tony Banks (in cattive condizioni di salute), quando riuscirono ad eseguire
solo quattro pezzi. Ed assistette anche all’esibizione dei VdGG che vide la
band di Peter Hammill costretta ad un improvvisato show acustico a causa della mancanza della corrente
elettrica. In seguito Crovella avrebbe fondato l’etichetta ‘Electromantic
Music’, pubblicando anche qualcosa dei Malibran (un cd ed un dvd). I
citati Area erano dei talentuosi
musicisti che si erano ritrovati a suonare insieme per un brano dell’album
solista di Alberto Radius (chitarrista dei Formula 3, il gruppo che
accompagnava Lucio Battisti). Il brano si intitolava proprio ‘Area’, e da lì
partì il progetto. Con Patrizio Fariselli alle tastiere, Giulio Capiozzo alla
batteria, Paolo Tofani alla chitarra, Patrick Djivas al basso più Stratos alla
voce e Busnello ai fiati, diedero alle stampe il loro primo LP nel 1973,
intitolandolo con la stessa scritta (Arbeit
Macht Frei) che campeggiava sopra il campo di concentramento di Auschwitz
(che, tradotto, significava beffardamente “Il lavoro rende liberi”). Schierati
apertamente a favore della causa palestinese, composero quello che sarebbe diventato
subito il loro inno: ‘Luglio, Agosto, Settembre (nero)’. Quando Djivas passò
alla PFM, venne sostituito dall’altrettanto bravo Ares Tavolazzi (che in
seguito avrebbe lavorato anche con Francesco Guccini). La musica degli Area era complessa, e spaziava
tra jazz-rock, musica elettronica, balcanica, etnica (la futura “world music”)
e popolare (“International Popular
Group” era la dicitura posta sotto il nome del gruppo). Viceversa, la band non
avrebbe mai amato di vedersi ricondotta nell’alveo del “progressive rock”.
Inoltre, come la PFM, anche gli Area si riferivano a sé stessi in terza persona
(“Area ha detto”, “Area ha fatto”…). Quel tipo di composizioni molto articolate
non avrebbe potuto lasciare molto spazio alla voce di Demetrio Stratos, figura
imponente e dai lunghi capelli sfilacciati Ma lui riusciva ad inserirsi
comunque, anche perché spesso si esprimeva con vocalizzi senza parole, come se
la sua voce fosse uno strumento come gli altri. Aveva studiato (ed insegnato)
tutte le possibilità e le potenzialità della voce umana, e, dopo aver lavorato
sugli antichi canti delle popolazioni mongole, era anche in grado di emettere
due voci contemporaneamente. Di certo è stata la voce maschile più
impressionante della musica italiana. Stratos era di origini greche, ma si era
trasferito in Italia da piccolo, ed aveva uno spiccato accento romagnolo. Ne
‘La Luna Rossa’ cantava in greco, mentre
ne ‘La Mela Di Odessa’ (con tanto di mele vere morsicchiate sul palco)
raccontava una storia, più che cantarla. Sempre impegnati politicamente, gli
Area si presentavano in scena con il pugno alzato prima di cominciare a
suonare, e terminavano lo show con una
stralunata versione de ‘L’Internazionale’: e questa volta era il pubblico
ad ascoltarli con il pugno alzato. Spesso si esibivano gratis alle Feste
dell’Unità. Durante il brano “Lobotomia” (come testimoniato dal film sul Parco
Lambro ’76) Patrizio Fariselli scendeva tra il pubblico portando con sé un
cavo, collegato alle “diavolerie” elettroniche di Paolo Tofani: quando le
persone toccavano questo cavo, venivano emessi suoni di diversa “altezza” ed
intensità, permettendo così alla band di “interagire” con il pubblico e di
farlo in qualche modo partecipare in prima persona alla performance. Il disco Crac! del 1974, con l’ uovo rotto da un cucchiaino in copertina,
rimase il loro disco più accessibile e con brani strutturati in maniera più
“canonica”: soprattutto con la scanzonata (e si fa per dire) ‘Gioia e
Rivoluzione’, nella quale Stratos cantava “Il mio mitra è un contrabbasso che
ti spara sulla faccia”. Molto complesso, ma formidabile, il basso di Tavolazzi
sui brani di altri dischi, come ‘Il bandito del Deserto’ (sull’ultimo LP degli
Area con Demetrio) e ‘L’Albero Di Canto’ (sul disco solista di Mauro Pagani).
Nel 1977 la RAI TV trasmise uno speciale in bianco e nero con gli Area
impegnati a presentare il loro album Maledetti!,
pubblicato l’anno precedente. Però non c’erano né Tavolazzi al basso né
Capiozzo alla batteria: al posto di quest’ultimo compariva un giovane Walter
Calloni, che pochi anni dopo sarebbe entrato nella PFM, quando Di Cioccio passò
dai tamburi al microfono (proprio come Phil Collins coi Genesis!). Demetrio
suonava anche l’organo Hammond, e spesso, quando gli Area suonavano insieme
agli Arti e Mestieri, lui e Beppe Crovella (che il sottoscritto conosce bene)
si prestavano a vicenda i rispettivi strumenti. Anche Francesco Di Giacomo mi
ha parlato con nostalgia delle conversazioni avute insieme a Demetrio dietro al palco di qualche concerto. L’ultimo
album degli Area con la voce di Stratos fu Gli
Dei Se Ne Vanno, Gli Arrabbiati Restano, del 1978. E quello stesso anno gli
Area parteciparono al primo disco di
Mauro Pagani. Quest’ultimo in seguito collaborò con Fabrizio De Andrè, tornando
con la PFM solo per il “Concertone” romano del 1998 in Piazza S. Giovanni, e
poi per la speciale reunion di Siena del 2003: uno spettacolo intero in Piazza
del Campo, pubblicato sia su cd che su dvd. Gli Area andarono a suonare in
Portogallo (esiste un disco che documenta questa loro “trasferta”) e con Mauro
Pagani furono anche a Cuba. Di recente si sono esibiti di nuovo con l’ex PFM in
veste di ospite, dal momento che anche loro si sono riformati: Fariselli,
Tavolazzi, un giovane batterista e Tofani. Quest’ultimo, Hare Krishna dagli
anni ’70, appare oggi calvo e piuttosto ingrassato, ma anche molto simpatico.
Io ho avuto modo di vederli nella formazione in trio, con Giulio Capiozzo, ma
senza Paolo Tofani. Nel 1995 ho parlato e mi sono fatto fare una foto con lo
stesso Capiozzo, batterista originale degli Area, nonché studioso di
percussioni, purtroppo scomparso qualche anno dopo. Memorabile rimane comunque il gigantesco
concerto organizzato all’Arena Civica di Milano nel 1979, che vide sul palco,
tra gli altri, gli stessi Area omaggiare in versione solo strumentale il
talento e la personalità del loro vecchio compagno.
GENESIS (II)
Ma
lasciamo l’Italia: come già avvenuto nel caso di Ian Gillan con i Deep Purple,
anche Peter Gabriel, coi Genesis, annunciò con largo anticipo che avrebbe
lasciato la band alla fine del tour in corso. In questo caso, come accennato,
si trattava dei concerti che promuovevano il disco The Lamb Lies Down on Broadway: dal vivo il doppio album veniva
presentato nella sua interezza, come una sorta di musical rock multimediale
(una storia unica con le immagini dei tre maxischermi dietro la band, i costumi
di Peter e la scenografia tutta dipinta di nero). Il disco però uscì in ritardo
e, soprattutto negli USA, il pubblico non riusciva a raccapezzarsi con quella
musica mai sentita prima e quella storia claustrofobica ed incomprensibile. Soltanto in seguito si
sarebbe capito che si trattava di un autentico capolavoro. All’epoca, però, la
gente avrebbe voluto ascoltare i pezzi dei vecchi album. E veniva accontentata
soltanto durante il bis finale, con ‘The Musical Box’ e ‘Watcher of the Skies’
( solo in qualche occasione anche con ‘The Knife’). Alla fine di ogni concerto
tutti andavano dietro le quinte a complimentarsi con Peter Gabriel per la sua
grande performance, ignorando il resto della band. E lasciando Phil Collins a
rimuginare cose del tipo: “Ehi, ma che succede? Siamo un gruppo, abbiamo
suonato bene, io ho dato il massimo, e ora vanno tutti da Peter?” In qualche
modo la carriera solista di quest’ultimo era già cominciata, e nella band
qualcosa si ruppe. La tensione era nell’aria. Io stesso ho avuto modo di vedere
un manifesto d’epoca recante la scritta: “Peter Gabriel e i Genesis”. Purtroppo
nessuno dei circa cento concerti del tour di The Lamb venne filmato professionalmente. Tra l’altro quella
tournèe partì in ritardo a seguito di uno strano incidente occorso a Steve
Hackett: questi, durante un party, udì qualcuno dire che il tale gruppo non
sarebbe valso nulla senza il suo leader. Nella mente di Steve fu come sentir
dire che i Genesis non sarebbero stati nessuno senza Peter Gabriel. Il suo
pugno si chiuse di scatto sul bicchiere che teneva in mano, in un impulso
rabbioso, e il chitarrista si ritrovò all’ospedale. Fra l’altro, al parto
difficile di quel disco si sovrappose quello (non in senso figurato) della
moglie di Gabriel: la loro figlia neonata rischiava di non sopravvivere, ed era
finita in un’incubatrice. Peter mise al primo posto la famiglia rispetto al
gruppo, e non trovò la comprensione che
si sarebbe aspettato da parte degli altri. Doveva guidare per molti chilometri
tra l’ospedale e lo studio di registrazione, in Galles, per portare a termine
il nuovo disco. E si sobbarcò la stesura di tutti i testi, dal momento che
l’idea dell’intero progetto era sua. Qualcosa tra lui ed il gruppo (ed in
particolare tra lui e Tony Banks) si spezzò proprio in quei giorni. La
separazione era di fatto già avvenuta. La carriera solista di Peter Gabriel
avrebbe avuto inizio nel 1977. Quella di Steve Hackett nel 1975, mentre era
ancora nella band. Quella di Mike e Tony nel 1979. Quella di Phil Collins, con
un inaspettato successo planetario che sorprese i suoi stessi compagni, nel
1981, con Face Value e la hit ‘In the
Air Tonight’.
PINK FLOYD
Uno
show in qualche modo assimilabile a The
Lamb (un’unica storia, un doppio album portato per intero in concerto come
una sorta di musical rock, immagini proiettate, vari personaggi, ecc.) fu The Wall dei Pink Floyd, in tour tra il
1980 ed il 1981 per una ventina di spettacoli in poche città. A differenza dei
Genesis, però, i Floyd non avrebbero concesso alcun bis, e dopo il roboante
crollo finale del muro (costruito man mano durante lo spettacolo, fino a
nascondere gli stessi musicisti al pubblico) si andava tutti a casa. Di fatto
fu questo l’atto finale della band insieme a Roger Waters (autore di tutto il
progetto), con il tastierista Rick Wright ormai “stipendiato” come gli altri
musicisti esterni alla band. Ed i
componenti del gruppo che, dietro le quinte, nemmeno si parlavano più. Lo
spettacolo era comunque grandioso, e David Gilmour ne era anche il direttore
artistico. Il successivo The Final Cut,
pur pubblicato a nome Pink Floyd, può essere considerato quasi un album solista
di Waters, con l’apporto di Gilmour (che canta in un solo brano) e Mason (che
non suona neanche su tutti i pezzi). Né il disco fu supportato da alcun tour.
Molto diversa era la situazione quando la band mosse i suoi primi passi, dopo
la metà degli anni ‘60: David non c’era ancora (sarebbe entrato nei Floyd solo
con il secondo disco, A Saucerful of
Secrets), ed il gruppo era guidato dal geniale Syd Barrett, chitarrista,
cantante e compositore. Fu con Barrett che il gruppo firmò per la EMI e
pubblicò i primi singoli, fino al caleidoscopico album d’esordio del 1967: una
spruzzata di colori e creatività psichedelica tradotta in musica. Fu lo stesso
Syd a dare alla band il nome Pink Floyd, dai nomi dei bluesmen di colore Pink
Anderson e Floyd Council (famosi solo per questo, in verità!). Il gruppo si
esibiva spesso all’ Ufo Club di Londra, dalla notte all’alba, davanti ad un
pubblico di giovani che vivevano appieno l’era della “Swinging London” tra
diapositive colorate, droghe di ogni tipo, abbigliamenti stravaganti o nudità
artisticamente dipinte: insomma, la cornice ideale per la musica ipnotica dei
primi Floyd, che sarebbe bastata da sola a trasportare i presenti in un altro
mondo, senza neanche che si capisse quale strumento creasse un suono piuttosto
che l’ altro: lunghissime improvvisazioni strumentali, volutamente poco
intellegibili e del tutto fuori dai canonici schemi della forma canzone,
rimanendo sempre esclusi i singoli che li avevano resi conosciuti al pubblico,
come ‘Arnold Layne’ e ‘See Emily Play’. Con Barrett i Pink Floyd furono anche
in tour negli USA e insieme a Jimi Hendrix. Poi però avvenne qualcosa:
semplicemente (e tristemente) il giovane, bello e talentuoso Syd Barret
impazzì. Forse qualche dose di eccessiva di LSD (che comunque in quei contesti
era di uso comune) aveva aggravato una qualche latente forma di malattia
mentale. Fatto sta che, quando a qualcuno fu chiesto di andare a cercare Syd,
che sembrava scomparso, questi fu trovato a casa. E non era più lui. Il suo
sguardo era spento, come se all’interno della sua testa qualcuno avesse premuto
un interruttore: “click”, ed il giovane Barrett, talentuoso, creativo e
simpatico, non c’era più. E mai sarebbe tornato. Gli altri del gruppo tentarono
di tenerlo ancora nella band, ma il loro vecchio compagno magari non si presentava
ad un concerto, oppure rispondeva in modo sconnesso durante qualche intervista
televisiva. In un’occasione non mosse le labbra quando avrebbe dovuto mimare un
brano in playback. Durante qualche concerto lasciò anche il braccio a penzolare
sulla chitarra senza prendere accordi, facendo risuonare le corde a vuoto e
producendo solo un gran rumore. Non era più possibile controllarlo. Così, una
volta, quando arrivò il momento di andare a prendere Syd per una serata, gli
altri Floyd decisero che sarebbe stato meglio lasciarlo a casa e sbrigarsela da
soli, liberandosi dall’ansia di non sapere quel che avrebbe potuto combinare.
Waters e Mason avevano studiato insieme architettura al Politecnico di
Cambridge, mentre Syd e David Gilmour erano amici ed avevano fatto anche un
viaggio insieme in Francia. Così fu Gilmour
a prendere il posto di Barrett. Come si disse allora, “i Pink Floyd non
sarebbero mai nati senza Syd Barrett, ma non avrebbero potuto continuare con
lui”. Eppure uno schiacciante senso di colpa avrebbe per sempre graffiato
l’anima degli altri componenti del gruppo, che sentirono di aver abbandonato
l’amico nel momento del bisogno. E, nonostante Syd compaia di fatto solo sul
primo disco dei Floyd (The Piper at the
Gates of Dawn), la sua eredità avrebbe in qualche modo “contaminato” tutta
la loro carriera, contribuendo al loro successo planetario: Gilmour cominciò a
suonare nella band utilizzando lo stile ed i “trucchi” chitarristici di Barrett
(venati, però, da uno stile più blues e, con il tempo, più elegante e
personale); la follia della quale si parla in The Dark Side Of The Moon (1973) è quella di Syd. In Wish You Were Here (1975) si parla
ancora di lui; lo stesso può dirsi per quanto riguarda The Wall (sia il disco che il successivo film del 1982). In qualche
modo Syd Barrett è rimasto sempre nei Pink Floyd. Proprio durante le
registrazioni del disco Wish You Were
Here ad Abbey Road (i ben noti studi delle strisce pedonali sulle quali
sfilavano i Beatles nella loro famosissima copertina) i Floyd videro Barrett
per l’ultima volta. E all’inizio nemmeno lo riconobbero. Il bel giovanotto dai
capelli ricci e dallo sguardo ammaliante era diventato un uomo grasso e calvo,
con sopracciglia rasate (come il protagonista del film ‘The Wall’), lo sguardo
perso nel vuoto ed una stupida busta di
plastica in mano. “Ma lo sai chi è quello?”. “No, chi diavolo è?”. “E’ Syd”.
Roger Waters si mise a piangere. Gli fecero ascoltare in sala regia ‘Shine on
You Crazy Diamond’ (“Brilla, diamante pazzo”), che era dedicata a lui. Ma Syd
non diede l’impressione di capire molto. E quando andò via, vedendo che stava
cercando un passaggio, qualcuno dell’entourage dei Floyd si abbassò nella
macchina per non farsi notare: come sostenere una conversazione con quello
strambo soggetto, riportandolo a casa? Non lo avrebbero rivisto mai più. Nel
1982 un giornalista tedesco riuscì con una scusa ad introdursi in casa sua e a
rivolgergli delle domande. Ma ottenne solo delle risposte prive di senso. I
negozi di tutto il mondo continuavano a vendere i dischi dei “suoi” Pink Floyd,
divenuti frattanto uno dei gruppi più famosi della storia della musica, e lui
non ne era consapevole. Sarebbe morto
nel 2006. Nel 2005, ad Hyde Park, in occasione del “Live 8”, Bob Geldof riuscì
a convincere i Pink Floyd a riunirsi per un ultima volta: Dopo The Final Cut infatti Waters aveva
scatenato una guerra legale contro i suoi ex compagni, al fine di impedire loro
l’utilizzo del nome della band. Ma aveva
perso la causa, e gli altri Floyd riuscirono a registrare ancora qualche disco
(due in studio e due dal vivo), questa volta sotto la guida di Gilmour. Il
sottoscritto ha avuto modo di vederli a Roma nel 1988 (la stessa estate nella
quale ho potuto anche vedere anche Deep Purple e Jethro Tull). Purtroppo, ai
concerti dei Pink Floyd si sentiva la
mancanza di Roger Waters e viceversa. Ma al Live 8 avvenne il miracolo: Gilmour,
Waters, Mason e Wright furono di nuovo insieme sul palco per la prima volta dai
tempi di The Wall, ed eseguirono
‘Breath’, ‘Money’, ‘Wish You Were Here’ e ‘Comfortably Numb’, con abbraccio
finale (forse un po’ forzato, ma sollecitato dallo stesso Waters) a favore dei
fotografi. E naturalmente non mancò neppure in questa occasione la dedica di
Roger a Syd Barrett. L’anno seguente,
durante la seconda parte della scaletta del tour solista di David
Gilmour per la promozione del suo On a
Island, si sarebbe potuto ancora assistere a qualcosa di simile ad uno show
dei Pink Floyd, con una formazione non troppo diversa da quella del tour di Division Bell del 1994. E con
un’emozionante versione di ‘Echoes’, con le voci di Gilmour e Wright di nuovo
fuse insieme, proprio come nel film ‘Pink Floyd a Pompei’, girato
nell’anfiteatro dell’antica città nel corso dell’ottobre 1971 ed uscito l’anno
seguente. Purtroppo anche Rick Wright, così in forma durante quella tournèe del
2006, sarebbe venuto a mancare due anni dopo. E in tempi più recenti, in
omaggio allo stesso Wright, sarebbe uscito The
Endless River: di fatto una raccolta di “avanzi strumentali” provenienti
dalle sessions di The Division Bell,
che avrebbe scritto la parola fine alla straordinaria storia dei Pink Floyd.
LED ZEPPELIN (III)
I
Led Zeppelin, invece, avrebbero potuto andare avanti dopo la morte di John
Bonham, avvenuta nel settembre del 1980. Ma decisero di non farlo,
semplicemente perché ritennero che “Bonzo” non fosse sostituibile. Il loro
talento, unitamente all’ inspiegabile aura magica che permea i loro brani,
rende la loro musica attuale ancora oggi. In realtà dal 1994 al 1998 Jimmy Page
e Robert Plant avevano unito le forze, mettendo da parte le reciproche
incomprensioni, pubblicando due dischi,
un fantastico video-concerto e girando il mondo in tra il 1995 ed il 1996 con
due orchestre al seguito: quella egiziana li seguiva in tour, mentre l’altra
veniva assoldata nelle varie città presso le quali si sarebbero esibiti. Venne
confermata la sezione ritmica che era con Robert Plant già dal 1993 (mentre
Page lavorava con David Coverdale), e cioè Michael Lee alla batteria e Charlie
Jones al basso. Nel 1998 invece, a supporto del nuovo disco Walking into Clarksdale, si esibirono solo in quattro, tutti
vestiti di nero, con Philip Andrews alle tastiere. Mancava John Paul Jones, ma
fu qualcosa di molto simile ad una reunion degli Zeppelin già prima di quella
“ufficiale” del 2007: in quegli anni, nonostante si presentassero sotto il nome
di “Page & Plant”, infatti (per non far torto a Jones, e soprattutto a
Bonham) la scaletta comprendeva quasi interamente brani del vecchio repertorio,
a partire (nel 1995) dal devastante ‘intro’ di ‘Immigrant Song’, per
concludersi con l’epica ‘Kashmir’. Non mancava neanche una lunga versione di
‘Whole Lotta Love’, compresi gli stregoneschi giochi spaziali di Page al
Theremin. Fu invece rigorosamente esclusa ‘Stairway To Heaven’, probabilmente
per volontà di Robert, che ebbe con quel brano un rapporto sempre controverso
(veniva soltanto accennata alla fine di ‘Babe I’m Gonna Leave You’, lasciando
così intendere che non la si sarebbe eseguita per intero durante il concerto).
In Giappone, all’inizio del ’96, tirarono fuori anche brani come ‘Achilles Last
Stand’, ‘Tea For One’, ‘Custard Pie’ e ‘The Rain Song’, con Robert e Jimmy in
forma davvero smagliante. Tra parentesi, i brani ‘Tea For One’, ‘Wearing And
Tearing ‘(a Knebworth ’90, con Page ospite di Plant) e ‘For Your Life’ (alla
reunion del 2007) non erano mai stati eseguiti dai Led Zeppelin ancora in
attività. E per la reunion del dicembre 2007, con il figlio di Bonham alla
batteria, ricevettero 20 milioni di richieste per i 20 mila posti che poteva
offrire la O2 di Londra, la location che avrebbe ospitato il loro show. Per la
prima volta Jimmy Page comparve coi capelli bianchi legati in un codino. Io
avevo visto Plant pochi mesi prima al Teatro Antico di Taormina, e non erano
mancati ben sei pezzi degli Zeppelin. Ma alla O2 fu davvero un’altra cosa. La
loro carriera non fu però tutta rose e fiori. E qualcuno sostiene che ciò fu
causato dall’interesse di Page per l’occultismo: come detto, il tour del 1975
(l’ultimo in cui eseguirono ‘Dazed and Confused’) fu interrotto a causa
dall’incidente stradale nell’isola di
Rodi che avrebbe costretto Plant alla sedia a rotelle prima, e alle stampelle
poi (e fu in queste condizioni che il vocalist avrebbe registrato l’album Presence); il tour del 1977 venne
funestato da una brutta rissa avvenuta dietro il palco ad Oakland (California),
che vide coinvolti sia Bonham che Peter Grant,
con conseguenti strascichi legali. E fu definitivamente cancellato poco prima
della data successiva, quando Robert Plant apprese dalla moglie della morte
improvvisa del figlio Karak. Infine, il tour americano previsto per il 1981 non
si svolse mai a causa della prematura scomparsa di John Bonham, un batterista
che era stato in grado di lasciare a bocca aperta lo stesso Jimi Hendrix. Gli
Zeppelin tornarono sul palco in qualche rara occasione, ma solo per suonare
qualche pezzo: soprattutto al ‘Live Aid’ del 1985 e per i 40 anni
dell’Atlantic, nel 1988. Io ebbi modo di assistere ad entrambi gli eventi in
diretta televisiva, e fu davvero una grande emozione. In particolare per il
‘Live Aid’, dal momento che fino a quel momento non avevo ancora avuto modo di
vedere i Led Zeppelin in azione (non avendo visto il film). Jimmy, che era in
tour con i Firrm insieme a Paul Rodgers, portava una maglietta a righe ed una
lunghissima sciarpa bianca, mentre Robert Plant indossava una camicia azzurra.
Phil Collins li presentò (erano tutti allo stadio JFK di Philadelphia) e poi
suonò con loro. Purtroppo Jones non venne quasi mai inquadrato, Collins non
conosceva bene i brani (‘Rock and Roll’, ‘Whole Lotta Love’ e ‘Stairway to
Heaven’) e il suono non era dei migliori. Contarono di ‘rifarsi’ per i 40 anni
dell’Atlantic Records a New York 3 anni dopo, ma andò anche peggio. Nonostante,
infatti, sia Page che Plant nel 1988 fossero in tournèe per promuovere i
rispettivi album solisti (Outrider fu
il primo e l’ultimo per Jimmy!) e le prove di New York fossero andate bene,
alla fine la performance (che si aprì con ‘Kashmir’) si rivelò decisamente non
all’altezza, complice anche una pessima qualità del suono che arrivava
attraverso gli schermi televisivi.
L’unica vera reunion per un concerto intero ben riuscito sarebbe stata
dunque quella del 2007, immortalata su dvd. Phil Collins, uno dei nomi
inutilmente tirati in ballo come
possibile sostituto di “Bonzo” nel 1980, come detto suonò con loro al ‘Live
Aid’ e sui primi dischi del Plant solista, oltre a seguire quest’ultimo in tour
negli USA nel corso del 1983. Barriemore Barlow, batterista dei Jethro Tull dal
1971 al 1980, si ritrovò invece dietro ai tamburi sui lavori solisti sia di
Page che di Plant. Nonostante le offerte milionarie seguite all’ evento del
2007, e alle insistenti richieste di Jimmy Page, Robert Plant non avrebbe mai
accettato di riformare i Led Zeppelin.
VAN DER GRAAF GENERATOR (II)
I
molto meno noti Van Der Graaf Generetor, come detto, decisero invece di tornare
insieme: Poco tempo prima Peter Hammill era stato vittima di un infarto, e si
era anche reso conto che stavano partecipando a troppi funerali di componenti
del loro vecchi entourage: se volevano rimettere insieme il gruppo, dunque,
dovevano farlo fino a che erano ancora tutti vivi! Nel 2005 uscì il nuovo disco
(Present), e il 6 maggio, presso la
“Royal Festival Hall” di Londra, partì un tour di 6 mesi, con una fantastica
scaletta che includeva soprattutto i brani dei vecchi tempi: sorprendentemente,
dopo una “pausa” quasi trentennale, il loro suono era ancora quello, come se
non avessero mai smesso. Subito dopo lo show d’esordio si fiondarono
direttamente in Italia, per le date di Milano e Roma (dove li avrei visti per
la prima volta). A novembre, però, David Jackson tenne i suoi ultimi concerti
con la band. Nonostante le perplessità iniziali, anche in trio i Van Der Graaf
riuscirono a mantenere il loro inconfondibile sound, e diedero alle stampe
molto materiale, sia in studio che dal vivo, segno tangibile di una ritrovata
scintilla creativa. Con Hammill e Banton dai capelli bianchi (e con Evans ormai calvo) sono
riusciti a rimanere credibili, e più volte hanno fatto ritorno dalle nostre
parti. Dei pezzi anni ’70, oltre a ‘Lighthouse Keepers’, hanno tirato fuori
anche ‘Meurglys III’ e ‘A Place To Survive’ (entrambi da World Record, il disco che me li ha fatti conoscere). La mancanza
del sax si avverte meno del previsto. Il suono e le immagini di Live At Metropolis Studios (unico show
del 2010), inoltre, sono davvero strepitose, di fronte ad un pubblico
selezionato che aveva attraversato cumuli di neve per raggiungere la location
presso la quale si sarebbero effettuate le riprese!
GENTLE GIANT
Quando i Jethro Tull tornarono in Italia nel 1972, rischiarono seriamente
di farsi “rubare la scena” da quello che era il loro gruppo spalla: i Gentle
Giant. Questi ultimi avevano esordito due anni prima con l’album che li mostrava disegnati in mano
ad un gigante gentile (appunto), pacifico e barbuto: il volto del gigante sarebbe
diventata la loro immagine-simbolo, e la musica contenuta in quel disco era
qualcosa di incredibile: brani splendidi quanto articolati che miscelavano
rock, musica barocca e medievale, con un’infinità di strumenti suonati da
ciascuno dei componenti del gruppo (dal vivo se li passavano l’un l’altro sul
palco!), unitamente a strepitose polifonie vocali. Ian Anderson, con il senno
di poi, avrebbe affermato di aver visto giusto nello scegliere i Gentle Giant
come ‘open act’, riconoscendo a questa formazione inglese il titolo di miglior
gruppo progressive degli anni ’70. Tra l’altro, all’epoca, le formazioni ancora
sconosciute che precedevano le esibizioni di quelle più note venivano a
malapena tollerate: viceversa ai Gentle Giant, in quelle occasioni insieme ai
Jethro Tull, veniva richiesto addirittura il bis! E questo bel rapporto con il
pubblico italiano si sarebbe protratto nel tempo, al punto che qualcuno dei
loro dischi sarebbe stato pubblicato
prima in Italia che in Inghilterra. Lo stesso Ian Anderson rivela poi che,
quasi in contrapposizione alle loro esibizioni formalmente perfette sul palco,
dietro le quinte (e in albergo) i Gentle Giant erano degli autentici pazzi
scatenati. L’album omonimo del 1970 e i successivi Acquiring The Taste (1971),
Octopus (1972), Three Friends
(ancora 1972) e In A Glass House (1973) definiscono ulteriormente il loro suono
complesso e affascinante, pur non riuscendo a riscuotere grande successo in
Gran Bretagna e in America.
Le cose cambiano con l’uscita di dischi più rock (e si fa per dire),
quali The Power And The Glory (1974), Free Hand (1975) ed Interview (1976), seguito dal bel live Playing The Fool, registrato durante un
tour europeo con il Banco del Mutuo Soccorso come gruppo spalla. La formazione
dei Gentle Giant ruota attorno ai fratelli Shulman (per semplificare: Derek
alla voce, Ray al basso e Phil a vari strumenti, fino al suo abbandono nel
1972), cui si uniscono il chitarrista Gary Green ed il tastierista Kerry
Minnear (bravo anche al vibrafono e al violoncello, mentre Ray lascia il basso
al fratello Derek quando è impegnato al violino o alla tromba). I batteristi
che si succedono nel gruppo sono invece tre, ma è John Weathers quello che
rimane più a lungo nella band (dal 1972 al 1980, quando i Gentle Giant decidono
di sciogliersi). Gli ultimi album, The
Missing Piece (1977), Giant For A Day
(1978) e Civilian (1980) si lasciano
sempre più alle spalle lo stile che aveva caratterizzato i dischi dei Gentle
Giant della prima metà degli anni ’70 (influenzando anche i maggiori gruppi
italiani, quali Banco Del Mutuo Soccorso e PFM), in favore di una musicalità
più ordinaria e commerciale (almeno nelle intenzioni). Le vendite però non si
rivelano soddisfacenti, nonostante il gruppo rimanga sempre strepitoso ed acclamato
durante i concerti (compresi gli ultimi, tenuti negli States nell’estate del
1980). Per questo motivo, all’alba del nuovo decennio, i Gentle Giant si
sciolgono, pur rimanendo a lavorare dietro le quinte del mondo musicale. Ma, al
contrario di tanti altri loro colleghi, non torneranno più insieme, se non per
il progetto ‘Three Friends’ (dal titolo del loro vecchio album del 1972), che
riunisce alcuni degli ex membri della band. Con il tempo i gruppo viene
riscoperto e rivalutato, con la pubblicazione di diversi cofanetti, rarità
varie, dvd e cd dal vivo. Giant On The
Box (2004) raccoglie belle esibizioni dal vivo filmate tra il 1974 ed il
1975, mentre il concerto del gennaio 1978, tenuto durante la trasmissione
televisiva ‘Sight & Sound’(che solo l’anno prima aveva ospitato Procol
Harum, Jethro Tull e Supertramp) ci permette di rivederli accompagnati da un
magnifico suono stereo.
YES
E’ ancora Ian Anderson a ricordarsi del cantante di un altro gruppo
spalla dei Jethro Tull, dalla voce esile e dai lunghi capelli neri: quel
cantante era il suo quasi omonimo Jon Anderson, e la band si chiamava
semplicemente Yes. Durante quel tour insieme, nell’aprile del 1971, i Tull
erano all’apice della loro popolarità, avendo appena pubblicato Aqualung, mentre gli Yes erano in
tournèe con loro negli States per promuovere il loro terzo album, intitolato The Yes Album. La band aveva già dato
alle stampe sia il disco d’esordio, intitolato proprio Yes (1969), sotto l’ala protettiva del solito Ahmet Ertegun, boss
dell’Atlantic (lo stesso di Led Zeppelin, Genesis e tanti altri), che li aveva
apprezzati vedendoli dal vivo a Londra. Jon Anderson, che lavorava in un bar
proprio sopra il Marquee Club, aveva conosciuto e trovato sintonia con il
bassista Chris Squire. A loro si erano uniti il tastierista Tony Kaye, il
batterista Bill Bruford ed il chitarrista Peter Banks, cui si deve il nome Yes.
Il logo del nome del gruppo era riprodotto anche sulla pelle della cassa della
batteria di Bruford e sulla chitarra dello stesso Banks, ma non era lo stesso
di quello reso poi celebre da Roger Dean, illustratore ‘fantasy’ dei loro album
successivi. Subito dopo il loro secondo disco (Time And A Word, 1970) Peter Banks lascia il gruppo, sostituito da
Steve Hove: nel videoclip del brano ‘Astral Traveler’ è presente quest’ultimo,
che mima però la chitarra suonata in realtà da Banks. Dopo Close To The Edge
(contenente l’omonima, magnifica suite) anche Bruford abbandona per unirsi ai
King Crimson, e Alan White (ex batterista della ‘Plastic Ono Band’ di John
Lennon) fa in tempo ad unirsi agli Yes per il celebre Yessongs (disco live e relativo film) che, con Rick Wakeman alle
tastiere al posto di Tony Kaye, porta il gruppo al successo definitivo e alla
formazione ritenuta unanimemente quella “classica” del gruppo. Ancora a
proposito di incroci, Wakeman collabora alla registrazione del disco dei Black
Sabbath del 1973 (Sabbath Bloody Sabbath),
per tornerare negli Yes alla fine degli anni ’70. Questa stessa line up
(Anderson, Howe, Squire, Wakeman e White) verrà nuovamente immortalata 30 anni
dopo nei bellissimi dvd di Montreux 2003 e Lugano 2004, ancora in ottima forma
e in grado di eseguire perfettamente i vecchi classici. Tra questi, anche il
lungo brano ‘Awaken’ (tratto da Going For
The One, del 1977), il preferito da Jon Anderson tra tutti i pezzi della
lunghissima carriera degli Yes, che è arrivata fino ai giorni nostri,
nonostante i vari cambiamenti di formazione. A metà degli anni ’70, infatti,
alle tastiere troviamo lo svizzero Patrick Moraz. E, nel 1980, per l’album Drama, addirittura il cantante ed il
tastierista che formavano i Buggles, noti per la celebre hit ‘Video Killed The
Radio Star’, del tutto lontana dagli stilemi del progressive rock. Eppure
questo pur provvisorio connubio funziona, e gli occhiali tondi e giganti del
nuovo vocalist Trevor Horn faranno bella mostra di sé anche sulla Tv italiana,
dal momento che un estratto di quel disco diverrà la sigla d’apertura della
seguitissima trasmissione televisiva ‘Discoring’ (ed il sottoscritto, come
tanti altri, se la ricorda bene!). Lo stesso Horn si ripresenta in veste di
produttore per l’album del 1983 intitolato 90125,
trascinato dal successo stratosferico del singolo ‘Owner Of A Lonely Heart’,
con il suo riff d’apertura divenuto famoso più o meno quanto quello di ‘Smoke
On The Water’ dei Deep Purple! E questa volta, alla chitarra e alla seconda
voce c’è Trevor Rabin al posto di Steve Hove, mentre il primo tastierista degli
Yes è nuovamente della partita. Dopo varie beghe legali, che impediscono agli
Yes di utilizzare il nome del gruppo senza Chris Squire (detentore dei relativi
diritti, ma in quel periodo non più parte del gruppo), con l’Union Tour del
1991 componenti vecchi e nuovi della band si ritrovano a suonare insieme:
abbiamo così sia Steve Hove che Trevor
Rabin alla chitarra, Bill Bruford e Alan White alla batteria, così come pure
Rick Wakeman e Tony Kaye alle tastiere. Ad ogni modo sono sempre i pezzi
“classici” dei primi album (Fragile
compreso) ad entusiasmare il pubblico, qualunque sia la formazione della band:
‘And You And I’, ‘Roundabout’, ‘I’ve Seen All Good People’, ‘Long Distance
Runaround’, ‘Yours Is No Disgrace’, ‘Starship Trooper’ e l’incedibile ‘Heart Of
The Sunrise’, che stupì gli stessi Yes mentre la componevano. Da sottolineare,
inoltre, le bellissime armonie vocali che caratterizzavano tutti quei brani.
Oggi Jon Anderson non è più nella band, sostituito da ‘cloni’ più o meno credibili
(uno proveniente addirittura da una cover band degli stessi Yes), mentre Chris
Squire, dopo un album con l’ex Genesis Steve Hackett, è purtroppo scomparso,
lasciandoci il dubbio se davvero sia il caso che questa autentica icona del
progressive rock insista ancora nel rimanere attiva. Nel 2017, durante l’
ammissione degli Yes alla ‘Rock and Roll Hall of Fame’, Jon Anderson, Steve
Howe, Rick Wakeman, Trevor Rabin e Alan White sono di nuovo insieme per una magistrale
esecuzione di ‘Roundabout’.
FREE
Festival dell’Isola di Wight, Gran Bretagna, agosto 1970. E’ giorno, e
di fronte ad una marea umana si esibisce un gruppo di ragazzi che aveva
partecipato anche all’edizione del festival dell’anno precedente. Questa volta,
però, la band, chiamata Free, si trova all’apice della forma e della
popolarità, a seguito del successo clamoroso del brano ‘All Right Now’, tratto
dal loro terzo disco, Fire And Water,
pubblicato quello stesso anno. I primi due dischi, Tons Of Sobs (1968) e Free
(1969), intrisi di blues venato da riff rock
decisi e graffianti, erano già usciti per l’etichetta Island, senza però
riscuotere consensi immediati, essendo privi di brani in grado di accendere gli
entusiasmi di un più vasto pubblico. Ma già dal primo album la ruvida voce di
Paul Rodgers, il potente basso dell’appena sedicenne Andy Fraser, il preciso
drumming di Simon Kirke e la bollente chitarra Gibson di Paul Kossof lasciavano
intravedere la possibilità di un futuro luminoso per questo giovanissimo
quartetto londinese. All’epoca, non avendo ancora scritto la loro hit più
famosa, riuscivano a riscaldare il pubblico solo a fine concerto con la cover
di ‘The Hunter’ (accennata anche all’interno di ‘How Many More Times’ degli
Zeppelin). Ma questo non sembrava bastare, e una sera, dopo i fiacchi applausi
ricevuti alla conclusione di un loro
concerto, tornarono piuttosto depressi nei camerini dietro al palco. Andy
Fraser, per tirare un po’ su il morale ai suoi compagni (e a sè stesso),
cominciò a canticchiare il verso ‘All Right Now’ (“Ora va tutto bene”): era già
il ritornello del pezzo, cui Rodgers aggiunse le strofe. Così, coi coinvolgenti
brani di Fire And Water (quali Mr.
Big), e le anticipazioni del nuovo Highway (sempre del 1970), quali ‘Be My
Friend’ (splendida ballata) e ‘The Stealer’, all’Isola di Wight per i Free fu
una consacrazione definitiva. Solo tre pezzi del loro set vennero filmati, ma
sono ancora oggi sufficienti a dare l’idea di ciò che quella band riusciva a dare sul palco nel suo
momento di grazia: Paul Rodgers, tutto vestito in nero, capelli lunghi e barba,
impegnato a cantare con la sua voce magnifica, roca eppure perfetta e stracolma
di pathos. Oppure intento a contorcersi sull’asta del microfono e a dimenarsi,
sottolineando coi suoi movimenti gli stacchi e le accelerazioni della musica
che sembrava pervaderlo interamente; Paul Kossoff addirittura in trance durante
i suoi assolo alla Gibson Les Paul, senza l’aiuto di alcun pedale, mentre schiaccia la schiena contro gli amplificatori
Marshall alle sue spalle, spalancando la bocca nell’estasi che lo prende,
mentre Andy e Simon ci danno dentro con impeto, riempiendo tutti gli spazi come
solo un grande gruppo può fare, essendo formato, voce a parte, da soli tre
strumenti. Inoltre Fraser, che sui dischi suona anche piano e mellotron, sul
palco, potendo utilizzare soltanto il
basso, trasforma il suo strumento quasi in una seconda chitarra, producendo
accordi distorti oltre che singole note
(soprattutto mentre Kossoff è impegnato nelle sue parti soliste). Quando
poi, sempre all’Isola di Wight, il concerto si chiude con la già famosa ‘All
Right Now’ , anche la parte del pubblico che era chiuso in tenda a sonnecchiare
viene fuori, e adesso sono tutti in piedi ad applaudire. Centinaia di migliaia
di giovani a tributare la loro approvazione sotto i raggi del sole. E dietro di
loro, l’azzurro del mare: splendido! Il bis, come sempre, sarà ‘Crossroads’, il
brano di Robert Johnson che dà il titolo anche a questo mio libro. Nonostante
il successo ottenuto, nel 1971 di fatto i Free si sciolgono, e la casa
discografica riempie il vuoto con l’immancabile disco dal vivo. Tornano insieme
nel 1972, dando alle stampe Free At Last e
poi Heartbreaker (1973): ma a quel
punto non sono più i veri Free, con un Paul Kossoff (scomparso poi nel 1976)
sempre più assente, un bassista giapponese al posto di Fraser (morto nel 2015)
e l’aggiunta dell’organista John Bundrick. Tutti i filmati dei Free esistenti
(concerti, passaggi televisivi e videoclip) sono relativi al 1970, a parte un
documento di scarsa qualità girato nel 1972 in Giappone con l’ultima line up,
che vede Paul Rodgers impegnato anche alla chitarra elettrica. In seguito sia
quest’ultimo che Simon Kirke faranno parte dei Bad Company, raccogliendo ancora
buoni risultati. Rodgers, vocalist stimatissimo anche dai suoi colleghi
musicisti, formerà, come detto, i Firm insieme a Jimmy Page negli anni ‘80. E,
a parte la sua carriera solista ed un breve ritorno coi Bad Company (che aveva
lasciato nel 1979), si unirà addirittura ai Queen, senza la pretesa di sostituire
Freddie Mercury, ma cantando comunque quei brani (sotto la sigla ‘Queen + Paul
Rodgers’), oltre a qualcosa dei Free e dei Bad Company, mirabilmente
accompagnato da un Brian May che era già un suo fan prima che gli stessi Queen
nascessero.
THE WHO
A proposito dell’Isola di Wight, gli Who (altra leggendaria band
inglese) furono l’unica band (oltre Hendrix) ad esibirsi sia a quel festival,
nel 1970, che a quello di Woodstock dell’anno precedente (agosto 1969). Bob
Dylan, invece, pur abitando nei pressi di Woodstock, aveva deciso di
partecipare all’edizione dell’Isola di Wight di quello stesso anno (1969). Ad
ogni modo gli Who, già attivi dalla metà degli anni ’60, ebbero modo di
presentare in entrambe le occasioni il loro capolavoro: e cioè la versione live
dell’intero Tommy, concept album
contenente un’unica storia, con brani tutti legati tra loro. Un pezzo
intitolato ‘A Quick One’, presentato durante il già citato ‘Circus’ dei Rolling
Stones, aveva già gettato le basi per questo tipo di ricerca musicale più
matura, presentandosi come una mini-suite composta da più frammenti musicali
ben amalgamati tra loro. E Tommy
aveva rappresentato la compiutezza di questa elaborazione maggiormente
complessa del concetto di semplice ‘rock and roll’, finendo per rimanere il
traguardo più alto raggiunto dalla loro pluriennale carriera. Il compositore
era il chitarrista e cantante Pete Townhsend. La voce solista era affidata al
carismatico Roger Daltrey, mentre Keith Moon si scatenava come un ossesso alla
batteria, con John Entwistle a fargli quasi da ‘contrappeso’ con la sua
serafica calma sulla scena (nonostante l’imponenza roboante del suo basso
elettrico). Dopo essere stati per un breve periodo esponenti del movimento
‘Mod’ inglese, con capelli corti e giacche su misura, gli Who trovano il
successo nel 1965 con l’inno generazionale intitolato appunto ‘My Generation’,
che vede un Roger Daltrey cantare balbettando di proposito: è un brano
dall’impatto devastante (più o meno quanto la coeva ‘Sadisfaction’ dei Rolling
Stones), mentre gli insuperabili Beatles si muovevano ancora su musicalità più
morbide e rassicuranti. Nel giro di pochi anni gli Who si trasformano in una
macchina da guerra, capelli lunghi, Townshend che rotea il braccio destro per
fare scena e colpire energicamente la chitarra, Daltrey che, con giacca a
lunghe frange, fa mulinare in aria il microfono trattenendolo per il cavo, e
tutti gli strumenti sfasciati alla fine di ogni show (come in occasione del
‘Monterey Pop Festival’ del 1967). Dopo l’epico Live at Leeds del 1970 (per molti il miglior disco rock di sempre)
e Who’s Next (1971) Pete Townshend ci
riprova con l’opera rock, dando alle stampe Quadrophenia
(1973). Questa volta il progetto si rivela più sofferto del previsto, e lo
stesso Pete finirà per dubitare di riuscire a portarla mai a compimento. Anche
dal vivo il lavoro non ottiene lo stesso successo del suo predecessore, con
Roger Daltrey che, sul palco, perde anche troppo tempo nello spiegare al pubblico
l’evolversi del racconto tra un pezzo e l’altro. Lo stress accumulato porterà
persino Pete e Roger a venire alle mani, mentre uno strambo avvenimento
accaduto durante una data di quel tour non contribuisce certo ad un clima di
serenità relativamente al periodo di Quadrophenia:
infatti, in quell’occasione Keith Moon, che aveva assunto qualcosa di troppo
prima del concerto, dopo qualche brano collassa sulla batteria. Si cerca di
farlo proseguire in qualche modo, ma Moon non è più in sé e viene prima
bloccato da Pete, mentre il batterista si dimena come un ossesso sul palco.
Quindi viene portato via con la forza, con Townshend che chiede al microfono se
tra il pubblico è presente qualche batterista: e così un tizio sconosciuto, che
era andato semplicemente a vedere uno show degli Who, si ritrova a suonare con
loro (!). Esiste anche il filmato di questo tragicomico episodio. Entrambe le
opere rock, Tommy e Quadrophenia, diverranno altrettanti
film: Il personaggio di Tommy (ragazzo sordo, muto e cieco) verrà interpretato
dallo stesso Roger Daltrey nel 1975, mentre nella versione cinematografica di
Quadrophenia (1979) comparirà anche un giovane Sting. Il gruppo ritrova il
successo nel 1978 con Who Are You,
l’ultimo album con Keith Moon, che muore quello stesso anno, sostituito per i
concerti dal vivo e altri due dischi dall’ex Small Faces Kenney Jones. Dopo
l’album It’s Hard uscito nel 1982,
gli Who pubblicheranno un altro disco in studio (Endless Wire) solo nel 2006, ma dal vivo continueranno ad esibirsi
anche dopo la scomparsa di John Entwistle, trovato morto in un albergo di Las
Vegas nell’estate del 2002 e sostituito da Pino Palladino. Saranno presenti
anche al ‘Live Eight’ del 2005 (più noto per la reunion dei Pink Floyd con
Roger Waters) e in occasione della cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici di
Londra del 2012. Gli Who sono attivi
ancora oggi.
TRAFFIC
Come detto, un altro artista
proveniente dalle Midlands inglesi era Steve Winwood, noto soprattutto per
essere stato il leader di quella fenomenale band chiamata Traffic, attiva dal
1967 al 1974, e tornata insieme in occasione della reunion del 1994. Steve era
già diventato famoso a 16 anni, nella veste di cantante dello ‘Spencer Davis
Group’, noto per il successo di ‘Gimme Some Lovin’, che sarebbe divenuto un
vero e proprio ‘evergreen’ per merito della sua festosa ballabilità, unita a
vene di puro soul e ad un ritmo irresistibile. Anche gli stessi Traffic
avrebbero eseguito dal vivo questo brano in più occasioni, nonostante non
facesse parte della loro discografia. Ma la chiave di quella ‘hit’ risiedeva
soprattutto nella fantastica voce del giovanissimo Steve Winwood, già
praticamente uguale a quella degli anni della maturità: un timbro pastoso e
intriso appunto di soul e rhythm and blues, assimilabile a quella dei migliori
cantanti di colore, appassionata, pulita e ricca di sfumature, sia per i brani
più coinvolgenti che per le ballate tranquille. Il primo nucleo dei Traffic si
formò a Birmingham, e, oltre a Winwood, vedeva tra le sue fila l’altra voce dei
Traffic, e cioè quella di Dave Mason, oltre ai fiati di Chris Wood e alla
batteria di Jim Capaldi. Durante la ‘Summer of Love’ del 1967, in piena era
psichedelica, i Traffic, spinti dalla forza della neonata etichetta ‘Island’,
ottennero subito ottimi risultati con alcuni singoli (soprattutto ‘Paper Sun’ e
Hole in my Shoe’), che precedettero l’album d’esordio Mr. Fantasy, pubblicato alla fine di quello stesso anno. Se i primi
45 giri del gruppo ricordavano un po’ i Beatles di quel periodo (lo stesso del
primo disco dei Pink Floyd, anch’esso a tinte fortemente psichedeliche), il
brano ‘Dear Mr. Fantasy’, viceversa, venne ritenuto fonte d’ispirazione per il
quartetto di Liverpool nella loro splendida ‘Hey Jude’ , oltre che
canzone-simbolo di quel coloratissimo scorcio di fine anni ’60. Il celebre
tecnico del suono Eddie Kramer, pur avendo lavorato con nomi del calibro di
Jimi Hendrix e Led Zeppelin, cita proprio la registrazione di questo pezzo come
il ricordo più bello della sua intera carriera. Sul secondo disco, Traffic (1969) Mason si è di fatto già
allontanato dal gruppo (era suo anche il contributo al sitar) per divergenze
riguardanti lo stile musicale, ma contribuisce soprattutto con il brano
‘Feelin’ Alright’ , cantato da lui ed in seguito interpretato anche da Joe
Cocker. Dave Mason otterrà un buon successo dopo il suo trasferimento negli
USA, e si ritroverà più volte in cartellone per i concerti dal vivo con la
nostra PFM. Dopo l’uscita di Last Exit
i Traffic si sciolgono, ma quello che sarebbe dovuto diventare un album solista
di Steve Winwood, John Barleycorn Must
Die (1970) viene invece dato alle stampe a nome Traffic, divenendo
addirittura il loro maggior successo internazionale. Intriso di folk, prog e
jazz-rock questo lavoro (sempre con testi di Jim Capaldi) si dimostrerà solidissimo
già dai suoi primi solchi, con l’accoppiata di ‘Glad’ (sigla iniziale del
programma televisivo di Carlo Massarini intitolato, proprio ‘Mr. Fantasy’) e
‘Freedom Rider’, praticamente unite insieme. La title track è in realtà una
ballata folk della tradizione britannica, cantata (e suonata alla chitarra
acustica) da un Winwood in stato di grazia, contrappuntato dal bel flauto di
Chris Wood (scomparso ancora giovane nel 1982). E questo diverrà anche il primo
disco d’oro per i Traffic. Nel corso dell’anno precedente, mentre la band era
sciolta, Steve Winwood aveva anche trovato ispirazione e tempo per formare i
Blind Faith, con gli ex Cream Eric Clapton e Ginger Baker, più il bassista
degli ottimi Family. Questo ‘super gruppo’ non resisterà a lungo alle pressioni
esterne e rimarrà attivo solo nel 1969: un bel documento è la loro famosa
esibizione filmata all’annuale concerto gratuito di Hyde Park, compreso il
brano ‘Can’t Find my Way Home’, che Winwood continuerà a proporre nel corso
delle sue esibizioni dal vivo fino ai giorni nostri: la sua voce, la sua
abilità nel suonare vari strumenti (organo Hammond, piano, chitarra elettrica
ed acustica, banjo) sono miracolosamente rimasti intatti, come si può
apprezzare anche nei dvd che documentano le sue esibizioni del 2004 e del 2013
al Festival Jazz di Lugano, accompagnato sempre dalla medesima band. I Traffic
invece, come detto, dopo qualche disco e vari innesti nella formazione, si
sciolgono nel 1974, ma tornano insieme 20 anni dopo, partecipando anche al concerto
del 1994 che celebra i 25 anni del Festival di Woodstock. Come artista solista
Winwood ha comunque riscosso un discreto successo anche negli anni ’80, oltre a
‘prestare’ la sua magnifica voce a Jimmy Page durante i primi concerti del tour
benefico denominato ‘ARMS’ (1983), al fine di raccogliere fondi contro la
sclerosi multipla che aveva colpito l’ex bassista degli Small Faces Ronnie
Lane. Nel 2004 i Traffic hanno l’onore di entrare nella ‘Rock and Roll Hall of
Fame’, ma poco dopo Jim Capaldi (batteria e seconda voce) viene a mancare,
lasciando al solo Steve Winwood il testimone di quelli che furono i vecchi
Traffic, ormai autentici classici della migliore tradizione del rock nel senso
più ampio del termine. Un bel documento dell’epoca rimarrà il concerto di Santa
Monica, filmato nel 1972.
Giuseppe Scaravilli nasce a
Seregno (MI) il 12 ottobre 1966 da
genitori siciliani, e nel 1975 si trasferisce con la famiglia a Belpasso (CT),
dove risiede ancora oggi. Si diploma al Liceo Classico e si laurea in Legge,
conseguendo le abilitazioni per esercitare la professione di avvocato e per
dedicarsi all’insegnamento. Le sue passioni artistiche (il disegno prima e la
musica poi) prendono però il sopravvento, e a queste ultime finisce per
dedicare gran parte del suo tempo: per 10 anni raccoglie in volumi i suoi
racconti a fumetti, ed è un grande appassionato di Storia. Dal 1987 ad oggi è
soprattutto, in qualità di cantante, polistrumentista e compositore, il leader
dei Malibran, che si ritagliano uno spazio di tutto rispetto nel campo del
Progressive Rock internazionale, suonando tantissimo sia in Italia che
all’Estero, pubblicando anche una decina di dischi venduti in tutto il mondo.
All’inizio del 2012 tutto questo rischia di finire a seguito di una
delicatissima operazione di pancreatite acuta, seguita da una grave emorragia
interna che lo porta ad un mese di coma e a diversi mesi in ospedale, con un
danno a livello neurologico che gli impedisce di camminare. Ma Il lavoro
quotidiano di riabilitazione sta portando ad effetti positivi sempre più evidenti.
THIS WAS, 1968
I Jethro Tull vennero fondati nel 1967 dallo scozzese Ian
Anderson (Dunfermline, 10 agosto 1947), il quale, cresciuto ad Edinburgo, aveva
poi trascorso l’adolescenza a Blackpool, in Inghilterra. Inizialmente il
giovane Anderson faceva parte dei Blades (band formata nel 1963 da compagni
della Graham School), poi divenuti la John Evan Band (in seguito la John Evan
Smash), e si limitava a cantare accompagnandosi con l’armonica, senza suonare
ancora il flauto, che sarebbe divenuto in seguito lo strumento caratteristico
dei Jethro Tull. Con Ian Anderson, Barrie Barlow, John Evan e Jeffrey Hammond i
Blades (con l’aggiunta di Martin Barre) si sarebbero in seguito trasformati negli ottimi Tull del periodo
1971-1975. Barrie Barlow entrò nel gruppo a 14 anni, nel 1965, quando John Evan
passò dalla batteria all’organo. Jeffrey lasciò invece la band all’inizio
dell’anno successivo. In ogni caso, la musica soul della John Evan Band
(immortalata nella registrazione amatoriale di un solo concerto del 1966) non
aveva nulla a che vedere con quella dei futuri Jethro Tull. Fecero anche
un’apparizione alla Granada Tv il 3 maggio 1967, ma, a parte una fotografia
all’esterno di quegli studi, a Manchester, non rimane traccia del filmato, che
andò in onda il 24 di quello stesso mese. In questo scatto compare anche Glenn
Cornick, entrato nel gruppo nel marzo di quell’anno, ancora con capelli corti e
spessi occhiali neri, insieme ai giovanissimi Anderson, Evan, Barlow e ad una
sezione fiati. In concerto Glenn (il cui vero cognome era Barnard) utilizzava
un basso bianco, che sarebbe stato dipinto a colori psichedelici durante i
primi tempi con i Tull. Insieme alla John Evan Band avrebbe esordito dal vivo
il 25 marzo 1967, e lo stesso anno avrebbe registrato il brano ‘Blues For The
18th’. In seguito Ian divise con lui un modesto appartamento, freddo al punto
da costringerlo ad usare il pesante pastrano che avrebbe poi caratterizzato la
sua immagine anche sul palco. Il gruppo, trasferitosi da Blackpool a Luton,
nella zona di Londra, si esibì più volte anche al Marquee Club. Per inciso il
nome corretto del giovane che aveva dato (per volontà della madre!) il nome
alla John Evan Band era John Evans: ma quella ‘s’ finale non suonava bene, e
dietro insistenza di Jeffrey Hammond, era scomparsa. Fu così che i futuri fans
dei Jethro Tull avrebbero conosciuto il loro amatissimo tastierista con il nome
di John Evan, il quale avrebbe fatto parte del gruppo dal 1970 al 1980. Ad ogni
modo Ian Anderson si ritrovò ad esibirsi in vari locali inglesi con il gruppo
che includeva ancora la sezione fiati. Mick Abrahams sostituì Neil Smith alla
chitarra, ma la formazione contava ormai sette elementi, ed ed era diventato
impossibile guadagnare qualcosa, nonostante le maggiori possibilità di ingaggi
che offriva la città di Londra. I sassofonisti rinunciarono, ed anche Barrie
Barlow e John Evan preferirono tornarsene a Blackpool. Anderson, Cornick e
Abrahams invece non mollarono, e a loro si aggiuse Clive Bunker, un amico del
chitarrista. Clive non avrebbe mai immaginato di diventare un batterista
famoso: semplicemente, alcuni suoi compagni di scuola, avendo già comprato
chitarra e basso, gli comunicarono che lui avrebbe suonato la batteria. E dopo
alcune serate in piccoli club della zona, si ritrovò insieme a Ian, Glenn e
Mick. Incredibilmente, dopo ogni data, dal momento che il gruppo non riusciva
ad essere accolto bene al punto da essere invitato per un secondo show, il nome
veniva cambiato ogni volta, facendo finta che si trattasse di una band diversa,
così da avere l’occasione di tornare ad esibirsi in quegli stessi locali “sotto
mentite spoglie”. Inutile qui fare la rassegna dei diversi nomi che vennero
utilizzati. Uno di questi fu Navy Blue. In un’occasione Ian Anderson si ritrovò
a leggere la lista dei gruppi previsti per la serata in un pub, senza capire
quale fosse il suo. Finalmente, quando il quartetto si presentò al Marquee il
16 gennaio 1968 come Jethro Tull (il nome di un agronomo che aveva inventato
una macchina seminatrice nel 1701) piacquero abbastanza da essere confermati
per una data successiva. E fu così che quel nome, venuto in mente per caso a
qualcuno del management, divenne quello definitivo. In quell’occasione, però,
nonostante si fossero presentati sul palco come Jethro Tull, nel programma
della serata comparivano ancora come Navy Blue. L’appellativo Jethro Tull
risulta essere stato utilizzato per la prima volta il giorno prima a
Sunderland. Come detto a quel punto la band, senza più i fiati, e con John Evan
e Barrie Barlow dimissionari, già dal novembre del 1967 si era ridotta ad un
quartetto formato da Ian Anderson (voce, flauto, armonica), Glenn Cornick
(basso), Clive Bunker (batteria) e Mick Abrahams, un bravo chitarrista blues di
Luton che utilizzava una Gibson SG “diavoletto” rossa. In effetti il 14
dicembre 1967 i quattro futuri Jethro Tull avevano già esordito al Marquee, ma
con il nome di Bag O’Blues. Il 16 febbraio 1968 il gruppo riuscì a pubblicare
per la MGM il suo primo singolo. Ma, per un errore di stampa, il nome riportato
sul 45 giri fu quello di “Jethro Toe”. I due brani erano ‘Sunshine Day’ sul
lato A e ‘Aeroplane’ sul lato B. Nel singolo cantavano sia Ian Anderson che
Mick Abrahams, autore di ‘Sunshine Day’, brano nel quale possiamo trovare per
la prima volta il quartetto originale dei Jethro Tull. Sul pezzo, registrato
presso gli Abbey Road Studios tra il 6 e il 7 gennaio 1968, cantano all’unisono
sia Ian che Mick, al quale è affidato anche un assolo di chitarra. Il fonico è
Mick Ross, mentre la produzione è di Derek Lawrence. ‘Aeroplane’ è un pezzo più
vecchio, registrato dalla John Evan Band il 22 ottobre 1967, dal quale era
stata estromessa l’originale sezione fiati, nonostante la voce di Ian Anderson
sia già ben riconoscibile. E il sound spensierato di questo brano è ancora
molto anni ’60, nonostante il quartetto fosse ormai dedito al British Blues.
Nulla in quel momento avrebbe lasciato presagire che sarebbe divenuto Ian
Anderson il leader indiscusso del gruppo. Al contrario, Mick Abrahams contava
di accentrare su di sé l’attenzione, sperando di lasciare un po’ sullo sfondo
tutti gli altri. E, del resto, Abrahams era già una stella affermata nella sua
Luton, essendo un chitarrista veramente bravo, capace anche di cantare (doppio
ruolo che avrebbe poi ricoperto nei Blodwin Pig). Dal canto suo Ian Anderson,
poco tempo prima, era rimasto attratto dall’aspetto di uno strano strumento
luccicante, il flauto traverso, esposto in un negozio di strumenti musicali:
decise di acquistarlo, imparando subito ‘Serenade To A Cuckoo’ di Roland Kirk,
in seguito sull’album d’esordio dei Jethro Tull. La sua tecnica non era
corretta (sua figlia, molti anni dopo, lo avrebbe rimproverato per questo!), ma
risultava molto efficace. Anzi, se avesse imparato a suonare il flauto in
maniera “accademica”, non si sarebbe distinto tra migliaia di altri flautisti.
Ed invece utilizzò quello strumento soffiando sulle singole note con forza,
accompagnandole con la voce, come se stesse “cantando dentro al flauto”. Era
anche un buon chitarrista, ma si era reso conto che non avrebbe potuto
competere con nomi quali quelli di Eric Clapton (che aveva visto dal vivo) o
Jimmy Page. Portando il flauto (strumento consueto nella musica classica e nel
jazz) nell’ambito del rock, capì che avrebbe potuto distinguersi dagli altri. E
così fu. Traffic, Genesis, Focus e Moody Blues utilizzavano anch’essi il
flauto, ma nessuno riuscì a farlo come lui. L’immagine di Ian Anderson, con
flauto, giaccone lungo e gamba sospesa a mezz’aria, sarebbe diventata presto il
“marchio” stesso dei Jethro Tull.
Anderson cominciò infatti a suonare quello strumento reggendosi in equilibrio
su una gamba sola, tirando su l’altra. In realtà Ian ricorda che il tutto fu
dovuto ad un equivoco: un giornalista, avendolo visto al Marquee, aveva scritto
che Anderson suonava il flauto reggendosi su una gamba sola: ma lui adottava
questa bizzarra postura quando suonava l’armonica, mentre rimaneva su entrambe
le gambe quando si trovava davanti al microfono con il flauto. Ad ogni modo,
dopo aver letto quella recensione, decise
di suonare davvero il flauto tenendosi sospeso su una sola gamba. La
scaletta del 22 aprile 1968 allo Star Hotel di Croydon era la seguente:
‘Serenade To a Cuckoo’, ‘Cat’s Squirrel’, ‘Rock Me Babe’, ‘So Much Trouble’,
‘Beggar’s Farm’, ‘Dharma For One’, ‘My Sunday Feeling’, ‘It’s Breaking Me Up’,
‘A Song For Jeffrey’, ‘Fat Man’, ‘Someday The Sun Won’t Shine For You’ e
‘Sunshine Day’. I Jethro
Tull cominciarono ad esibirsi regolarmente al Marquee Club di Londra nel
gennaio del 1968, ma fu il 2 febbraio di quell’anno che suonarono per la prima
volta in quel noto locale con il loro nome riportato anche nel programma della
serata. Furono sul palco del Marquee tantissime volte, fino al 26 novembre
1968. E poi mai più. Il 29 marzo vi suonarono in apertura dello show dei
Fleetwood Mac, il 23 aprile (giorno del 21° compleanno di Glenn Cornick) prima
degli Who, e il 17 maggio insieme ai Taste di Rory Gallagher. Il 24 agosto, pur
non essendo previsti nel programma del mese, vi tennero due show nello stesso
giorno, probabilmente a seguito del successo conseguito al Sanbury Jazz &
Blues festival di due settimane prima. John Gee, il proprietario del club,
inizialmente non li faceva esibire come attrazione principale. Ma il 3 maggio
del 1968 furono proprio i Jethro Tull a salire sul palco come la band più
importante della serata. E a quel proprietario del Marquee, davvero decisivo
per l’avvio della loro carriera, avrebbero dedicato ‘One for John Gee’, il lato
B del loro primo singolo ‘A Song for Jeffrey’, uscito il 27 settembre del 1968
(e dunque prima della pubblicazione del loro disco d’esordio, ‘This Was’). Per
inciso, il ‘Jeffrey’ del titolo era proprio Jeffrey Hammond della John Evan
Band, grande amico di Ian Anderson, che a lui avrebbe dedicato anche un brano
su ‘Stand Up’ (‘Jeffrey Goes To Leicester Square’) ed un altro su ‘Benefit’
(‘For Michael Collins, Jeffrey and Me’), prima di chiamarlo a far parte del
gruppo negli ultimi giorni del 1970 al posto di Glenn Cornick. ‘One for John
Gee’ non è compreso su ‘This Was’, ed è un’incalzante swing strumentale di tre
minuti che si conclude con una risatina. Non ne conosciamo una versione stereo,
ma è un brano molto accattivante, contenente anche un assolo di basso
contrappuntato da stacchi precisi da parte di tutta la band. Il pezzo è
riemerso nel 1988 sul box-set ’20 Years of Jethro Tull’. Per inciso proprio la
data del 3 maggio al Marquee Club di Londra, la prima a vederli come attrazione
principale, è documentata da alcune belle foto: Davanti allo sfondo del
soffitto inclinato a strisce che caratterizzava il locale in quegli anni (quasi
a ricordare il tendone di un circo) Ian Anderson è in giubbottino di pelle,
mentre Glenn Cornick appare con cappellino, capelli corti e basso bianco già
colorato; Mick Abrahams ha folta chioma riccia, un filo di barba, Gibson SG e
amplificatore Marshall con testata e due casse sovrapposte; Clive Bunker
indossa una maglietta bianca ed utilizza una sola cassa per la batteria, sulla
quale compare la scritta ‘Jethro’ (solo in seguito sarebbe passato alla doppia
cassa, riportando la scritta ‘Jethro’ in una, e ‘Tull’ nell’altra). Con i
medesimi abiti di scena la band sarebbe comparsa al festival gratuito di Hyde
Park il 29 giugno 1968 insieme a Roy Harper, Tyrannosaurus Rex e Pink Floyd
(che lo stesso giorno pubblicavano il loro secondo album, ‘A Saucerful of
Secrets’, con Gilmour al posto di Barrett): una giornata che avrebbe comportato
una svolta per la loro carriera, portandoli dallo status di piccola band da
club a grande gruppo di successo: tutti i fans che avevano raccolto durante le
loro date al Marquee (e presso altri numerosi locali inglesi) si erano infatti
ritrovati insieme a quel festival. E quando un roadie salì sul palco per
appoggiarvi sopra la borsa di Ian Anderson, a tutti nota per il fatto di
contenere i suoi strumenti, il pubblico esplose in un’ovazione. Gerry Conway
(batterista dei Tull negli anni ’80), che era un amico di Clive Bunker, aveva
sentito dire da quest’ultimo che la sua era solo una band che suonava nei pub,
e credette di essere stato preso in giro. Invece neanche i Jethro Tull si
aspettavano una reazione del genere da parte della folla presente intorno al
palcoscenico. Glenn Cornick avrebbe conservato un ricordo indelebile di quel
concerto. Per inciso, i pochi secondi di filmato esistenti riguardanti questo
festival, svoltosi in pieno giorno, tra anatre sul fiume (c’era anche il famoso
giornalista Chris Welch ad ascoltare la musica, godendosela in barca) e gente
distesa o danzante sul prato, sono anche gli unici a mostrarci i Jethro Tull
insieme a Mick Abrahams. Ironicamente, però, proprio Mick si intravede a
stento, nascosto da una delle casse dell’amplificazione. A quel festival
suonarono ‘Cat’s Squirrel’, ‘Serenade To a Cuckoo’, ‘Stormy Monday Blues’ e ‘Dharma
for One’. Pochi giorni prima, il 26 giugno, alla Sheffield University avevano
aperto lo show dei Pink Floyd. Con Mick alla chitarra i Tull tennero solamente
due concerti all’estero, entrambi in Danimarca, il 5 e 6 ottobre 1968,
imbarcandosi su un ferry-boat. Abrahams non amava viaggiare, né andava molto
d’accordo con Glenn Cornick. A parte la rivalità con Ian Anderson riguardo al
fatto di chi dovesse essere il front man del gruppo, naturalmente. Al rientro dallo spettacolo del 24 novembre
1968 al Mothers di Birmingham Mick Abrahams annunciò agli altri che avrebbe
lasciato il gruppo. Il suo ultimo concerto con i Jethro Tull sarebbe stato
quello del 30 novembre alla London School of Economics. Mick uscì dalla band
poco prima della pubblicazione del singolo natalizio ‘A Christmas Song’,
registrato a novembre presso i Morgan Studios di Londra con Andy Johns al
mixer, e pubblicato a dicembre: se nella facciata A, infatti, ci sono solo Ian
(voce e mandolino) con Bunker e Cornick (oltre ad un indovinato accompagnamento
d’archi di David Palmer), sul lato B (‘Love Story’) è presente per l’ultima
volta Mick Abrahams, con chitarra distorta ed pedale wha-wha. In un primo tempo
Terry Ellis aveva in effetti intravisto nel chitarrista di Luton il probabile
leader della band, ma si era presto reso conto che la presenza scenica e le
idee innovative di Ian Anderson avrebbero potuto risultare più convincenti
rispetto al blues tanto amato da Abrahams, che però veniva proposto da mille
altre formazioni. Mick non gradiva affatto sentirsi dire dal produttore cosa
dovesse suonare e cominciò a saltare le prove, non dando il meglio di sé
durante i concerti, o fingendosi malato mentre era con la sua ragazza. Alla
fine tra lui e Terry Ellis volarono parole grosse: Mick venne convocato
nell’ufficio di Ellis e licenziato su due piedi, soprattutto perché si
rifiutava di partire per l’imminente tour negli Stati Uniti. Ma lui rispose che
aveva deciso in ogni caso di lascare la band. Durante quell’estate i Jethro
Tull avevano comunque già registrato ‘This Was’, il loro primo album, che
sarebbe uscito il 25 ottobre del 1968. Il disco è realizzato quasi senza
sovra-incisioni presso gli studi Sound Techniques di Chelsea, Londra, tra il 13
giugno e il 23 agosto: un gradevolissimo lavoro pervaso di blues e di influenze
vagamente jazz, con Anderson in evidenza su ‘Serenade To a Cuckoo’ e Abrahams
su ‘Cat’s Squirrel’ (soltanto chitarra distorta riverberata, sotto una
rutilante base di basso e batteria): in entrambi i casi due cover, rispettivamente
di Roland Kirk e Doctor Ross (‘Cat’s Squirrel l’avevano suonata anche i Cream).
L’inizio dell’album è affidato alla scoppiettante ‘My Sunday Feeling’, conclusa
da un breve assolo di basso, mentre sul blues lento ‘Someday The Sun Won’t
Shine For You’ possiamo ascoltare Ian Anderson (voce e armonica) su un canale e
Mick Abrahams (voce e chitarra) sull’altro, per un’equa ripartizione dei ruoli.
Sul disco Ian non suona ancora il mandolino, che avrebbe utilizzato per la
prima volta sui due brani del singolo ‘A Christmas Song’/ ‘Love Story’. ‘Beggar’s
Farm’, ‘My Sunday Feeling’ e ‘A Song For Jeffrey’ sono cantate dal solo Ian
Anderson, mentre su ‘It’s Breaking Me Up’, pur essendo quella di Ian la voce
principale, si percepisce anche quella di Mick, per un blues che rimane
piuttosto canonico. In questo brano, stranamente, tutti gli strumenti sono sul
canale sinistro, mentre su quello destro ci sono solo l’armonica e la voce di
Anderson. Qui l’assolo di Abrahams viene fatto ruotare nello spazio
stereofonico, iniziando da una parte e concludendosi dall’altra. C’è anche una
nota sbagliata di Glenn Cornick. ‘This Was’ vede impegnato Mick anche con una
chitarra a nove corde. In ‘My Sunday Feeling’ il protagonista ci racconta della
sua sensazione del lunedì mattina dopo i postumi di una sbornia, quando non
riesce neppure a ricordarsi dove fosse stato la sera prima. ‘A Song For
Jeffrey’ è caratterizzata dalla voce di Anderson che sembra cantare attraverso
un megafono: effetto ottenuto in studio probabilmente mettendo bassi, medi e
acuti a zero. Il pezzo venne dedicato al vecchio amico Jeffrey Hammond,
ricordando i giorni nei quali quest’ultimo, studente di pittura presso la
Central School of Art di Londra, andava a vederli suonare al Marquee Club. Su
‘Serenade To a Cuckoo’ è presente anche uno splendido assolo jazz-blues di Mick
Abrahams con suono pulito ed il raffinato utilizzo di due corde
contemporaneamente. Questo era un brano che Ian Anderson aveva conosciuto
proprio per merito di Jeffrey Hammond: quest’ultimo, come detto, andava spesso
a vederli suonare al Marquee, e fece ascoltare a Ian un disco di Roland Kirk,
dicendogli che questo musicista suonava con il suo stesso stile. Kirk era un
sassofonista, ma sull’album in questione (‘I Talk with the Spirits’) utilizzava
solamente il flauto. Dunque Anderson imparò ‘Serenade To a Cuckoo’ senza voler
imitare Roland Kirk, poiché si cimentava al flauto da circa un mese adottando
istintivamente il medesimo approccio sullo strumento. Il breve strumentale
conclusivo, intitolato ‘Round’, parte con un tema che viene ripetuto dagli
altri strumenti, uno dopo l’altro, creando, come suggerisce il titolo, una
sorta di circolo continuo. E quando il disco sembra essere finito, ecco ancora
qualche sbuffo di flauto. L’etichetta è la Island, e non ancora la Chrisalis
Records. Il produttore, invece, è già Terry Ellis, che seguirà la band anche negli
anni a venire. Ad occuparsi dell’accompagnamento di fiati nel brano ‘Move on
Alone’ (l’unico cantato dal solo Mick Abrahams) è David Palmer, che arrangerà e
dirigerà gli archi su diversi album dei Jethro Tull, prima di diventare egli
stesso un membro della band a tutti gli effetti. ‘Move on Alone’ e ‘Cat’s
Squirrel’ sono anche gli unici due pezzi nei quali Ian Anderson è del tutto
assente (non solo su ‘This Was’, ma nell’intera discografia dei Jethro Tull).
‘Dharma for One’ lascia spazio ad un assolo di batteria da parte di Clive
Bunker (assolo infinitamente più esteso nelle versioni dal vivo). Il pezzo vede
anche l’utilizzo dello strambo ‘claghorn’, uno strumento ibrido inventato (non
è chiaro se dallo stesso Anderson o da Jeffrey Hammond) unendo un flauto di
legno all’ancia di un sassofono: e pare che fosse impossibile riuscire a
tenerlo accordato! Questa è comunque la sequenza dei brani sul
disco: ‘My Sunday Feeling’, ‘Someday The Sun Won’t Shine For You’, ‘Beggar’s
Farm’, ‘Move on Alone’, Serenade To a Cuckoo’, ‘Dharma for One’, ‘It’s Breaking
Me Up’, ‘Cat’s Squirrel’, ‘A Song For Jeffrey’ e ‘Round’. Il fatto che un assolo di batteria
fosse presente su un LP registrato in studio rappresentò certamente una novità,
per l’epoca. Le recensioni delle maggiori riviste musicali (Melody Maker, New
Musical Express) furono positive, e ‘This Was’ arrivò al 10° posto della
classifica inglese. Terry Ellis concepì anche la copertina, con i quattro
componenti della band truccati da vecchietti sulla front cover, e nel loro vero
aspetto sul retro, con Ian Anderson che mostra una lisca di pesce: le foto
(come tutte quelle dei primi anni dei Tull) sono di Brian Ward. All’interno
dell’album è presente anche uno dei suoi scatti del gruppo al Sanbury Jazz
& Blues Festival: e questa volta, nell’agosto del 1968, i Jethro Tull
compaiono vestiti proprio come sulla front cover del disco, con Ian Anderson in
cappotto verde e Glenn Cornick con gilet giallo e bombetta rossa. Lo stesso
titolo dell’album sembra alludere al fatto che quella volesse essere una
testimonianza di ciò che i Jethro Tull “erano”, nel momento in cui si
accingevano a cambiare genere musicale, aprendosi a varie contaminazioni. E
questo non piacque molto a Mick Abrahams il quale, purista del rock-blues quale
era, decise di lasciare la band per trovare la sua strada con i Blodwin Pig,
che pubblicarono il loro disco d’esordio già nel 1969: e successivamente con la
Mick Abraham’s Band. Alcuni filmati del programma musicale tedesco ‘Beat Club’
ci consentono così di vederlo, se non con i Tull, almeno negli anni seguenti,
con la sua Gibson SG rossa, il suo stile inconfondibile (sia nel modo di
suonare che di cantare) ed il suo aspetto, con la gran massa di capelli ricci e
la barbetta. Lo stesso Clive Bunker avrebbe fatto parte dei Blodwin Pig nel
1974. Con questa sua band Mick avrebbe continuato a proporre ‘Cat’s Squirrel’
dal vivo. Il suo lavoro su ‘This Was’, con eleganti accordi blues sottilmente
venati di jazz, ed i suoi ‘assolo’ scorrevoli e puliti, rimane comunque pregevole.
Con i Jethro, come detto, a parte le due date danesi, egli suonò solamente nel
Regno Unito: nel corso dei festival sopracitati, a Londra per le circa 25 date
al Marquee Club (più lo Speakeasy e altri locali), a Sunderland, Brighton,
Birmingham, Newcastle, Croydon, Manchester, Nottingham, Bradford ed altre città
ancora. Fece in tempo ad esibirsi con loro anche alla celebre Royal Albert Hall
il 15 ottobre, e alla Roundhouse il 2 novembre. Almeno qualche data per ogni
mese, dalla metà di gennaio alla fine di novembre di quel suo unico anno con la
band. Avrebbe potuto essere presente (e dunque “immortalato” con i Jethro Tull)
il giorno 12 dicembre 1968, quando il gruppo di Ian Anderson apparve in
apertura del programma televisivo ‘The Rolling Stones Rock and Roll Circus’. Ma
Mick aveva già lasciato la band, anche se la chitarra che si sente è la sua: il
brano era ‘A Song for Jeffrey’, e a mimarla al suo posto c’era Tony Iommi.
Quest’ultimo fu parte dei Tull per un paio di settimane: Ian Anderson l’aveva
visto suonare con gli Earth (i futuri Black Sabbath) durante uno show insieme
agli stessi Jethro Tull, poco prima delle dimissioni del chitarrista di Luton,
e dunque invitato ad entrare nel gruppo. All’epoca, infatti, lo stile di Tony
non era troppo diverso da quello di Abrahams: e in qualche brano degli stessi
Sabbath dei primi tempi ci sono passaggi nei quali Iommi, accompagnato solo da
basso e batteria, ed utilizzando la stessa Gibson SG rossa di Mick, ricorda
molto le evoluzioni del primo chitarrista dei Tull durante ‘Cat’s Squirrel’. In
un’altra occasione la band di Anderson non era riuscita a raggiungere il club
presso il quale avrebbe dovuto esibirsi, ma Ian era arrivato comunque sul
posto, mescolandosi tra la folla per assistere al concerto degli Earth, che li
avevano sostituiti all’ultimo momento, ed apprezzando il lavoro del loro
chitarrista. Mentre
cantava Ozzy si esaltò, riconoscendo Ian Anderson tra il pubblico, e vedendolo
muovere la testa a tempo con la musica. Non risulta che Iommi abbia fatto qualche concerto con la
band, nè fu mai, in realtà, un elemento effettivo dei Jethro Tull. Andò alle
prove insieme a Geezer Butler, il futuro bassista dei Black Sabbath, e si
cimentò con i Tull su diversi brani nuovi, compreso ‘Nothing is Easy’: proprio
su quel pezzo aveva difficoltà a prendere gli accordi che richiedevano
l’utilizzo di tutte le dita della mano, dal momento che aveva perso le
estremità di due di queste lavorando in fabbrica, sostituendole con delle
protesi. Non si trovò a proprio agio, e lo disse a Ian. Questi gli chiese di
rimanere per partecipare almeno al ‘Circus’ degli Stones, dal momento che non
avrebbe fatto in tempo a trovare un sostituto. E così, paradossalmente, è con
Tony Iommi alla chitarra che possiamo apprezzare l’unica ripresa di buona
qualità del gruppo nel 1968, per quanto si tratti di un solo brano. Iommi porta
i baffi, seminascosto sotto un cappello bianco, e indossa un giaccone con le
frange che aveva acquistato per esibirsi con gli Earth. Non utilizza il
bottleneck, nonostante questo si senta chiaramente su ‘A Song For Jeffrey’. A
quanto pare, sulla base registrata, solamente Ian Anderson cantò e suonò il
flauto dal vivo, mentre Glenn Cornick fingeva di suonare la sua armonica, oltre
al basso. Lo stesso Glenn ricorda però che anche Ian suonò in playback. Le
immagini sono di ottima qualità, e a colori. Ad ogni modo all’epoca il
programma non andò in onda, perché gli Stones (ancora con Brian Jones ad
affiancare Keith Richards) non rimasero soddisfatti della propria performance.
Tony Iommi, sentendosi un po’ soffocato dalla precisione e dalla
professionalità richieste da Ian Anderson (per quanto quest’ultimo avesse
solamente 21 anni), e poco attratto dalla svolta folk-rock che i Jethro Tull
stavano intraprendendo, preferì tornare a divertirsi con Ozzy Osbourne e
compagni, i quali, con il nuovo nome di Black Sabbath, avrebbero sfondato già
all’uscita del primo disco, nel 1970. Forse i Tull eseguirono al ‘Circus’ anche
un altro brano, ma non ne è rimasta alcuna traccia. Ian Anderson aveva promesso
un pranzo a Iommi per quella sua partecipazione: e lo avrebbe invitato quasi 50
anni dopo a casa sua (meglio tardi che mai!) nel 2017. Il ‘Circus’ dei Rolling
Stones venne infine pubblicato in Vhs (e poi in Dvd) nel 1996, e vedeva
alternarsi gruppi musicali (The Who, John Lennon ed Eric Clapton compresi) a
spettacoli circensi. Erroneamente in copertina è riportata la data dell’11
dicembre. I Jethro Tull si intavedono sfilare festosamente insieme a tutti gli
altri nell’arena del circo all’inizio dello spettacolo, e sono i primi ad
esibirsi, quale “gruppo emergente”, annunciati da Mick Jagger. Anche in questa
occasione appaiono vestiti come sulla copertina di ‘This Was’, con Ian Anderson
(capelli biondi arruffati e barba) in cappotto verde, Glenn Cornick ancora con
bombetta rossa, gilet giallo e jeans blu con le frange sotto, e Clive Bunker
con un cappello nero in testa, come sempre curvo sulla batteria. L’unica cassa
riporta la scritta ‘Jethro Tull’ in caratteri gotici. Esiste anche una foto
della band durante le prove per il ‘Circus’ degli Stones, con abiti quasi del
tutto diversi e Tony Iommi senza il cappello bianco. Non ci sono rimaste
neanche registrazioni audio dal vivo del gruppo con Mick Abrahams. Per fortuna,
nel 2008, in occasione dei 40 anni di ‘This Was’, oltre ad una versione del
disco con un nuovo missaggio, sono state pubblicate anche le registrazioni più o
meno dal vivo (già note ai fans più incalliti) eseguite dai Jethro Tull per la
BBC al noto programma radiofonico di John Peel intitolato ‘Top Gear’, il 20
luglio e il 5 novembre del 1968. L’audio è mono, ma di ottima qualità, e ci
offre finalmente versioni alternative di molti brani di quell’album, oltre ad
un paio di cover che non vi erano comprese, ma che i Tull suonavano
abitualmente in quei giorni: ‘Stormy Monday Blues’ e ‘So Much Trouble’.
Quest’ultima, un po’ come ‘Someday The Sun Won’t Shine For You’, vede impegnati
i soli Ian Anderson e Mick Abrahams. Dunque, anche se senza pubblico, possiamo
così avere un’idea di come suonassero live i Jethro Tull di quel periodo, con
il loro primo chitarrista. Per essere più precisi, il 20 luglio vennero registrate
‘A Song For Jeffrey’, ‘Serenate To a Cuckoo’, ‘My Sunday Feeling’, ‘So Much
Trouble’ e ‘Cat’s Squirrel’, mentre il 5 novembre fu la volta di ‘Love Story’,
‘Dharma for One’, ‘Stormy Monday Blues’ e ‘Beggar’s Farm’. Un paio di queste
tracce erano già comparse nel 1988 all’interno del box-set ’20 Years of Jethro
Tull’, ma la musica era in parte disturbata dalla voce del DJ. Nel corso di
un’intervisa contenuta nel video del 25° anniversario della band venne chiesto
a Mick se non si sentisse un po’ il Bete Best dei Beatles: quest’ultimo era
stato il primo batterista del quartetto di Liverpool, che non aveva fatto in
tempo a conoscere il successo in quanto sostituito da Ringo Starr. Abrahams
rispose ridendo di non avere rimpianti, dal momento che aveva seguito la sua
strada. Per puro caso alcuni brani di ‘This Was’, mandati in diffusione,
possono sentirsi in sottofondo, durante alcune interviste, nel corso del
celebre film ‘Woodstock’, a testimonianza del fatto che il primo album della
band fosse conosciuto anche negli USA.
STAND UP, 1969
Oltre Tony Iommi i Jethro Tull
avevano provato come chitarrista anche David O’List, che aveva appena lasciato
i Nice (il gruppo di Keith Emerson prima che questi formasse gli ELP insieme a
Greg Lake e Carl Palmer). Agli inizi del 1968 i Tull avevano aperto un loro
show, e i Nice erano uno dei gruppi preferiti di Clive Bunker. O’List si trovò
bene con Glenn, Clive, e ricorda che Ian fu molto gentile con lui. Ma non entrò
in sintonia con la loro musica, e preferì desistere. Alcune riviste britanniche
diedero erroneamente per certo che Dave O’List prima, e Tony Iommi poi, fossero
entrati effettivamente nella band. Quindi i Tull fecero una audizione al
tranquillo Martin Barre (Kings Eath, Birmingham, 17 novembre 1946). Questi, con
un gruppo chiamato Motivation, nel 1967 era riuscito a fare da spalla ai Cream,
a suonare al Marquee ed anche al Piper Club di Roma. Martin suonava pure il
flauto ed il sassofono (il suo primo strumento), e vide i Jethro Tull al citato
Sanbury Jazz & Blues Festival il lunedì 11 agosto 1968 a Kempton Park,
rimanendone molto colpito. Era certo che quello fosse stato il gruppo migliore
della serata, e non avrebbe desiderato altro che farne parte. Quella fu anche
l’esibizione che vide il più vasto pubblico che i Tull si fossero mai trovati
di fronte: 50 mila persone. Per inciso, altri gruppi partecipanti all’evento
furono, tra gli altri: Fairport Convention, John Mayhall, Deep Purple (ancora
con Rod Evans alla voce e Nick Simper al basso), Traffic (guidati dal fenomenale
Steve Winwood), Alexis Corner, Cream (Eric Clapton, Ginger Baker e Jack Bruce),
Ten Years After (con la fantastica chitarra di Alvin Lee), Taste (trascinati da
Rory Gallagher), Nice (con Keith Emerson alla tastiere), Joe Cocker e Arthur
Brown. Tra il pubblico, il giorno in cui si esibirono i Jethro Tull, era
presente anche David Palmer. La band di Martin, cambiando nome in Penny Peeps,
aveva già pubblicato due singoli quello stesso anno. Per uno strano gioco del
destino il primo di questi uscì il 16 febbraio, in contemporanea con il primo
45 giri dei ‘Jethro Toe’. Il gruppo, che lo vedeva ora nel ruolo di primo
chitarrista, cambiò ancora nome. Adesso erano gli Gethsemane, che fecero da
gruppo spalla proprio ai Tull il 15 e il 29 novembre 1968 (oltre che a David
Bowie e ai Fleetwood Mac). La seconda di queste due date era coincisa con la vigilia del
concerto d’addio da parte di Mick Abrahams, e con la serata che chiudeva
l’avventura degli Gethsemane. La band
aveva ormai intrapreso la strada del blues, ma si sciolse quando Martin, dopo
un’audizione con ‘Nothing is Easy’ (in seguito su ‘Stand Up’) riuscì ad entrare
nei Jethro Tull. E con loro sarebbe rimasto per oltre 40 anni! Durante l’ultimo
show degli Gethsemane, infatti, il giovane Martin si era visto recapitare una
carta da visita della Chrisalis Records da parte del manager Terry Ellis, con
dietro la scritta: “chiamami domani”. E così Barre, insieme ad una cinquantina
di altri aspiranti sostituti di Abrahams, tenne la sua audizione: una sala
prove sotterranea era gremita di giovani, con Ian, Clive e Glenn al centro. Ma
lui si era presentato con una Gibson 330 semi-acustica impossibile da suonare a
causa del fischio che produceva in continuazione, e aveva fatto più bella
figura al flauto che alla chitarra. Poi però aveva telefonato di nuovo a Ian
Anderson sperando di ottenere una seconda possibilità: e questa volta, dopo che
i Tull avevano già provato David O’List e Tony Iommi, si era portato dietro la
sua nuova Gibson Special arancione del ’59. Ma senza amplificatore, perché Ian
Anderson abitava all’ultimo piano di un edificio in Kentish Town, nell’area
nord di Londra. E così il leader dei Jethro Tull si vide costretto a stare con
l’orecchio attaccato a quella chitarra per sentire qualcosa, udendo più il
respiro affannato di Barre che quel che stava suonando: era il 24 dicembre, e
Martin, nonostante tutto, ottenne il posto. Il giorno dopo, al colmo
dell’entusiasmo, provò per la prima volta insieme ai Tull. Sentì che il suo
sogno si stava trasformando in realtà. Telefonò alla famiglia, spiegando che
non avrebbe potuto essere a casa proprio il giorno di Natale: i suoi genitori
naturalmente non la presero bene, ma la sorella, che era una appassionata di
musica, venendo a sapere che si trattava dei Jethro Tull, convinse i suoi che
quella era una grande occasione. Il gruppo non potè evitare di vedersi con il
nuovo chitarrista il 25 dicembre (e nei giorni immediatamente successivi)
perchè alcune date inglesi erano già in programma. E, soprattutto, era in vista
il tour americano. La prima prova fu tenuta dunque il giorno di Natale in uno
scantinato senza finestre, sotto un club di Soho, sempre a Londra: due ore
provando i nuovi brani, con una pausa per il tè. L’esordio dal vivo di Martin
Barre con la band avvenne il 30 dicembre 1968 al Winter’s Garden di Pensance,
in Cornovaglia. Giorno che coincise con il compleanno di Clive Bunker. Martin
fu confortato dal fatto che la musica del gruppo avesse preso una nuova
direzione, dal momento che, come chitarrista blues, non si sarebbe sentito in
grado di competere con Mick Abrahams. Nel corso delle prime date, però, il
pubblico si chiedeva dove fosse finito quest’ultimo, e si aspettava ‘Cat’s
Squirrel’. Tutto cambiò dopo lo show all’Università di Manchester: alla fine
del concerto Ian e Martin si guardarono sorridenti, e da quella sera tutti e
quattro cominciarono a suonare davvero bene, perché avevano capito che il nuovo
corso intrapreso dalla band era stato accettato. Del successivo concerto al
Toby Jug di Tolworth (8 gennaio 1969) abbiamo una ventina di foto in bianco e
nero di Graham Page (in quello stesso locale si erano già esibiti con Abrahams
il 16 ottobre dell’anno precedente): Ian Anderson indossa il cappotto lungo,
Glenn la bombetta con giacca nera, Martin il giaccone militare settecentesco ed
il cappello, mentre un pubblico di adolescenti è proprio a ridosso della band.
Uno degli scatti vede anche Ian Anderson in attesa dietro agli amplificatori,
accovacciato accanto al basso di Glenn: dunque, presumibilmente, durante
l’assolo di batteria di Clive Bunker. Un' altra fotografia mostra Martin al
flauto. Chi scrive ha contattato molti anni fa Graham Page per procurarsi
queste immagini ormai storiche. Il giorno dopo erano a Stoccolma insieme a Jimi
Hendrix, per un doppio show al Koncerthaus: era la prima volta dei Jethro Tull
con Martin Barre fuori dalla Gran Bretagna: entrambi i concerti sono stati
registrati in buona qualità audio (anche se mono), esistono foto a colori e i
filmati professionali in bianco e nero di un paio dei brani eseguiti durante la
prima delle due esibizioni: ‘To Be Sad is a Mad Way To Be’ e ‘Back To the
Family’: quest’ultima, come ‘Nothing is Easy’, sarebbe in seguito comparsa
sull’album ‘Stand Up’. La registrazione del primo concerto era diffusa tra i
fans da decenni; sulla ‘Elevated edition’ di ‘Stand Up’ comparirà invece il
secondo show. Martin, soltanto da una settimana in tour con la band, viene già
presentato da Ian con il soprannome di Martin ‘Lancelot’ Barre. Il nuovo
chitarrista appare ancora un po’ impacciato, sia nel suono che nell’aspetto:
paffuto, di nuovo con giubba militare settecentesca e cappello nero, non ha
neppure la barba che lo caratterizzerà di lì a poco. Nella circostanza sfoggia
la Gibson Les Paul Special arancione
appena acquistata, ma le sue parti soliste sono piuttosto disordinate e prive
di linee melodiche precise, anche se il gruppo nel suo insieme funziona. Ian
Anderson è il solito frontman sicuro di sé, con lo stesso look del 1968
(cappotto verde e scarpe da tennis), mentre Glenn Cornick, pur utilizzando il
consueto basso bianco colorato e la bombetta rossa, porta adesso una giacca
scura: naturalmente il look della band è lo stesso documentato dalle foto del
giorno prima al Toby Jug. Le telecamere ignorano completamente Martin durante
il suo assolo in ‘To Be Sad’, riprendendo il gruppo lateralmente e dall’alto,
senza inquadrarlo mai frontalmente, o dall’altra parte del palco. E del resto
sono uguali anche le riprese del primo dei due concerti della Jimi Hendrix
Experience (questo esistente per intero) effettuate quello stesso giorno. Ian
ricorda che Hendrix suonò con una chitarra che era sempre scordata. Durante il
filmato di ‘Back To the Family’ a Clive Bunker sfugge per un attimo una
bacchetta, ma lui riesce ugualmente a tenere il tempo. La conclusione di questo
pezzo vede una concitata improvvisazione di flauto, senza ancora il “botta e
risposta” con la chitarra di Martin che, come vedremo, sarà presente nella
versione di ‘Stand Up’. Prima della conferenza stampa Ian Anderson si ritrovò a
fumare in un corridoio buio. Notò la luce di un’altra sigaretta, e capì di non
essere solo: l’altra persona era Jimi Hendrix, e i due ebbero modo di scambiare
qualche parola. Tutti i compenenti della band di Jimi (a cominciare dal
batterista Mitch Mitchell) furono molto gentili con Clive, Glenn e Martin.
Entrambi i concerti dei Tull di quel 9 gennaio 1969 a Stoccolma presentano gli
stessi brani, ma non nello stesso ordine. Inoltre, solo nella versione di
‘Dharma for One’ relativa al secondo show troviamo, all’interno dell’assolo di
batteria, anche quello di doppio flauto, eseguito Ian e Martin insieme. Il
testo delle due versioni di ‘To Be Sad is a Mad Way To Be’ è diverso: la
canzone (un blues cadenzato) era stata scritta da Ian e Martin, ma il primo non
ne apprezzava molto le parole, e le cambiava ogni volta. Lunghissima è l’esecuzione di ‘Nothing is Easy’, e in
scaletta c’è anche ‘Martin’s Tune’, il primo contributo del nuovo chitarrista.
Anche se, come detto, la set-list dei due show è uguale, pur essendo diverso
l’ordine dei brani, si comincia in entrambi i casi con ‘My Sunday Feeling’:
peccato che il basso sia scordato all’inizio del primo concerto. E,
naturalmente, non manca ‘A Song For Jeffrey’. Tra un pezzo e l’altro si sentono
i componenti della band parlare tra loro. Per inciso, ‘Martin’s Tune’, un lungo
strumentale, era stato suonato da Barre nel corso delle audizioni per entrare
nella band: il pezzo non avrebbe mai avuto un vero titolo, e sarebbe stato
chiamato sempre “Il motivo di Martin”. Il filmato di ‘To Be Sad is a Mad Way To
Be’ , con Ian Anderson all’armonica, verrà pubblicato nel video celebrativo dei
20 anni della band, mentre lo stesso pezzo sarà presente, insieme a ‘Back To
the Family’, tra i Cd contenuti nel box-set del 25° anniversario. Le riprese di
‘To Be Sad is A Mad Way To Be’ e ‘Back To The Family’ troveranno pubblicazione
ufficiale nel 2016 sulla ‘Elevated Edition’ di ‘Stand Up’, che includerà anche
alcune delle foto al Toby Jug. ‘To Be Sad’ e ‘Martin’s Tune’ non vennero
mai registrate in studio. I Jethro Tull
piacquero a Jimi Hendrix, che li raccomandò all’impresario tedesco Fritz Rau.
Il giorno seguente, 10 gennaio, anche al Falkoner Theater di Copenhagen
ripeteranno l’esperienza dei due concerti nello stesso giorno (fatto non
inusuale, all’epoca). Ad immortalare questo doppio show abbiamo uno scatto,
presente ancora sulla ‘Elevated Edition’, che mostra tutta la band sul palco:
e, dal momento che si vede Ian Anderson suonare il claghorn, si tratta
certamente dell’esecuzione di ‘Dharma for One’. Alcune registrazioni live
dell’inizio dell’anno dimostrano quanto fosse stonato quello strano strumento!
E’ comunque singolare che, relativamente ad un periodo poco documentato per la
storia dei Jethro Tull, abbiamo registrazioni, foto o filmati di tre date
consecutive (8, 9 e 10 gennaio). Una bella foto di Brian Ward immortala la
nuova formazione all’inizio del 1969, mostrandoci Glenn e Clive avvolti in
giacconi pesanti, Martin sbarbato e con il consueto cappello scuro che portava
in quei giorni, più Ian in camicione a quadri, guanti e cappello. Dopo qualche
altra data inglese, finalmente i Jethro Tull partono per l’America, esordendo
al Filmore East di New York il 24 gennaio del 1969, facendo da spalla ai Blood,
Sweat & Tears. E questo nonostante il fatto che negli States ‘This Was’ non
fosse ancora uscito, e che i brani di quell’album venissero eseguiti da un
chitarrista che non aveva partecipato alle registrazioni del disco. Prendere un
volo per andare a suonare negli States era il sogno di ogni musicista, e per
loro tutto questo stava divenendo realtà. Alloggiarono al Gorham Hotel, sulla
48esima strada: Clive e Martin dividevano una stanza, mentre Ian e Glenn
stavano insieme in un’altra, come ai vecchi tempi. A Clive Bunker non parve
vero di suonare insieme ai Blood, Sweet & Tears, perché il loro batterista,
Bobby Colomby, era uno dei suoi miti. Martin Barre era incredulo per il fatto
stesso di trovarsi a New York, nonostante il clima rigido. Replica la sera dopo
ancora al Filmore East. Naturalmente non conoscevano la città, e in
un’occasione Clive fece una passeggiata. Un tizio che era solito stazionare di
fronte al loro albergo gli chiese dove fosse stato. Avendolo appreso, lo guardò
stupefatto e gli chiese: “Che cosa? E sei ancora vivo?”. Successivamente i Tull
si spostarono in località quali Detroit, Chicago e Minneapolis, tenendo anche
più serate in ognuna delle città toccate dal tour. Il 3 febbraio ‘This Was’
esce anche negli USA. Non mancano date al famoso Tea Party di Boston, che
prendeva il nome dall’omonima rivolta dei coloni americani contro gli inglesi
del 1773. Insomma, dalla fine di gennaio ad aprile, in America si comincia a
fare davvero sul serio. E del resto, già nel 1968, rispondendo alle domande di
alcune riviste musicali britanniche, Ian Anderson, nonostante l’aspetto e la
giovane età, si era dimostrato totalmente dedito al suo lavoro di musicista,
completamente al di fuori del mondo delle droghe e del ‘movimento hippy’ di
quel periodo. Non amava sentirsi definire il leader del gruppo, ma era evidente
a tutti quale fosse la realtà. Dopo lo
show di Chicago dell’8 febbraio, il suo famoso cappotto verde sparì. I Tull dividevano
un ampio camerino con i Led Zeppelin, i Vanilla Fudge ed altre persone, ma non
si scoprì mai il responsabile. Era stato un regalo di suo padre, con il quale
il leader dei Tull non ebbe mai un bel rapporto. Ma quando andò via di casa, il
genitore gli aveva consegnato quel pesante indumento, dicendogli semplicemente
che gli avrebbe fatto comodo per il freddo inverno del 1967 che era alle porte.
Al concerto del giorno successivo a Minneapolis Ian si presentò dunque per la
prima volta con la giacca multicolori che avrebbe utilizzato più volte in
seguito. Acquistò anche un folto berretto di pelliccia alla David Crockett, di
quelli in uso tra I trapper americani tra 1700 e 1800, e con il quale appare su
qualche foto del periodo. Del resto gli capitava spesso di dover percorrere a
piedi strade ghiacciate per raggiungere l’albergo dopo qualche show, e aveva
bisogno di coprirsi bene. Furonono anche allo Stone Balloon di New Heaven dal
20 al 23 febbraio. L’8 marzo fanno da spalla agli MC5 a Seattle, suonando ‘My Sunday
Feeling’, ‘Bourèe’, ‘Back To the Family’, ‘A New Day Yesterday’, ‘Fat Man’,
‘Blues Jam’, ‘Dharma for One’ e ‘Nothing is Easy’. Durante il primo periodo dei concerti
americani Clive continuò ad usare la sua piccola batteria, fino a quando Terry
Ellis non gli disse di andare a comprarne una più grande, a sua scelta: e così
lui acquistò una bella Ludwig a doppia cassa, nonostante non avesse
inizialmente idea di come suonarla. Si era inoltre reso conto che riusciva ad
essere più potente e veloce con bacchette corte, e per questo aveva preso
l’abitudine di smussarne le estremità. Quando la band si spostò dai climi
rigidi della East Coast a quelli caldi della California, a Martin Barre sembrò
di sognare. E Clive Bunker era stupito per il fatto di ritrovarsi sulla famosa
Sunset Boulevard di Los Angeles. Trovò anche irreale vedersi trasportato,
insieme al resto della band, da un aereo ad una Rolls- Roice per raggiungere
l’albergo dove trovavano le giovani groupies, che in Inghilterra non
esistevano. Naturalmente fanno la conoscenza di Bill Graham, proprietario sia
del Fillmore West di San Francisco che del Fillmore East di New York. Proprio
al Fillmore West sono in calendario dal 13 al 16 marzo, tenendo due concerti al
giorno insieme ai Credence Clearwater Revival. E qui ricompare in scaletta ‘To
Be Sad is A Mad Way To Be’. In molti locali si esibivano per tre sere alla settimana, andanosene in
giro senza niente da fare nei restanti quattro giorni. Al contrario di Ian Anderson,
in America Glenn Cornick si trasformò in un hippy autentico, abbracciando la
cultura, il modo di pensare e di vestire del movimento all’epoca in voga.
Impararono ad esibirsi di fronte a platee sempre più estese: Seattle, San
Francisco, Pasadena, Los Angeles, è tutto un susseguirsi di città americane,
suonando quasi ogni sera, fino al ritorno al Filmore East di New York (proprio
il locale dal quale era partita la prima tournèe americana) l’11 aprile del
1969, di nuovo in apertura dello show dei Blood, Sweet & Tears. Durante
questa prima trasferta negli USA, il 3 marzo viene anche registrato il singolo
‘Living in the Past’ che, pubblicato il 2 maggio 1969 per la Island, con
l’accattivante ‘Driving Song’ sul lato B, scalerà la classifica inglese fino al
terzo posto. Il brano, caratterizzato da un inusuale tempo in 5/4 e da un
fantastico giro di basso, venne inciso in uno studio del New Jersey, mentre
‘Driving Song’ venne messa su nastro a Los Angeles due settimane dopo, il 19
marzo, a dimostrazione di quanto fosse divenuta intensa l’attività della band
negli USA, tra concerti e registrazioni. Un episodio esilarante accaduto
durante questi spostamenti attraverso gli States merita di essere ricordato:
Ian Anderson aveva sempre ostentato la sua contrarietà ad alcool e droghe.
Nonostante ciò, mentre si trovavano in viaggio su una macchina presa a
noleggio, vennero fermati e presi in custodia dalla polizia, che su quell’auto,
con quattro capelloni a bordo, aveva trovato una bottiglia di whisky e semi che
sembravano di marjuana. In realtà la bottiglia era stata lasciata
sull’automobile dal cliente che li aveva preceduti, e i semi erano quelli di
sesamo caduti da un panino! I Jethro Tull rientrarono a casa, ma solo per
affrontare una nuova serie di date inglesi ed irlandesi per i mesi di maggio e
giugno (eccetto un concerto al Palazzo dello Sport di Parigi, tenuto il 7
maggio). Come ebbe a dire Glenn Cornick, il primo tour americano non li aveva
resi ricchi e famosi, ma aveva permesso loro di imparare tantissimo. La band
fece ritorno ai Morgan Studios di Londra (dove aveva già realizzato il singolo
‘A Christmas Song’ / ‘Love Story’) nell’aprile del 1969 per registrare il
secondo album, intitolato ‘Stand Up’, con Andy Johns come tecnico del suono. E
questa volta hanno a disposizione un mixer ad otto tracce piuttosto che a
quattro, con la possibilità di sovra-incidere più strumenti rispetto ai tempi
di ‘This Was’. Quegli studi erano forniti inoltre di ottimi microfoni Neumann,
di un organo Hammond B3 e di un piano a coda Steinway. Durante le registrazioni
Ian Anderson se ne stava spesso seduto
su una sedia a dare indicazioni di vario genere al resto della band.
Soprattutto a Clive Bunker. Martin Barre era euforico: aveva già registrato con
i Penny Peeps ed i Gethsemane, ma solo per dei singoli. Adesso si presentava
per lui la prima occasione di incidere un intero LP. Prendendo come simpatico
pretesto il titolo del disco (‘In piedi’), la copertina interna vedeva le
figure ritagliate dei quattro elementi del gruppo sollevarsi quando l’album
veniva aperto. Caratteristica che verrà replicata dalla ‘Elevated Edition’ del
2016. Le immagini di Ian, Glenn, Clive e Martin erano disegnate dal grafico
Jimmy Grashow in maniera divertente anche sulla front cover, mostrandoci come
apparivano effettivamente all’epoca i Jethro Tull: Ian Anderson con giacca a
quadri, stivali morbidi allacciati con le stringhe, dita intrecciate, barba e
capelli fluenti; Glenn, ora dall’aspetto molto ‘hippy’, con la bandana a
stringere i capelli divenuti lunghi; Clive con la sua folta massa di capelli
ricci, e Martin ancora con il cappello scuro. A Ian Anderson e a Terry Ellis i
pupazzetti che si sollevavano (pop-up) ricordavano inevitabilmente i libri che
avevano da bambini. E nessun altro disco in circolazione si presentava in
maniera altrettanto originale: i quattro Jethro Tull comparivano ciascuno con
il suo vero volto fotografato, mentre il resto del corpo era disegnato con
braccia e mani aperte. L’album vede comparire il nuovo chitarrista con il suo
soprannome: Martin ‘Lancelot’ Barre. Sul retro i quattro componenti della band,
sempre disegnati, si allontanano visti da dietro, con Martin che porta uno
zainetto sulle spalle. Il grafico Jimmy Grashow era di New York, e in quella
città lavorò al progetto insieme a Terry Ellis.
Il disco deve sia il suo titolo che l’idea della copertina allo stesso
Ellis. E, a parte l’iniziale ‘A New Day Yesterday’, si discosta nettamente
dalla matrice blues che caratterizzava il lavoro precedente, includendo
elementi folk, etnici, accenni di musica classica e spruzzate di hard rock,
oltre alla maggiore varietà di strumenti utilizzati. Nel suo appartamento di
Kentish Town, in quel periodo, Ian Anderson ascoltava musica diversa, da
Charlie Parker a Jimi Hendrix, dai Pentangle ai Blind Faith: quest’ultimo era
il “supergruppo”, attivo solo nel 1969,
che vedeva tra le proprie fila Steve Winwood (in un momento in cui i
suoi Traffic avevano sospeso la propria attività), Eric Clapton e Ginger Baker
(entrambi ex Cream), più il bassista dei Family Ric Grech. Metà dei brani di
‘Stand Up’ erano stati composti già nell’estate del 1968, quando Ian suonava
seduto sul suo letto all’ultimo piano dell’edificio, utilizzando una chitarra
Harmony Stratotone, a cui aveva tolto i pick-up. Quello che rimane ad oggi il
disco preferito da Ian Anderson vede quest’ultimo impegnato non solo alla voce,
al flauto e all’armonica, ma anche alla chitarra acustica, al mandolino e alla
balalaika, oltre che al piano e all’organo Hammond (i Jethro Tull non avevano
ancora un tastierista). E’ in questo lavoro che Ian comincia ad utilizzare la
chitarra acustica Yamaha. Su ‘A New Day Yesterday’ lo stesso Anderson, in vena
di sperimentazioni, per ottenere l’effetto leslie dalla chitarra di Martin
Barre, si mette in piedi sull’amplificatore di quest’ultimo, facendo ruotare
intorno ad esso un microfono trattenuto per il cavo. Questo fu il primo brano
ad essere registrato per il disco, il 17 aprile 1969. Gli ultimi sarebbero
stati ‘We Used to Know’ e ‘For a Thousand Mothers’, incisi entrambi il 1°
maggio (lo stesso giorno delle riprese effettuate presso i Morgan Studios per
il video di ‘Living in the Past’). Si è detto che ‘A New Day Yesterday’ è
l’unico titolo del nuovo LP a conservare la matrice blues che era propria di
‘This Was’: si tratta però di un approccio a quel genere musicale del tutto
diverso, con una chitarra distorta ed aggressiva che procede all’unisono con il
basso, secondo le indicazioni di Ian Anderson: nulla a che vedere con le
sonorità proprie della band ai tempi di Mick Abrahams. Ma ‘Stand Up’ si
rivelerà l’album del vero successo dei Jethro Tull soprattutto grazie alla
presenza di ‘Bourèe’, una trasposizione in chiave jazz-rock di una Suite per
liuto di Johan Sebastian Bach, qui guidata dal flauto di Ian, armonizzato da un
secondo flauto sovrapposto in studio dallo stesso Anderson. Il brano,
tranquillo ma inframezzato da una sezione più incalzante, vede anche una bella
linea di basso da parte di Glenn Cornick: probabilmente si tratta del pezzo per
il quale è più apprezzato e ricordato il lavoro di Glenn nei tre anni trascorsi con i Jethro Tull. Il
bassista si cimenta anche in un assolo subito dopo la parte concitata, prima
che il brano ritorni al sereno tema iniziale. In realtà, quando i Jethro Tull
registrarono Bourèe, questo assolo di basso si era rivelato fin troppo lungo, e
loro erano rientrati a casa certi di aver perso il proprio tempo. Poi, però,
Ian Anderson era tornato da solo in studio per sistemare il brano,
accorciandolo e tagliuzzandolo fino a portarlo alla perfetta versione di tre minuti
che tutti avrebbero conosciuto. Bourèe fu l’unico brano di ‘Stand Up’ non
registrato ai Morgan Studios, bensì agli Olimpic Studios, il 24 aprile del
1969, con Glyn Jones al mixer al posto del fratello Andy. Ian Anderson aveva
imparato quel tema ad orecchio, semplicemente perché lo sentiva suonare di
continuo alla chitarra classica da un suo vicino di casa. Fece ascoltare la sua
versione a Martin, e questi disse di conoscere il brano. Dal vivo il secondo
flauto veniva suonato dallo stesso Martin Barre, mentre l’assolo di basso
portava ad una versione ridotta di ‘Living in the Past’ (non cantata), sempre
all’interno di Bourèe. Esiste anche una versione su singolo di questo pezzo che
parte direttamente dagli stacchi, seguiti dalla sezione rock, rinviando dunque
il tema di Bach. Un’altra ancora, registrata (come il resto di ‘Stand Up’) ai
Morgan Studios il giorno prima di quella pubblicata sul disco, è comparsa per
la prima volta nell’edizione del 2016, includendo anche un parlato iniziale di
Ian Anderson, una inedita improvvisazione di flauto ed un assolo di basso
diverso rispetto a quello più conosciuto. La ‘Bourrèe’ era in realtà un’antica
danza francese, ma il nome (con due ‘r’)
venne modificato di proposito. Per la precisione, nel caso dei Jethro
Tull, si trattava della Bourrèe inserita nel quinto movimento della Suite in Mi
minore per liuto BWV 996. Nel brano c’è un accordo sbagliato, come farà notare
in seguito David Palmer alla band. ‘Reasons for Waiting’ vede la presenza di un
suggestivo arrangiamento d’archi dello stesso Palmer, e due flauti suonati
rispettivamente da Ian Anderson e Martin Barre, mentre le esplosive ‘Nothing is
Easy’ e ‘For a Thousand Mothers’ diverranno dei classici per i concerti dal
vivo. Spesso il primo di questi due brani verrà utilizzato come apertura degli
spettacoli di quel periodo, mentre il secondo, collocato in chiusura del disco,
sarà messo in scaletta come pirotecnico bis finale di ogni show, dopo il lungo
assolo di Martin Barre. Una delle caratteristiche di ‘For a Thousand Mothers’ è
quella della finta conclusione, con il pezzo che riparte a sorpresa dopo un
istante di pausa. Se gli altri brani del disco vedono accentuata la matrice
folk, guidata dagli strumenti acustici suonati da Anderson (‘Look Into the Sun’
e ‘Jeffrey Goes To Leicester Square’), la divertente ed orientaleggiante ‘Fat
Man’ vedrà Clive Bunker alle percussioni invece che alla batteria (anche dal
vivo, con Ian Anderson seduto su uno sgabello, impegnato al mandolino, e con
Martin al flauto): per inciso questo brano era stato composto e suonato quando
Mick Abrahams era ancora parte della band. Nella citata ‘Jeffrey Goes To
Leicester Square’ è Martin Barre a suonare il flauto traverso, così come su
‘Reasons for Waiting’. ‘We Used to Know’ verrà ricordata invece per una
progressione armonica che richiama la ben più nota ‘Hotel California’ degli
Eagles, pubblicata nel 1976. Ma lo stesso Ian Anderson si è sempre rifiutato di
sentire parlare di plagio ai suoi danni. Questo è anche il primo brano nel
quale Martin Barre utilizza il pedale wha-wha: il chitarrista comincia a
diventare decisamente bravo, e proprio su ‘We Used to Know’ ci regala uno dei
suoi assolo più emozionanti e ricchi di phatos. E’ ormai in grado di alternare
accompagnamenti con accordi suonati utilizzando il plettro ad altri arpeggiati
con le sole dita, morbidi o decisamente hard rock, sempre precisi e talvolta in
uno stile classicheggiante, soprattutto durante i momenti nei quali rimane solo
sul palco alla fine dei concerti. Per tutto il 1969 utilizzerà la già citata
Gibson Les Paul Special arancione della fine degli anni ’50, con potenti
amplificatori Hiwatt, prima di passare alla Gibson Les Paul Custom. Il wha-wha
è presente anche su ‘Look Into the Sun’, canzone caratterizzata dall’effetto
“tremolo” sulla voce di Ian Anderson. Questi sono comunque i brani di ‘Stand
Up’: ‘A New Day Yesterday’, ‘Jeffrey Goes To Leicester Square’, ‘Bourèe’, ‘Back
To the Family’, ‘Look Into the Sun’, ‘Nothing is Easy’, ‘Fat Man’, ‘We Used to
Know’, ‘Reasons for Waiting’ e ‘For a Thousand Mothers’. Curiosamente, su ‘Look Into the Sun’ il basso
non è suonato da Glenn Cornick, bensì dal tecnico del suono Andy Johns, che
l’anno seguente sarebbe stato al mixer per Led Zeppelin III. Andy suonava un
basso senza tasti e, dal momento che Glenn Cornick non era rintracciabile
mentre si stava registrando questa traccia, fu lui ad occuparsi della parte di
basso. Era molto bravo, ed aveva anche declinato l’offerta di entrare negli
Yardbirds. Il testo di ciascuno dei pezzi di ‘Stand Up’ è già evocato dal
titolo: ‘A New Day Yesterday’ parla di un amore di Ian Anderson appena
sbocciato e già finito a causa della sua vita sempre in tournèe; ‘Jeffrey Goes
to Leicester Square’ narra dell’amico di Anderson che incontra, mentre cammina
verso la nota piazza di Londra, una bellissima ragazza, intuendo però che lei
non potrà mai essere sua; ‘Back To the Family’ mette in luce l’incertezza di
Ian tra il ritorno a casa, nella tranquilla ma noiosa campagna inglese, e il
rimanere in città, dove la vita è più stimolante, ma fin troppo caotica; ‘Look
Into the Sun’ racconta nuovamente di un amore di Anderson concluso troppo
presto, immaginando che la sua ex ripensi all’occasione perduta mentre guarda
il sole; ‘Nothing is Easy’ invoglia tutti ad essere positivi di fronte ad ogni
ostacolo che ci presenta la vita, dal momento che, appunto, “niente è facile”;
‘Fat Man’ si prende scherzosamente gioco delle persone che hanno qualche chilo
di troppo; ‘We Used to Know’ ricorda i tempi duri di inizio carriera con i
vecchi amici della John Evan Band, ai quali si augura ogni bene. ‘Reasons for
Waiting’ è un omaggio a Roy Harper, ma anche una bellissima poesia dedicata ad
una donna che ha stregato il leader dei Jethro Tull; infine ‘For a Thousand
Mothers’ è un monito a tutte quelle madri che non credono alle ambizioni dei
propri figli. Ecco invece un accenno ai testi di qualcuno dei brani registrati
nel 1969, ma non inclusi in ‘Stand Up’: ‘Driving Song’ parla della dura vita
“on the road” che il gruppo stava trascorrendo in quel periodo, con tre tour
negli USA e due in Europa, per 147 concerti complessivi; ‘Sweet Dream’ racconta
di un uomo che cerca di sedurre una giovane, promettendole di esaudire tutti i
suoi desideri, volendola in realtà sfruttare come prostituta; In ‘Seventeen’
Ian Anderson rammenta con nostalgia i tempi spensierati di quando aveva 17
anni. ‘Back To the Family’ alterna una strofa tranquilla ad un inciso
aggressivo, per poi accelerare proprio in conclusione, con un bel “botta e
risposta” tra chitarra e flauto, prima della dissolvenza finale. Il brano
tornerà in scaletta nel 2009, in occasione del tour che celebrebra i 40 anni
dall’uscita del disco. Le percussioni di Clive sono presenti anche su ‘Jeffrey
Goes To Leicester Square’, che fu l’unico brano composto da Ian Anderson alla
balalaika: il leader dei Tull non era un virtuoso di questo strumento, ma era
rimasto affascinato dalla sua forma triangolare, con il piccolo manico e solo
tre corde. Per inciso il suo amico Jeffrey Hammond era davvero solito recarsi a
Leicester Square. ‘Fat Man’ venne composta da Ian durante il ritorno dalla
Danimarca per le due uniche date all’estero con Mick Abrahams nel 1968: A quel
tempo Mick non era ancora l’uomo sovrappeso che sarebbe diventato in seguito,
ma aveva un fisico più imponente rispetto ai suoi compagni, e per qualche
motivo si ritenne che il titolo del pezzo fosse riferito a lui. Ian Anderson
acquistò il mandolino utilizzato nel brano in un negozio danese mentre
aspettavano il ferry boat che li avrebbe riportati in Inghilterra. Il testo
paragona scherzosamente i vantaggi dell’essere magri (come era Ian in quel
periodo) piuttosto che grassi, ma si conclude ammettendo che, nel caso di una
gara consistente nel lasciarsi rotolare da un’altura, sarebbe stato l’uomo grasso
a vincere. ‘Nothing is Easy’ inizia con tutti gli
strumenti ad un volume più basso, per un ‘crescendo’ che porta alla parte
cantata: sulla ‘Elevated Edition’, più opportunamente, il brano comincia con
tutti gli strumenti già “sparati” ad
alto volume. ‘We Used to Know’, come accennato, ricordava i giorni nei quali la
John Evan Band si era spostata da Blackpool a Luton: erano andati a vivere
tutti in una grande stanza malmessa, mentre Glenn Cornick dormiva nell’attico.
Quando però gli altri componenti del gruppo erano rientrati a casa, Ian
Anderson non aveva denaro sufficiente per pagare l’intero affitto, e si era
ritirato nell’attico prima occupato da Glenn. E qui faceva talmente freddo che
si vide costretto a dormire con il cappotto regalatogli dal padre indossato
sopra il pigiama. Gli scellini spesi ai quali fa riferimento il testo erano
quelli all’epoca utilizzati per far funzionare la stufa elettrica. ‘Reasons for
Waiting’ fu il primo ed ultimo pezzo a vedere Ian e Martin suonare insieme il
flauto nell’intera discografia del gruppo. E si trattò del terzo brano con gli
arrangiamenti di David Palmer dopo ‘Move on Alone’ e ‘A Christmas Song’.
L’album fu registrato praticamente dal vivo, a parte sovra-incisioni quali
l’assolo di Martin su ‘We Used To Know’. Glenn Cornick, che conosceva la teoria
musicale più dei suoi compagni, compose da sé le parti di basso, e Ian Anderson
non ebbe mai nulla da eccepire. Secondo l’opinione di Clive Bunker, Glenn era
più bravo in studio che in concerto, e spesso il gruppo si rivolgeva a lui per
capire se in un giro armonico la nota giusta fosse l’una piuttosto che l’altra.
I brani acustici, composti da Ian nelle stanze d’albergo durante il primo tour
americano, erano già completi di tutto, mentre pezzi quali ‘For a Thousand
Mothers’ furono più un lavoro di squadra. Il Tull si trovarono benissimo ai
Morgan Studios (che sarebbero diventati la loro seconda casa) e con il fonico
Andy Johns, che era il fratello minore del famoso tecnico del suono Glyn Jones.
‘Stand Up’ venne pubblicato il 25 luglio 1969 per la Island Records, mentre le
successive ristampe saranno della Chrisalis. La Reprise Records farà uscire il
disco negli USA il 29 settembre. Quando ‘Stand Up’ fu pubblicato i Jethro Tull
erano di nuovo negli States, e Terry Ellis portò il vinile fresco di stampa al
gruppo, che si trovava in una stanza d’albergo: dopo qualche istante di
trepidante attesa lo ascoltarono tutto, dall’inizio alla fine: e Martin Barre
ricorda di essersi sentito molto orgoglioso. Sulla menzionata ‘Elevated
Edition’ è presente l’ottimo remix dell’album da parte di Steven Wilson,
abbinato al secondo show del 9 gennaio a Stoccolma. Il 16 giugno 1969, a
Londra, presso gli studi Maida Vale, i Tull registrano ‘Bourèe’, ‘A New Day Yesterday’,
‘Fat Man’ e ‘Nothing is Easy’ per la trasmissione radiofonica ‘Top Gear’ di
John Peel, con Tony Wilson al mixer. Alcuni di questi brani compariranno nel
box-set celebrativo dei 20 anni della band. E tutti saranno presenti sulla
‘Elevated Edition’. Peccato che il suono sia mono, e non stereo. Dal 21 giugno
i Jethro Tull sono di nuovo in America, aprendo il tour al ben noto festival di
Newport, in California. Nell’occasione si ritrovarono a suonare insieme a
Roland Kirk, il musicista di colore che aveva composto il primo brano imparato
da Ian Anderson al flauto (‘Serenade To a Cuckoo’), e che era in grado di
suonare tre sax contemporaneamente. Ian era di conseguenza molto nervoso, ma
quando ebbe modo di parlare con Roland, questi si dimostrò una persona gentile
ed amabile. Sapeva anche che una versione del suo brano era presente su ‘This
Was’. Il 3 luglio dividono il palco del Fillmore East di New York con il Jeff
Beck Group, che vedeva Rod Stewart alla voce, e il 28 dello stesso mese sono
anche al Central Park. Questa seconda tournèe americana sarà caratterizzata per
due terzi dalla partecipazione a vari festival estivi. Nel mese di agosto Terry
Ellis riesce a piazzare più volte i Tull come gruppo spalla dei Led Zeppelin:
Ian trovò una buona sintonia con Jimmy Page, che era il più amichevole di
tutti. E, nonostante la sua cattiva reputazione, anche con il gigantesco
manager Peter Grant, che si comportò con lui da vero gentiluomo. Viceversa non
legò molto con Robert Plant, anche se rimase stupito dalla sua incredibile
estensione vocale. Si limitò a scambiare qualche saluto con John Bonham (a
tutti noto come ‘Bonzo’), conoscendo la sua indole irascibile, mentre apprezzò
la tranquillità di John Paul Jones. Richard Cole, il barbuto tour manager degli
Zeppelin sempre tra i piedi, non gli piacque per niente. Nonostante con questa
leggendaria band inglese avessero avuto l’occasione per comparire in grandi
arene di fronte a migliaia di persone, Anderson preferirà sempre esibirsi in
piccoli teatri, con posti a sedere e gente più attenta alla musica. Esiste
anche una bella foto che lascia intravedere John Bonham seguire lo show dei Tull da dietro la
batteria di Clive Bunker, mentre Anderson impazza sul palco con il suo giaccone
a scacchi. Lo stesso Bonham avrebbe mosso qualche critica ai Jethro Tull,
sostenendo che ripetevano ogni sera lo stesso identico show, compreso quel che
diceva Ian Anderson al microfono tra un pezzo e l’altro: ma questa sarebbe
stata sempre la caratteristica dei concerti dei Tull anche per gli anni a
venire, dal momento che Ian Anderson portava in giro lo spettacolo del suo
gruppo come se si trattasse di una “piece” teatrale, ripetendo anche i medesimi
gesti sul palco, compresi quelli più spettacolari ed apparentemente
improvvisati sul momento. I Jethro Tull aprirono le date californiane dei Led
Zeppelin quali quelle di Santa Barbara, San Antonio e San Bernardino; il 9
agosto del 1969, al Convention Centre di Anaheim, per i due gruppi venne giù il
locale, strapieno di gente: secondo le recensioni dell’epoca, in questo caso
furono i Jethro Tull ad essere preferiti. La data successiva (10 agosto) a San
Diego, sempre insieme ai Led Zeppelin, coincise con il 22° compleanno di Ian
Anderson. Il giorno seguente si recarono all’International Hotel di Las Vegas
per assistere ad un’esibizione di Elvis Presley, festeggiando nel contempo il
primo posto raggiunto dall’album ‘Stand Up’ nella classifica inglese. Una foto
li ritrae con Terry Ellis in abiti eleganti attorno ad un tavolo proprio in
questa occasione. La notizia era stata data loro da Joe Cocker, a sua volta in
tour negli States: mentre i Tull stavano mangiando in una caffetteria di
Manhattan, Cocker attraversò la strada e si avvicinò al loro tavolo,
congratulandosi. Ian rispose: “Grazie, ma per cosa?”. E di rimando Joe: ”Come,
non lo sapete? Siete primi in classifica! Al concerto di Elvis i Tull si
presentarono con giacche e papillon, ma, naturalmente, con i loro capelli
lunghi. Del resto quello era un locale nel quale non ci si poteva certo presentare
in jeans. Ian Anderson portava anche un paio di occhiali da sole. Martin trovò
magnifico quello show, dal momento che Presley stava vivendo una sua seconda
giovinezza, e non era ancora ingrassato. Il batterista del suo gruppo
impressionò favorevolmente Clive. Ian, tanto per cambiare, rimase molto meno
colpito, dal momento che Elvis, di fronte ad un pubblico di signore in
visibilio, gli apparve ubriaco, al punto che interruppe una canzone perché
aveva completamente dimenticato le parole. Fu detto loro che lo stesso Elvis
voleva vederli in camerino, ma alla fine, tra guardie del corpo e tutto il
resto, preferirono andare via. Anche gli Zeppelin erano presenti: a loro volta
non videro Elvis Presley dietro le quinte, e lo avrebbero conosciuto di persona
solo nel 1974. La scaletta dei Jethro Tull in quel periodo comprendeva di
solito ‘Nothing is Easy’, ‘Bourèe’ (incl. ‘Living in the
Past’), ‘Back To the Family’, ‘A New
Day Yesterday’, ‘Fat Man’, ‘My
Sunday Feeling’, ‘Dharma For One’, ‘We Used To Know’, ‘Guitar Solo’ e ‘For a
Thousand Mothers’. Si esibirono
con Chuck Berry al Fillmore West e vennero pure invitati al festival di
Woodstock, che si sarebbe svolto a metà mese, mentre loro erano ancora negli
USA: Terry Ellis lo comunicò a Ian, ma i Tull non vi parteciperanno, con grande
rimpianto di Glenn Cornick. Ian Anderson si dirà invece felice per quella
scelta, dal momento che, se fossero andati, avrebbero finito per legare
indissolubilmente il proprio nome a quell’evento, come sarebbe avvenuto per
molti degli artisti che comparvero su quel palco, e nell’omonimo film. Inoltre
Ian non desiderava che il suo gruppo venisse identificato come facente parte di
quel mondo hippy con tanto di droghe, fango, amore libero e tutto il resto.
Fatto sta che, proprio in occasione del loro “tour dei festival”, i Jethro Tull
non furono presenti all’unico di questi che sarebbe passato alla storia. Li
ritroviamo invece in tournèe tra Inghilterra e Irlanda a settembre, e ancora il
mese successivo, con un concerto all’Olympia di Parigi il 12 ottobre insieme ai
Free, più un paio di date ad Amsterdam. Qui il 7 settembre si erano esibiti
insieme ai Soft Machine. Il singolo ‘Bourèe’ / ‘Fat Man’ uscirà solo in Belgio
e Francia. Il 17 ottobre viene dato alle stampe il 45 giri ‘Sweet Dream /
Seventeen’. Il primo brano, con gli arrangiamenti d’archi di David Palmer,
verrà presentato a ‘Top of the Pops’ il 6 novembre 1969: Ian Anderson compare
con giacca a scacchi, berretto di lana e calzoni rossi, mentre Martin Barre
utilizza la sua consueta chitarra arancione. Questo singolo è la prima
pubblicazione in assoluto per la Chrisalis Records. La facciata B (‘Seventeen’,
o ‘17’) stranamente non verrà inclusa nella raccolta di rarità del 1972
intitolata ‘Living in the Past’; e sul box-set uscito in occasione del 20°
anniversario del gruppo comparirà in una versione dimezzata e mono. Finalmente
quella stereo, lunga 6 minuti, verrà fuori sulla ‘Collector’s Ediction’
dell’album ‘Benefit’ nel 2013, con i remix di Steven Wilson. ‘Sweet Dream’ e
‘Singing All Day’ erano state registrate il 31 agosto 1969. Il giorno seguente era stata messa su nastro
‘Play in Time’, che sarebbe comparsa sull’album ‘Benefit’. L’11 settembre era
stato inciso il brano ‘Seventeen’, che, come detto, sarebbe uscito come lato B
del singolo ‘Sweet Dream’. Il 17 settembre parteciparono alla premizaione della
rivista Melody Maker che si tenne al Waldorf Hotel di Londra, alla presenza del
noto DJ John Peel, all’epoca giovane e capellone. Quindi provarono al Lyceum di
Londra dal 19 al 23 dello stesso mese, in vista del tour britannico che si
tenne dal 25 settembre al 29 ottobre, interrotto da qualche trasferta in
Francia, Olanda e Belgio. Questa fu la prima volta in cui furono seguiti da un
tour manager: Eric Broocks. Fu il 27 settembre, al National Stadium di Dublino,
che la folla entusiasta, dopo lo show, strappò la parte sinistra inferiore del
cappotto a scacchi arancioni e neri che Ian usava sulla scena in quel periodo.
Solo agli inizi di novembre la band si concede nove giorni di vacanza, dopo due
anni di intenso lavoro: Ian se ne va in Scozia, Martin ad Hereford, dove
abitava, Glenn si dedica alla caccia, mentre Clive, ex meccanico, si mette a
lavorare sulla sua automobile. Il terzo ed ultimo tour americano del 1969 si
svolge dal 14 novembre al 14 dicembre partendo da Madison, nel New Jersey, e
toccando città quali San Francisco, Detroit, Philadelphia, San Diego, New York,
Boston e Kansas City, con chiusura all’Aragon Ballroom di Chicago. E questa
volta la band è l’attrazione principale (“headliner”) degli spettacoli. Il 26
novembre, al Civic Center di Santa Monica, a seguito del sold out ottenuto con
il primo show, ne aggiunsero un secondo che iniziò a mezzanotte. Qui la
scaletta includeva l’ancora inedita ‘Play in Time’. A regalarci l’unica
testimonianza filmata di buona qualità dei Jethro Tull in concerto negli ultimi
mesi del 1969 ha provveduto il documentario tedesco del regista Wim Van Der
Linden intitolato ‘Swing In’, che contiene i brani ‘Nothing is Easy’, ‘Bourèe’,
‘Sweet Dream’ e ‘For A Thousand Mothers’, eseguiti l’1 ottobre alla Royal
Albert Hall di Londra e alla Guildhall di Southampton il 20 dello stesso mese.
Purtroppo i quattro pezzi sono incompleti, ma si tratta dell’unica occasione
per vedere gli spettacolari Jethro Tull di quel periodo sul palco: Ian Anderson
con il nuovo cappotto verde a risvolti neri e pantaloni aderenti dentro gli
stivali di pelle di daino; Glenn Cornick con bandana e giubba multicolori
(anche se il documentario è girato in bianco e nero); Clive Bunker in maglietta
a righe e Martin Barre in camicia bianca: tutti davvero scatenati. Bunker
utilizza la doppia cassa, e si intravedono anche le percussioni utili per
l’esecuzione di ‘Fat Man’. Emozionante l’inizio dello show alla Royal Albert
Hall, che ci fa vivere gli attimi concitati dietro il palco, un attimo prima
che il gruppo faccia il suo ingresso sulla scena: Ian Anderson si presenta al
pubblico con un inchino, seguito da un’unica cinepresa, mentre Glenn Cornick
avanza verso la platea, facendo cenno per scherzo alle persone sedute ai primi
posti di avvicinarsi, per poi fingere di vergognarsi di fronte alla macchina da
presa che lo inquadra, ripiegando verso gli amplificatori, prima che si cominci
con ‘Nothing is Easy’. Durante l’inizio di ‘Bourèe’ Martin suona il secondo
flauto, e c’è un roadie, accovacciato sotto di lui, addetto a prendere lo
strumento quando Barre deve passare alla chitarra: per consentire l’operazione,
viene aggiunto un passaggio in più al brano. La versione strumentale di ‘Living
in the Past’, inclusa in ‘Bourèe’ nelle esecuzioni live del periodo, viene
estromessa dal filmato. Sull’accordo finale del pezzo, dopo i singulti di Ian
al flauto ed il suo pestare più volte un piede sul palco, Glenn Cornick entra
leggermente in anticipo. Spettacolare l’inizio di ‘Sweet Dream’, con la
chitarra di Martin che ruggisce come un motore in avviamento facendo partire il
brano, mentre Ian Anderson si contorce come una furia sotto l’asta del
microfono. La cinepresa gira intorno a lui, facendo intravedere anche il
pubblico seduto a godersi lo spettacolo. Durante ‘For a Thousand Mothers’
ragazze e ragazzi giovanissimi scuotono i capelli, lasciandosi prendere dalla
musica, mentre Glenn, come sempre a fine concerto, rimane in canottiera scura.
Oltre alle scene ‘on stage’, nel documentario si possono anche osservare i Tull
mentre scherzano e cantano in macchina, per poi dare fuoco (!) ad una multa
trovata sul parabrezza. Si vede Ian andare a dormire in una stanza d’albergo,
ed un’auto che passa a prendere uno per uno tutti i componenti del gruppo per
portarli al concerto. Ci sono anche gli anziani genitori di Ian Anderson: la
madre mostra orgogliosa i ritagli di giornale riguardanti il figlio, mentre il
padre si china per far ascoltare il 45 giri di ‘Living in the Past’ su un
mobile-giradischi dell’epoca. Lo stesso Anderson, ancora giovane e selvaggio,
viene intervistato. Quando l’auto passa a prelevare Glenn Cornick a casa,
possiamo vedere sua madre salutarlo, rivolgendogli le raccomandazioni proprie
di tutte le mamme. Molte foto di Robert Ellis documentano la data di ottobre
alla Royal Albert Hall. La scaletta completa di quella serata era la seguente: ‘Nothing is
Easy’, ‘Bourèe’, ‘We Used to Know’, ‘Fat Man’, ‘Martin’s Tune’ ‘Sweet Dream’ e
‘For a Thousand Mothers’. Esiste anche
una ripresa dal vivo di ‘A New Day Yesterday’, risalente con ogni probabilità
alla fine del 1969, ma di qualità decisamente inferiore rispetto a quella del
documentario. Inoltre l’unica telecamera, che inquadra il gruppo dall’alto, si
sofferma quasi esclusivamente su Ian Anderson, senza spostarsi su Martin Barre
neanche durante il suo assolo. Questo documento viene comunemente indicato come
‘Fillmore East, dicembre 1970’. Ma si tratta di un errore: gli abiti di scena e
l’assenza di John Evan rendono infatti evidente che deve trattarsi
dell’estratto di un concerto del 1969: i Tull suonarono al Fillmore East di New
York il 5 e 6 dicembre, ed una di queste date potrebbe essere la più
plausibile. Del 1969 ci rimane anche un breve filmato di Ian, Clive, Glenn e
Martin durante la premiazione del Melody Maker avvenuta, come detto, il 17
settembre: in quel caso erano arrivati al secondo posto, preceduti dai Beatles
e seguiti dai Rolling Stones. I voti della rivista New Musical Express li aveva
visti arrivare invece al primo posto quale “miglior gruppo dell’anno”. Abbiamo
soprattutto diversi videoclip girati per la Tv (in particolare quella
francese): una versione di Bourèe ripresa il 30 settembre per il programma
intitolato ‘La Joconde’, ed un’altra il 31 ottobre in un campo di calcio. Ne
esiste anche una terza, che vede la band esibirsi tra le statue: ma vengono
inquadrati solo Ian Anderson e Glenn Cornick! Ancora, due versioni di ‘Living
in the Past’: una, con i Jethro Tull filmati ai Morgan Studios il 1° maggio,
che mostrano Ian Anderson con le cuffie, e una volta tanto in maglietta;
l'altra vede invece la band sopra un palchetto rotondo, di nuovo per il
programma ‘La Joconde’ del 30 settembre. In ultimo, una ‘A Song For Jeffrey’ in
bianco e nero risalente al 15 aprile,
nella quale Martin Barre, in playback, mima la chitarra che era suonata da Mick
Abrahams. Molte foto dei Tull a Parigi vennero scattate proprio in occasione
della loro permanenza per le riprese televisive alle quali si è fatto riferimento,
a settembre. Compresa quella a colori che li vede tutti attorno ad un lampione,
con Ian Anderson aggrappato in cima indossando il giaccone a scacchi arancioni
e neri. Assieme a loro è sempre presente il produttore e manager Terry Ellis,
visibile sia all’inizio del documentario, quando i Tull stanno per salire sul
palco della Royal Albert Hall, sia nelle foto che vedono il gruppo prepararsi
sul palchetto rotondo della Tv francese per ‘Living in the Past’. Egli apparirà
anche nel film dell’Isola di Wight’70. E del resto, la stessa etichetta
Chrisalis, nella sua seconda parte, prende il nome proprio da Ellis. Il 19
dicembre del 1969, ai soliti Morgan Studios, i Jethro Tull chiuderanno l’anno
registrando i brani ‘The Witch’s Promise’ e ‘Teacher’, con John Evan impegnato
quale ospite sia al piano che all’organo Hammond e al Mellotron. Subito dopo un
lungo articolo di Nick Logan sul New Musical Express suggella il successo della
band negli Stati Uniti.
BENEFIT, 1970
I Jethro Tull tennero ancora un breve tour europeo all’inizio
di gennaio del 1970, sempre con la formazione a quattro elementi, tra
Danimarca, Finlandia, Svezia e Germania. In coincidenza con la prima di queste
date, il 16 gennaio, venne pubblicato il singolo ‘The Witch’s Promise’ /
‘Teacher’. I Tull promossero entrambi i brani partecipando a varie trasmissioni
televisive. E così il 1970, insieme alle immagini dei concerti dei festival di
Tanglewood e dell’Isola di Wight, rimane a tutt’oggi l’anno che ci ha lasciato
più materiale video dei Jethro Tull della prima ora. Nonostante John Evan
avesse partecipato alla registrazione dei due pezzi, Ian Anderson e compagni
comparvero in Tv quasi sempre senza di lui, in playback. Abbiamo così la
versione di ‘The Witch’s Promise’ al noto programma inglese ‘Top of the Pops’ e
al tedesco ‘Beat Club’, mentre ‘Teacher’ venne presentata in varie trasmissioni
televisive, compresa una che ci mostra un inedito Ian Anderson (ancora al ‘Beat
Club’) con chitarra elettrica Les Paul dorata a tracolla. Ian compare sempre con
il giaccone a scacchi arancioni e neri, occhi spiritati, smorfie stralunate e
capelli e barba biondi più scarmigliati rispetto all’anno precedente. Anche
Glenn Cornick si scatena con il suo nuovo basso dalla forma simile alle
chitarra Gibson SG “diavoletto” (lo stesso strumento che usava già nel
documentario del 1969), mentre Martin e Clive appaiono più compassati. Durante
l’apparizione di ‘The Witch’s Promise’ a ‘Top of The Pops’ Martin Barre porta
un cappello in testa, mentre l’esecuzione dello stesso brano al ‘Beat Club’
vede il gruppo ripreso da un’unica telecamera fissa, con i loro primi piani
sullo sfondo, alternati alla foto interna di ‘This Was’, con la band al Sanbury
Jazz & Blues Festival del 1968. Esiste anche una bella immagine che vede i Tull
prepararsi a questa esecuzione al ‘Beat Club’ di Brema, il 19 febbraio 1970:
Ian Anderson è seduto sul palco mentre suona il flauto, con il giaccone a
scacchi ripiegato accanto a lui. In questo pezzo Martin è alla chitarra
acustica, mentre durante ‘Teacher’ utilizza la chitarra elettrica Les Paul che
lo accompagnerà anche negli anni successivi, fino al 1977 (escluso il biennio
1974-1975, che lo vedrà alla Gibson SG rossa). Spesso compare in Tv con un
berretto di pelliccia. ‘Teacher’ esiste nella versione con e senza flauto, ma è
sempre quest’ultima ad essere eseguita in televisione. Ian Anderson non si
troverà mai a proprio agio nel corso di apparizioni televisive quali quelle di
‘Top of the Pops’, sentendosi un po’ stupido nel dover mimare in playback i brani
da promuovere. Ad ogni modo questi videoclip, oggi restaurati e spesso
sincronizzati con la versione stereo dei dischi, rappresentano documenti di
ottima qualità per vedere i Jethro Tull dei primi tempi. La versione in Dvd del
video celebrativo dei 25 anni della band vedrà anche, come ‘hidden track’
(brano nascosto) un’altra apparizione Tv per ‘The Witch’s Promise’. Come detto,
Ian Anderson indossa sempre il giaccone a scacchi arancioni e neri, strappato
al concerto di Dublino del 27 settembre. Il leader dei Tull continuerà ad
usarlo comunque per un lungo periodo di tempo, potendosi anche muovere più
agevolmente. L’indumento era stato acquistato al negozio Morris Angels di
Londra, che vendeva costumi teatrali. Anche Martin Barre si sentiva a disagio
quando era costretto a suonare in playback: in un’ occasione prese la
metropolitana per recarsi presso gli studi di ‘Top of the Pops’, e non dovette
fare altro che starsene con la chitarra appesa al collo. Mentre il gruppo si esibiva in Tv, alcune ragazze
urlavano scatenate davanti a loro. Alla fine del brano Martin ripose il suo
strumento nella custodia e tornò a casa prendendo lo stesso treno sotterraneo.
Accanto a sé ritrovò le ragazze che poco prima si scatenavano negli studi del
noto programma musicale. Ma questa volta neanche lo riconobbero, e lo
ignorarono completamente! Il 2 febbraio 1970 Ian Anderson sposa Jennie Franks a
Watford, in Inghilterra. A metà dello stesso mese la band è a Burbank, in
California, per partecipare ad uno special televisivo che li vede protagonisti
insieme a Santana, Ray Charles, The Nice e all’orchestra filarmonica di Los
Angeles. Il 21 febbraio suonano per la prima volta in Germania, a Francoforte.
Qui oltre duemila fans si presentarono senza biglietto, con conseguenti scontri
con la polizia e vetrate andate in frantumi. Tra il dicembre 1969 ed il gennaio
1970 viene registrato il terzo album, intitolato ‘Benefit’, sempre ai Morgan
Studios di Londra, e con Terry Ellis (insieme allo stesso Anderson) nella veste
di produttore. La nuova etichetta discografica Chrisalis si caratterizza,
appunto, per il marchio raffigurante una svolazzante crisalide. Anche qui John
Evan compare come ospite, conferendo al lavoro una maggior eleganza, grazie
soprattutto ai suoi contributi al pianoforte, di evidente derivazione classica,
che impreziosiscono non poco i brani del nuovo lavoro. Anche se non mancano
quelli d’impatto, per i quali Evan passa all’organo Hammond. Al tecnico del
suono Robin Black si affianca John Burns, che seguirà il gruppo anche durante
il tour di Benefit. Burns aveva lavorato in sala regia anche su ‘Stand Up’
accanto ad Andy Johns, e quando Terry Ellis non riuscì a convincere Black a
rimanere al mixer per i concerti del nuovo anno, affidò il compito a John
Burns, che trovò esaltante l’esperienza. Il cambiamento del fonico non comportò
differenze sostanziali, dal momento che Ian Anderson sapeva esattamente cosa
voleva ottenere. Il mixer che avevano a disposizione per registrare ‘Benefit’
avrebbe consentito una registrazione stereo della batteria. Ma ciò non fu
possibile perché molti canali erano già occupati dai diversi flauti, da più
chitarre elettriche e da altri strumenti, oltre che dalla doppia voce di Ian
Anderson. L’album viene pubblicato il 20 aprile 1970 e vende discretamente,
rimanendo però quasi oscurato dal successo del disco precedente (‘Stand Up’) e
successivo (‘Aqualung’). Il brano di apertura, ‘With You There to Help Me’, è
subito contraddistinto dal pianoforte di John Evan e da un flauto singhiozzante
e riverberato di Ian Anderson, che ci introducono in un’atmosfera più cupa e
misteriosa rispetto alla festosità di ‘Stand Up’. E del resto i Jethro Tull
avrebbero quasi sempre alternato album effervescenti ad altri dalle tonalità
più scure. Su questo pezzo Ian Anderson canta due volte, sovrapponendo in
studio le linee vocali, in modo da conferire maggior densità alla voce:
excamotage che avrebbe utilizzato in molte altre occasioni. ‘Alive and Well and
Living In’ proviene dallo sviluppo di un frammento che i Tull suonavano già in
concerto nel 1969, come anche la concitata ‘Play in Time’, che era infatti stata
registrata l’1 settembre di quell’anno. Dal momento che quest’ultimo brano era
stato inciso dai Jethro Tull nella formazione a quattro elementi, l’organo
Hammond venne di certo aggiunto da John Evan durante le session per il disco
nuovo. ‘Nothing To Say’ ha una melodia bellissima e una splendida linea di
basso: del resto, ‘Benefit’ è il disco che contiene il miglior lavoro da parte
di Glenn Cornick, fenomenale su tutti i brani. Molto bella anche ‘Inside’.
L’unica pecca di quest’album è quella di non avere un pezzo che riesca a
spiccare sugli altri, e che possa funzionare in radio come singolo (insomma,
un’altra ‘Bourèe’, o un’altra ‘Aqualung’). Veramente pregevoli anche le strofe
di ‘For Michael Collins, Jeffrey and Me’, con intricato arpeggio di chitarra
acustica e piano all’unisono. Naturalmente il ‘Jeffrey’ del titolo è sempre
l’amico di Ian Anderson, mentre Michael Collins era l’astronauta che, durante
il primo sbarco dell’uomo sulla Luna (all’epoca recentissimo) era dovuto
rimanere a bordo del modulo lunare, senza poter mettere piede sul suolo come i
suoi compagni: e infatti Ian, impersonando Collins, nel ritornello canta: “Sono
con voi, ragazzi”. Lo stesso Anderson utilizza molto la chitarra acustica,
oltre al flauto e al mandolino. Su questo lavoro scompare invece l’armonica, e
non c’è più traccia del blues che era presente sui due primi dischi. ‘A Time
for Everything?’ è caratterizzata da un fischio di chitarra (il cosiddetto
‘feedback’), che viene mantenuto a lungo, mentre il lavoro di Martin si
sviluppa su entrambi i canali, destro e sinistro. Il chitarrista utilizza una
Gibson Les Paul Custom su tutto ‘Benefit’. Il lavoro si chiude con l’acustica
‘Sossity; You’re a Woman’: Barre, che non aveva capito il gioco di parole di
Ian Anderson fra il nome femminile ‘Sossity’ e la parola ‘society’ (società),
aveva dipinto il nome ‘Sossity’ sulla sua barca: e in un secondo momento,
resosi conto dell’equivoco, l’aveva rimosso! La copertina del nuovo album
mostra i quattro elementi del gruppo (escluso Evan) come se fossero sagome di
carta ritagliate sulle assi di un palcoscenico. E sul retro, le stesse figure
sono viste di spalle, con riportati sopra i nomi dei singoli componenti. I
brani di ‘Benefit’ che verranno messi in scaletta per i concerti del 1970
saranno ‘With You There To Help Me’, l’aggressiva ‘To Cry You a Song’ e
‘Sossity; You’re a Woman’ (pezzo che, dal vivo, vedrà Ian Anderson e Martin
Barre seduti imbracciando le chitarre acustiche, con incluso un frammento di
‘Reasons for Waiting’, dal disco precedente). I primi due di questi brani erano
dedicati alla moglie di Ian Anderson, Jennie Franks, segretaria della Chrisalis
Records. Il testo di ‘To Cry You a Song’, in particolare, racconta dello stesso
Anderson il quale, dopo aver viaggiato a lungo in aereo per via delle lunghe
tournèe, prende di corsa un taxi a Londra per raggiungere al più presto la
moglie a casa, trovandola sulla porta con un sorriso bello quanto mai prima.
Nella realtà la situazione non reggerà a lungo, ed il primo matrimonio di Ian
finirà presto, al contrario del secondo (con la signora Shona Anderson) che
dura dal 1976 ad oggi. Il nome di Jennie Franks è rimasto tuttavia l’unico ad
affiancare quello di Ian Anderson quale autore di un brano dei Jethro Tull: e
si tratterà proprio di ‘Aqualung’, il loro pezzo più famoso. Solo la versione
americana di ‘Benefit’ conterrà anche il brano ‘Teacher’. Se nel testo di ‘For
a Thousand Mothers’, il brano che chiudeva ‘Stand Up’, Ian irrideva in qualche
modo la madre, rinfacciandole di avercela fatta con la musica, contrariamente a
quanto lei potesse pensare, nel brano ‘Son’, incluso in ‘Benefit’, è il padre
ad essere presentato come un uomo capace solo di dare ordini, ammonendo il
figlio riguardo al fatto che “i soldi non crescono sugli alberi”, inducendolo
infine ad andare via di casa. La sequenza dei brani del nuovo disco
è comunque la seguente: ‘With You There to Help Me’, ‘Nothing to Say’, ‘Alive
and Well and Living In’, ‘For Michael Collins, Jeffrey and Me’, ‘To Cry You a
Song’, ‘A Time for Everything?’, ‘Inside’, ‘Play in Time’ e ‘Sossity; You’re a
Woman’. L’ultimo show
dei Jethro Tull in quattro si era svolto a Francoforte il 21 febbraio 1970. Ian
Anderson si era però reso conto che il gruppo aveva bisogno di un tastierista
anche in tour, specie per poter eseguire le canzoni nuove. E così aveva
telefonato dalla Germania a John Evan, invitandolo ad unirsi in pianta stabile
alla band per i successivi concerti. La prima data di Evan insieme ai Tull sarà
quella di Norimberga, il 5 aprile del 1970 (lo stesso mese in cui sarebbe stato
pubblicato ‘Benefit’), per due spettacoli nello stesso giorno. Così come per la
data seguente ad Amburgo. Il 10 aprile la nuova formazione a quintetto si
riunisce al Lyceum di Londra per provare lo show prima di partire per gli Stati
Uniti. E qui, con la nuova formazione allargata, esordiscono a Denver il 17 aprile. Avrebbero
in seguito toccato tantissime città degli Stati Uniti, partendo dalla
California (Long Beach, Santa Barbara, San Bernardino, San Diego), per poi
spostarsi fino alle Isole Hawaii, per un concerto ad Honolulu, e a San
Francisco per una serie di date al Fillmore West. Fu invece al Filmore East di
New York che Clive Bunker, il 23 maggio, tenne un assolo di batteria lungo 15
minuti. Durante il tour di ‘Benefit’ negli States John Burns, l’ingegnere del
suono che aveva partecipato a quelle registrazioni, divenne, insieme a Terry
Ellis, una sorta di settimo elemento del gruppo: aveva solo 20 anni e si
entusiasmò nel vedere suonare, insieme ai Tull, gli Who, Johnny Winter, i
Mountain, Ritchie Havens, Joni Mitchell e Jimi Hendrix. In un’occasione si
addentrò nel deserto di Phoenix, in Arizona, insieme a Glenn e Clive, e con
loro comprò alcuni braccialetti degli indiani Navajo. In un altro caso gli
addetti alla sicurezza, forse a causa dell’aspetto che avevano all’epoca (erano
giovanissimi e portavano i capelli lunghi) non credettero che lui ed Ellis
fossero rispettivamente il fonico ed il manager della band, e fu loro impedito
l’accesso all’area del concerto: persero molto tempo prezioso, ed Ellis andò su
tutte le furie. Quest’ultimo, alla fine delle serate che lo avevano visto
soddisfatto per la qualità del suono, usava complimentarsi con Burns. Quando
invece rimaneva meno entusiasta, semplicemente non diceva nulla. Glenn Cornick
prese ad accompagnarsi con Judy Wong e dunque, in albergo, divideva la camera
con lei, e non più con qualcuno dei suoi compagni della band. Prima del
concerto di Honolulu si divertirono giocando a calcio tutti insieme. Le foto di
quei giorni, al di fuori del palco,
ritraggono i Tull felici sotto il sole, scherzando sotto le palme. John
Evan, adesso con capelli biondi piuttosto lunghi, si era visto catapultato
dall’oscurità degli studi di registrazione (e delle brumose terre d’Inghilterra
e Germania) agli immensi spazi assolati della California. Sul palco utilizzava
l’organo Hammond sulla sinistra ed il pianoforte a coda dalla parte destra: e
dunque doveva di continuo spostarsi da un lato all’altro del palcoscenico, a
seconda del brano da eseguire. Gli anni successivi l’avrebbero visto mantenere
la posizione fissa a destra, rinunciando al pianoforte per avvalersi del piano
elettrico e dell’organo. Nel 1970 indossava una sorta di tunica bianca stretta
in vita, dalle ampie maniche, e non ancora giacca e pantaloni (sempre bianchi)
con cravatta rossa a pois, che avrebbero caratterizzato la sua immagine
dall’anno seguente in poi. Intanto, il 24 aprile (quattro giorni dopo
‘Benefit’) esce il singolo ‘Inside’ / ‘Alive and Well and Living In’. Il tour
americano prosegue per tutto l’anno, fino al 15 novembre del 1970, compreso
l’Atlanta Pop Festival del 4 luglio. I pochi concerti al di fuori degli USA
sono quelli all’Olympia di Parigi del 10 ottobre e la partecipazione al
Festival dell’Isola di Wight del 30 agosto, seguita da un breve tour inglese
dal 23 settembre (City Hall di Sheffield) al 13 ottobre (Royal Albert Hall di Londra),
con i Procol Harum come gruppo d’apertura. Non manca una data canadese per lo
show tenuto a Vancouver l’11 agosto. Esiste il filmato in bianco e nero
contenente estratti di ‘By Kind Permission Of’ e ‘Nothing is Easy’ tratti
proprio dalla data di Parigi sopracitata. La scaletta “tipo” dei concerti di
questo periodo include ‘Nothing is Easy’, ‘My God’ (ancora inedita), ‘With You
There to Help Me’ (con una lunga appendice pianistica di John Evan, in seguito
intitolata appunto ‘By Kind Permission Of’), ‘A Song For Jeffrey’, ‘To Cry You
a Song’, ‘Sossity; You’re a Woman’ (con l’intermezzo di ‘Reasons for Waiting’),
‘Dharma for One’ (in una nuova versione cantata, che include uno strambo coro
da parte di Ian, Clive, John e Martin, oltre ad un lunghissimo assolo di
batteria). Quindi il bis, con ‘We Used To Know’, seguita dal ‘Guitar Solo’ di
Martin Barre (caratteristica di fine show che si ripeterà anche negli anni a
venire) e ‘For a Thousand Mothers’. A volte come apertura di spettacolo viene
scelta ‘My Sunday Feeling’, ed in alcune rare occasioni farà di nuovo la sua
comparsa ‘Bourèe’. Durante l’assolo di flauto inserito nel brano ‘My God’ Ian
Anderson, ad un certo punto, finge sempre di starnutire, fermandosi e
scusandosi con in pubblico, per poi riprendere a sbuffare dentro al suo
strumento. A documentare gli spettacoli del 1970 abbiamo, come accennato, le
riprese del festival di Tanglewood, in USA (7 luglio), e dell’Isola di Wight
(30 agosto): Il primo show è filmato quasi per intero (si interrompe durante
l’assolo di Martin Barre prima della conclusiva ‘For a Thousand Mothers’). I
brani presenti nel documento (mai uscito ufficialmente) sono: ‘Nothing is
Easy’, ‘My God’, ‘With You There To Help Me’ / ‘By Kind Permission Of’, ‘Dharma
for One’, ‘We Used To Know’ ed il lungo ‘Guitar Solo’ di Martin Barre, con
interventi da parte di Clive Bunker e John Evan. Quando la band fa il suo
ingresso in scena, Ian saluta il pubblico salendo su una sedia. E durante il
pezzo d’apertura dà un’occhiataccia a Glenn Cornick perché sbaglia un
passaggio. Nel corso di ‘By Kind Permission Of’ il gruppo era solito ritirarsi
dietro le quinte, lasciando il solo John Evan sul palco, impegnato nelle sue
evoluzioni pianistiche. Ian Anderson affiancava Evan con qualche intervento di
flauto, ma in un’occasione raggiunge il microfono in leggero ritardo. Peccato che le riprese offrano pochi primi
piani: in particolare, Clive e Martin vengono inquadrati quasi sempre da
lontano mentre sono impegnati nei rispettivi assolo. Al festival partecipano
gli Who, e Pete Townshend nomina anche i Jethro Tull al microfono, quando
ringrazia i gruppi intervenuti all’evento. In questo periodo, dopo
l’introduzione di ‘My God’, Ian Anderson appoggia sempre la chitarra acustica
sul pianoforte di John Evan. L’apparizione all’Isola di Wight, al largo delle
coste inglesi, si tenne invece in agosto, la stessa sera in cui si esibì anche
Jimi Hendrix (che sarebbe morto il mese seguente). Mentre però il concerto del
fenomenale chitarrista venne filmato per intero, di quello dei Tull esistono di
fatto solo quattro brani: ‘My Sunday Feeling’, ‘My God’, ‘Dharma for One’ e
‘Nothing is Easy’, oltre alla sezione finale di ‘For a Thousand Mothers’. E del
resto, dei grandi Free di Paul Rodgers allo stesso festival furono ripresi soli
tre pezzi. Così, in occasione dell’uscita del Dvd dei Tull ‘Nothing is Easy’:
Live at the Isle of Wight 1970’, pubblicato nel marzo del 2005, per “allungare
il brodo” vengono inserite anche un’intervista a Ian Anderson, la storia del
gruppo e l’apparizione al ‘Circus’ dei Rolling Stones, davvero poco attinente.
Inoltre, le immagini di ‘We Used To Know’ e ‘For a Thousand Mothers’, in realtà
inesistenti, vengono sostituite da quelle tratte dai brani già visti, più o
meno sincronizzate con la musica. Soltanto il reprise dell’ultimo pezzo è
effettivamente girato durante quel festival. Il filmato contiene anche qualche
momento delle prove diurne del gruppo, con John Evan al piano in maglietta
gialla, Martin Barre con la giacca verde e Ian con giaccone di pelle e
maglietta viola. Non manca la sequenza che vede Terry Ellis polemizzare con gli
organizzatori del festival, invitandoli a smetterla di comunicare al pubblico
che i gruppi non avrebbero suonato se non fossero stati pagati in anticipo. Per
raggiungere l’Isola di Wight i Tull, insieme al loro seguito, avevano preso
prima un aircraft, e poi un elicottero al fine di raggiungere il palco, dal
momento che tutte le strade erano intasate. Durante le immagini delle sound
check la band si accinge a suonare la fine di ‘By Kind Permission Of’, ma
l’audio viene sostituito da ‘Bourèe’. L’omonimo Cd contiene invece l’intera
registrazione di quello show, che si tenne il quinto giorno del festival. In
realtà la prima parte del brano ‘Nothing is Easy’ (l’ultimo prima del bis) era
già comparso nel 1993 sul video dei 25 anni della band. Ma si sarebbe dovuto
aspettare fino al 2005 per vederlo integralmente, insieme agli altri pezzi. Il
filmato dell’Isola di Wight ’70 è peraltro il primo dei Jethro Tull con audio
stereo: il basso di Glenn si sente sdoppiato, con un suono più distorto sul
canale sinistro. E’ presente anche un frammento nel quale Ian Anderson
rassicura il pubblico riguardo al fatto che non era affatto vero (come
comunicato dagli organizzatori) che non avrebbero suonato se prima, durante le
prove del suono, il pubblico non si fosse allontanato dal palco. Le “buone
vibrazioni” di Woodstock sembrano in ogni caso già un lontano ricordo, se si
pensa anche alle immagini della polizia che lancia i cani contro i giovani che
tentano di abbattere le barriere per accedere all’area del festival. Prima di
iniziare con ‘My Sunday Feeling’ Ian tranquillizza la band, dicendo che sarebbe
stato come suonare al Marquee Club, nonostante avessero di fronte centinaia di
migliaia di persone. L’attacco del brano è comunque devastante, con un sound
dal grandissimo impatto. Subito dopo Martin Barre si libera della giacca verde
che indossava già durante il sound check diurno, proseguendo il concerto con
una lunga camicia bianca stretta in vita da una larga fascia colorata. Spettacolare l’assolo di flauto di Ian
Anderson durante ‘My God’, così come quello di Clive Bunker nel corso di
‘Dharma for One’. Ian appare davvero incontenibile durante l’intero spettacolo:
tutto in giallo sotto il consueto giaccone a scacchi arancioni e neri, è un’autentica
furia scatenata. E tutto il gruppo esplode su ‘Nothing is Easy’, con John Evan
che si dimena sull’organo sbracciandosi come un pazzo nel finale del pezzo. Un
altro documento stereo dei Tull dal vivo nel 1970, però solo audio, è quello
relativo al concerto benefico tenuto alla prestigiosa Carnegie Hall di New York
il 4 novembre: una piccola parte di questo show era già stata pubblicata sulla
raccolta antologica con inediti ‘Living in the Past’, del 1972. E in questo
caso si trattava solo di ‘By Permission Of’ (l’appendice pianistica che in
realtà seguiva ‘With You There to Help Me’) e di ‘Dharma for One’ nella nuova
versione, del tutto diversa da quella di ‘This Was’. Questo concerto sarebbe
finalmente uscito per intero all’interno del box-set celebrativo dei 25 anni
dei Jethro Tull, nel 1993. E di nuovo nel 2010, con un mix differente, nella
‘Collector’s Edition’ del disco ‘Stand Up’ (scelta davvero opinabile, dal
momento che questo show avrebbe dovuto essere abbinato ad una nuova edizione di
‘Benefit’, e non di ‘Stand Up’). Il nuovo missaggio del concerto presenta un
assolo di batteria più lungo. Ed è anche diversa la sezione cantata in coro
sullo stesso brano (‘Dharma for One’), a dimostrazione del fatto che la
versione comparsa su ‘Living in the Past’ venne perfezionata in studio. In
questa parte del pezzo, infatti, John, Martin e Clive abbandonavano i propri
strumenti per andare a cantare (ripetendo incessantemente “Dharma”) tutti
intorno ad un microfono, accompagnandosi con piccole percussioni, e supportati
dai vocalizzi di Ian Anderson, mentre a suonare rimaneva il solo Glenn Cornick
al basso. Ma i cori originali appaiono molto più sgangherati rispetto a quelli
che si possono ascoltare su ‘Living in the Past’. Inoltre, su quest’ultimo
disco si può anche contare una voce in più, dal momento che Glenn non
partecipava al coro: ulteriore conferma del ritocco effettuato in studio per la
pubblicazione del 1972. Il concerto newyorkese del 4 novembre si svolse in
aiuto della ‘Phoenix House’, un centro cittadino di riabilitazione per
tossicodipendenti, e Ian Anderson indossava di nuovo il giaccone a scacchi
arancioni e neri. I titoli erano: ‘Nothing is Easy’, ‘My God’,
‘With you There to Help Me’ / ‘By Kind Permission Of’, ‘A Song For Jeffrey’,
‘To Cry You a Song’, ‘Sossity; You’re a Woman’ (incl. ‘Reasons for Waiting’) e
‘Dharma for One’. Quindi il bis, con ‘We Used To Know’, ‘Guitar Solo’ e ‘For a
Thousand Mothers’. La
presentazione iniziale della band è reperibile solo su ‘Living in the Past’. E
qui si possono ascoltare anche Ian Anderson e John Evan provare,
rispettivamente, microfono e organo Hammond, Martin Barre accordare la
chitarra, oltre al grande applauso del pubblico all’ingresso della band sul
palco. Una foto ritrae Ian Anderson e sua moglie Jennie quello stesso giorno
nella celebre sala da concerto di New York insieme al duca e alla duchessa di
Bedford. Come detto, all’Isola di Wight lo show venne invece aperto da ‘My
Sunday Feeling’, oltre a vedere la comparsa di una rara versione di ‘Bourèe’ simile
a quella originale. Questa comunque la scaletta completa di quella
sera: ‘My Sunday Feeling’, ‘My God’, ‘With You There to Help Me’ / ‘By Kind
Permssion Of’, ‘To Cry You a Song’, ‘Bourèe’, ‘Dharma for One’, ‘Nothing is
Easy’, ‘We Used To Know’, ‘Guitar Solo’ e ‘For a Thousand Mothers’. Durante I concerti del 1969 e 1970 I
Jethro Tull, dopo aver lasciato il palcoscenico, tornavano in scena per il
lunghissimo bis finale, che si sarebbe svolto senza soluzione di continuità:
inizialmente veniva eseguita la prima parte di ‘We Used to Know’. Giunti al
momento dell’assolo di Martin Barre, il gruppo non riprendeva la successiva
strofa del brano, accennando invece il tema di ‘For a Thousand Mothers’. E a
questo punto Martin rimaneva solo sul palco, alternando schitarrate in
distorsione ad arpeggi vagamente barocchi. In qualche raro momento
intervenivano anche John Evan e (soprattutto) Clive Bunker. Quindi tutta la
band tornava in scena, mentre Barre suonava un riff utile a legare il suo
assolo all’esplosivo finale di ‘For a Tousand Mothers’. Una foto di Robert
Ellis alla Royal Albert Hall (1 ottobre 1969) ci mostra Ian Anderson e Glenn
Cornick riposarsi quasi sdraiati ed appoggiati agli amplificatori proprio
mentre Martin è impegnato in questo suo lungo assolo, coadiuvato da Clive alla
batteria. Bootleg di modesta qualità a parte, i Cd dell’Isola di Wight e della
Carnegie Hall, entrambi del 1970, sarebbero rimasti per anni gli unici
concerti registrati dal mixer, seguiti
da un ‘vuoto’ che andava fino allo show registrato in audio e in video durante
la trasmissione televisiva ‘Sight & Sound’ del 1977. Il 2015 ha visto in
compenso la tanto attesa pubblicazione del concerto tenuto al Palazzo dello
Sport di Parigi del 5 luglio 1975, contenuto nella nuova edizione del disco
‘Minstrel in the Gallery, 40th Anniversary: La Grande Edition’. E il 2017
l’uscita, in Dvd e Cd, del concerto del 21 novembre 1977 a Landover, negli
Stati Uniti. Per decenni, invece, non era esistito altro che il live ufficiale
‘Bursting Out’ del 1978. Il 23 giugno 1970 i Jethro Tull presentarono ‘With You
There to Help Me’ al programma televisivo tedesco ‘Beat Club’: anche in questo
caso, all’estratto da ‘Benefit’ seguiva il lungo assolo di John Evan (‘By Kind
Permission Of’) al pianoforte a coda, con citazioni di Beethoven e Debussy, più
qualche delicato intervento di Ian Anderson al flauto. Dopo tanta eleganza, il
finale del brano ritrovava i Tull più irruenti, con l’ingresso di tutta la band
per il fragoroso accordo di chiusura, dopo un assurdo urlo a più voci (“Huya,
Huya”!). Di questa session alla Tv tedesca esiste anche una versione incompleta
di ‘Nothing is Easy’, interrotta perché Anderson sembra soffrire di qualche
fitta al costato. Paradossalmente, questo brano monco, ben illuminato, si vede
benissimo, mentre l’altro, effettivamente andato in onda, pur di ottima
qualità, è parzialmente guastato dal buio eccessivo nel quale sono immersi gli
elementi della band, e dagli inutili “effetti speciali” dell’epoca. Questa
volta Ian non indossa il cappotto a scacchi arancioni e neri, bensì la giacca a
quadri multicolori. Durante il tour del 1970, quando non era sul palco, portava
spesso un giaccone di pelle scuro (come testimoniato da alcune foto, oltre che
dalle belle riprese del sound check all’Isola di Wight). Ad ogni modo, alla
fine dell’ultimo tour americano, Terry Ellis prese da parte Glenn Cornick nella
caffetteria dell’aeroporto per comunicargli che Ian Anderson non lo voleva più
nel gruppo. Non solo: il povero Glenn sarebbe dovuto rientrare in Inghilterra
con un altro volo, il giorno dopo, e non con il resto della band. Il suo ultimo
concerto con i Jethro Tull sarebbe stato dunque quello del 15 Novembre 1970
presso la State University di New York. Glenn era un eccellente bassista, ma
l’inflessibile Anderson non gradiva il fatto che lui amasse la vita da rock
star, il divertimento e tutto il resto. E non è da escludere che il leader dei
Tull avesse già in mente l’idea di sostituire Glenn Cornick con il mai
dimenticato amico Jeffrey Hammond. Cosa che avvenne puntualmente il mese
successivo, nel dicembre del 1970. Glenn prese molto male quella sua
inaspettata estromissione, dopo tanti anni di gavetta culminati con le grandi
tournèe internazionali, e vedendosi pure costretto a rientrare a casa da solo.
Per anni, dopo aver formato prima i Wild Turkey e poi i Karthago, si sarebbe
rifiutato di ascoltare i nuovi album dei Jethro Tull. E nel video del 25°
anniversario, pur sorridente, evita di rispondere ad una domanda relativa alla
sua uscita dal gruppo. Solo molti anni dopo si sarebbe riconciliato con Ian
Anderson.
AQUALUNG, 1971
Con il nuovo bassista Jeffrey Hammond Hammond (la ripetizione
del cognome fu ideata per puro sfizio) i Jethro Tull iniziarono le
registrazioni del nuovo disco (non sapendo ancora che si sarebbe chiamato
‘Aqualung’, e che sarebbe divenuto il loro più grande successo) presso gli
Island Studios di Londra, tra il 13 ed il 20 dicembre 1970, incidendo quasi
tutti i titoli che avrebbero fatto parte di quel lavoro, ma che sarebbero stati
registrati nuovamente nel febbraio del 1971 per il master definitivo. E così
vennero messe su nastro le prime versioni di ‘Aqualung’, ‘Cross-Eyed Mary’,
‘Wond’ring Aloud’, ‘Cheap Day Return’, ‘Locomotive Breath’, ‘Hymn 43’, ‘My
God’, ‘Wind Up’ e ‘Up to Me’. Rimane invece
inedita la traccia intitolata ‘Pancake Domesday’, incisa il 17 dicembre.
Oltre a questi brani, vennero registrati anche ‘Up the Pool’ (in una sua prima
versione) e ‘Lick Your Fingers Clean’,
che sarebbero stati pubblicati in seguito. L’ultimo di questi pezzi, inciso il
20 dicembre, avrebbe dovuto vedere la luce come singolo, ma questo 45 giri non
uscì mai, ed il brano (volutamente chiassoso) sarebbe finalmente apparso
all’interno del cofanetto celebrativo del 20° anniversario della band, nel 1988.
‘Up the Pool’, in una nuova versione, sarebbe invece stata inclusa nell’EP
‘Life is a Long Song’. Voci di corridoio hanno parlato di una iniziale
insoddisfazione di Martin Barre a seguito dell’ingresso di Jeffrey nel gruppo,
dal momento che questi, meno dotato tecnicamente rispetto al suo predecessore,
aveva costretto i Tull a qualche prova di troppo. Il nuovo bassista sarebbe
comunque migliorato tantissimo in breve tempo, per poi diventare parte
integrante di una delle formazioni più amate dai fans. In realtà anche Glenn
Cornick aveva fatto in tempo a registrare qualcuno dei brani in seguito
comparsi su ‘Aqualung’: ‘My God’ era infatti già stata messa su nastro con
Glenn al basso ai Morgan Studios tra l’11 e il 12 aprile del 1970, così come la
versione originale (molto più lunga rispetto a quella poi apparsa su
‘Aqualung’) di ‘Wond’ring Aloud’: il brano, ribattezzato ‘Wondr’ring Again’
sulla raccolta ‘Living in the Past’, era quello che Glenn Cornick preferiva tra
tutti quelli realizzati con la band. Venne incisa presso gli stessi Morgan
Studios il 21 giugno del 1970, oltre a ‘Just Trying To Be’, registrata il 12
aprile 1970. Il fonico era Robin Black, che avrebbe seguito tutti i lavori dei
Jethro Tull fino al 1982. Sappiamo che ‘My God’ era già in scaletta durante i
concerti del 1970: la prima registrazione del brano, avvenuta, come detto,
nell’aprile di quell’anno con Glenn al basso, presenta diverse differenze
rispetto a quella poi apparsa su ‘Aqualung’: all’inizio possiamo ascoltare una
falsa partenza di Ian alla chitarra acustica, seguita da qualche breve battuta
scherzosa rivolta dallo stesso leader dei Tull al fonico, prima che il pezzo
cominci di nuovo. Questa breve sezione avrebbe anche potuto essere tagliata, ma
venne mantenuta sull’edizione dei 40 anni del disco come documento di quei
giorni. Molto diverso è l’assolo a più flauti accompagnato dai cori; ed anche
il finale, che chiude il pezzo “con il botto”, come nelle esecuzioni dal vivo.
Al contrario di quanto avverrà 10 mesi dopo, con Jeffrey al basso. Nel febbraio
del 1971, tra i giorni 5 e 12, sempre agli Island Studios vennero registrate
infatti le versioni definitive per il nuovo LP. Salvo ‘Up to Me’, che,
introdotta da una risata, risaliva al 20 dicembre 1970. I futuri classici del
gruppo, ‘Aqualung’, ‘My God’ e ‘Locomotive Breath’ furono messi su nastro tutti
lo stesso giorno, e cioè il 12 febbraio. Jimmy Page era presente mentre Martin
Barre registrava il suo assolo in ‘Aqualung’: cosa che non deve stupire, dal
momento che i Led Zeppelin stavano registrando il loro quarto album in quegli
stessi Island Studios. Prima di queste sedute, però, i Jethro Tull erano già
partiti in tour con il nuovo bassista, suonando per tutto il mese di gennaio
tra Danimarca, Svezia, Norvegia, Austria e Germania. Il primo concerto di
Jeffrey con la band fu quello del 6 gennaio 1971 al Club 17, in Danimarca.
Subito dopo la data svizzera del 30 gennaio a Montreux, la band “scende” in
Italia per la prima volta, esibendosi al Teatro Smeraldo di Milano (1 febbraio
1971) e al Teatro Brancaccio di Roma il giorno dopo (due spettacoli, uno alle
16.00 del pomeriggio e l’altro alle 21.00 di sera), facendo il tutto esaurito.
Disordini si registrano a Milano, tra la polizia e i giovani che volevano
entrare senza il biglietto (un fatto che guasterà la gran parte dei concerti
italiani per tutti gli anni ’70) . Qui, tra il pubblico, è presente anche Mauro
Pagani il quale, rimasto folgorato dallo show di Ian Anderson, indurrà la
neonata Premiata Forneria Marconi ad inserire in scaletta ‘My God’ e ‘Bourèe’.
Lo show dei Jethro Tull inizia proprio con ‘My God’: Ian Anderson, seduto nella
semi-oscurità imbracciando la sua chitarra acustica ed indossando il giaccone a
quadri, comunica al pubblico che i Jethro Tull si sono sciolti, e che suonerà
da solo. Invece gli altri componenti del gruppo, nascosti nel buio, scivolano
ciascuno al proprio posto. E quando il pezzo, dopo l’inizio quieto, esplode,
ecco che entrano tutti gli strumenti, come in una deflagrazione, mentre le luci
si accendono di colpo e Ian si alza in piedi, scalciando la sedia per aria. La
gente rimane stordita di fronte ad una tale potenza: è quasi uno shock
collettivo, mentre la voce del leader dei Tull diventa aggressiva ed il flauto
comincia a sbuffare con forza nel microfono. Seguono
‘Aqualung’, ‘With You There To Help Me’/ ‘By Kind Permission Of’, ‘Sossity;
You’re a Woman’ (incl. ‘Reasons For Waiting’), ‘Cross-Eyed Mary’, ‘Drum Solo’,
‘Nothing is Easy’, ‘Wind Up’, ‘Guitar Solo’, ‘Locomotive Breath’,
‘Instrumental’, ed il reprise di ‘Wind Up’. Come si può notare dalla set-list, i pezzi nuovi (ancora
inediti) vengono già ritenuti degni di essere messi in chiusura di show, al
contrario di quanto avviene di solito, quando l’attesa per il finale di
spettacolo è riservata ai “classici” già conosciuti dal pubblico. La sequenza
dei brani è identica anche a Roma. Ma non è sempre così, dal momento che il
concerto di Berlino del 24 gennaio era cominciato invece con un estratto di
‘Wind Up’, seguito da ‘Aqualung’. Proprio allo show tenuto presso il Teatro
Brancaccio di Roma faranno seguito le registrazioni definitive agli Island
Studios, per quello che diverrà il disco dell’affermazione definitiva dei
Jethro Tull a livello internazionale. Ed anche il loro LP più ricordato degli
anni ’70. E questo grazie soprattutto al pezzo di apertura, ‘Aqualung’, con il
celeberrimo riff di Martin Barre che, con quelle micidiali sei note, dà il via
al brano. Riff che, tra l’altro, era stato composto da Ian Anderson sulla sua
chitarra acustica, con successiva raccomandazione a Martin Barre di eseguirlo
alla chitarra elettrica con l’amplificatore a tutto volume! Per inciso, su
questo album Martin utilizza una Gibson Les Paul Junior del 1958. Il disco
avrebbe dovuto chiamarsi ‘My God’, ma l’esistenza di un bootleg dallo stesso
titolo aveva infine portato alla scelta del nome ‘Aqualung’: lo stesso del
barbone, dalle fattezze molto simili a quelle di Ian Anderson, che appariva in
copertina. Il nome del protagonista avvolto nel cappotto, “seduto sulla
panchina di un parco mentre guarda con cattive intenzioni le ragazzine”,
significa più o meno ‘polmone liquido’. Per meglio dire, il rumore del rantolo
roco del barbone, in qualche modo simile a quello di un respiratore
artificiale. La moglie di Ian, come detto già segretaria della Chrisalis,
collaborò sia all’idea della front cover (il clochard traeva ispirazione da una
sua foto) che al testo del brano omonimo. Anche se le scritte vergate in
caratteri gotici sul retro si riferivano in effetti a ‘My God’ (“All’inizio l’uomo
creò Dio”). L’interno della copertina mostrava un dipinto con i componenti del
gruppo raffigurati in abiti stravaganti, all’interno di una Cattedrale: Ian
brandisce un incensiere, Jeffrey beve un sorso con un casco d’aviatore in
testa, Clive se ne sta accovacciato con una
croce in mano, Martin è ritratto in abiti seicenteschi, mentre John Evan
suona il piano con il suo abito bianco con camicia gialla e cravatta rossa a
pois. Tutti i componenti del gruppo appaiono nell’atto di non prendersi molta
cura degli arredi sacri, e del luogo in cui si trovano. La figura del barbone
compare anche sul retro del disco, questa volta raccolto su un marciapiede, con
accanto un cane. L’autore delle illustrazioni risulta essere Burton Silverman,
il fonico John Burns, l’autrice dei testi della title track Jennie Anderson, i
produttori Ian Anderson e Terry Ellis, mentre David Palmer si occupa di
arrangiare e dirigere l’orchestra. John Burns, che aveva
già dato il suo contributo su ‘Stand Up’ e ‘Benefit’, nel 1972 sarà il tecnico
del suono per ‘Foxtrot’ dei Genesis. La sequenza dei brani sul disco è la seguente: ‘Aqualung’,
‘Cross-Eyed Mary’, ‘Cheap Day Return’, ‘Mother Goose’, ‘Wond’ring Aloud’, ‘Up
to Me’, ‘My God’, ‘Hymn 43’, ‘Slipstream’, ‘Locomotive Breath’ e ‘Wind Up’. Per
la prima volta su un disco della band, la batteria è registrata su diverse
tracce. Stranamente, proprio nel pezzo più conosciuto dei Jethro Tull,
‘Aqualung’, è del tutto assente il flauto, vale a dire l’elemento
caratterizzante per il sound del gruppo. Questo brano è anche quello che
contiene forse l’assolo di chitarra più espressivo e riuscito di Martin Barre
durante la sua intera permanenza nei Jethro Tull. Per la distorsione il buon
Martin utilizza un Treble Booster Horneby. Durante la strofa acustica e quieta
del pezzo viene aggiunto alla voce di Anderson ‘l’effetto megafono’ (come già
su ‘A Song for Jeffrey’): nel nuovo mix pubblicato in occasione di ‘M.U. – The
Best of Jethro Tull’ (9 gennaio 1976) la pista vocale sembra diversa, e in ogni
caso questo effetto scompare. ‘Slipstream’ è un pezzo brevissimo,
contrappuntato dagli archi. ‘Mother Goose’ vede
Ian Anderson impegnato in una bella trama di chitarra acustica, che segue la
stessa linea melodica della voce, con
l’accompagnamento di Jeffrey e Martin ai flauti dolci. Il primo
si distingue anche in una morbido controcanto, mentre il secondo rende più
aggressivo il brano quando fa il suo ingresso con la chitarra elettrica
distorta. L’album alterna mirabilmente pezzi rock ad altri più quieti. Le
sezioni folk e quelle d’impatto si fondono spesso all’interno della stessa
canzone, al punto che l’unica traccia interamente rock può essere considerata
la sola ‘Hymn 43’. Molti
di questi titoli diverranno presenze fisse nei concerti degli anni a venire: la
stessa ‘Aqualung’, ‘Cross-Eyed Mary’, ‘Wond’ring Aloud’, ‘My God’, ‘Locomotive
Breath’ e ‘Wind Up’. Non era mai successo prima. Il “crescendo" che
introduceva ‘Cross-Eyed Mary’ era da brividi, sia sul disco che dal vivo. Come
anche l’impatto iniziale di ‘Locomotive Breath’, dopo l’introduzione pianistica
di John Evan. Di ‘Wind Up’ esiste anche una prima versione quadrifonica (‘Quad
Version’), registrata dalla stessa line-up, concepita per una pubblicazione
americana del 1974, e poi riemersa in occasione del 25° anniversario del disco
(1996) e ancora nel 1999. Le recensioni italiane dei concerti a Milano e a
Roma, pur molto positive, avevano espresso una certa delusione nei confronti di
Jeffrey Hammond Hammond, statico nel suo cappotto, e con un berretto scuro in
testa, rispetto all’esuberante presenza scenica di Glenn Cornick. Nessuno
poteva immaginare quale animale da palcoscenico sarebbe divenuto di lì a poco
Jeffrey, con costumi di scena sempre più incredibili (compreso un abito a
strisce verdi, con enormi occhiali colorati sul naso) ed una inesauribile
mobilità sul palco. Una rara foto di questo periodo ci mostra Ian Anderson
suonare il flauto davanti ad un cesto da pallacanestro insieme a Clive e
Jeffrey che, nell’occasione, utilizza un basso Fender Mustang. Tra il 26
febbraio e il 20 marzo i Tull inanellarono un’altra serie di concerti in Gran
Bretagna, mentre l’album ‘Aqualung’ veniva pubblicato il 19 marzo 1971,
raggiungendo il terzo posto della classifica inglese. Negli USA uscì invece il
3 maggio, arrivando al settimo posto. Il primo tour americano con Jeffrey al
basso iniziò a Minneapolis il 1° aprile, per concludersi il 5 maggio al Filmore
East di New York, con quello che sarebbe stato l’ultimo concerto di Clive Bunker
con i Jethro Tull. In questo caso però non si trattò di una estromissione,
bensì di una scelta consapevole di Clive, che si stava sposando. Il suo
sostituto, Barriemore Barlow (il vecchio amico della John Evan Band, che si
chiamava in realtà semplicemente Barrie) venne subito messo alla prova con i
cinque brani destinati all’EP ‘Life is a Long Song’: il brano omonimo, più ‘Up
the Pool’, ‘Dr. Bogenbroom’, ‘From Later’ e ‘Nursie’, tutti registrati presso
gli studi Sound Techniques (gli stessi di ‘This Was’) il 17 maggio del 1971,
pubblicati il 3 settembre e successivamente confluiti in chiusura del doppio
‘Living in the Past’ del 1972. ‘Up the Pool’ è un brano dedicato a Blackpool,
la cittadina sul mare nella quale Ian Anderson aveva trascorso la propria adolescenza.
Il videoclip del brano ‘Life is a Long Song’ sarebbe rimasta l’unica
testimonianza filmata dei Jethro Tull del 1971, con il nuovo batterista in
pantaloncini corti, canottiera e cappello (come sempre negli anni a venire). Al
contrario di Ian Anderson, sempre presente con chitarra acustica e giaccone a
scacchi arancioni e neri, Barrie, Martin, John e Jeffrey si intravedono solo
per pochi secondi. Appena nel video la voce di Anderson viene doppiata, anche
il suo volto si sdoppia in due primi piani; e al momento dell’assolo di flauto
con accompagnamento d’archi, si può vedere lo stesso Ian Anderson volteggiare
al rallentatore, gettando giocosamente il flauto per aria. Incredibilmente, non
esiste un solo filmato dei Jethro Tull mentre eseguono qualcuno dei brani di
‘Aqualung’. Anche se almeno un’apparizione in Tv dovette essere stata fatta,
dal momento che esiste una foto che ci mostra la band in uno studio televisivo
proprio nel periodo di quel disco. Purtroppo all’epoca capitava spesso che i
nastri venissero cancellati per registrarvi sopra altro materiale. In ogni
caso, al contrario del 1970, il 1971 ha fatto pervenire fino a noi quell’unico
video di ‘Life is a Long Song’. E lo stesso sarebbe avvenuto (filmini muti in
super 8 a parte) anche per il 1972, 1973 e 1974 (eccetto qualche intervista a
Ian Anderson). Paradossalmente la formazione di ‘Aqualung’ (Ian, Clive,
Jeffrey, Martin e John) sarebbe stata proprio quella dalla vita più breve, dal
momento che durò solo cinque mesi. Nelle foto del periodo Anderson appare
spesso con un grosso berretto a coprirgli la testa. Il primo spettacolo di
Barriemore Barlow con i Jethro Tull sarebbe stato quello americano di Salt Lake
City del 9 giugno 1971, con il batterista che si vide di colpo sbalzato dai
piccoli club inglesi alle grandi arene statunitensi, di fronte a migliaia di
persone. Per inciso questa line-up dei Tull (Anderson, Barre, Evan, Hammond e
Barlow) sarebbe andata avanti fino al 1975, regalandoci una miriade di
incredibili concerti e alcuni dischi memorabili. A parte Martin Barre, questa
era la formazione già nota come ‘The Blades’ nel lontano 1963. Barrie si
dimostrò presto un drummer formidabile, capace di unire gusto e velocità ad una
tecnica spaventosa. Ma è inutile fare paragoni tra lui e Bunker, dal momento
che si tratta di batteristi dallo stile totalmente diverso. In ogni caso Barlow
avrebbe suscitato la stima e l’ammirazione di John Bonham dei Led Zeppelin. Il
tour USA di cui sopra si sarebbe protratto fino al 14 luglio 1971, con concerti
quasi ogni sera. Gli Yes, che quell’anno promuovevano il loro terzo disco (‘The
Yes Album’) erano il loro gruppo spalla, con il nuovo chitarrista Steve Howe in
formazione. La scaletta era ancora simile a quella con Clive Bunker alla
batteria, cui si sarebbero presto aggiunti gli inediti ‘Tomorrow Was Today’
(registrata in studio solo nel 1974) e ‘Hard-Headed English General’. Così, i
brani eseguiti con Barlow il 16 giugno a San Diego furono: ‘My God’ (incl. ‘Bourèe’),
‘With You There To Help Me’ / ‘By Kind Permission Of’, ‘Sossity; You’re a
Woman’ (incl. ‘Reasons for Waiting’), ‘To Cry You a Song’, ‘Aqualung’,
‘Cross-Eyed Mary’(incl. ‘Drum Solo’), ‘Nothing is Easy’, ‘Wind Up’, ‘Guitar
Solo’, ‘Locomotive Breath’, ‘Hard-Headed English General’ e ‘Wind Up reprise’. L’undicesima tournèe americana
sarebbe partita il successivo 15 ottobre, per concludersi il 18 novembre al
Madison Square Garden di New York.
THICK AS A BRICK, 1972
Nell’agosto del 1971 i Jethro Tull avevano già registrato in
studio una prima parte del nuovo disco, poi intitolato ‘Thick as a Brick’, per
completarlo dopo la fine del sopracitato undicesimo tour americano, tra
novembre e dicembre dello stesso anno. Le registrazioni avvennero in entrambi i
casi presso i familiari Morgan Studios di Londra, con Robin Black al mixer. E
questa volta non si trattava di una serie di canzoni, bensì di una soltanto,
che occupava entrambe le facciate del vinile senza soluzione di continuità, se
non, all’epoca, la necessaria interruzione dovuta al cambio di facciata sul
giradischi (interruzione che sarebbe venuta meno con il successivo avvento del
Cd). In realtà tutto il lavoro era frutto dell’ironia di Ian Anderson, il
quale, avendo sempre negato ai giornalisti che il precedente ‘Aqualung’ fosse
un “concept album”, decise beffardamente di accontentarli, prendendo nel
contempo un po’ in giro tutti i gruppi dediti al nuovo, serioso verbo del
“progressive rock”. L’album sarebbe stato pubblicato dalla Chrisalis Records il
3 marzo 1972 in una originalissima confezione con la forma di un (inesistente)
quotidiano, ripiegato e sfogliabile, pieno zeppo di articoli scritti in realtà
dagli stessi componenti del gruppo e del loro entourage, annunci mortuari
compresi. Non mancavano cruciverba, giochi, e la foto di una squadra di calcio
dilettantistica, comprendente anche i volti riconoscibili di Anderson, Barre,
Hammond, Evan e Barlow. Un articoletto semi-nascosto annunciava inoltre
l’uscita del nuovo disco dei Jethro Tull, intitolato appunto ‘Thick as a
Brick’. La band all’epoca dichiarò che fu necessario più tempo per inventare
tutte queste notizie che per comporre le musiche! L’ipotetico giornale era il
St. Cleve Chronicle del 7 gennaio 1972, recante in prima pagina la fotografia
di Gerald Bostock, il bambino prodigio che aveva vinto un concorso di poesia
presentando appunto il testo di ‘Thick as a Brick’, venendo poi squalificato
per aver detto una parolaccia in diretta. Il produttore era di nuovo Terry
Ellis (insieme a Ian Anderson), e il packaging decisamente insolito ha reso la versione
originale del vinile un pezzo molto ambito tra i collezionisti. Il brano è
intriso di folk e rock, ma può anche essere considerato, insieme al successivo
‘A Passion Play’, l’unico vero disco “progressive” dei Tull, nonostante le
intenzioni iniziali di Ian Anderson. Il risultato fu, infatti, quello di un
lavoro tanto elaborato quanto innovativo, che sarebbe divenuto presto una
pietra miliare nella storia del rock. L’album rimase in testa alla classifica
di Billboard per due settimane. In occasione del 40° anniversario del disco,
nel 2012, ‘Thick as a Brick’ venne ristampato in vinile, e nella nuova versione
denominata ‘40th Anniversary Special Collector’s Ediction’ fu pubblicato con il
nuovo missaggio di Steven Wilson, insieme al giornale e ad un inserto di 60
pagine. L’introduzione è affidata alla voce quieta dello stesso Anderson,
accompagnato dalla sua chitarra acustica: egli si era ormai abituato alle
chiassose platee americane, che non consentivano di ascoltare la musica nei
momenti più tranquilli. E per questo comincia cantando beffardamente: “Davvero
non mi interessa se questa la saltate”, immaginando già che, in concerto,
quell’introduzione sarebbe stata coperta dal vociare del pubblico. Poco alla
volta, però, si uniscono gli altri strumenti, fino a giungere a sezioni del
brano decisamente più aggressive e trascinanti. La prima facciata dell’album
appare più ispirata della seconda. E infatti, dopo le prime versioni live che
comprendono l’una e l’altra, quelle degli anni successivi si ridurranno ad un
estratto tratto esclusivamente dalla prima parte, unita al finale. E qui Ian
Anderson, che sul disco conclude con la frase “To be thick, as a brick”, sul
palco lascerà sempre l’ultima parola (“brick”) al pubblico. Solo tra il 1984 ed
il 1986 una sezione tratta dalla seconda parte farà capolino durante le
esecuzioni live del brano. La versione di 10 minuti, resa nota al grande
pubblico con la pubblicazione del live ‘Bursting Out’ del 1978, risaliva al
tour del 1975. In effetti, già durante la tournèe dell’ottobre-novembre 1971
qualcosa della prima parte di ‘Thick as a Brick’ era in scaletta. Sia nel tour
di giugno-luglio che in quello di ottobre-novembre, ad aprire ogni show
rimaneva sempre ‘My God’, assolo di flauto compreso. Con i Gentle Giant come gruppo
spalla, la prima tournèe europea del 1972 inizia il 6 gennaio in Danimarca, per
concludersi il 29 marzo alla Royal Albert Hall di Londra. Molte delle date sono
in Germania: la scaletta di Essen del giorno 21 gennaio, diffusa in un noto
bootleg, prevede ‘My God’ (incl.‘Soirèe’, ‘By Kind Permission Of’ e ‘Bourèe’),
una parte di ‘Thick as a Brick’ (‘The Poet and the Painter’, compresa una
sezione inedita), ‘Aqualung’, ‘To Cry You a Song’, ‘A New Day Yesterday’,
‘Cross-Eyed Mary’ (incl. ‘Drum Solo’), ‘Tomorrow Was Today’,
‘Hymn 43’, ‘Nothing is Easy’, Wind Up’, ‘Locomotive Breath’, ‘Hard-Headed
English General’ e ‘Wind Up reprise’. Il brano ‘A New Day Yesterday’ qui viene annunciato da una
voce folle (probabilmente quella di John Evan) che scandisce più volte,
urlando, il titolo del pezzo che sta per iniziare, divertendo il pubblico. Come
l’anno precedente, dopo la Svizzera i Jethro Tull sono (per la seconda volta)
in Italia, al Palazzo dello Sport di Roma l’1 febbraio 1972, e a quello di
Bologna il giorno successivo. Seguono i concerti di Treviso, Varese e Novara
(qui sia il 5 che il 6 febbraio). Proprio in Italia i Tull rischiano di farsi
“rubare la scena” dai bravissimi Gentle Giant, ai quali viene chiesto
ripetutamente il bis: fu per questo chiesto a Ian se si fosse pentito di aver
portato in tour proprio la band dei fratelli Shulman. Ma il leader dei Tull
rispose invece che la buona accoglienza ricevuta
dai Gentle Giant era la conferma che aveva visto giusto nello scegliere proprio
loro come “open act”. E rivelò che i componenti del “Gigante Gentile”, così
impeccabili in concerto, fuori dalla scena (e in albergo) erano degli autentici
pazzi scatenati. A Roma i Tull suonano ‘My God’ (incl. ‘Soirèe’,
‘By Kind Permission Of’ e ‘Bourèe’), una sezione di ‘Thick as a Brick’,
‘Aqualung’, ‘To Cry You a Song’, ‘A New Day Yesterday’, ‘Cross-Eyed-Mary’
(incl. ‘Drum Solo’), ‘Tomorrow Was Today’, ‘Hymn 43’, ‘Nothing is Easy’, ‘Wind
Up’, ‘Locomotive Breath’, ‘Hard-Headed English General’ e ‘Wind Up reprise’. Seguono date nei Paesi Bassi e in
Inghilterra, fino alla consueta chiusura alla Royal Albert Hall del 29 marzo
1972. La successiva tournèe oltreoceano sarebbe iniziata al Forum di Montrèal
il 14 aprile, per concludersi esattamente un mese dopo ad Uniondale. Il tour dell’anno
in corso vede anche succedere cose stravaganti sul palco, quali il passaggio di
un coniglio gigante dietro ai musicisti, e John Evan che finge di leggere il
giornale incluso nel disco. Jeffrey Hammond si presenta in scena con un abito
elegante e i capelli corti, mentre Ian
indossa un tartan scozzese del clan degli Anderson. La data del 7 maggio
a Chicago prevede i Wild Turkey di Glenn Cornick come gruppo di supporto, e la
seguente scaletta: ‘Thick as a Brick’, ‘Cross-Eyed Mary’, ‘A New Day Yesterday’,
‘Aqualung’, ‘Wind Up’, ‘Guitar Solo’, ‘Locomotive Breath’, ‘Hard-Headed English
General’ e ‘Wind Up reprise’. Anche il tour seguente sarebbe partito dal
Canada, il 2 giugno 1972, per chiudersi l’1 luglio ad Honolulu. In qualcuna di
queste date (Kansas City, Oakland, Houston, San Antonio) avrebbero avuto gli
Eagles come gruppo spalla. Ed è stato ha scritto che questi ultimi potrebbero
aver trovato ispirazione per la loro ‘Hotel California’ proprio mentre
ascoltavano i Tull suonare ‘We Used To Know’: ma questo non è possibile, dal
momento che quel brano non fu mai in scaletta nel 1972. Il dubbio comunque
rimane, dal momento che qualcuno degli Eagles potrebbe aver ascoltato il pezzo
di Ian Anderson nella sua versione su disco, ed averla memorizzata anche inconsciamente.
Per la prima volta, poi, i Jethro Tull volarono in Nuova Zelanda, Australia
(Sidney, Melbourne) e Giappone, per tenere concerti in varie città, dal 5 al 17
luglio, compreso quello al famoso Budokan di Tokyo (che nel novembre del 1975
avrebbe ospitato anche i Deep Purple con Tommy Bolin al posto di Ritchie
Blackmore). Quindi si fermano nei pressi di Parigi per registrare, nel
settembre del 1972, un doppio album: gli studi sono quelli denominati Chateau
D’Herouville, che avevano già ospitato Elton John, Cat Stevens ed i Pink Floyd
di ‘Obscured by Clouds’. Ma l’esperienza si rivela negativa per la band, che
riesce a mettere su nastro solo tre delle quattro facciate dell’album, senza
neanche completare le linee vocali e quelle di flauto. Il lavoro verrà alla
fine abortito, ed i Tull preferiranno tornare in patria per rifare tutto da
capo, portando a termine un nuovo disco, intitolato ‘A Passion Play’. Solo una
minima parte del materiale inciso in Francia confluirà nel nuovo lavoro, che
uscirà nel 1973, ma le registrazioni originali rimarranno per anni chiuse negli
archivi. Uno spezzone di queste riemergerà finalmente nel box-set celebrativo
dei 20 anni della band, nel 1988. La gran parte di quelle registrazioni del
1972 verrà poi pubblicata su ‘Nightcup’, doppio Cd di rarità uscito nel 1993,
in occasione del 25° anniversario dei Jethro Tull, con un flauto aggiunto per
l’occasione. Infine, finalmente, le registrazioni originali dello Chateau
D’Herouville verranno fuori nel 2014 all’interno della ‘Extended Performance’
di ‘A Passion Play’, con i consueti remix di Steven Wilson. Si potranno così
ascoltare anche le prime versioni di ‘Only Solitaire’ e ‘Skating Away on the
Thin Ice of a New Day’ (poi finite su ‘WarChild’), più le inedite ‘The Big Top’
e ‘Sailor’. La sequenza dei brani ora è quella corretta, ed il suono di ottima
qualità. ‘The Big Top’ era un titolo presente anche su ‘Nightcup’: ma in quel
caso si trattava dell’unico brano tra quelli registrati in Francia a vedere la
presenza del sassofono, ed era collocato come introduzione del Cd.
Nell’edizione del 2014 si tratta invece di un altro pezzo, appunto inedito (per
quanto dal titolo identico), posto sempre in apertura del lavoro, mentre il
frammento con il sax diviene parte di ‘Animelee’. La track-list
completa è la seguente: ‘The Big Top’, ‘Scenario’, ‘Audition’, ‘Skating Away’,
‘Sailor’, ‘No Rehearsal’, ‘Left Right’, ‘Only Solitaire’, ‘Critique Oblique’
(Part 1 & 2), ‘Animelee’ (1st & 2nd Dance), ‘Law of the Bungle Part 1’,
‘Tiger Toon’ e ‘Law of the Bungle Part 2’. Nonostante la popolarità dei Jethro Tull nel 1972, non
esistono riprese professionali di un loro concerto relativo a quell’anno (come
invece dei Traffic a Santa Monica, per esempio). Solo un paio di interviste a
Ian Anderson. Alla fine di una di queste si possono intravedere per qualche
attimo tutti i Tull, bizzarri anche fuori dal palco, durante un party. Non
manca Terry Ellis (all’epoca capellone, oggi calvo) il quale, dopo la metà
degli anni ’70, avrebbe scoperto i Blondie, semplicemente guardando una foto di
Debbie Harry, per esclamare: ”Ma questa è una star!”. E’ del periodo di ‘Thick
as a Brick’ la nota photo session che vede la band ritratta in una serie di
scatti che li mostra tutti in impermeabile bianco e berretto scozzese. Incredibilmente,
dalla riviste musicali dell’epoca i Jethro Tull del 1972 venivano considerati
un gruppo già vecchio. Né di facile collocazione, in quanto band troppo rock
per essere considerata folk, e viceversa. Ad ogni modo di quei poco
lungimiranti critici musicali si sarebbe presto persa memoria. Del gruppo di
Ian Anderson no.
LIVING IN THE PAST,
1972
Il 13 ottobre del 1972 inizia già il nuovo ‘USA Tour’ dei
Jethro Tull al Memorial Auditorium di Buffalo, che si concluderà l’8 dicembre
dello stesso anno al Madison Square Garden con i Roxy Music come gruppo di
supporto. Questi ultimi fanno così il loro debutto newyorkese con un breve set
di 25 minuti, mentre i Jethro Tull suoneranno per oltre due ore. In coincidenza
con la data del 31 ottobre allo Spectrum di Philadelphia viene pubblicato il
doppio album ‘Living in the Past’. Questo lavoro, successivo a ‘Thick as a
Brick’, è un’ interessantissima antologia che raccoglie quasi esclusivamente
brani pubblicati in precedenza solo su 45 giri, un nuovo mix di ‘A Song For
Jeffrey’, la facciata dal vivo alla Carnegie Hall di New York del 4 novembre
1970, più diversi brani inediti e i cinque pezzi già inclusi nell’EP ‘Life is a
Long Song’ del 1971. Insomma, quasi tutto materiale non presente sugli album
usciti in precedenza, e che molti estimatori della band non conosceva. La
spessa copertina color amaranto, intarsiata da ricami dorati, presenta la
silhouette di Ian Anderson, anch’essa dorata e racchiusa in un elegante figura
ovale, che lo vede suonare il flauto su una gamba sola, con il giaccone a
quadri strappato da una parte, che gli consentiva però di muoversi con più
disinvoltura sul palco. L’interno dell’album originale permette di sfogliare
diverse pagine ricche di foto, che mostrano le varie formazioni della band (in
posa o dal vivo) dal 1968 (ancora con Mick Abrahams) al 1971 (già con
Barriemore Barlow). E sotto il titolo di ognuno dei brani sono riportati
dettagliatamente studio di registrazione, data, fonico, produttore e
formazione, con gli strumenti suonati da ciascuno. Non manca un bello scatto
dei Tull al Sanbury Jazz & Blues Festival del 1968, più altre foto tratte
dallo show all’isola di Wight del 1970, oltre a diverse immagini di Ian
Anderson (anche alla Carnegie Hall). Barriemore Barlow appare più volte, con
berretto azzurro e barba bionda, così come Glenn Cornick con i suoi capelli
lunghi stretti dalla bandana multicolori, mentre Jeffrey esibisce i suoi
assurdi occhiali giganti. John Evan è colto più volte in concerto, già con il
suo abito bianco con cravatta rossa a pois, così come Clive Bunker impegnato
alla batteria. Martin Barre compare anche intento a giocare a golf. In una foto
di gruppo del 1970 Glenn è con Judy Wong, la segretaria dei Fleetwood Mac che
aveva sposato il 7 marzo di quello
stesso anno. Sono quasi 50 fotografie in
tutto, che consentono a molti di vedere per la prima volta i Jethro Tull nelle
loro varie incarnazioni. Se non sono presenti i brani ‘Aeroplane’, ‘Sunshine
Day’, ‘One for John Gee’ e ‘17’, comparsi poi nel cofanetto ’20 Years of Jethro
Tull’, la Chrisalis accontenta la crescente richiesta dei fans con una varietà
di brani davvero considerevole: infatti abbiamo qui gli estratti da 45 giri in
gran parte sconosciuti ai nuovi estimatori della band, quali ‘A Song For
Jeffrey’, ‘Love Story’ e ‘A Christmas Song’ del 1968, ‘Living in the Past’,
‘Driving Song,’ ‘Bourèe’, ‘Sweet Dream’, ‘Singing all Day’, ‘Teacher’ e ‘Witch
Promise’ del 1969, più gli inediti ‘Just Trying To Be’ e ‘Wond’ring Again’ del
1970. Inediti appaiono anche i due brani dal vivo alla Carnegie Hall, sempre
del 1970: ‘By Kind Permission Of’ e ‘Dharma for One’ (nella nuova versione
cantata), inclusa l’introduzione della band da parte del presentatore. La
storia di ‘Wond’ring Again’ è complessa: in effetti la versione originale del
brano era quella lunga del 1970, riemersa in occasione dei 40 anni di
‘Aqualung’ con il titolo di ‘Wond’ring Aloud, Again’. Però, dal momento che il
brano, ridotto alla sola sezione acustica, era già uscito su quel disco nel
1971 con il titolo di ‘Wond’ring Aloud’, su ‘Living in the Past’ venne
ribattezzato ‘Wond’ring Again’: volutamente privo della sezione iniziale,
offriva adesso all’ascoltatore
l’impressione che si trattasse di un brano del tutto inedito. Il pezzo che dava
il titolo alla raccolta, ‘Living in the Past’, era stato registrato presso il
Vantone Studio di West Orange, nel New Jersey, ed era accompagnato (come ‘Sweet
Dream’) dagli archi, arrangiati e diretti da Lou Toby, e non dal solito David
Palmer. Un accordo di Martin alla chitarra è sbagliato. Il brano era nato dalla
richiesta di Terry Ellis a Ian Anderson di scrivere una potenziale hit da
classifica. E così fu. ‘Driving Song’ venne messa su nastro poco tempo dopo al
Western Recording Studio di Holliwood, con musica di Martin Barre e testo di
Ian Anderson. Fu qui che venne incisa anche la linea vocale di ‘Living in the
Past’. Durante la registrazione di ‘Driving Song’ si presentò negli studi
Jonathan King, il produttore del primo disco dei Genesis, che fu molto gentile
con i Tull, e ne apprezzò la musica. ‘Just Trying To Be’ è un delizioso quanto
breve cameo che vede Ian Anderson (voce e chitarra acustica) accompagnato dal
solo John Evan, che qui suona uno strumento chiamato celeste, dal suono
delicatissimo. I brani già presenti sui dischi ufficiali sono davvero pochi,
mentre la raccolta si conclude con i cinque pezzi dell’EP ‘Life is a Long Song’
del 1971, che vede in azione la nuova line-up dei Tull (compresi i nuovi
arrivati Jeffrey Hammond Hammond e Barriemore Barlow). Per inciso, il brano
‘Nursie’ (incluso nell’EP) e ‘Cheap Day Return’ (presente su ‘Aqualung’) sono
entrambi brevi e toccanti ‘chicche’ acustiche nelle quali Ian Anderson ci parla
del padre ormai morente in ospedale: il primo dal punto di vista del padre
stesso, che volge con gratitudine il proprio pensiero all’infermiera che lo
accudisce (“Sono contento che tu sia qui, a lavar via il mio dolore”); e il
secondo dalla prospettiva di Anderson che, fra un tour e l’altro, riesce ad
andare a trovare il padre ricoverato, per vedersi chiedere l’autografo da
un’altra infermiera (“Che ridere”, chiosa amaramente il leader dei Jethro
Tull). Ian non aveva mai avuto un buon rapporto con i genitori, che non
credevano nelle sue velleità musicali, e così, all’età di 20 anni, aveva lasciato
la sua casa di Blackpool per trasferirsi a Luton. Come detto, prima che andasse
via, suo padre gli aveva consegnato il pesante cappotto verde che gli sarebbe
servito per coprirsi dal freddo, usandolo anche nella gelida camera da letto
nella quale era andato a vivere nel 1967. Questo indumento era poi divenuto
parte essenziale della sua immagine pubblica, comparendo anche al Sanbury Jazz
& Blues festival, al ‘Rolling Stones Rock and Roll Circus’ e al concerto di
Stoccolma con la Jimi Hendrix Experience. I rapporti con il padre sarebbero
migliorati solo alla fine della vita di quest’ultimo. Su questo doppio album
Ian Anderson fa davvero “la parte del leone”, dimostrando di essere in grado di
suonare una grande varietà di strumenti, e facendo scoprire anche il suo
aspetto di musicista più tranquillo, creando gioiellini di pochi minuti, quasi
fosse un cantautore folk in stato di grazia.
A PASSION PLAY, 1973
Frattanto la band, concluso il tour americano nel dicembre
del 1972, inizia quello europeo con il concerto del 29 gennaio 1973 a Vienna.
Seguono le date di marzo in Germania e Italia: il 15 a Vicenza, il 16 a Roma,
il 18 e il 19 a Bologna (con scontri tra polizia e pubblico) e il 20 a Milano.
Esiste una breve intervista filmata in bianco e nero, rilasciata da Ian
Anderson proprio a Roma: il leader dei Jethro Tull appare in uno spazio aperto,
di giorno, indossando il giubbotto di pelle e fumando una sigaretta con un cane
al guinzaglio e i lunghi capelli al vento, mentre gli viene chiesto quale sia
il significato del nome della band, come possa definirsi il loro genere
musicale e quali siano gli strumenti utilizzati dal gruppo. In sottofondo si
sentono estratti di ‘Serenade To a Cuckoo’ e
‘Thick as a Brick’. Alla fine Ian, rivolto alla telecamera, saluta in
italiano con un “Ciao a tutti”. La sera stessa, nella Capitale,
suonano ‘Thick as a Brick’, ‘Cross-Eyed Mary’, ‘Left Right’, ‘Audition’,
‘Aqualung’, ‘Wind Up’, ‘Guitar Solo’, ‘No Rehearsals’, ‘Locomotive Breath’,
‘Hard-Headed English General’ ed il reprise di ‘Wind Up’. Dei brani citati, tre erano presenti
nelle registrazioni francesi del settembre ’72 poi rimaste negli archivi: ‘Left
Right’, ‘Audition’ e ‘No Rehearsal’. Questi ultimi due (insieme a ‘Scenario’)
sarebbero stati proprio quelli poi apparsi su ’20 Years of Jethro Tull’, in
quanto già completi delle linee vocali. Probabilmente, durante quei concerti,
erano ancora ritenuti dalla band anticipazioni dal vivo del nuovo album. E’
anche possibile che sulle tracce definitive di quelle tre facciate rimaste
incomplete sarebbe stato aggiunto il sax, dal momento che questo strumento è
presente su un paio dei brani incisi durante quelle sessions. Ian Anderson
avrebbe alternato il sassofono al flauto sui due album ‘A Passion Play’ e ‘War
Child’. Dal vivo l’avrebbe utilizzato fino ai concerti del 1975, per poi
abbandonarlo definitivamente, con grande sollievo di Barriemore Barlow, il
quale, in cuor suo, sperava sempre che Ian Anderson tornasse a suonare soltanto
il flauto. Il sax avrebbe fatto di nuovo la sua comparsa sul raro brano
‘Beltane’, registrato in studio nel 1977. Ma la presenza di questo strumento si
avvertiva già su ‘Thick as a Brick’. Ian avrebbe utilizzato esclusivamente i
sassofoni soprano e sopranino, dal momento che quello tenore, più grande, sarebbe
risultato troppo pesante per la corporatura esile che aveva in quegli anni. Per
non parlare del sassofono baritono! In ogni caso la sopracitata terza visita
italiana del marzo 1973 sarebbe stata l’ultima apparizione dei Jethro Tull nel
nostro Paese fino al 1982. ‘A Passion Play’, il nuovo album, viene registrato
presso i Morgan Studios, sempre con Robin Black al mixer. Si trattava
nuovamente (come già avvenuto per ‘Thick as a Brick’) di un unico brano lungo
quanto tutto il disco (45 minuti). Come di consueto, ad un disco brillante Ian
Anderson ne fa seguire uno dalle atmosfere più oscure: la copertina nera ritrae
infatti una ballerina morta (Jane Colthorpe) sulle assi di un palcoscenico, con
la testa rovesciata rivolta all’osservatore, ed un rivolo di sangue che le cola
all’angolo della bocca. La stessa ballerina appare rinata e danzante sul retro,
mentre Il testo parla della vita dopo la morte. E’ certamente l’opera più
complicata e controversa dei Jethro Tull, piena di allusioni e doppi sensi: un
capolavoro per molti, un disco troppo astruso per altri. Alcune copie vengono
addirittura bruciate dai fans, mentre la critica, probabilmente non ancora
pronta, sarà negativa al punto da indurre Ian Anderson, stizzito, a sciogliere
(per due giorni) il gruppo e a concedersi un periodo di pausa. Musica e testi
sono molto elaborati e di difficile comprensione, senza una parte che si ripeta
due volte, eccetto il tema iniziale e finale, cantato da Ian Anderson con il
solo accompagnamento della chitarra acustica e del pianoforte. Il leader dei
Jethro Tull sorprende tutti con doti inaspettate al sassofono; John Evan
esordisce anche ai sintetizzatori; Barriemore Barlow utilizza qualsiasi tipo di
strumento a percussione, suonando marimba, timpani e glockenspiel; Martin Barre
è impegnato come mai prima alla chitarra, tessendo una trama infinita di
accordi, così come Jeffrey al basso. Al di là delle critiche ottuse dell’epoca,
‘A Passion Play’ è in realtà il vertice creativo dei Jethro Tull in ambito di
progressive rock. Il lavoro narra la storia di un certo Ronnie Pilgrim il
quale, dopo aver perso la vita a seguito di un incidente stradale, visita il
Paradiso e l’Inferno, per poi nascere di nuovo. La versione originale su LP
presenta il brano come un “blocco unico”, mentre le edizioni successive (dal
1998 in avanti) suddivideranno l’opera in
diversi capitoli. L’unico che si ripete, come accennato , è ‘The Silver
Cord’, in apertura (“E così sono morto”), che torna in chiusura con il titolo
di ‘Epilogue’. L’ultima frase pronunciata da Anderson nel disco è proprio “A
Passion Play” (così come era “Thick as a Brick” nel concept album precedente).
Delle registrazioni francesi del settembre ’72 sopravvivono solo i temi di
‘Tiger Toon’ (qui con altro titolo) e ‘Critique Oblique’. L’iniziale
‘Lifebeats’ è un pulsare sempre più accelerato (un po’ come l’inizio di ‘The
Dark Side of the Moon’ dei Pink Floyd), che porta all’esplosivo tema iniziale
(‘Prelude’). Dal vivo l’apertura del concerto vede l’immagine su maxi-schermo
della ballerina morta che muove in modo impercettibile le dita, durante quel
battito che è presente anche nell’introduzione del disco: quindi tutto il
gruppo irrompe sul palco per il festoso tema di “Prelude”: e questa volta Ian
Anderson appare con il sax soprano (quello dritto) al posto del flauto. Indossa
inoltre un cappotto quadrettato, del quale si libererà in seguito, rimanendo in
camicia e pantaloni attillati, con tanto di sospensorio in bella evidenza. La
sua chioma è adesso foltissima, e dalle tonalità giallo-arancioni sotto le luci
del palco, così come la fluente barba. Jeffrey Hammond Hammond si dimena a
destra e a sinistra, con indumenti bianchi ed un cappellaccio a larghe tese,
mentre Martin Barre fa lo stesso indossando un abito ‘floreale’ ed utilizzando la
Gibson Les Paul. Bassista e chitarrista corrono e saltellano senza sosta
attraverso il palco al punto di rischiare di scontrarsi tra loro. Quando la
musica si placa Ian inizia a cantare, accompagnandosi con la chitarra acustica.
Lo show si chiude sempre con lo squillo di un telefono: Ian Anderson va a
rispondere, e poi porge la cornetta al pubblico, dicendo: “E’ per voi” (“It’s
for you”). Il disco è presentato come un’opera teatrale in quattro atti (a
quanto sembra, Ian Anderson non ha più voglia di dare alle stampe un disco
“normale”!), e i cinque musicisti compaiono (con tanto di foto e falsa
biografia) nelle vesti di altrettanti attori: se Mark Ridley è in realtà Ian
Anderson, John Tetrad è Barriemore Barlow, Max Quad è Jeffrey Hammond Hammond,
Ben Rossington è John Evan, mentre Derek Small non è altri che Martin Barre. Ad
impersonare il protagonista del viaggio ultraterreno (Ronnie Pilgrim) non è
l’attore dietro il quale si cela Ian Anderson, bensì il fantomatico Max Quad,
“interpretato” da Jeffrey. Quest’ultimo è anche il protagonista di ‘The Hare
Who Lost His Spectacles’ (“il coniglio che perse i suoi occhiali”), un’assurda
canzoncina, non cantata ma recitata dallo stesso bassista dei Jethro Tull con
vago accento vittoriano, collocata a metà dell’opera per concedere un momento
di distensione, con tanto di arrangiamento d’archi accompagnati dall’organo di
John Evan. E’una sorta di “Pierino e il lupo” di Prokofiev, per il quale, nel
febbraio del 1973, viene anche realizzato un ironico mini-film, che verrà
proiettato sullo schermo a metà di ‘A Paission Play’ durante i concerti. Il
video inizia con l’apparizione del folle John Evan nel suo consueto abito
bianco con cravatta a pois, in una magica nuvola di fumo, mentre declama con
voce stentorea: “This is the story of the hare who lost his spectacles!”. Segue
il racconto della favoletta da parte di Jeffrey Hammond Hammond, che passeggia
attraverso un prato con microfono in mano, baffi, pizzetto ed occhiali scuri,
incontrando gli animali dei quali ci parla: il coniglio, l’ape e tutti gli
altri. All’interno dei costumi ci sono gli stessi componenti dei Jethro Tull,
che sono dunque irriconoscibili. Nella realtà John Evan è il coniglio,
Barriemore Barlow l’ape e Martin Barre il gufo. C’è pure il fonico Robin Black
nelle vesti dell’ippopotamo. Solo Ian Anderson appare per un attimo con
l’aspetto che aveva all’epoca, giubbotto di pelle compreso. Jeffrey si sposta
poi dal prato al palcoscenico di un teatro (il Raimbow Theatre), affiancato da
due giovani ballerine. La madre di Jane Colthorpe compare nelle vesti della
signora che serve il tè. E Jane (la stessa danzatrice della copertina) viene
inseguita, terrorizzata, nei camerini da un minaccioso proiezionista, mentre le
immagini diventano in bianco e nero, per l’unico momento “inquietante” del
surreale intermezzo. Il quale, peraltro, non ha nulla a che vedere con il resto
di ‘A Passion Play’ (‘Mistero Sacro’), oltre ad essere l’unico brano nel quale
appaiono, quali autori, insieme a Ian Anderson, anche Jeffrey e John. Il video,
all’inizio e alla fine, comprende le due parti della vivace ‘Forest Dance’,
protagoniste ancora le due ballerine: Jane Colthorpe morde un frutto
esclamando, gioiosa: “Qualcosa di meraviglioso sta per accadere!” Quindi inizia
la musica festosa della prima parte di ‘Forest Dance’, con gli assurdi
personaggi (subacqueo compreso) che, prima della storia del coniglio, ballano
in cerchio attorno ad una sorta di albero della cuccagna, e alla fine, per la
seconda parte di ‘Forest Dance’, tutti
intorno ad una fontana che lancia getti d’acqua sempre più alti. Fino a quando
non verranno scacciati da Jeffrey Hammond Hammond, questa volta in impermeabile
giallo, cappuccio, e con tanto di forcone in pugno. Jeffrey conficcherà il
forcone stesso nel terreno e si allontanerà lentamente, ponendo termine al
filmato. Questo video rimarrà peraltro l’unica testimonianza professionale dei
Jethro Tull del 1973, a parte un altro che mostra una serie di loro immagini in
concerto, con la musica di ‘The Third Hoorah’ (brano tratto dal disco
successivo): il filmato, già noto ai fans da decenni, è comparso ufficialmente
sull’edizione dei 40 anni, insieme alla storia del coniglio, con audio stereo:
queste nuove versioni dei vecchi dischi dei Tull si presentano sempre in una
elegante confezione rettangolare somigliante ad un libro, ricchissime di
contenuti. Il breve film di ‘The Hare Who Lost His Spectacles’ era già apparso
sul video dedicato ai 25 anni dei Jethro Tull. ‘A Passion Play’, che sull’album
appare come una rappresentazione dell’inesistente autrice Rena Sanderone presso
il fantomatico Linwell Theatre, vedrà il suo esordio per le sole due date
inglesi del 1973 all’Empire Pool di Londra (oggi Wembley Arena), il 22 e 23
giugno. E dunque prima della pubblicazione del disco, avvenuta solo il 13
luglio: un vero azzardo, considerata la complessità dell’opera. Anche il noto
giornalista Chris Welch, vecchio fan
dei Jethro Tull, criticherà aspramente il nuovo lavoro sulle pagine del Melody
Maker. Nonostante ciò, durante il tour americano, il nuovo album arriverà al
primo posto della classifica di Stati Uniti e Canada, mentre le quattro date di
luglio al Los Angeles Forum registreranno il tutto esaurito, con 18 mila
persone ogni sera. Una bella foto scattata proprio alla fine della tournèe
(Boston, 29 settembre 1973) mostra i cinque componenti della band (più Terry
Ellis) circondati dall’intero entourage, autisti e tir compresi. Molte delle
date di luglio negli USA vedono gli Steelay Span come “open act” (gruppo
spalla): una band folk-rock per la quale, l’anno seguente, Ian Anderson
lavorerà nella veste di produttore. A settembre ‘A Passion Play’, incredibile
ma vero, arriva in vetta alla classifica anche in Italia. La scaletta dei
concerti a questo punto comprende l’intera esecuzione di ‘A Passion Play’,
seguita da un corposo estratto di ‘Thick as a Brick’ (incl. ‘Flute Solo’),
seguito da ‘Cross-Eyed Mary’, ‘No Rehearsal’, uno strumentale che include un
altro estratto di ‘Thick as a Brick’ e l’assolo di batteria (tra fumi ed
esplosioni), ‘Aqualung’, ‘Wind Up’, un altro strumentale (che incorpora quella
che diverrà, due anni dopo, l’introduzione aggressiva di ‘Minstrel in the
Gallery’), ‘Locomotive Breath’, ‘Hard-Headed English General’ ed il consueto
reprise di ‘Wind Up’. Nel corso di alcune date tornerà anche ‘My God’. La
versione integrale di ‘A Passion Play’ era estremamente complicata da suonare
dal vivo, e Martin Barre ammetterà di non essere mai riuscito ad eseguirla tutta senza commettere
almeno qualche errore. Dopo il 1975 nulla di questo disco sarebbe stato più
proposto in tournèe, eccetto un frammento intitolato ‘Passion Jig’, presente
per la prima volta nella set-list del 1992. Durante le registrazioni preliminari
al nuovo ‘A Passion Play’, effettuate allo Chateau D’Herouville, i Jethro Tull
erano divenuti uno dei numerosi gruppi rock “esiliati fiscali”, avendo ottenuto
la cittadinanza svizzera con l’aiuto di Claude Nobs. Quest’ultimo era il noto
organizzatore del ‘Montreux Festival’, e la sua voce si sarebbe sentita anche
all’inizio del doppio live dei Tull ‘Bursting Out’, mentre presentava con
entusiasmo la band. In quegli anni l’altissima tassazione imposta sui redditi
più elevati dei cittadini britannici aveva costretto molte rock star di
successo a richiedere la cittadinanza in altri Paesi, per evitare di consegnare
allo Stato la quasi totalità dei propri guadagni. Come detto, però, Ian
Anderson e compagni si erano trovati malissimo negli studi francesi, per quanto
rinomati: problemi tecnici in sala regia, sporcizia nei letti, nei bagni e
persino nella piscina avevano indotto il gruppo a sospendere le registrazioni
per tornare a casa. E qui Ian Anderson avrebbe scritto ex novo ‘A Passion
Play’, utilizzando pochissimo del materiale registrato in Francia, che sarebbe
così divenuto il quasi mitologico “disco perduto” dei Jethro Tull. Il tentativo
di registrare questo doppio album, con brani separati tra loro, dimostrava però
che non era nelle intenzioni di Ian Anderson far seguire a ‘Thick as a Brick’
un altro concept album con un unico brano lungo quanto tutto il disco.
Semplicemente, le cose andarono così. L’unica cosa curiosa era, piuttosto, che
finalmente, dopo i primi quattro album, i Jethro Tull potevano finalmente
ritrovarsi in studio con la stessa formazione del disco precedente. Il
fotografo della copertina di ‘A Passion Play’ era di nuovo Brian Ward, vale a
dire lo stesso dei tempi di ‘This Was’. Eppure, mai due dischi avrebbero essere
più diversi l’uno dall’altro: l’album del 1968 e quello del 1973 sembravano
davvero essere lavori di due gruppi differenti. Curiosamente, all’edizione di
‘A Passion Play’ del 2014, includente le registrazioni allo Chateau
D’Herouville (come alle altre versioni per i 40 anni dei vari dischi del
gruppo) partecipò anche Ray Shulman: vale a dire il bassista degli eccezionali
Gentle Giant, che avevano fatto da ‘open act’ proprio ai Jethro Tull nel 1972. I
titoli nei quali viene suddivisa l’opera ‘A Passion Play’ in questa nuova
edizione, chiamata ‘An Extended Performance’, sono i seguenti: ‘Lifebeats’ /
‘Prelude’, ‘The Silver Cord’, ‘Re-Assuring Tune’, ‘Memory Bank’, ‘Best
Friends’, ‘Critique Oblique’, ‘Forest Dance Part 1’, ‘The Story Of The Hare Who
Lost His Spectacles’, ‘Forest Dance Part 2’, ‘The Foot of Our Stairs’,
‘Overseer Overture’, ‘Flight from Lucifer’, ‘10:08 To Paddington’, ‘Magus
Perdè’ ed ‘Epilogue’.
WARCHILD, 1974
L’11 gennaio 1974 a Montreux, in Svizzera, i Jethro Tull
presentano in anteprima il loro nuovo album, intitolato ‘WarChild’, nel corso
di una conferenza stampa con annessa “photo session”. I cinque componenti del
gruppo compaiono con un look completamente rinnovato rispetto all’anno
precedente: Ian Anderson indossa un giubbotto di pelle e porta un folto
pizzetto e capelli ancora lunghi, ma più ordinati e tirati all’indietro sulla
fronte; John Evan fa sfoggio di un sfavillante (quanto assurdo) completo a
righe colorate, con tanto di pipa in bocca; Jeffrey Hammond Hammond appare
sbarbato, con i capelli più corti, pantaloni a quadri e giacca gialla; Martin
Barre ne indossa una azzurra, con sotto una camicia dal colletto smisurato,
mentre Barriemore Barlow porta baffi spioventi senza più la barba, sotto un
cappello scuro e capelli raccolti in un codino.
Oltre alle numerose foto, esiste anche un filmato dell’evento (photo
session e party dopo la conferenza stampa) contenuto nell’edizione del 40°
anniversario del disco, con i consueti remix di Steven Wilson (a sua volta
stimato musicista, sia da solo che con i Porcupine Tree). Altre immagini
filmate riconducibili al 1974 riguardano una conversazione in terrazza tra Ian
Anderson e Terry Ellis, che possiamo vedere all’inizio del Dvd celebrativo dei
40 anni della band. Le registrazioni dei brani di ‘WarChild’ erano in già
iniziate ai Morgan Studios nel dicembre del 1973, per proseguire nei mesi di
gennaio e febbraio 1974. Includevano però anche due brani (‘Skating Away’ e
‘Only Solitaire’) provenienti dalle registrazioni francesi del settembre 1972
allo Chateau D’Herouville. Il disco sarebbe stato pubblicato il 26 ottobre
1974, sempre per la Chrisalis (fusione dei nomi dei due fondatori, Chris Wright
e Terry Ellis), in coincidenza con la data di Madrid, e avrebbe raggiunto il
14° posto nella classifica inglese. Dopo le due lunghe suite precedenti (‘Thick
as a Brick’ e ‘A Passion Play’) Ian Anderson torna a comporre brani singoli
indipendenti l’uno dall’altro, ritrovando il favore della critica. Anche in
questo caso, comunque, il suo progetto iniziale non era quello di dare alle
stampe un disco “normale”: ‘WarChild’ avrebbe dovuto essere infatti anche un
film, e i brani orchestrali destinati alla colonna sonora erano stati
registrati (con la partecipazione di tutta la band) tra il dicembre del 1973 ed
il febbraio del 1974: I titoli giunti sino a noi sono: ‘The Orchestral WarChild
Theme’, ‘The Third Hoorah’, ‘Mime Sequence’, ‘Field Dance’, ‘Waltz of the
Angels’, ‘The Beach Part I’ e ‘The Beach Part II’. Gli arrangiamenti erano
naturalmente di David Palmer. Tra questi, la trionfale ‘The Beach Part II’
sarebbe stata utilizzata come inizio (registrato) dei concerti del 1974 e del
1975. Gli altri sarebbero venuti fuori dagli archivi solo per la sopracitata
edizione dei 40 anni (dunque nel 2014), eccetto ‘Waltz of the Angels’, che, con
il titolo di ‘WarChild Waltz’ era già comparsa in una precedente ristampa di
‘WarChild’. Il film avrebbe dovuto essere una sorta di ‘Alice nel paese delle
meraviglie’, con la protagonista Evelyn (una ragazzina diciassettenne) che
provava l’esperienza della vita dopo la morte, tra Paradiso ed Inferno:
insomma, un tema molto simile a quello di ‘A Passion Play’. Ma non vennero
trovati né i fondi né l’interesse che sarebbero stati necessari, e così il film
non si fece mai. Il disco vero e proprio contiene invece 10 pezzi, che si
discostano dal progressive rock, attingendo alla musica folk, rock e
tradizionale, con grande utilizzo della fisarmonica (suonata da John Evan) e
dai sassofoni di Ian Anderson (anche se il flauto non scompare del tutto). Il
quartetto d’archi presente sul disco non è lo stesso (tutto femminile) che sarebbe
partito in tour con la band dal novembre 1974, e che avrebbe registrato anche
su ‘Minstrel in the Gallery’. I titoli, a parte la title track e i due estratti
dalle archiviate registrazioni francesi, sono la roboante ‘Queen and Country’,
l’acustica e quieta ‘Ladies’ (con tanto di contrabbasso, ma con finale rock a
sorpresa), ‘Back-Door Angels’, ‘SeaLion’, ‘Bungle in the Jungle’ (che ci
riporta ai temi riguardanti gli animali già presenti sui nastri francesi del
1972), ‘The Third Hoorah’ (nella versione non orchestrale) e ‘Two Fingers’.
Quest’ultimo brano non è altro che il rifacimento di ‘Lick Your Fingers Clean’,
il brano registrato ai tempi di ‘Aqualung’, e poi mai uscito su singolo,
contrariamente a quanto era stato previsto. ‘Queen and Country’ racconta una
storia di marinai del ‘500, e dunque la Regina del titolo è Elisabetta I: colei
che, nel 1588, riuscì a non far
sbarcare sul suolo britannico le navi della “Invincibile Armata” del re di
Spagna Filippo II. Dal vivo questo brano, così come ‘WarChild’, ‘Ladies’ e
‘SeaLion’ rimarrà in scaletta soltanto per il periodo 1974-1975. ‘Bungle in the
Jungle’, invece, singolo di grande successo negli USA, ricomparirà nei concerti
americani del 1980, durante il tour di ‘A’, e ancora in seguito. ‘Back-Door Angels’
verrà eseguita live dal 1974 al 1977, mentre ‘Skating Away On the Tin Ice of a
New Day’, immortalata anche su ‘Bursting Out’, diverrà un vero e proprio
classico del gruppo: la sua caratteristica sarà quella di vedere i singoli
componenti della band (eccetto Ian Anderson) impegnati non ai propri strumenti,
con John Evan prima alla fisarmonica e poi alla batteria. ‘Only Solitaire’,
breve pezzo acustico, descrive lo stesso Anderson visto attraverso gli occhi
del critico musicale Steve Peacock, citato proprio alla fine del testo (“Ma ti
sbagli, Steve”). Per la prima volta i Jethro Tull partono in tournèe
dall’Australia, il 25 luglio 1974 ad Adelaide, per poi spostarsi tra Melbourne,
Sidney e Brisbane, fino al 5 agosto. Il 30 luglio, in coincidenza dello show all’Opera
House di Sidney, Jeffrey compie 28 anni. Quindi è la volta della Nuova Zelanda,
e poi del Giappone, sempre in agosto, con le date di Tokyo, Nagoya, Kyoto,
Hiroshima e Osaka (spesso per più concerti in ognuna di queste città, come già
avvenuto in Australia). La scaletta del 28 agosto a Tokyo prevede
l’introduzione registrata di ‘The Beach Part II’, cui fanno seguito un
frammento della futura ‘Minstrel in the Gallery’, ‘A Passion Play’ (primo
estratto), ‘Thick as a Brick’ (ampia sezione),‘Queen and Country’, ‘A Passion
Play’ (secondo estratto), ‘How Much is That Doggie in the Window’ (una
canzoncina scherzosa di Jeffrey, accompagnata dall’abbaiare di un cane),
‘Skating Away’, ‘My God’ (incl. ‘Flute Solo’, ‘Bourèe’ ‘Quartet’ e ‘Piano
Solo’), ‘Cross-Eyed Mary’, ‘No Rehearsal’, ‘Drum Solo’, ‘The Hare Who Lost His
Spectacles’(interrotta dallo squillare di un telefono), ‘Aqualung’, ‘Back-Door
Angels’, ‘Guitar Solo’, ‘Locomotive Breath’, ‘Hard-Headed English General’ e la
sezione finale di ‘Wind Up’. Questo show è stato registrato da una persona
presente tra il pubblico con una buona qualità stereo, e dal 2005 esiste in
versione rimasterizzata. Il tour riparte il 10 ottobre dall’Olanda,
attraversando Belgio, Francia e Spagna. Il 14 ottobre ‘WarCild’ esce negli
Stati Uniti, arrivando al secondo posto in classifica. Dal novembre del 1974
(tour britannico) al luglio del 1975 i concerti del ‘WarChild Tour’ verranno
accompagnati dal quartetto d’archi (due violini, viola e violoncello) tutto
femminile. A metà novembre 1974 le quattro date al Raimbow Theatre di Londra
vedranno i Jethro Tull insieme alle cinque danzatrici del gruppo denominato
‘Pan’s People’(da qui il brano ‘Pan Dance’, registrato appositamente poco tempo
prima): è nota la foto di Ian Anderson, sorridente in giubbottto di pelle, tra
queste ragazze dalle gambe sollevate a mezz’aria, fuori dal Raimbow. In scena
Ian Anderson indossa adesso uno sfarzoso costume da principe rinascimentale;
Jeffrey Hammond Hammond scorazza su e giù per il palco indossando abiti a
strisce bianche e nere, così come sono dipinti a strisce bianche e nere anche i
suoi strumenti (il basso e il contrabbasso); Martin Barre utilizza una Gibson
SG al posto della Les Paul, e porta giacca e pantaloni disegnati con colori
sfarzosi, che alterna ad un fiammante abito rosso. Solo John Evan e Barriemore
Barlow rimangono “fedeli” ai propri costumi di scena: John con giacca e
pantaloni bianchi, camicia gialla e cravatta rossa a pois; Barrie con i suoi
indumenti tutti rossi: canottiera, pantaloncini corti e calzettoni. Anche le
due casse della batteria sono ora dipinte a strisce bianche e nere. Al
contrario della conferenza stampa di Montreaux, inoltre, Jeffrey ha di nuovo
capelli lunghi, con baffi e pizzetto neri, mentre Barlow ritorna alla sua barba
bionda ed ai capelli sciolti. La musica è complessa, ma i Jethro Tull di questo
periodo sono tutti dei pazzi scatenati. Alla gag di Jeffrey con il cane ne
seguirà un’altra, che vedrà il bassista in compagnia di una finta zebra: un
animale a strisce bianche e nere, proprio come i suoi abiti di scena e i suoi
strumenti! Il 9 novembre 1974, dopo l’uscita del disco, parte da Edinburgo il
tour nel Regno Unito insieme al quartetto d’archi, che coprirà tutto il mese.
Shona Learoyd, che diverrà la moglie di Ian Anderson dal 1976, prende parte
allo spettacolo nel ruolo di ‘ringmistress’ (letteralmente, ‘amante
dell’anello’): Ian ha recentemente palesato il dubbio che sia stata lei a far
sparire da casa il sospensorio che il marito utilizzava all’epoca! Durante lo
show del 23 gennaio 1975 a Forth Worth, in Texas, un problema tecnico renderà
del tutto non udibili alcuni strumenti durante ‘Queen and Country’: Anderson
farà interrompere il brano, e si rimedierà con l’aggiunta di uno strumentale
durante l’assolo di chitarra in ‘Back-Door Angels’. Nelle foto del periodo,
così come sulla copertina di ‘WarChild’, Ian indossa una giubba sgargiante che
ricorda quelle dei nobili del ‘500, con pantaloni attillati, una gamba di
colore diverso dall’altra (come era in uso nel Medioevo) dentro stivaloni di
pelle, folto pizzo con basette e capelli lunghi non più ‘gonfi’ come l’anno
precedente, che lasciano scoperta la fronte: un look impensabile ai giorni
nostri, ma perfettamente in tema con le atmosfere evocate da quel disco. Lo stesso
Ian Anderson, intervistato in un documentario dell’epoca, sosteneva che in
concerto, per poter essere visibile anche dalle persone che si trovavano più
lontane dal palco, non poteva evitare di presentarsi in abiti decisamente
vistosi. La copertina dell’album mostra una foto in negativo di Ian Anderson
con la mano aperta rivolta all’osservatore. Lo stesso scatto, non in negativo,
compare sul singolo ‘Skating Away’ / ‘SeaLion’. Sul retro del disco è presente
un vasto gruppo di strambi personaggi, compresi tutti e cinque i Jethro Tull:
Ian Anderson, con l’abbigliamento sopra descritto, sostiene un’insegna da
antico legionario romano recante la scritta ‘WarChild’; John Evan, con il suo
consueto completo bianco con cravatta rossa, porta anche un casco coloniale in
testa (copricapo che utilizzava già dal 1971); Jeffrey, probabilmente nelle
cinquecentesche vesti di Sir Francis Drake, è inginocchiato davanti alla regina
Eisabetta I, lasciando che ella le poggi una spada sulla spalla, conferendogli
una qualche onorificenza; Barriemore Barlow compare comodamente seduto in
poltrona con aria da gentleman, indossando giubba bianca e calzoni neri, mentre
Martin Barre è nell’angolo in basso a destra, intento a portare qualcosa sulle
spalle. Non mancano la moglie di Barlow, David Palmer rappresentato come un
druido dalle lunghe vesti e le braccia levate, la ragazza di Martin, Terry
Ellis con bombetta e coltello in pugno, la futura moglie di Ian Anderson seduta
con cilindro e giubba rossa, la bambina con un mitra in mano (un richiamo al
titolo ‘WarChild’), più altre modelle e personaggi dell’entourage dei Jethro
Tull: insomma, un’assurdità totale! La title track dell’album è il primo brano
dei Jethro Tull ad aprirsi con voci e rumori d’ambiente: la voce gentile di una
moglie chiede al marito, tra il tintinnare di un cucchiaino nella tazzina, se
desidera ancora del tè, ma lui (Ian Anderson) rifiuta perché deve scappare in
ufficio. Segue il rumore di un bombardamento, scariche di mitragliatrici
comprese, che tornerà anche alla fine del brano (ruomori di guerra che verranno
replicati anche nelle versioni dal vivo). La musica di questo pezzo iniziale
(‘WarChild’) comincia poi con il tema suonato dal sax soprano. ‘Ladies’ è
introdotta da un vociare da taverna, zittito da Ian Anderson nel momento in cui
deve far partire il brano con il suo delicato arpeggio alla chitarra acustica.
Durante i concerti le ragazze del quartetto d’archi (che viaggiano con la band)
indossano lunghi abiti neri e vistose parrucche platinate. Vengono sempre ben
accolte dal pubblico, ed il loro contributo rende più eleganti i brani nei
quali intervengono, inserendo in essi una piccola percentuale di musica
classica. Il quartetto sarà composto sempre dalle stesse musiciste, eccetto il
cambio di una delle due violiniste, dal gennaio al luglio del 1975 (il ragazzo
della violinista precedente non amava l’idea di lei in giro per il mondo
insieme ad una rock band!). Ad ogni modo, per le quattro musiciste la tournèe
con i Jethro Tull si rivelerà un’esperienza entusiasmante, tra spostamenti in
limousine e concerti in arene gremite da migliaia di persone. Il 26 novembre
1974, a Southampton, si chiude il tour britannico e comincia quello nei Paesi
Scandinavi (Svezia e Danimarca), concluso il 5 dicembre. A questo punto nella
scaletta sono presenti più brani del disco nuovo. Il 2 dicembre 1974, in
Svezia, di fronte a 2.500 persone, suonano infatti ‘Wind Up’, ‘Critique
Oblique’ (un estratto da ‘A Passion Play’), ‘Thick as a Brick’ (nella nuova
versione più corta), ‘My God’ (incl. ‘Flute & Piano Solos’,
‘God Rest Ye Merry Gentlemen’ e ‘Bourèe’), ‘Cross-Eyed Mary’, ‘How Much is that
Dog in the Window’, ‘Skating Away’, ‘Wond’ring Aloud’, ‘Queen and Country’,
‘Ladies’ (incl. ‘Drum Solo’), ‘WarChild’, ‘SeaLion’, ‘Bungle in the Jungle’,
‘Aqualung’, ‘Back-Door Angels’, ‘Guitar Solo’(incl. ‘Minstrel in the Gallery’
extract), ‘Locomotive Breath’, ‘Hard-Headed English General’ e ‘Back-Door
Angels reprise.’ Il
pezzo ‘Bungle in the Jungle’, pur di grande successo negli USA, nel testo criticava
proprio le grandi città come quelle americane, che creavano (come evocato dal
titolo), qualcosa di simile al caos in una giungla. Durante l’esecuzione di
‘Ladies’ il pubblico aveva modo di partecipare alla canzone battendo le mani a
tempo durante un passaggio che ben si prestava a questa interazione tra la band
e gli spettatori. Ad ogni modo, dal momento che i brani per ‘WarChild’ erano
stati completati già all’inizio dell’anno, Ian Anderson ebbe modo di scriverne
molti altri. Questi pezzi, tutti registrati tra la fine del 1973 ed il 1974,
avrebbero trovato spazio sulle raccolte ‘The best of Jethro Tull’ Vol. 1 &
2, ’20 Years of Jethro Tull’, ‘Nightcup’, sulla edizione per i 40 anni di
‘Warchild’ e all’interno dell’EP ‘Ring Out, Solstice Bells’. I
titoli erano: ‘Paradise Steakhouse’, ‘Saturation’, ‘Good Godmother’, ‘SeaLion
II’ (con Jeffrey alla voce), ‘Quartet’, ‘WarChild II’, ‘Tomorrow Was Today’,
‘Glory Row’, ‘March, the Mad Scientist’, ‘Rainbow Blues’ e ‘Pan Dance’. Quest’ultima, registrata il 29 ottobre 1974 ai Morgan
Studios, come accennato era stata concepita per il balletto con le danzatrici
dell’ensamble denominato ‘Pan’s People’, e vedeva soltanto il flauto di Ian
Anderson accompagnato da un’orchestra sinfonica. ‘Quartet’, una sorta di antico
madrigale, era il brano nel quale lo stesso Anderson riteneva di aver dato il
meglio di sé al sax: inciso il 27 dicembre 1973, sarebbe stato scelto quale
introduzione registrata per i concerti del 1976. E spesso verrà accennato
durante gli assolo di flauto (anche su ‘Bursting Out’). ‘Tomorrow Was Today’
era una vecchia conoscenza per quanti seguivano da anni i Jethro Tull dal vivo,
e venne finalmente incisa il 24 febbraio 1974. I primi di questi pezzi inediti
ad essere pubblicati (su ‘The Best of Jethro Tull’, le due raccolte uscite il 9 gennaio 1976 e il
9 settembre 1977) furono comunque ‘Glory Row’ (registrata l’11 aprile del 1974)
e ‘Raimbow Blues’ (messa su nastro due mesi dopo, il 18 giugno). Quest’ultimo
brano sarebbe stato anche eseguito dal vivo nel 1976. SeaLion II, con la voce
recitata di Jeffrey Hammond, era in realtà precedente alla versione finita sul
disco, e cantata da Ian Anderson. ‘Paradise Steakhouse’ è invece un brano
strepitoso che vede la luce solo nel 1993, in apertura del secondo Cd di
inediti intitolato ‘Nightcup’. Per
scattare la foto destinata al poster da accludere ad uno dei due ‘Best Of’,
Tull vecchi e nuovi (escluso Mick Abrahams) a metà anni ’70 si ritrovarono
sorridenti intorno ad un tavolo negli USA: nell’immagine possiamo riconoscere,
da sinistra, Jeffrey Hammond, Martin Barre, Clive Bunker, Ian Anderson, John
Evan, Glenn Cornick e Barrie Barlow. A Glenn Cornick non parve neanche vero di
vedersi pagato un volo per l’America soltanto per farsi fare quella fotografia:
e da allora si stabilì in California per quasi 20 anni, prima formando i Paris,
e poi divenendo manager di
un’impresa alimentare. Solo al suo ritorno in Inghilterra avrebbe ripreso a
suonare, mettendo di nuovo insieme i Wild Turkey. Probabilmente Mick Abrahams
non andò a causa della sua scarsa voglia di viaggiare (o di prendere l’aereo)
che gli era già costata l’estromissione dal gruppo, proprio perché si era
rifiutato di partire per il primo tour negli USA. Né si può dire che si fossero
lasciati amichevolmente, alla fine del 1968. La carovana dei Jethro Tull
ripartì all’inizio del 1975, trasferendo il tour di ‘WarChild’ in America,
dalla data del 17 gennaio al Civic Center di Asheville, in North Carolina, fino
a quella del Garden di Boston, il 13 marzo 1975. I Carmen erano il gruppo
spalla di questi tre mesi negli USA, ed il loro bassista, John Glascock,
sarebbe diventato il sostituto di Jeffrey Hammond alla fine di quello stesso
anno. Più concerti consecutivi furono tenuti, per via delle crescenti richieste
di biglietti, al Forum di Los Angeles nel febbraio 1975, sempre con i Carmen
come “open act”. La scaletta del 7 marzo al Madison Square Garden di New York
era la seguente: ‘The Beach Part II’ (nastro registrato), il frammento della
futura ‘Minstrel in the Gallery’ unita alla sezione rock di ‘Wind Up’, gli
estratti da ‘A Passion Play’ e ‘Thick as a Brick’, ‘Wond’ring Aloud’, ‘My God’
(incl. ‘God rest Ye Merry Gentlemen’, ‘Bourèe’, ‘Living in
the Past’, ‘Pop Goes the Weales’), ‘SeaLion’, ‘Skating Away’, ‘Ladies’ (incl.
‘Drum Solo’), ‘WarChild’, ‘WarChild Suite’ (piano e archi), ‘Queen and
Country’, ‘Reasons for Waiting’, ‘Cross-Eyed Mary’, ‘Bungle in the Jungle’,
‘Aqualung’, ‘Guitar Solo’, ‘Back-Door Angels’, ‘Locomotive Breath’,
‘Hard-Headed English General’, ‘Instrumental’ e ‘Back Door Angels reprise’. Questa, salvo variazioni poco
rilevanti, era la set-list “tipo” dei tre mesi di concerti negli Stati Uniti
(da gennao a marzo) con i sopracitati Carmen come gruppo spalla. Il brano
‘Hard-Headed English General’, che aveva anche una parte cantata, non fu mai
registrato in studio. E stranamente, dopo averlo eseguito per anni a fine show,
durante un’intervista del 2000 Ian Anderson avrebbe ammesso di non ricordarselo
per niente! Ad ogni modo lo show dei Jethro Tull era ormai ben rodato, con lo
stesso Ian Anderson che iniziava gli spettacoli apparendo al pubblico su un
palco rialzato dietro la strumentazione, folleggiando e cantando con indosso
una lunga giacca dalle spalline enormi, della quale si sarebbe liberato dopo
l’esecuzione dell’estratto di ‘A Passion Play’. A questo punto, sceso sul palco
e aiutato da una gentile fanciulla a sfilarsi la giacca, rimaneva con il solo
costume rinascimentale, iniziando a cantare l’inizio quieto di ‘Thick as a
Brick’, accompagnandosi con la chitarra acustica. Da qualche tempo, ormai, nei concerti dei
Jethro Tull c’era qualcosa che ricordava l’ironia dei Monty Python, bilanciata
dall’eleganza classicheggiante della versione di ‘WarChild’ con John Evan al
piano accompagnato dal quartetto d’archi, che si evolveva nella versione
sinfonica di ‘Reasons for Waiting’ (da ‘Stand Up’). Il finale era sempre
affidato a ‘Locomotive Breath’: e quando, dopo l’intro pianistico ed il “one,
two, three, four” di Ian Anderson, il brano esplodeva, chitarrista e bassista
si lanciavano verso il pubblico (unico momento dello show nel quale lasciavano
Ian Anderson più indietro), mandando il pubblico in delirio. Durante il
fantasmagorico strumentale di fine spettacolo,
Ian gettava verso la platea enormi palloni (come avrebbe continuato a fare per
anni), per poi concludere quasi da solo, quando tutto tornava alla
tranquillità, lasciando il pubblico con la quieta sezione finale di ‘Back-Door
Angels’. Il tour successivo sarebbe partito il 30 marzo 1975 da Berlino, attraversando
tutta la Germania, con alcune delle ultime date in Jugoslavia e Austria, per
chiudersi il 20 aprile a Zurigo.
MINSTREL IN THE
GALLERY, 1975
Durante il lungo tour di ‘WarChild’, tra il 12 dicembre 1974
ed il 12 gennaio 1975 Ian Anderson cominciò a scrivere i brani per un nuovo
album. Dal 15 maggio al 7 giugno 1975 l’intero ‘Minstrel in the Gallery’ venne
registrato con l’ausilio del Maison Rouge, uno studio mobile commissionato da
Ian Anderson ai Morgan Studios di Londra, affinché la band potesse registrare
viaggiando attraverso l’Europa. Si trattava a conti fatti di un grande furgone
rosso dotato di tutte le attrezzature di uno studio di registrazione, di nuovo
con Robin Black al mixer. I brani erano la title track ‘Minstrel in the
Gallery’, seguita da ‘Cold Wind to Walhalla’, ‘Black Satin Dancer’, la più
quieta ‘Requiem’,‘OneWhite Duck / 010 Nothing at All’, la mini suite ‘Baker St. Muse’ (che
includeva quattro sotto-titoli) più la brevissima ‘Grace’. ‘Requiem’ fu
l’ultima traccia ad essere registrata, mentre la gradevolissima ‘Summerday
Sands’ rimase fuori dall’album per essere pubblicata su singolo. Ian Anderson,
relativamente a questo periodo, ricorda un John Evan piuttosto disinteressato,
ed impegnato solo a suonare musiche di Beethoven al pianoforte: eppure il suo
lavoro sull’album è pregevole. Con le registrazioni ancora in corso, a maggio i
Jethro Tull presentarono il nuovo album presso gli studi RTV di Radio
Montecarlo, a Monaco, con versioni leggermente diverse di ‘Minstrel in the
Gallery’ e ‘Cold Wind to Valhalla’, unitamente ad un’esecuzione di ‘Aqualung’
con tanto di accompagnamento d’archi, più la versione originale di ‘Requiem’ ed
un’intervista a Ian Anderson tra un pezzo e l’altro. Il tutto per la BBC, che
avrebbe trasmesso lo speciale il 5 ottobre 1975 durante il programma ‘Sounds on
Sunday’. Solo l’inizio di ‘Minstrel in the Gallery’ e ‘Cold Wind to Valhalla’,
tratte da questa trasmissione radiofonica, sarebbero comparse su ’20 Years of
Jethro Tull’, mentre le versioni integrali di entrambi i pezzi, unitamente a
quella di ‘Aqualung’, saranno finalmente presenti sull’edizione del 40°
anniversario del disco. Al contrario della pomposità degli arrangiamenti del
precedente ‘WarChild’, i nuovi brani erano contraddistinti da una dimensione più
intimista e sobria, con molta chitarra acustica di Ian Anderson, accompagnata
dall’elegante quartetto d’archi tutto al femminile (due violini, viola e
violoncello) che era in tour con la band tra il 1974 ed il 1975. Gli
arrangiamenti orchestrali erano di David Palmer. Quando gli altri strumenti
facevano però il loro ingresso, la musica diventava potentissima, con una
poderosa sezione ritmica da parte di Jeffrey Hammond Hammond (al suo ultimo
disco con la band) e di Barriemore Barlow. La chitarra elettrica di Martin
Barre (una Gibson Les Paul Standard) era solitamente posizionata sul canale
destro, ma il suono veniva ripetuto con un leggero ritardo su quello sinistro.
E su ‘Cold Wind to Walhalla’ Martin utilizzava anche il bottleneck. Nonostante
ciò, per vari motivi, di tutti questi brani solo ‘Minstrel in the Gallery’
avrebbe fatto parte della scaletta dei concerti di quel periodo. E dunque, a
conti fatti, l’intera tournèe del
1974-1975 fu quella di ‘WarChild’, mentre non ci fu mai un vero e proprio tour per
il disco nuovo. ‘Requiem’ sarebbe enrata nella set-list durante il primo tour
del 1976, e ancora nella scaletta del 1989; un breve frammento strumentale di
‘Black Satin Dancer’ avrebbe fatto la sua apparizione nel corso dei concerti
del 1982 (all’interno di ‘Pibroch’), mentre ‘One White Duck’ sarebbe stata
eseguita tra il 1978 ed il 1979; e, a sorpresa, anche nel corso del tour
semi-acustico del 1992 (documentato sul disco ‘A Little Light Music’). Il 29
giugno 1975 partì il tour in Germania con cinque date, a partire da quella di
Amburgo. Quindi fu la volta del concerto parigino del 5 luglio al Palais des
Sportes (dove due anni dopo i Genesis avrebbero realizzato il loro ‘Seconds
Out’): particolare importanza riveste questa data di Parigi, dal momento che
venne sia registrata che filmata (come ricordava anche una delle violiniste).
Già il cofanetto celebrativo dei 25 anni della band (1993) conteneva un breve
estratto di quel concerto (‘A Passion Play Extract’, e cioè ‘Critique
Oblique’), lasciando intendere ai fans che dovevano esistere i nastri
dell’intero show, registrato alla perfezione su multi-traccia. L’attesa sarebbe
durata fino alla pubblicazione del 40° anniversario di ‘Minstrel in the
Gallery’ (2015), che includeva finalmente questo concerto, anche se incompleto:
infatti, dal momento che allo spettacolo di quella sera era destinato un solo
Cd, alcuni di quei brani dovettero essere esclusi. La selezione data alle
stampe comprendeva: ‘The Beach Part II’(nastro registrato), la sezione rock di
‘Wind Up’, ‘Critique Oblique’, ‘Wond’ring Aloud’, ‘My God’ (incl. ‘God
Rest Ye Merry Gentlemen’, ‘Bourèe’, ‘Quartet’, ‘Living in the Past’),
‘Cross-Eyed Mary’, ‘Minstrel in the Gallery’, ‘Skating Away’, ‘Bungle in the
Jungle’, ‘The Story Of The Hare Who Lost His Spectacles’ (interrotta dalla
telefonata), ‘Aqualung’, ‘Guitar Improvvisation’, ‘Back-Door Angels’,
‘Locomotive Breath’, ‘Hard Headed English General’ e ‘Back-Door Angels
reprise’. Rimanevano
dunque esclusi dallo show di quella sera ‘Thick as a Brick’, ‘Ladies’ (incl.
‘Drum Solo’), ‘WarChild Suite’ e ‘SeaLion’. Ad ogni modo, un disco da sogno per
quanti, abituati da decenni ad ascoltare i vecchi Tull dal vivo solo su
‘Bursting Out’ (a parte i due brani alla Carnegie Hall ’70 presenti su ‘Living
in the Past’), potevano adesso godersi un concerto ben registrato degli
splendidi Jethro Tull annata 1975. Più intricato, invece, il mistero
riguardante le riprese video del concerto: esse furono realizzate, dal momento
che, a parte i ricordi dei protagonisti, sul Cd si può ascoltare lo stesso Ian
Anderson fare riferimento più volte ai cameramen presenti durante lo show.
Eppure, di tutto quello spettacolo, è rimasta solo il filmato del brano
‘Minstrel in the Gallery’. Questo era peraltro già noto ai fans, in quanto presente
in un documentario, un videoclip e soprattutto sul Dvd (in precedenza Vhs)
celebrativo dei 25 anni della band. Ma si trattava sempre di versioni
incomplete mentre, se non altro, quella contenuta nell’edizione dei 40 anni del
disco omonimo è integrale, e sincronizzata con l’audio stereo di quello stesso
concerto. Il 24 luglio 1975 il tour americano parte di nuovo dalla data
canadese di Vancouver, con la stessa set-list del concerto di Parigi. Seguono
gli spettacoli di Seattle, Portland, Salt Lake City, Dallas, Houston e numerosi
altri. Il 28 luglio, all’Oakland Coluseum, in California, i Jethro Tull ebbero
come gruppo d’apertura la Sensational Alex Harvey Band, che nel 1976 li avrebbe
omaggiati con una loro versione di ‘Love Story’, l’ultimo brano registrato con
Mick Abrahams (pezzo che ricomparirà inaspettatamente nella scaletta del 1990).
Il 23 agosto, in occasione dello show al Mississippi Coliseum di Jackson,
Martin Barre conosce la sua futura moglie Julie. A Buffalo, il 26 settembre,
eseguono anche un breve estratto da ‘Teacher’. La data conclusiva è quella di
West Lafayette (Indiana) del 2 novembre 1975, di fronte a settemila persone,
che coincide anche con l’ultimo concerto di Jeffrey Hammond Hammond insieme ai
Jethro Tull. Nonostante i tentativi della band di fargli cambiare idea, Jeffrey
deciderà infatti di tornare alla sua vecchia passione per la pittura, ed
abbandonerà per sempre la scena musicale, comparendo solo in occasione di
qualche Convention organizzata dai fan club dei Jethro Tull (anche in Italia),
senza mai toccare uno strumento. Tra settembre ed ottobre la set-list dei
concerti americani appare un po’ cambiata, con la seguente sequenza di brani:
‘Thick as a Brick’ (extract), ‘Minstrel in the Gallery’, ‘Wondr’ing Aloud’, ‘To
Cry You a Song’ (inaspettato ritorno), ‘A New Day Yesterday’ (con assolo di
flauto comprendente ‘God Rest Ye Merry Gentlemen’, ‘Bourèe’ e ‘Living in the
Past’), ‘Skating Away’, ‘Ladies’ (incl. ‘Drum Solo’),
‘WarChild Suite’, ‘Quartet’, ‘Reasons for Waiting’, ‘Cross-Eyed Mary’, ‘Bungle
in the Jungle’, l’intro di ‘The Hare Who Lost His Spectacles’, ‘Aqualung’,
‘Guitar Solo’, ‘Wind Up’, ‘Back-Door Angels’, ‘Locomotive Breath’, ‘Hard-Headed
English General’ e ‘Back Door Angels reprise’. I brani ‘To Cry You a Song’ e ‘A New Day Yesterday’,
con il successivo assolo di flauto comprendente i frammenti sopracitati,
verranno ripresi per i concerti del 1976 e 1977. In occasione della menzionata data di
Buffalo, il 26 settembre 1975, ebbero Richie Havens come supporto, mentre il concerto
dell’1 ottobre al Capitol Center di Largo vedrà un audience di 18.000
spettatori, la presenza dei Gentle Giant e l’utilizzo delle proiezioni del
concerto su maxi-schermo. Frattanto, il 5 settembre esce ‘Minstrel in the
Gallery’ in Gran Bretagna, raggiungendo il 20° posto in classifica, seguito
dalla pubblicazione di tre giorni dopo negli USA, con una più ragguardevole
settima posizione. Il disco è preceduto di pochi giorni dal singolo contenente
sul lato A una versione molto accorciata della title track, e sul lato B la
bella ‘Summerday Sands’, impreziosita da un gradevole accompagnamento d’archi.
La copertina dell’album, virata su tonalità marroni, ci offre la scena di un
festino di epoca Tudor, con cinque musicanti (tanti quanti erano i Jethro Tull
all’epoca) impegnati ad intrattenere, su un balconcino e con strumenti antichi,
la sottostante folla di strambi personaggi vestiti in maschera, sotto una volta
di grosse travi di legno e con stendardi appesi alle pareti. L’immagine è quasi
identica ad un quadro (olio su tela) di Joseph Nash del 1838: questa
illustrazione (accreditata in copertina) è però a colori vivaci, e i musicanti
sulla balaustra sono più numerosi. Non mancano invece l’armatura appesa alla
parete di sinistra ed il tizio travestito da coccodrillo, con un altro sopra di
lui, ed un altro ancora che lo trattiene per la finta coda. Il retro ci mostra
i “veri” Jethro Tull, sempre su una balconata, con sotto, in un ampio spazio
scuro, strumenti (compreso il contrabbasso a righe bianche e nere di Jeffrey),
scatole varie ed una sedia. Sono presenti inoltre i titoli dei brani sulla
destra e i nomi dei musicisti sulla sinistra: scopriamo così che al quartetto
femminile si è aggiunto sul disco il primo violino Patrick Halling, e che le
foto sono del solito Brian Ward. Per la precisione ai violini abbiamo Elizabeth
Edwards, Rita Eddowes e Bridget Procter, mentre Katharine Thulborn è al
violoncello. I quattro sotto-titoli di Baker St. Muse sono: ‘Pig-Me
and the Whore’, ‘Nice Little Tune’, ‘Crash-Barrier Waltzer’ e ‘Mother England
Reverie’. Ian Anderson,
che compare vestito tutto di nero, oltre a cantare suona soltanto chitarra
acustica e flauto; John Evan, che dietro la ringhiera di legno sfoggia un abito
elegante con tanto di cappello, è tornato ad occuparsi di organo e pianoforte,
mentre Barrie e Jeffrey, nella foto, portano soltanto i baffi. Il gruppo si
lascia intravedere da lontano attraverso un sipario aperto. Ia maglietta nera
di Ian è scollata e a maniche corte, mentre Martin è in giacca e pantaloni
bianchi. Solo loro due hanno con sé i propri strumenti (chitarra acustica per
Anderson ed elettrica per Barre). Il disco venne prodotto da Ian Anderson. La
voce che presenta i musicisti all’inizio del disco (“My Lord and Lady”) è
quella di David Palmer, mentre la potente sezione strumentale di ‘Minstrel in
the Gallery’ che segue l’introduzione acustica veniva suonata in concerto dai
Jethro Tull già dal 1973. Il successivo, incalzante riff “in battere”
rappresentò uno dei momenti più entusiasmanti della band, sia sul disco che dal
vivo. Nel testo di ‘Cold Wind to Walhalla’ Ian Anderson impersona una valchiria
che si rivolge ad una fanciulla, invitandola a cavalcare con lui fino al
paradiso dei Vichinghi (il Valhalla, appunto). Per la prima volta in un disco
dei Tull, quasi ogni brano è preceduto
dal parlato di Ian Anderson, che annuncia il titolo ed il numero della take che
sta per eseguire. ‘One White Duck / 010 Nothing at All’ è suddivisa in due parti distinte, una
quieta con accompagnamento d’archi, e l’altra con un Ian Anderson più rabbioso
nel modo di cantare e di suonare la chitarra. La mini-suite ‘Baker St. Muse’
(la stessa strada londinese del noto Sherlock Holmes) inizia, ma viene subito
ripetuta, perché Ian ritiene di aver commesso un errore. Il pezzo è acustico,
ma viene interpolato da grintosi interventi da parte di tutta la band. Si può
anche sentire il rumore del traffico sulla strada del titolo, clacson compresi.
E qui Anderson non risparmia una frecciatina alla nota rivista musicale ‘Rolling
Stone’. Dopo la fine di questo lungo brano abbiamo ancora i rumori della
chitarra acustica riposta nella custodia, e i passi del leader dei Jethro Tull
che si allontanano sempre più (effetto ottenuto in studio aumentando man mano
l’effetto riverbero), mentre lui continua a canticchiare. I remix di Steven
Wilson in occasione del 40° anniversario dell’album (solitamente 2 Cd e 2 Dvd,
più un corposo libretto) offrono anche una versione alternativa di ‘Requiem’
mai ascoltata prima, accompagnata dalla band invece che dagli archi, e
registrata il 26 maggio 1975. Il testo del brevissimo cameo con il quale
finisce l’album ‘Minstrel in the Gallery’, intitolato ‘Grace’, si conclude con
una punta di amara ironia: “Salve sole, salve uccello, salve mia signora, salve
prima colazione. Quanto devo pagare per avervi di nuovo domani?”.
TOO OLD TO ROCK’N’ROLL: TOO YOUNG TO DIE!, 1976
All’inizio del 1975, durante un volo sopra i cieli americani
tra una data e l’altra, i Jethro Tull si erano ritrovati al centro di una
tempesta, tra fulmini, raffiche di vento e sballottamenti dell’aereo che li
avevano spaventati non poco. Ian Anderson, che poco prima, insoddisfatto dalla
performance precedente, stava rimuginando sul fatto di essere diventato “troppo
vecchio per il rock’n’roll”, si trovò così di colpo a considerare di essere
anche “troppo giovane per morire”. Fu così che nacque l’idea del titolo per il
nuovo album: ‘Too Old To Rock’n’Roll: Too Young To Die!”. Tra il 19 ed il 20
novembre 1975, con il nuovo bassista John Glascock, il gruppo si trasferì
presso i Morgan Studios di Brussels (omonimi di quelli londinesi) per
registrare una prima serie di brani destinati al nuovo disco. Maddy Prior, la
cantante degli Steelay Spain, li raggiunse appositamente per contribuire con la
sua voce ai brani ‘Too Old to Rock’n’ Roll’ e ‘Salamander’s Rag Time’.
Quest’ultimo, che conteneva anche una sezione richiamante ‘Penny Lane’ dei
Beatles, sarebbe rimasto fuori dal disco, per comparire solo nel 2015 nella
consueta edizione dei 40 anni, insieme all’altro inedito intitolato ‘Commercial
Traveller’, registrato in quegli stessi giorni. A Montreux, in Svizzera,
vennero poi composti e provati altri pezzi; e tutto il resto del disco venne
infine registrato nel gennaio del 1976 con l’ausilio del Maison Rouge Mobile
Studio (il furgone rosso già utilizzato per ‘Minstrel in the Gallery’) a
Montecarlo, comprese le due versioni di
‘A Small Cigar’ (quella acustica e quella orchestrale) che non vennero
utilizzate: la prima sarebbe uscita nel 1993 su ‘Nightcup’ (con l’erronea
indicazione dell’anno 1975), e l’altra nel 2015, sull’edizione dei 40 anni. La
versione acustica, molto bella, vedeva il solo Ian Anderson cantare
accompagnandosi con la chitarra, mentre, nel finale, subentrava un pianoforte
classicheggiante suonato con gusto da David Palmer. A conti fatti, dunque, i 10
pezzi alla fine scelti per l’album vennero registrati sia a Brussels, nel
novembre del 1975, che a Montecarlo, nel gennaio del 1976. I
titoli erano ‘Quiz Kid’, ‘Crazed Institutions’, ‘Salamander’, ‘Taxi Grab’,
‘From a Dead Beat to an Old Greaser’, ‘Bad Eyed and Loveless’, ‘Big Dipper’,
‘Too Old to Rock’n’Roll: Too Young to Die’, ‘Pied Piper’ e ‘The Chequered Flag
(Dead or Alive)’. Quest’ultimo
brano, molto tranquillo, collocato a chiusura del disco, era in effetti uno dei
primi registrati, e nella sua progressione armonica discendente ricordava un
po’ ‘The Rain Song’ dei Led Zeppelin. La vivace ‘Taxi Grab’ è il pezzo nel
quale Ian rispolvera l’armonica dai tempi di ‘Stand Up’, assecondato da Martin
Barre che suona una Fender Broadcaster con il bottleneck. La title track, al
contrario del titolo del disco, è priva del punto esclamativo finale. Angela
Allen, altra voce femminile presente sull’album oltre quella di Maddy Prior,
cantò su ‘Crazed Institutions’ e ‘Big Dipper’: per la prima volta su un album
dei Jethro Tull potevano dunque ascoltarsi anche cantanti donne. Il disco venne
inciso una seconda volta appositamente per uno speciale televisivo presso i
Morgan Studios di Londra nel marzo del 1976, per essere sincronizzato (con
audio stereo) alle immagini del programma intitolato ‘London Week End
Television’, andato in onda venerdì 16 luglio 1976 alle 23:30, simultaneamente
alle musiche su ‘Capital Radio’. E questa seconda versione del disco è quella
che è stata brillantemente remixata da Steven Wilson per l’edizione dei 40
anni, venendo utilizzata anche per le immagini dello speciale televisivo,
anch’esso presente nel box-set. Il brevissimo brano che introduce il disco (un
accenno acustico al tema della title track, subito interrotto dalla schitarrata
iniziale di ‘Quiz Kid’) viene intitolato ‘Prelude’. Ian e David Palmer, mentre
erano a Montreux, avevano anche pianificato l’idea di un musical teatrale e di
un film (come già per ‘WarChild’): ma il doppio progetto sfumò, ed uscì
solamente il disco. Come detto il
bassista, dopo le “dimissioni” di Jeffrey Hammond Hammond, era diventato
John Glascock, già in tour con i Carmen come ‘open act’ dei Jethro Tull da
gennaio a marzo del 1975 in America. I Carmen suonavano una sorta di “flamenco
rock”, avevano una cantante ed erano riusciti a pubblicare alcuni singoli e tre
album, tra il 1973 ed il 1975. Ma John Glascock, con altri gruppi, aveva già
dato alle stampe altro materiale fin dai primi anni ’60: insieme ad una band
chiamata ‘The Juniors’ era riuscito a comparire in un singolo del 1962 quando
aveva appena 11 anni. E di quella formazione faceva parte anche Mick Taylor, in
seguito nei Rolling Stones. Contrariamente alle prime notizie comparse sulle
riviste musicali, che parlavano del sostituto di Jeffrey Hammond come di “un
giovane bassista americano”, anche John era inglese. Ed entrò subito in
sintonia con il resto della band perché aveva una grande tecnica, ed era anche
una persona amabile e sempre pronta al sorriso. Suonava ad orecchio, senza
leggere la musica, ma imparava subito qualsiasi cosa. E se si trovava davanti
qualche passaggio più difficile, lavorava duramente, fino a quando non riusciva
a venirne a capo. Cantava anche bene, e così Ian Anderson avrebbe potuto essere
affiancato (per la prima volta) sul palco da una seconda voce. Viveva per la
musica, come avrebbe dichiarato Barriemore Barlow, che aveva particolarmente
legato con lui (come spesso accade tra batterista e bassista, la “sezione
ritmica” di ogni band). Purtroppo John sarebbe morto per un problema al cuore
il 17 novembre del 1979, e Barrie, in tour con i Tull negli USA, si sarebbe
ritrovato a piangere dietro ai tamburi durante il concerto in corso (Sports
Arena di San Diego, giorno del compleanno di Martin Barre, durante il tour di
‘Stormwatch’ con Dave Pegg al basso) quando vennero raggiunti dalla notizia.
L’esordio dal vivo di John Glascock e di David Palmer con i Jethro Tull avvenne
il 1° maggio 1976 a Brussels, data di inizio del tour europeo di ‘Too Old to
Rock’n’Roll’ (concerto nel quale venne eseguita anche ‘Rainbow Blues’). Al
contrario delle precedenti, questa tournèe sarebbe stata piuttosto breve, con
una dozzina di date tra Belgio, Francia, Olanda, Svezia, Danimarca, Germania,
Svizzera e Spagna, per chiudersi a Madrid il 20 dello stesso mese. John e David
fecero in tempo a suonare con un Ian Anderson per l’ultima volta in costume
rinascimentale (come nel tour 1974-1975), mentre i pezzi in scaletta erano di
solito: ‘Thick as a Brick’, ‘Too Old to Rock’n’Roll’, ‘To Cry You A Song’, ‘A
New Day Yesterday’(incluso l’assolo di flauto più i frammenti dei brani del
tour precedente), ‘Requiem’, ‘Big Dipper’, ‘Beethoven Ninth Symphony’, ‘The
Chequered Flag’, ‘Crazed Institutions’, ‘Instrumental’, ‘Cross-Eyed Mary’,
‘Aqualung’, ‘Guitar Solo’, ‘Wind Up’, ‘Back-Door Angels’, ‘Minstrel in the
Gallery’, ‘Locomotive Breath’ e ‘Back-Door Angels reprise’. In occasione della
data di Parigi del 3 maggio 1976 il concerto venne aperto dal nastro registrato
di ‘Quartet’, e vennero eseguite anche ‘Quiz Kid’, ‘Taxi Grab’, più una
versione cantata di ‘Living in the Past’. Durante il tour americano di due mesi
dopo soltanto un paio dei brani del disco nuovo (‘Crazed Institutions’ e ‘Too
Old To Rock’n Roll’) sarebbero rimasti in scaletta. Nel corso dei concerti del
1976 David Palmer, pur essendo sul palco, non era ancora considerato a tutti
gli effetti un componente della band: suonava le tastiere in coppia con John
Evan, e anche l’assolo di sax sulla title track del disco nuovo. Ian Anderson,
oltre alle sue casacche dalla foggia antica, appariva adesso con la fronte
spaziosa, i capelli ancora lunghi ma sfilacciati ed una barba cortissima. Il
nuovo arrivato, John Glascock, portava spesso camicie dalle maniche larghissime
e cappello. A volte era vestito tutto in rosso. Durante lo speciale televisivo,
invece, i Jethro Tull (che si esibivano in play-back) cambiavano abiti per
ognuno dei brani del disco nuovo, intervallati da spezzoni del racconto a
fumetti che era presente sull’album. La storia era quella di Ray Lomas, un
vecchio rocker ormai fuori moda con i suoi capelli lunghi, il giubbotto di
pelle e le scarpe con le zeppe. Ray Lomas era una persona effettivamente
esistente, che fu ben lieta di prestare il proprio nome per il nuovo lavoro dei
Jethro Tull. Sulla copertina del disco, così come nella storia a fumetti in
esso contenuta, Ray aveva comunque le sembianze di Ian Anderson. Il 19 marzo
1976 uscì il singolo ‘Too Old to Rock’n’Roll / Rainbow Blues’, ed il 27 marzo i Tull apparvero alla
trasmissione televisiva ‘Supersonic’ per ‘Too Old to Rock’n Roll’ ed una nuova
versione di ‘Living in the Past’, con Ian Anderson in giubbotto di pelle e
sciarpa gialla, John Evan in giacca azzurra e Barrie con un surreale casco in testa.
Lo speciale, invece, trasmesso il 16 luglio, era stato filmato il 7 aprile.
Quello stesso mese incisero una prima versione di ‘One Brown Mouse’, poi
rifatta per il disco ‘Heavy Horses’ del 1978. E sempre ad aprile Ian sposò
Shona Learoyd, che è da allora la signora Anderson. Solo il 26 maggio 1976
venne messa su nastro ‘Strip Cartoon’ (con il
Maison Mobile Studio): ma il sound della band era già cambiato, e questo
pezzo può essere ricondotto più opportunamente al periodo di ‘Songs from the
Wood’. Il nuovo disco uscì il 23 aprile
in Gran Bretagna e il 17 maggio negli USA. Il 15 luglio partì finalmente la
tournèe americana al Civic Center di Providence, con l’ausilio delle riprese su
maxi-schermo con il sistema denominato “Tullavision” per le esibizioni tenute
nei grandi stadi. Il 23 luglio sono allo Shea Stadium di New York, famoso per
il concerto dei Beatles con il maggior afflusso di pubblico: in questo caso
sono presenti 50 mila persone. E 80 mila furorono quelle che assistettero allo
spettacolo del 15 agosto al Memorial Coliseum di Los Angeles. Il giorno dopo, a
San Diego, prima di loro suonò Rory Gallagher, come in altre date del periodo.
Il concerto del 10 agosto al Moody Coliseum di Dallas coincise con il 29°
compleanno di Ian Anderson. Il tour si chiuse con lo show canadese di Calgary
il 25 agosto. La data del 31 luglio 1976 al Tampa Stadium è giunta
miracolosamente fino a noi in video, anche se dimezzata: il filmato proiettato
sul maxischermo è stato infatti ritrovato dopo decenni trascorsi negli archivi,
ed ha cominciato a circolare tra i fans dei Jethro Tull. Il concerto viene
sfumato verso la fine della nona sinfonia di Beethoven, e si era parlato di una
successiva messa in circolazione della seconda parte dello show (dunque da ‘My
God’ in poi): ma questo non è mai avvenuto, ed è verosimile che il nastro sia
rovinato dal punto in cui lo conosciamo fino alla fine. E’ in ogni caso una
fantastica occasione per ammirare (con suono mono, ma dal mixer) i Tull durante
quel tour del 1976 negli Stati Uniti: Ian Anderson ora indossa un completo
azzurro (giubba e calzoni dentro gli stivali), con rigonfiamenti rossi e gialli
sulle spalle e le ginocchia; Martin Barre già con gli indumenti a strisce
colorate che utilizzerà anche durante la successiva tournèe di ‘Songs from the
Wood’; John Glascock con le sue ampie maniche, più il cappello e gli occhiali
scuri, dei quali si libererà dopo il primo brano; Barriemore Barlow in
calzoncini e maglietta a righe, con cappello floscio in testa; John Evan in
giacca e pantaloni bianchi, sempre con gli occhi stralunati, più David Palmer
in maglietta bianca. E, soprattutto, la musica: un gruppo oliato alla
perfezione, guidato da un Ian Anderson (ora dai capelli meno lunghi) che è uno
spettacolo nello spettacolo. La scaletta originale di quel 31 luglio era la
seguente: introduzione con ‘Quartet’ su nastro registrato, ‘Thick as a Brick’ ,
‘Wond’ring Aloud’, ‘Crazed Institutions’, ‘Instrumental’ (incl. ‘Drum
Solo’), ‘To Cry You a Song’, ‘A New Day Yesterday’ (incl. ‘Flute Solo’,
‘Bourèe’, ‘God Rest Ye Merry Gentlemen’, ‘Living in the Past’, un altro
frammento di ‘Thick as a Brick’ e ‘A New Day Yesterday reprise’), ‘Too Old to
Rock’n’Roll’, ‘Minstrel in the Gallery’, 'Beethoven’s Ninth Symphony’, ‘My
God’, ‘Cross-Eyed Mary’. Dunque il bis: ‘Guitar Solo’, ‘Wind Up’, ‘Back-Door
Angels’, ‘Locomotive Breath’, ‘Wind Up reprise’, ‘Dambusters March’ e
‘Back-Door Angels reprise’. All’inizio possiamo vedere Ian Anderson percorrere da solo il corridoio
del back-stage, accordando la chitarra acustica che ha già a tracolla. Quindi,
salito sul palco, annuncia per scherzo che ‘Thick as a Brick’ è una canzone di
Johnny Cash. Alla fine del pezzo tutti i componenti della band si sbracciano
per ringraziare il pubblico, percorrendo il palcoscenico e salutando
rivolgendosi in tutte le direzioni, prima di ricominciare lo show. Dal momento
che le immagini erano destinate proprio al pubblico, quest’ultimo non viene mai
inquadrato. Le telecamere inizialmente indugiano sul solo Ian Anderson, ma
quando questi si ritira dietro le quinte, non possono fare a meno di mostrarci
tutto il resto dei Tull impegnati nello strumentale che include anche l’assolo
di batteria: un brano strepitoso ed articolato che permette a tutto il gruppo
di mettersi in mostra. Il riff di questo pezzo può vagamente ricordare ‘Black
Dog’ dei Led Zeppelin. Magnifici i primi piani della bellissima Gibson Les Paul
di Martin Barre dai colori sgargianti. E del resto, durante ogni tour i Jethro
Tull proponevano uno di questi strumentali senza titolo, per lasciare spazio
alla band senza Ian Anderson, e permettere a quest’ultimo di riposare un po’
dietro le quinte. Stranamente, nel corso di questo filmato, quando lo stesso
Ian inserisce o tira via il jack dalla chitarra acustica, lo fa senza curarsi
del rumore che inevitabilmente produce. Ancora più strana è l’assenza, nella
scaletta integrale di Tampa, della classica ‘Aqualung’, che era presente
durante le altre date (come alla Civic Arena di Pittsburgh pochi giorni prima,
con i Rainbow di Ritchie Blackmore in apertura): quel brano non poteva mancare,
e forse si è solo trattato di un errore nella trascrizione della set-list di
quella sera. Il lungo “blocco” che va dallo strumentale con assolo di batteria,
‘To Cry You a Song’ (in una versione diversa comprendente anche il flauto,
inesistente nell’originale) ad ‘A New Day Yesterday reprise’ verrà utilizzato
anche per il tour del 1977. Su ‘Wond’ring Aloud’ il quartetto d’archi viene
sostituito dalle tastiere Elka di David Palmer, mentre per ‘Too Old to Rock’n’Roll’
Ian riceve la sua chitarra acustica dentro una carrozzina per neonati, come
nelle apparizioni televisive. Durante la presentazione di ‘Crazed
Institutions’, parlando delle manie delle rock star (piscine comprese) Ian cita
con auto-ironia anche sé stesso, facendo riferimento ai musicisti che suonano
reggendosi “su una gamba sola”. L’inizio di ‘Minstrel in the Gallery’ contiene
ancora la sezione rock suonata dalla band senza Anderson. A parte questo
concerto, del nuovo album (come già per
‘Minstrel in the Gallery’) venne effettuata anche una versione
quadrifonica, che però avrebbe visto la luce solo nel box-set dei 40 anni. In
quest’ultima pubblicazione i brani del disco, che in origine si sentivano ad un
volume più basso rispetto agli altri lavori della band, emergono finalmente con
la dovuta definizione e potenza. Tornando allo speciale televisivo, la
danzatrice che si muove sinuosamente tra veli trasparenti nel corso di
‘Salamander’ è Cherry Gillespie. ‘Salamander’ è anche uno dei primissimi brani
nei quali Ian Anderson utilizza un’accordatura aperta per la sua chitarra
acustica. Ed è l’unica traccia di ‘Too
Old to Rock’n’Roll’ ad avvicinarsi alle atmosfere del disco precedente, mentre
il resto del nuovo album è del tutto diverso, con stranissimi suoni che non
troviamo in altri lavori dei Jethro Tull, a cominciare da quelli prodotti dai
piani elettrici di John Evan (che qui non suona l’organo). Anche se non mancano
gli archi (e i fiati) diretti da David Palmer. La seconda versione del disco non
presenta più la voce di Maddy Prior degli Steelay Span, per i quali Anderson
aveva prodotto e missato l’album ‘Now We are Six’ del 1974. La copertina del
nuovo lavoro dei Tull è prevalentemente gialla, mentre il racconto a fumetti di
Dave Gibbons è tutto in bianco e nero. Nel corso della storia disegnata, però,
i titoli dei vari brani che compaiono nei ‘baloons’ e nelle didascalie sono
colorati in rosso. Nella front cover l’illustrazione di Ray Lomas-Ian Anderson,
in giubbotto di pelle, ci rivolge con impertinenza il gesto dell’ombrello,
quasi a voler dire “Tiè, sono ancora qui!”. E infatti il racconto narra della
sua caduta in disgrazia, e poi della sua “rinascita”, dopo un grave incidente
motociclistico. Anche lo speciale televisivo vedeva lo stesso Anderson fare
riferimento alla storia del racconto a fumetti, mimando la sequenza dei brani
insieme al resto della band, che fingeva di suonare. Così, nell’iniziale ‘Quiz
Kid’, evidente critica ai quiz televisivi dell’epoca, Ian Anderson, in abito
nero, si libera dei premi vinti scaraventandoli per terra (aspirapolvere
compresa) e distruggendo il televisore a colpi d’asta del microfono. Su ‘Crazed
Institutions’ Ian e Barrie fanno il verso ai vezzi delle rock star dell’epoca,
mentre si truccano e si ammirano allo specchio. Durante il filmato di ‘From a
Dead Beat to an Old Greaser’ Anderson si confronta, nelle vesti del rocker Ray
Lomas, con un vecchio reduce della ‘Beat Generation’, interpretando le parti di
entrambi i personaggi seduti allo stesso tavolo. Anche la voce e la chitarra
acustica sono sdoppiati su entrambi i canali, destro e sinistro. E su questo
brano, come sulla title track, è presente un assolo di David Palmer al sax.
‘Bad Eyed and Loveless’ è l’unico pezzo dello Special Tv a vedere protagonista
il solo Ian Anderson, impegnato a cantare mentre scende una scala di metallo.
In questo periodo Martin Barre compare spesso vestito da giocatore di football
americano: e così abbigliato, alla fine di ‘Too Old to Rock’n Roll’ a
‘Supersonic’, si vedrà rovesciare in testa un boccale di birra da parte di Ian
Anderson. ‘Big Dipper’ vede lo stesso Anderson dondolarsi in giubbotto di pelle
su una sorta di altalena formata da catene. Su ‘Pied Piper’ (il ‘Pifferaio
Magico’, metafora delle ragazze che seducono l’ormai attempato Ray) Barrie
utilizza invece delle bacchette giganti, con Ian che gioca a nascondersi dietro
agli amplificatori. Infine, nel brano ‘The Chequered Flag (Dead or Alive)’, che
chiude lo speciale televisivo, tutti i componenti del gruppo compaiono in pigiama:
è il periodo delle stravaganze del ‘glam rock’, che i Tull vivono però con
auto-ironia. La bandiera cui fa riferimento il titolo è quella che viene
sventolata alla fine delle corse automobilistiche, con allusione alla fine
della vita. Ian Anderson, in quegli anni (come Ray Lomas nel fumetto) si sposta
spesso in moto, e le foto promozionali della band mostrano tutto il gruppo a
bordo di rombanti motociclette. La moto comparirà anche in un videoclip del
brano ‘Too Old to Rock’n’Roll’, girato però nel 1980 per ‘Slipstream’, e dunque
con la formazione di quel periodo (Anderson, Barre, Pegg, Jobson e Craney),
nonostante la musica sia quella originale del 1976. A conti fatti, ‘Too Old to
Rock’n Roll: Too Young to Die!’ può essere considerato un disco di transizione
tra i Jethro Tull precedenti e quelli ‘folk-rock’ dei lavori successivi.
SONGS FROM THE WOOD,
1977
Il 14 gennaio 1977, a Pasadena,
durante un breve tour americano di sole 7 date, David Palmer fa il suo debutto
sul palco come componente della formazione dei Jethro Tull a tutti gli effetti.
Nella set-list di quel concerto sono già presenti diversi brani del nuovo
disco, registrato tra settembre, ottobre e novembre del 1976 presso i Morgan
Studios di Londra, con l’ausilio di un mixer a 14 tracce. La scaletta di
Pasadena comprendeva: ‘Quartet’ (nastro registrato), ‘Wond’ring Aloud’,
‘Skating Away’, ‘Jack-in-the-Green’, ‘Songs from the Wood’, ‘Instrumental’, ‘To
Cry You a Song’, ‘A New Day Yesterday’ (incl. Bourèe), ‘Living in the Past’,
‘Velvet Green’, ‘Hunting Girl’, ‘Too Old To Rock’n’Roll’, ‘Beethoven Ninth
Symphony’, ‘Minstrel in the Gallery’, ‘Cross-Eyed Mary’, ‘Aqualung’, ‘Guitar
Solo’, ‘Wind Up’ (incl. ‘Back-Door Angels’), ‘Locomotive Breath’,
‘Instrumental’ e ‘Back-Door Angels reprise’.
Una scaletta che si ripeterà
praticamente uguale per la data del 22 gennaio alla nota ‘Radio City Music
Hall’ di New York, e, di fatto, quasi identica per tutto il 1977. L’1 febbraio parte il tour inglese di 13
date, con inizio al Capitol Theatre di Aberdeen, dopo oltre due anni senza
concerti in Gran Bretagna. Solo pochi giorni dopo questa data, il 4 febbraio
1977, ‘Songs from the Wood’ viene pubblicato nel Regno Unito. E il 10 febbraio
i Jethro Tull sono al Golders Green Hyppodome di Londra: è questa l’occasione
nella quale terranno uno show ridotto a meno di un’ora per la trasmissione
televisiva della BBC intitolata ‘Sight & Sound’, trasmessa 9 giorni dopo in
simultanea con il suono stereo della radio BBC2. Lo stesso anno a quello show
avevano partecipato anche Supertramp e Procol Harum, mentre i Gentle Giant vi
avrebbero preso parte nel gennaio dell’anno seguente. Ian Anderson, come già
nei precedenti spettacoli di quel 1977, sorprende tutti con un look
completamente rinnovato: gilet e bombetta rossi, foulard, più pantaloni e
stivali da gentleman di campagna abituato ad andare a cavallo per la caccia. Il
tutto in tema con i testi e le atmosfere del nuovo album, ispirato ai miti e
alle leggende di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Niente di più diverso rispetto
all’Anderson degli anni passati (il menestrello o il motociclista), con capelli
non più lunghi e barba curata. Il tutto era coinciso, tra l’altro, con
l’effettivo trasferimento del leader dei Jethro Tull dalla vita di città a
quella della campagna inglese (nel Buckinghamshire) insieme alla moglie Shona.
Inoltre, i nuovi testi prendevano spunto da un libro che Ian aveva letto di
recente, intitolato proprio “Folklore, miti e leggende della Britannia”, che
contribuì non poco alla sua nuova vena ispirativa. Questa rinnovata immagine,
con gilet e bombetta rossi, verrà mantenuta per tutto il 1977. Il mini-concerto
al programma ‘Sight & Sound’ vedeva Bob Harris presentare la band, e quindi
Anderson cominciare lo show indossando una giacca da cacciatore, della quale si
sarebbe presto liberato. Così come Martin Barre della vestaglia da camera e del
monocolo, per prosegure lo show sfoggiando il suo costume di scena con gilet e
pantaloni a strisce colorate, già visto durante il tour americano del 1976. Per
inciso, questo è anche l’ultimo anno in cui Martin utilizza la Gibson Les Paul.
L’inizio del concerto è acustico, prima che il rock cominci a prendere il
sopravvento durante ‘Thick as a Brick’. Ma ecco la scaletta
di quella sera: ‘Skating Away’, ‘Jack- in-the-Green’, ‘Thick as a Brick’,
‘Songs from the Wood’, ‘Velvet Green’, ‘Hunting Girl’, ‘Aqualung’, ‘Guitar
Solo’, ‘Wind Up’, ‘Locomotive Breath’, ‘Land of Hope and Glory’ e ‘Wind Up
reprise’. L’esecuzione del nuovo brano
‘Velvet Green’ sarebbe poi apparsa nel box-set ’20 Years of Jethro Tull’, mente
il bis, che andava dal ‘Guitar Solo’ a ‘Wind Up reprise’ sarebbe stato incluso
in quello dei 25 anni. ‘Aqualung’, a sua volta, sarebbe stata pubblicata nel
video ‘The 25th Anniversary Collection’, prima in Vhs e poi in Dvd. ‘Land of
Hope and Glory’ è un inno tradizionale inglese di Edward Elgar, perfetto per la
conclusione “trionfale” del concerto. Nel corso di questa trasmissione
televisiva Ian Anderson ha un atteggiamento più affabile e colloquiale nei
confronti del pubblico, e durante le pause tra un brano e l’altro si fa portare
spesso una bottiglia d’acqua. All’inizio di ‘Thick as a Brick’ interrompe
l’arpeggio per fare una battuta a proposito dei Led Zeppelin, prima di
cominciare di nuovo. Gag che avrebbe ripetuto anche in occasione degli altri
concerti del periodo. Per ‘Velvet Green’ Barriemore Barlow trascina con sé un
palchetto con sopra una piccola batteria “medievale”, indossando kilt scozzese
con borsa, maglietta e calzettoni rossi. L’introduzione del brano era stata composta
da David Palmer: un pezzo articolato e magnifico, ricco di raffinatezze varie e
di un intermezzo vagamente barocco. Questa apparizione a ‘Sight & Sound’
rimarrà per anni l’unico filmato a mostrare i Tull in concerto, ed i fans si
sarebbero aspettati una sua pubblicazione ufficiale in occasione del box-set
pubblicato nel 2017 per i 40 anni di ‘Songs from the Wood’: al suo posto è
invece presente un intero spettacolo ripreso durante l’ultimo tour americano di
quell’anno, come vedremo in seguito. La
copertina del nuovo disco mostra Ian Anderson in abiti da cacciatore, intento a
ravvivare un fuoco tra i boschi, con accanto un fucile a doppia canna e
cacciagione assortita, più un cane nero dietro di lui, oltre ad un tappeto di
foglie ai suoi piedi. Il retro riporta l’immagine di un tronco d’albero
tagliato alla base: e i suoi cerchi concentrici interni si trasformano nei
solchi di un LP, con tanto di puntina. Anche altri scatti di quel periodo
ritraggono sia Ian accanto al fuoco, con poche variazioni sul tema, che il
resto della band in abiti e cornici “rurali”: tutto il gruppo attorno al fuoco,
oppure John Glascock con l’ascia per tagliare alberi e rami. Sia lui che Barlow
hanno alle spalle vecchi fabbricati di mattoni, a sottolineare questa svolta
“campagnola”, che ben si presta alle tematiche del nuovo ‘Songs from the Wood’
(‘Canzoni dal bosco’, appunto). I titoli scelti per il disco sono: ‘Songs
from the Wood’, ‘Jack-in-the-Green’, ‘Cup of Wonder’, ‘Hunting Girl’, ‘Ring
Out, Solstice Bells’, ‘Velvet Green’, ‘The Whistler’, ‘Pibroch’ (Cap in Hand) e
‘Fire at Midnight’. Restano
fuori ‘Old Acress Die Hard’, che verrà pubblicata nell’edizione dei 40 anni,
così come ‘Magic Bells’ e ‘Working John, Working Joe’ (che, registrata di nuovo
da una diversa formazione, comparirà solo sull’album ‘A’ del 1980). Ian
Anderson si occupa di tutti gli strumenti su ‘Jack-in-the-Green’, da lui incisa
il 16 novembre 1976, colto da un’ispirazione improvvisa che lo induce a recarsi
da solo ai Morgan Studios: il personaggio del titolo è una figura del folcklore
inglese cui si deve la rifioriritura dopo l’inverno. ‘Velvet Green’ e ‘Pibroch’
vengono messe su nastro ciascuna in tre diverse sezioni. La title track è un
invito a tutti gli esseri umani a vivere in armonia con la natura, mentre ‘Cup
of Wonder’ è ricca di riferimenti a miti celtici. Il primo brano ad essere
pubblicato è comunque ‘Ring Out, Solstice Bells’, che, inserito all’interno di
un EP pubblicato il 26 novembre 1976, vede i Jethro Tull eseguirlo in playback
a ‘Top of The Pops’ alla fine dell’anno, in piena atmosfera natalizia, con un
Ian Anderson già in abiti da signore di campagna (anche se non ancora in gilet
e bombetta rossi), e con David Palmer intento a suonare le campane tubolari,
simulando così le campane del solstizio d’inverno alle quali fa riferimento il
titolo. Il soslstizio d’inverno era per inciso una festa pagana dedicata al
giorno più breve dell’anno, trasformatasi poi nel Natale cristiano, la festa
preferita di Ian Anderson. David Palmer, sia sull’album che dal vivo, utilizza
un organo a canne in miniatura (il cosiddetto “portative pipe organ”) che
caratterizza non poco i nuovi brani. La title track vede l’inizio cantato in
coro dalle sole voci sovrapposte di Ian Anderson: in concerto si farà sempre
ricorso ad un nastro registrato, mentre gli altri elementi del gruppo faranno
finta di cantare. Su ‘Hunting Girl’ Martin Barre utilizza uno strano effetto a
pedale, quasi una via di mezzo tra un wha-wha ed un phaser, mentre Barlow ha
modo di sbizzarrirsi, oltre che alla batteria, anche al glockenspiel e alla
marimba. David Palmer è autore della fuga classicheggiante all’interno di
‘Pibroch’ e di altre parti su ‘The Whistler’ e ‘Cup of Wonder’. Lo stesso
Martin Barre è accreditato quale autore di parte del materiale del disco. Ad
ogni modo quest’album trasuda entusiasmo e gioia, riscontrando anche i favori
della critica (nonostante si sia in piena epoca di punk e disco music). E in
effetti il gruppo stesso, che aveva perso un po’ di coesione dopo le recenti
registrazioni lontano da casa, tra studio mobile, incisioni a Brussels o a
Montecarlo, è ben lieto di ritrovarsi nell’aria familiare dei vecchi Morgan
Studios di Londra, tornando a registrare in Inghilterra dopo tre anni. Ed
accoglie con favore anche l’inaspettata vena folk-rock di Ian Anderson e
l’ingresso di David Palmer quale sesto elemento del gruppo. Neppure John Evan
avverte l’arrivo di un secondo tastierista come una possibile ‘minaccia’ al suo
ruolo, e dal vivo, adesso, David prende posto alla sinistra del palco, mentre
John rimane sulla destra. Solo in un’occasione, mentre David Palmer è impegnato
nell’esecuzione della title track dell’album successivo (‘Heavy Horses’), John
Evan comparirà sulla porta dicendo: “Il piano lo suono io”. Il 21 febbraio 1977
il nuovo album è pubblicato anche negli USA, raggiungendo l’ottava posizione
(mentre in Gran Bretagna si era fermato alla tredicesima). L’unico videoclip ad
essere realizzato è quello per il brano ‘The Whistler’: qui possiamo vedere il
leader dei Tull impegnato al tin whistle (un flautino dritto utilizzato spesso
nel disco) e Martin Barre con la sua assurda veste da camera viola con berretto
e monocolo, più tutta la band filmata in studio di registrazione. ‘Fire at
Midnight’, in chiusura di ‘Songs from the Wood’, parla invece della gioia di
tornare a casa dalla propria moglie dopo una giornata di duro lavoro. Il
secondo tour americano (oltre 30 date) comincia alla Sports Arena di San Diego
il 23 febbraio 1977, per concludersi a Las Vegas il 10 aprile. E’ da quest’anno
che Martin Barre inizia ad utilizzare amplificatori Marshall invece che Hiwatt.
Durante ‘Back-Door Angels’ Ian si piazza sempre dietro lo stesso Martin,
impegnato nel suo assolo, alzando ed abbassando le braccia a simulare il volo
degli angeli citati nel titolo del pezzo. Fantastica l’interazione tra basso e
batteria durante questo “guitar solo”, con continui controtempo e “stop and go”
eseguiti con una scioltezza impressionante. Segue un tour europeo (soprattutto
in Germania) dal 16 aprile a Norimberga all’8 giugno a Vienna. Quindi il tour
australiano di 12 date a settembre. Il 4 novembre 1977 si riparte con la terza
tournèe dell’anno negli USA, con la data di Miami, fino al 6 dicembre al Garden
di Boston. Un auentico “tour de force”, finalmente documentato dalla
pubblicazione dell’intero concerto al Capital Center di Landover (Maryland) del
21 novembre, all’interno del box-set dei 40 anni di ‘Songs from the Wood’:
sono, come nel caso di Tampa ’76, le immagini professionali che erano state
girate con più telecamere per il maxischermo dietro alla band. Questa volta,
però, si tratta della pubblicazione ufficiale di un intero concerto dei Jethro
Tull, sincronizzato con la registrazione audio dal mixer, fortunatamente
esistente. Ed è di fatto la prima volta che possiamo assistere ad un intero
show dei Tull negli anni ’70: i concerti dell’Isola di Wight e di Tanglewood
’70 erano infatti incompleti, così come quelli di Sight & Sound ’77 e del
Madison Square Garden ’78. Qui abbiamo invece le due ore dell’intero show, con
ottimo suono stereo. La set-list è quella dei concerti del periodo: ‘Wond’ring Aloud’,
‘Skating Away’, ‘Jack-in-the-Green’, ‘Thick as a Brick’, ‘Songs from the Wood’,
‘Instrumental’ (incl. ‘Drum Solo’), ‘To Cry You A Song’, ‘A New Day Yesterday’
(incl. ‘Flute Solo’, ‘God Rest Ye Merry Gentleman’, ‘Bourèe’, ‘Living in the
Past’, ‘A New Day Yesterday reprise’),‘Velvet Green’, ‘Hunting Girl’, ‘Too Old
to Rock’n’Roll’, ‘Beethoven Ninth Symphony’, ‘Minstrel in the Gallery’,
‘Cross-Eyed Mary’, ‘Aqualung’, ‘Guitar Solo’, ‘Wind Up’, Back-Door Angels’,
‘Wind Up reprise’, ‘Locomotive Breath’, ‘Land of Hope and Glory’,
‘Instrumental’ e ‘Back-Door Angels reprise’. Durante la stessa ‘Back-Door Angels’ possiamo finalmente vedere la
sopracitata ‘coreografia’ di Ian Anderson dietro Martin Barre, mentre mima il
volo degli angeli citati nel titolo: I filmini muti degli anni precedenti
mostravano già questa scena, ma non si capiva a quale pezzo si riferisse. La
nona sinfonia di Beethoven sul Dvd è collocata a parte, come ‘bonus’, e non è
presente sul doppio Cd. All’inizio dello show Ian Anderson, scherzando, dice al
microfono di essere il tipo che aprirà lo spettacolo dei Jethro Tull. Nel corso
delle prime canzoni, come già a ‘Sight & Sound’, indossa la giacca da cacciatore,
mentre Martin porta quella da camera viola più il monocolo. Durante
‘Jack-in-the-Green’ Barre è al mandolino. Nel proseguo dello show, al gilet a
strisce colorate questa volta abbinerà pantaloni neri. Ian utilizza i piatti
non solo su ‘Songs from the Wood’, ma anche all’inizio della nona sinfonia di
Beethoven. Per il resto non parteciperà al brano. Quando comincia ‘Too Old to
Rock’n’Roll’, che vede impegnato il solo Anderson, gli altri della band
incitano il pubblico a battere le mani a tempo, mentre su ‘Hunting Girl’ Ian
schiocca come sempre il frustino da cavallerizzo sul didietro di John Glascock.
Perfetta la seconda voce di quest’ultimo su pezzi quali ‘Velvet Green’ e la
stessa ‘Hunting Girl’. Da notare che durante ‘Velvet Green’ Martin Barre suona
glockenspiel, nacchere e piattini, ma mai la chitarra. All’inizio di ‘Thick as
a Brick’, come di consueto, Ian si ferma per fare la battuta sui Led Zeppelin:
e quando ricomincia l’arpeggio alla chitarra, accenna per un attimo la loro
‘Whole Lotta Love’. A questo proposito è da dirsi che Ian Anderson, che ha
sempre accentrato l’attenzione su di sé per la sua abilità nel suonare il
flauto, è anche un virtuoso della chitarra acustica (bellissimo il suono della
sua Martin), sempre impeccabile e preciso. La sua voce, poi, negli anni ’70 era
potente ed intonata ad ogni concerto. ‘To Cry You A Song’ viene documentata per
l’ultima volta, dal momento che non verrà più eseguita dopo il 1977. Come di
consueto, John Glascock utilizza un basso Fender Music Man chiaro con il
battipenna tondo nero. Anche se era solito suonare anche un Precision. Allo
show di Landover ‘Aqualung’ è introdotta, come ormai da qualche anno, da una
rullata di Barrie. ‘Minstrel in the Gallery’, nel 1977 e nel 1978, viene
eseguita invece in una versione che non contiene più l’iniziale sezione rock
del gruppo senza Anderson. Il ‘Guitar Solo’ di Martin Barre, verso la fine
dello spettacolo, vede il chitarrista prodursi in velocissimi fraseggi hard
rock con la Les Paul in distorsione. Il concerto è diviso in più parti: dopo il
reprise di ‘A New Day Yesteday’ , infatti, Ian annuncia che la band si prenderà
una pausa. E dopo un po’ il concerto riprende con Barriemore Barlow che
trascina nella semi-oscurità la sua piccola batteria (come già in Tv a ‘Sight
& Sound’) sull’apposito palchetto, con indosso il kilt scozzese ed i
campanellini del copricapo e della borsa, che fa tintinnare al microfono (prima
della pausa era vestito invece come a Tampa ’76, con maglietta a righe,
pantaloncini e cappello bianco floscio): dopo questa gag la seconda parte
inizia con ‘Velvet Green’ e si conclude con ‘Aqualung’, che vede alla fine
tutti i Tull percorrere il palco per ringraziare il pubblico. A questo punto
nuova pausa e primo bis, dal ‘Guitar Solo’ a ‘Wind Up reprise’. Quindi l’ultimo
“encore”: adesso, in completa solitudine, compare John Evan con il suo completo
bianco, la solita camicia gialla con cravatta a pois e le bretelle che tende in
avanti con le mani, rivolgendo al pubblico un sorriso folle con gli occhi sbarrati,
mentre percorre il palco per raggiungere il piano. Ed ecco che inizia la sua
ben nota introduzione di ‘Locomotive Breath’: segue la sezione comprendente il
breve assolo di chitarra, e subito dopo, il ritorno in scena di Ian Anderson.
Quest’ultimo si avvicina a Barre, e i due rimangono ciascuno con una gamba
sospesa per aria, in un attimo di suspance, mentre la chitarra viene lasciata
fischiare. E come sempre, quando il brano esplode, Martin Barre e John Glascock
(come prima Jeffrey Hammond) si proiettano verso il pubblico; durante ‘Land of
Hope and Glory’ Ian Anderson lancia verso la platea prima il flauto e poi i
palloni giganti, sostituendo John Evan all’organo Hammond per il finale, mentre
lo stesso Evan e David Palmer (munito dei piatti utilizzati da Ian durante
‘Songs from the Wood’) impazzano su e giù per il palco. Quindi tutto si
rasserena per la chiusura di Ian Anderson con il finale di ‘Back-Door Angels’.
Un vero spettacolo. Incredibile pensare che la band avesse fatto tutto questo
già la sera prima, per ripeterlo quella successiva. Senza sbagliare una nota,
con la voce di Anderson sempre perfetta, e l’impazzare di tutta la band sul
palcoscenico. Peccato che parte del ‘Drum Solo’ e l’inizio di ‘Minstrel in the
Gallery’, nel filmato, siano guastati dagli inutili “effetti speciali”
dell’epoca, buoni solo per rovinare la qualità delle immagini. Come detto, nel
box-set dei 40 anni questo concerto è presente anche su doppio Cd, mentre il
remix del disco ‘Songs from the Wood’ da parte di Steven Wilson ha un suono
strepitoso. Al missaggio del concerto di Landover ’77 (come già per quello di
Parigi ’75) si occupa Jakko Jakszyk, ex chitarrista della 21st
Century Schizoid Band (gruppo formato da ex componenti dei King Crimson), e in
seguito menbro dei recenti King Crimson con Rober Fripp in formazione. Durante qualche data (compresa quella al
Madison Square Garden del 30 novenbre) i Tull eseguono anche un imprevedibile
estratto da ‘No Rehearsal’, il brano del 1972 all’epoca ancora inedito. Esiste anche un documentario, intitolato ‘Minstrel in the
Gallery’, che filma la band in tournée negli States nel 1977: i frammenti dei brani dal vivo si alternano
ad un’intervista a Ian Anderson in giubba mimetica e alle immagini del sound
check, nel corso del quale i Tull provano già il brano ‘No Lullaby’.
HEAVY HORSES, 1978
Per
l’album successivo, intitolato ‘Heavy Horses’, i Jehro Tull confermarono la
nuova vena folk-rock, sia nella musica che nei testi. Gli stessi titoli dei
brani alludono spesso a diversi animali, ed anche la copertina conferma il tema
‘rurale’, con un Ian Anderson con cappello ed abiti da lavoro intento a tirare
con sé nei campi una coppia di cavalli (gli “heavy horses”, appunto). Per
contrasto, sul retro l’intera band (con la stessa line-up dei due dischi
precedenti) è ritratta in una foto che li mostra in abiti eleganti attorno ad
un massiccio tavolo scuro. Si è spesso parlato di ‘trilogia folk’, intendendo
includere anche il successivo album ‘Stormwatch’: ma quest’ultimo, pur
trattando temi ambientalisti, è più cupo nelle musiche, nei testi e nella copertina
stessa, che mostra un Ian Anderson intento ad osservare con il binocolo
l’avvicinarsi di una tempesta (con riferimento al titolo). Dunque, a parere di
chi scrive, gli album propriamente definibili ‘folk-rock’ dei Jethro Tull sono
solamente ‘Songs from the Wood’ ed ‘Heavy Horses’. Ma ecco i titoli di questo
nuovo lavoro: ‘…And the Mouse Police Never Sleeps’, ‘Acres Wild’, ‘No Lullaby’,
‘Moths’, ‘Journeyman’, ‘Rover’, ‘One Brown Mouse’, ‘Heavy Horses’ e
‘Weathercock’. Il titolo d’apertura, “la polizia che non dorme mai”, alla
perenne ricerca dei topi di campagna, fa naturalmente riferimento ai gatti,
animali molto amati da Ian Anderson; ‘Moths’ è un pezzo quieto dedicato alle
falene che danzano alla luce di una candela, mentre ‘Journeyman’ descrive gli
uomini d’affari che non riescono mai a trovare tempo per l’agognato focolare
domestico. ‘The Rover’ descrive un vagabondo che ci parla in prima persona;
‘One Brown Mouse’, già registrata una prima volta nel 1976, è ispirata ad una
poesia del poeta scozzese Robert Burns (come Ian ricorderà sempre al microfono,
durante le esecuzioni dal vivo), e parla ancora di un animale (un topo marrone,
come già nel titolo); la title track ‘Heavy Horses’ elogia i cavalli lavoratori
della Gran Bretagna, ritratti anche in copertina, mentre ‘Weathercock’, come ci
suggerisce ancora una volta il titolo, non descrive un animale vero e proprio,
bensì la banderuola a forma di gallo posta in cima ai tetti delle case per
indicare la direzione del vento. Tutti i brani sono suonati con grande perizia
dalla band, in una formazione ormai rodata sia in studio che dal vivo. I titoli
dell’album che troveranno posto nella scaletta dei concerti del periodo saranno
le lunghe ed articolate ‘Heavy Horses’ e ‘No Lullaby’, più l’acustica ‘One Brown
Mouse’. Rimangono fuori dal disco diversi brani: ‘Broadford Bazaar’, cantata e
suonata dal solo Anderson, verrà pubblicata nel 1993 sul doppio ‘Nightcup’
(Broadford è per inciso una piccola città dell’isola di Skye, in Scozia, dove
era andato a vivere lo stesso Ian, ed il “bazaar” si riferisce all’affollamento
dei turisti). Altri tre pezzi riemergeranno nel box-set ’20 Years of Jethro
Tull’ del 1988: ‘Living in These Hard Times’, contraddistinta dalla voce ora
più roca del leader dei Tull (come su tutto ‘Heavy Horses’); ‘A Stitch in
Time’, con un avvincente tema di flauto ed una voce femminile ad accompagnare
quella di Ian Anderson; ‘Blues Instrmental’ ed infine ‘Beltane’, la quale,
facendo riferimento all’omonimo festival celtico, seppur registrata nel 1977 è
certamente ascrivibile al periodo di ‘Heavy Horses’, contraddistinta dalla
stessa voce roca di Anderson (che in questo brano, come già accennato in
precedenza, suona per l’ultima volta il sassofono). L’edizione che celebra i 40
anni di ‘Heavy Horses’ conterrà altre bonus tracks: ‘Everything in Our Lives’,
‘Quatrain’, ‘Horse-Hoeing Husbandry’, ‘Botanic Man’ e una prima versione di
‘Jack-A-Lynn’. Sul nuovo disco David Palmer non manca di dirigere la sezione
d’archi, e le registrazioni vengono effettuate nuovamente presso i Maison Rouge
Studios di Londra nel gennaio del 1978. La pubblicazione avverrà in Gran
Bretagna per la Chrisalis (produttore Ian Anderson) il 10 aprile (19° posto) e
negli USA il 21 dello stesso mese (20° posto). Videoclip ed apparizioni Tv
serviranno a promuovere alcuni pezzi del nuovo album: la title track vede la
band intenta a suonare in un fienile, guidata da Ian Anderson in abiti mimetici
e berretto calcato sulla testa: da notare che Barrie Barlow è pefetto nel
mimare in playback ogni passaggio della batteria. ‘…And the Mouse Police Never
Sleeps’ e ‘Moths’ vengono presentate nel corso di un programma televisivo
tedesco, con John Glascock in giubba rossa e tricorno. Della stessa ‘Moths’
esiste anche un video che vede protagonista il solo Ian Anderson accanto ad un
camino acceso. Per lui scompaiono gilet e bombetta rossi, ma i costumi di scena
rimangono comunque quelli “campagnoli”: i capelli un po’ più lunghi, la barba
intera ed un gilet quadrettato sopra una camicia bianca, più pantaloni stretti
dentro gli stivali. In concerto apparirà spesso con mantello scozzese e basco
azzurro, dei quali si libererà presto per il proseguo di ciascuno show. Proprio
dal 1978 (e fino al 1985) Martin Barre utilizzerà dal vivo una Hamer Sunburst
nera dall’ottimo suono. Il tour britannico comincia l’1 maggio 1978 alla Usher
Hall di Edinburgo per concludersi il giorno 11 dello stesso mese
all’Hammersmith Odeon di Londra. La tournèe europea comincia già il 13 maggio a
Den Haag, in Olanda, per concludersi, dopo aver attraversato Belgio, Germania,
Francia e Svizzera, a Kiel, il 2 giugno 1978.
BURSTING OUT, 1978
E’
proprio durante questo tour di maggio e giugno che viene registrato (per
celebrare i 10 anni della band) il doppio dal vivo ‘Bursting Out’: la presentazione
iniziale del vecchio amico Claude Nobs (l’organizzatore del festival di
Montreux) è probabilmente quella di Berna, in Svizzera, del 28 maggio. Nobs
verrà ringraziato per la sua “dinamica introduzione” all’interno della
copertina del disco, pubblicato il 22 settembre in Gran Bretagna ed il 29 dello
stesso mese negli Stati Uniti (rispettivamente, diciassettesima e ventunesima
posizione). All’inizio del doppio live Claude Nobs si rivolge al pubblico
parlando in varie lingue, compreso l’ italiano (“Benvenuto, Italia”),
considerata la prossimità del Bel Paese con la Svizzera. Non è comunque detto
che il brano che segue (‘No Lullaby’) sia stato eseguito proprio a Berna, dal
momento che il disco non precisa data e
luogo di ciascuno dei pezzi. Nel 2018 è proprio questo concerto ad essere
pubblicato su doppio Cd all’interno dell’edizione celebrativa dei 40 anni di
‘Heavy Horses’. Facendo un passo indietro, la scaletta del 3 maggio all’Apollo
Theatre di Manchester era la seguente: ‘Quartet’ (nastro registrato), ‘No
Lullaby’, ‘Sweet Dream’, Skating Away’, ‘One Brown Mouse’, ‘Heavy Horses’, ‘A
New Day Yesterday’ (incl. ‘Flute Solo’, ‘God Rest Ye Merry Gentlemen’, ‘Bourèe,
‘Living in the Past’ e la sezione strumentale di ‘Thick as a Brick’), ‘Songs
from the Wood’, ‘Hunting Girl’, ‘Too Old To Rock’n Roll’, ‘Conundrum’ (un brano
strumentale inedito contenente l’assolo di batteria), ‘Minstrel in the
Gallery’, il pezzetto al flauto ‘Pop Goes to Weasel’ che introduce ‘Cross-Eyed
Mary’, ‘Locomotive Breath’, ‘Thick as a Brick’, ‘Quatrain’(nuovo strumentale
inedito), ‘Aqualung’ e ‘Dambusters March’. Dunque, a parte la successiva
aggiunta di ‘Jack-in-the-Green’ e del reprise finale di ‘Aqualung’, i brani
della terza data del tour di ‘Heavy Horses’ sono già quelli poi inseriti su
‘Bursting Out’. Anche se, per motivi di spazio, sul doppio vinile verrà esclusa
proprio la title track del nuovo disco, mentre, dopo l’assolo di flauto,
verranno tagliate via le brevi versioni strumentali di ‘Living in the Past’ e
di ‘Thick as a Brick’, oltre al reprise di ‘A new Day Yesterday’. La stessa
‘Songs from the Wood’ viene editata in una versione più breve. Il doppio album
rimarrà comunque (insieme a ‘Seconds Out’ dei Genesis dell’anno prima) uno dei
“must” per gli amanti dei grandi gruppi rock degli anni ’70. Come sul palco,
anche nell’ascolto in cuffia del disco troviamo le tastiere di David Palmer
sulla sinistra e quelle di John Evan a destra. Il disco presenta la seguente
sequenza di brani: ‘No Lullaby’ (con una scoppiettante introduzione inedita),
‘Sweet Dream’, ‘Skating Away’, ‘Jack-in-the-Green’, ‘One Brown Mouse’, ‘A New
Day Yesterday’, ‘Flute Solo’ (incl. ‘God Rest Ye Merry Gentlemen’, ‘Bourèe’ e
‘Quartet’), ‘Songs from the Wood’, ‘Thick as a Brick’, ‘Hunting Girl’, ‘Too Old
To Rock’n Roll’, ‘Conundrum’ (incl. ‘Drum
Solo’), ‘Minstrel in the Gallery’ (senza più la sezione rock iniziale), ‘Cross
Eyed Mary’ (introdotta dal motivetto di ‘Pop Goes to Weasel’), ‘Quatrain’,
‘Aqualung’, ‘Locomotive Breath’, ‘Dambusters March’ ed il reprise del tema
cantato di ‘Aqualung’. Nella ristampa su Cd la breve ‘Quatrain’, che serviva ad
introdurre ‘Aqualung’ senza soluzione di continuità, viene invece presentata
come brano a sè stante, con un posticcio ringraziamento finale da parte di Ian
Anderson, che in realtà neanche partecipava al brano. Le date europee si
concludono con il ritorno in Inghilterra per i due concerti di chiusura, il 4
giugno all’Odeon di Birmingham, e il giorno seguente di nuovo all’Apollo
Theatre di Manchester. Dopo l’uscita di ‘Bursting Out’ inizia il tour
Nordamericano con l’inglese Tony Williams al basso in sostituzione di John
Glascock, che soffre di problemi al cuore. Le condizioni di salute di John
misero in crisi la band, dal momento che la partenza per gli States era
imminente, e loro erano rimasti senza bassista: fu contattato Jeffrey Hammond,
che declinò l’invito. Williams non era un musicista famoso, ma faceva parte del
“giro” di Blackpool, ed era conosciuto da tutti i membri dei Jethro Tull. Non
sapeva suonare i loro brani, ma li imparò subito, dopo che Anderson e Barre
trascrissero le parti di basso servendosi dei master live, per insegnarle poi
al nuovo arrivato. La tournèe negli USA inizia l’1 ottobre al Coliseum di
Hampton, per concludersi il 17 novembre 1978 a Long Beach, in California,
sempre con gli Uriah Heep come gruppo spalla. La scaletta è un po’ cambiata, e
adesso comprende: ‘Sweet Dream’, ‘No Lullaby’, ‘Thick as a Brick’, ‘One Brown
Mouse’, ‘Heavy Horses’, ‘My God’ (incl. ‘Flute Solo’, ‘God Rest Ye Merry Gentlemen’ e ‘Bourèe’),
una versione strumentale di ‘One White Duck’, ‘Songs from the Wood’, ‘Too Old
to Rock’n’Roll’, ‘Conundrum’ (incl. ‘Drum Solo’), ‘Pop Goes the Weasel’ ad
introdurre ‘Cross-Eyed Mary’, ‘Quatrain’, ‘Aqualung’, ‘Locomotive Breath’ ed il
reprise della stessa ‘Aqualung’. Questa
è la set-list relativa alla seconda data americana (2 ottobre 1978), tenuta
proprio al Capital Center di Landover, dove l’anno prima era stato filmato il
concerto uscito nel 2017 all’interno del box-set per i 40 anni di ‘Songs from
the Wood’. Il 23 ottobre, allo stadio di Chicago, Ian Anderson interrompe lo
show durante ‘Quatrain’, quando dal pubblico qualcosa viene lanciata contro
Barriemore Barlow. Ad ogni modo, a documentare questa tranche americana del
tour del 1978 con Tony Willams al basso rimane soprattutto la diretta
televisiva transoceanica del concerto al Madison Square Garden di New York del
9 ottobre, che è anche la prima in assoluto mai effettuata. Solo 45 minuti
dello show vengono trasmessi, da ‘Thick as a Brick’ (che vede poco prima Ian
Anderson, dietro le quinte, rivolgersi al pubblico televisivo con un microfono
in mano) allo struentale inedito, che viene purtroppo sfumato. Meglio sarebbe
stato chiudere più efficacemente la diretta Tv con ‘Locomotive Breath’. La
scaletta originale di quella sera comprendeva invece: ‘Bagpipe Intro’, ‘Sweet
Dream’, ‘One Brown Mouse’, ‘Heavy Horses’, ‘Thick as a Brick’, ‘No Lullaby’,
‘Flute Solo’ (incl. ‘God Rest Ye Merry Gentlemen’ e ‘Kelpie’), una sezione di
‘Pibroch’ subito seguita da ‘Songs from the Wood’, ‘Quatrain’, ‘Aqualung’,
‘Locomotive Breath’, ‘Dambusters March’, ‘Instrumental’ (incl.‘Drum Solo’),
‘Too Old To Rock’n’Roll’, ‘My God’ e ‘Pop Goes the Weasel’ come introduzione di
‘Cross-Eyed Mary’. La versione di ‘My God’ è adesso molto corta, e non
comprende più l’intro con la chitarra acustica, oltre ad essere arrangiata
diversamente. Né include il consueto assolo di flauto, essendo questo già stato
eseguito dopo ‘No Lullaby’. Il frammento di ‘Kelpie’ diventerà un brano vero e
proprio, inciso nel 1979 ed incluso in ’25 Years of Jethro Tull’, mentre
‘Bigpipe Intro’ è un nastro registrato con trionfali suoni di cornamuse ed
accenni a ‘Sweet Dream’, prima che Martin Barre cominci il concerto proprio con
questo brano, utilizzando la sua bella Hamer nera, mentre la band, in attesa
dietro le quinte, si accinge ad irrompere sul palco. Il nuovo strumentale
contenente l’assolo di batteria non ha titolo, ed è guidato da un bel tema di
John Evan al piano. Tony Williams commette qualche errore qua e là, ma nel
complesso se la cava egregiamente. Al concerto sono presenti 20 mila persone,
che suonano anche fastidiose trombe da stadio. Nell’originale diretta
televisiva era presente anche il pirotecnico finale di ‘Heavy Horses’, che,
come di consueto su questo brano, vedeva Ian portare il cappello a quadri.
Quest’ultimo, come sempre, alla fine di ‘Locomotive Breath’, afferra il flauto
con una mano tenendolo in orizzontale, e lo abbassa più volte rivolto al
pubblico, ripetendo la frase finale del testo: il treno della vita procede
senza sosta, e non c’è modo di farlo rallentare (“No way to slow down”). Il
concerto verrà alla fine pubblicato nel 2009, integralmente su Cd e nella
piccola parte esistente in video su Dvd, in una elegante confezione rettangolare
cartonata. Ian Anderson porta capelli e barba più lunghi rispetto al tour
precedente, e indossa pantaloni attilati bianchi dentro stivali neri, camicia
anch’essa bianca con foulard, più ampio colletto sopra il gilet quadrettato.
Martin Barre esibisce un completo floreale con tanto di papillon. Per decenni
questi 45 minuti in video, trasmessi da varie emittenti televisive, e spesso
videoregistrati e diffusi tra i fans, avevano rappresentato per questi ultimi
l’unica possibilità per vedere il gruppo in concerto. David Palmer, impegnato
ai sintetizzatori che simulano gli strumenti più orchestrali, è all’estrema
sinistra del palco, in completo rosa, mentre John, come sempre, è sulla destra
con organo Hammond e piano. La versione di ‘Thick as a Brick’ al Madison Square
Garden, con Ian Anderson che inizialmente saluta il pubblico con basco e
mantello a quadri, era stata anche pubblicata in audio all’interno di una
ristampa del 1997 per i 25 anni del disco omonimo nella sua versione originale,
in una scatola di cartone bianco formato Cd che conteneva pure il giornale
ripiegato. L’edizione del 2009 ci regala finalmente i 45 minuti in video (e
l’intero concerto in audio) con uno strepitoso suono stereo. Nelle immagini,
quando la stessa ‘Thick as a Brick’ passa alla parte rock, Ian si lancia verso
il pubblico, incitandolo con le sue movenze spettacolari, battendosi il
tamburello sulla coscia, mentre tutte le mani si protendono verso di lui;
quindi si libera del mantello per correre a suonare il flauto al microfono.
Grandiose, poco dopo, le interazioni tra il flauto stesso (con effetto deelay)
e la chitarra, sotto una coinvolgente linea di basso, con Barrie ed Evan che
impazzano ai rispettivi strumenti. Negli anni a venire questa strepitosa
sezione verrà rimossa dalle versioni live del brano, ma è ancora presente su
‘Bursting Out’, con John Glascock. Alla fine del pezzo, come sempre, Anderson
lancia in aria il flauto, per agguantarlo quando questo ricade, accovacciandosi
sul palco mentre chitarra e basso partono con il loro velocissimo riff
conclusivo all’unisono, prima che il leader dei Tull riprenda il tema di ‘Thick
as a Brick’ con il finale di sola chitarra acustica e voce. Già questo pezzo
sarebbe sufficiente a lasciare tutti a bocca aperta. Come di consueto, poi,
quando ‘Aqualung’ arriva alla sua conclusione “in crescendo” Ian, su una gamba
sola, sospinge le braccia e le dita sempre più in alto, fino a che tutta la
band compie un gran salto sulla “botta” finale. Quando esplode l’inizio di
‘Locomotive Breath’ Martin Barre e Tony Williams percorrono di corsa le due
pedane del Madison Square Garden, che consentono loro di addentrarsi
fisicamente tra il pubblico. Barlow suona una batteria Ludwig trasparente a
doppia cassa con i consueti pantaloncini corti, più canottiera e cappello
bianco. John Evan, appena può, rimanendo seduto o alzandosi in piedi, come un
pupazzo impazzito sottolinea con movimenti convulsi delle braccia tutti gli
stacchi ed i passaggi della batteria di Barrie. Paradossalmente Tony Williams, che
fu parte del gruppo solo per un mese e mezzo, grazie alla diretta televisiva
del Madison Square Garden potè essere visto da milioni di persone. John
Glascock tornerà al basso per l’ultima parte del tour di ‘Heavy Horses’,
svoltosi negli USA dall’1 aprile 1979 a ‘El Paso’, in Texas, all’1 maggio a San
Antonio, di nuovo in Texas, facendo anche in tempo a suonare ‘Dark Ages’, brano
che sarà incluso nel disco successivo. Su ‘Stormwatch’, però, il basso di
questo pezzo verrà registrato da Ian Anderson, mentre John riuscirà ad incidere
soltanto alcuni degli altri titoli, compresa la conclusiva ‘Elegy’ di David
Palmer. Estratti dal concerto del 10 aprile 1979 a Seattle, e di due giorni
dopo a Portland, verranno utilizzati per il documentario della BBC intitolato ‘Lively
Arts’, andato in onda nel marzo dell’anno seguente. Qui possiamo vedere, tra
l’altro, i Jethro Tull attraversare i corridoi del backstage dirigendosi verso
il palco, già con gli strumenti a tracolla, mentre si avvertono le note
registrate del ‘Bigpipe Intro’. Quindi il solo Martin ‘Lancelot’ Barre inizia
con la chitarra ‘Sweet Dream’, ripreso di spalle, e tutta la band fa il suo
ingresso sul palco, inquadrata frontalmente, mentre le luci si accendono e Ian
Anderson, in basco e giubba azzurri, asseconda con i movimenti delle braccia il
tempo e gli stacchi del brano. Un inizio di concerto fenomenale. Durante questo
documentario si vede anche Eddie Jobson in viaggio con loro, dal momento che
gli UK erano il gruppo spalla dei Tull per tutta la durata di questa tournèe
primaverile negli USA. Nel 1979 gli UK erano Eddie Jobson, John Wetton e Terry
Bozzio. Jobson, ex Curved Air e Roxy Music, entrerà a far parte dei Jethro Tull
(violino e tastiere) dalla seconda metà del 1980 all’inizio del 1981. Nello
stesso documentario sono presenti anche frammenti di ‘My God’, del ‘Flute
Solo’, e della band che prova un brano nuovo (poi mai realizzato) nei camerini,
con Barrie che, non disponendo della batteria, picchia le mani sulle cosce per
tenere il tempo. Alla fine, sui titoli di coda, ‘Dark Ages’ verrà mostrata dal
vivo nella sua interezza. Lo stesso brano è filmato anche in sala di
registrazione, con John Glascock al basso, nonostante quest’ultimo, come
accennato, non riuscirà ad incidere la sua parte sulla versione destinata al
disco. La scaletta di questo tour solitamente comprendeva: ‘Pigpipe Intro’, ‘No
Lullaby’, ‘Sweet Dream’, ‘One Brown Mouse’, ‘Heavy Horses’, ‘My God’ (incl. ‘God Rest Ye Merry
Gentlemen’, ‘Kelpie’ e ‘Bourèe’), ‘One White Duck’, ‘Pibroch’ / ‘Songs from the
Wood’, ’Dark Ages’, ‘Instrumental’ (incl. ‘Drum Solo’), ‘Cross-Eyed Mary’,
‘Thick as a Brick’, ‘Quatrain’, ‘Aqualung’, ‘Locomotive Breath’, ‘Dambuster’s
March’ ed ‘Aqualung reprise’. Questa ultima
tournèe con John Glascock al basso toccò anche le città canadesi di Vancouver
(11 aprile), Edmonton (14 aprile) e Calgary (15 aprile). Ancora in Canada, a
Toronto, il 5 ottobre 1979 avrebbe fatto il suo debutto con i Jethro Tull Dave
Pegg, il nuovo bassista, per l’inizio del tour di ‘Stormwatch’, l’ultimo album
degli anni ’70. E ancora con gli UK come gruppo spalla. Il disco, registrato ai
Maison Rouge Studios a metà del 1979 (con l’ausilio del Maison Rouge Mobile
Studio), era uscito in Inghilterra il 14 settembre. La scaletta di
quell’esordio con Dave Pegg comprendeva per la prima volta quasi tutti i pezzi
di un disco nuovo in apertura: ‘Intro’ (incl.’Warm Sporram’ su nastro
registrato), ‘Dark Ages’, ‘Home’, ‘Orion’, ‘Flying Dutchman’, ‘Old Ghosts’,
‘Elegy’, ‘Dun Ringill’, ‘Something’s on the Move’, ‘Aqualung’, ‘King’s Henry’s
Madrigal’ (incl. ‘Drum Solo’), ‘Heavy Horses’, ‘No Lullaby’, ‘Flute Solo’ (incl. ‘God
Rest Ye Merry Gentlemen’, ‘Kelpie’ e ‘Bourèe’), ‘Keyboard Solo’, ‘Songs from
the Wood’, ‘James O’Donnell’s Jig’, ‘Thick as a Brick’, ‘Too Old to Rock’n’
Roll’, ‘Cross-Eyed Mary’, ‘Guitar Solo’, ‘Minstrel in the Gallery’, ‘Locomotive
Breath’, ‘Dambusters March’, ‘Minstrel in the Gallery reprise’. Il tour di ‘Stormwatch’, con poche differenze nella set-list,
attraverserà gli Stati Uniti da ottobre a novembre del 1979, e L’Europa da
marzo ad aprile del 1980.
APPENDICE
Come detto, John Glascock, nonostante i problemi al cuore
accusati durante il tour di ‘Heavy Horses’, tornerà con la band per i concerti
negli States agli inizi del 1979, e riuscirà a registrare solo tre pezzi
(‘Flying Dutchman’, ‘Orion’ ed ‘Elegy’) per l’album ‘Stormwatch’ di quello
stesso anno (con Ian Anderson al basso sugli altri brani). Glascock purtroppo
morirà poco tempo dopo, il 17 novembre 1979, a soli 28 anni: una valvola cardiaca,
già debole per via ereditaria da parte del padre, era stata ulteriormente
danneggiata a seguito di una infezione ad un dente, e venne sostituita. Ma la
situazione peggiorò, e la nuova valvola ebbe un rigetto che lo portò a
concludere anzitempo la sua carriera e la sua vita. Il suo posto venne preso da
Dave Pegg, bassista dei Fairport Convention, band folk-rock molto amata da Ian
Anderson. Dave si divise tra i due gruppi fino al 1995, per poi decidere di
lasciare, rimpiazzato da Jonathan Noyce. Ma quando si unì ai Jethro Tull, negli
ultimi mesi del 1979, fece in tempo a far parte della formazione che schierava
ancora John Evan, Barriemore Barlow e David Palmer per il tour di ‘Stormwatch’.
Un buon documento in audio stereo del periodo è quello relativo al concerto del
16 marzo 1980 a Den Haag, in Olanda. Durante questo tour Ian indossa una giubba
medievale sopra la camicia bianca; Dave un copricapo alla Sherlock Holmes,
mentre John Evan non porta più il caratteristico abito bianco con la cravatta a
pois. Il documentario ‘Ohne Maulkorb Spezial’ ci mostra vari estratti del
concerto dell’1 aprile 1980 a Monaco alternati ad un’intervista a Ian Anderson.
‘North Sea Oil’ e ‘Old Ghost vengono presentati in Tv. L’unico brano che Pegg
registrò in studio con questa formazione fu ‘King Henry’s Madigal’, quando era
ancora il 1979. Il nuovo bassista sapeva
affiancare Anderson con una efficace voce di supporto, ed era pure bravo
al mandolino. Singolare fu il modo in cui Dave entrò a far parte della band:
seppe di aver ricevuto la telefonata di un certo Ian Anderson, ma credette che
si trattasse di un giornalista, omonimo del leader dei Tull, che suonava anche
per diletto: solo in seguito si sarebbe reso conto che a cercarlo era proprio
Ian Anderson dei Jethro Tull! Nella seconda parte del 1980 quest’ultimo mischiò
le carte in tavola, cambiando la formazione per il disco ‘A’ ed il relativo tour. In effetti quello avrebbe dovuto essere
il suo primo disco solista (‘A’ stava
per Anderson), ma la casa discografica lo convinse a farlo uscire come il nuovo
disco dei Jethro Tull: adesso, a Ian Anderson, Martin Barre e Dave Pegg si
aggiungevano Eddie Jobson e Mark Craney (violino e tastiere il primo, batteria
il secondo). E così Barlow, Palmer ed Evan appresero solo dai giornali che non
facevano più parte della band. Questa nuova formazione è presente anche nel
video ‘Slipstream’, che alterna brani filmati dal vivo durante il tour di ‘A’
(che vedeva i Tull sul palco ciascuno con una tuta di diverso colore) a vari
videoclip. Ian Anderson porta adesso i capelli molto più corti, e l’inizio con
‘Black Sunday’ risulta decisamente efficace. Ottima anche la versione live di
‘Heavy Horses’, con un finale davvero spettacolare. Per la prima volta il
gruppo interagisce con un violino, e gli esiti sono più che apprezzabili. Gli
anni ’80 erano appunto iniziati, e questo disco, come i successivi ‘Broadsword
And The Beast’ (1982) e ‘Underwaps’
(1984) sono più o meno infarciti di suoni elettronici a discapito del flauto,
che quasi scompare. Un disco con la formazione Anderson, Barre, Pegg, Gerry
Conway (batteria) e Peter Vettese (tastiere) sarebbe anche potuto uscire nel
1981, data la gran quantità di pezzi registrati quell’anno: ma non sarà così, e
tutto quel materiale riemergerà solo su ’20 Years of Jethro Tull’ e ‘Nightcup’.
Qualcuno di questi brani, come la bella Jack-A-Lynn, troverà posto anche in
concerto. Vettese era un giovanissimo genio dell’elettronica che riuscì a far
parte dei Tull rispondendo ad un annuncio del Melody Maker nel quale si cercava
un tastierista, senza neanche precisare di quale gruppo si trattasse. Fu lui a
sistemare lo studio casalingo di Ian nel Buckinghamshire. ‘Broadsword And The
Beast’, con quella stessa line-up, è
un buon album che riscuote grande successo in Germania. Il relativo tour è
anche l’ultimo a vedere Ian Anderson cantare bene, conservando ancora l’aspetto
dei vecchi tempi, con barba e capelli fluenti e giubba medievale, come nel
corso del tour di ‘Stormwatch’. E anche in questo caso molti dei brani del nuovo
album (‘Clasp’, ‘Fallen on Hard Times’, ‘Pussy Willow’, ‘Broadsword’, ‘Seal
Driver’) sono collocati nella prima parte di ciscuno show. I concerti ripresi
dalle telecamere a Roma e a Dortmund (2 e 28 maggio) documentano bene questo
periodo, così come la registrazione del concerto di Amburgo dell’8 aprile,
utilizzata anche per i box-set dei 20 e 25 anni. Il pezzo ‘Broadsword’ viene
presentato anche nel corso di più programmi televisivi tedeschi. In occasione
del Prince’s Trust Rock Gala del 21 luglio si esibiscono con Phil Collins
dietro ai tamburi. Quando la tournèe del 1982 si sposta negli USA, Paul Burgess
prende il posto di Gerry Convay alla batteria, mentre il palco assume le
sembianze di un vascello. E, a sorpresa, in scaletta ricompare ‘A Song for Jeffrey’.
La voce di Anderson comincia ad avere problemi dopo il tour di ‘Underwraps’ del 1984, che è il primo a
vedere Doane Perry alla batteria. Il disco è amato più da Martin Barre che dai
fans della band, anche se il Dvd dello show al Capital Centre di Passaic,
relativo a questo tour, è molto bello: ora Ian si esibisce in camicia rossa e
bandana, mentre Martin sfoggia camicia blu con pantaloni e cravatta bianchi.
Anche il disco dal vivo ‘Live at Hammersmith ’84’ non è niente male, con il
travolgente inizio della versione strumentale di ‘Locomotive Breath’ seguita da
‘Hunting Girl’. Doane Perry si sarebbe rivelato il batterista più ‘longevo’
della storia della band, dal momento che rimase dietro i tamburi dal 1984 al
2011. Fu anche, con Mark Craney (del quale era amico) l’unico musicista
americano del gruppo. Craney aveva partecipato all’ultimo tour di Tommy Bolin
(ex Deep Purple) nel 1976, e a quello di ‘Brother To Brother’ per Gino Vannelli
nel 1979, con Daryl Stuermer dei Genesis alla chitarra, poco prima di unirsi a
Ian Anderson. Ma sarebbe mancato il 26 novembre 2005, a seguito di un male
incurabile. Nel 1985 i Jethro Tull tengono un solo concerto, a Berlino, in
occasione dei 300 anni dalla nascita di J. S. Bach, con Eddie Jobson in veste
di ospite alle tastiere: caso più unico che raro, suonano anche ‘Elegy’, il
brano di David Palmer che chiudeva ‘Stormwatch’. Per inciso, questa è anche
l’ultima occasione in cui possiamo vedere Martin Barre con la barba e la
chitarra Hamer nera. Nel 1986 non ci fu altro che un breve tour estivo
(denominato infatti “Summer Raid”), compresa una data diurna a Milton
Keynes prima dei Marillion, che
all’epoca, dopo l’uscita di ‘Mispaced Childhood’ (1985) erano davvero sulla
cresta dell’onda. I Tull sembravano viceversa ormai sul viale del tramonto:
anche fisicamente Ian Anderson, pur non avendo ancora compiuto 40 anni,
appariva come un vecchione imbolsito, barba imbiancata, cappellino, pantaloni
rigonfi ed un giubbotto di pelle senza maniche a renderlo ancora più
appesantito. Trasferitosi sull’Isola di Skye, si occupava soprattutto del suo
allevamento di salmoni. Il documentario ‘Fish’n’Ship & Rock & Roll’
rende bene quella che era la vita di Ian Anderson in quel periodo, con qualche
frammento della band dal vivo al sopracitato festival di Milton Keynes.
Nell’occasione Dave Pegg è vestito tutto di rosso. Don Airey (in seguito nei
Deep Purple al posto di Jon Lord) fu alle tastiere per il tour del 1987, ma non
sul disco di quell’anno, ‘A Crest Of a Knave’, che segnò il ritorno dei Tull in
grande stile, con brani accattivanti quali ‘Budapest’ e ‘Farm On The Freeway’,
nuovi classici per gli spettacoli dal vivo. Airey compare nel videoclip di
‘Jump Start’, mentre i suoni elettronici che avevano caratterizzato gli album
precedenti scompaiono. Sull’album, oltre a Ian, Martin e Dave, troviamo
alternarsi alla batteria Doane Perry e Gerry Conway, mentre Ric Sanders dei
Fairport Convention è ospite al violino sulla sopracitata ‘Budapest’. Delle
tastiere si occupa lo stesso Ian Anderson, che torna a suonare il flauto come
ai vecchi tempi. Stranamente su questo lavoro voce e chitarra ricordano un po’
i Dire Straits. Martin Alcock (proveniente a sua volta dai Fairport Convention)
divenne il loro tastierista dal 1988 al 1991. E proprio nel 1988, per celebrare
i 20 anni della band, oltre alla tournèe mondiale (che tocca anche l’Italia)
viene pubblicato il ricchissimo box-set ’20 Years of Jethro Tull’: una grande
scatola quadrata contenente booklet e decine di brani rari o inediti, oltre a
‘Part of the Machine’, registrata per l’occasione. Il 1989 è l’anno dell’album
‘Rock Island’, che vede Ian in concerto con cappello e giacca scura e l’inizio
dei concerti con ‘Steel Monkey’, mentre i Tull si aggiudicano il Grammy Award
quale migliore band heavy metal (!?) per il disco ‘A Crest Of a Knave’. Nel
1991 tornano in scena incredibilmente ringiovaniti: Ian Anderson con un
semplice gilet argentato sul torso nudo, muscoloso e scattante, con i pantaloni
attillati come negli anni ’70; Martin Barre, che pochi anni prima sembrava un
attempato impiegato di banca, appare di nuovo con i capelli lunghi, dimagrito,
agile e con un bellissimo suono di chitarra. Una buona testimonianza dei Tull
di questo periodo è il Dvd relativo al
concerto di Istanbul ’91, sebbene non ufficiale. Senza dimenticare il Cd ‘In
Concert’, registrato all’Hammersmith Odeon, con il fantastico inizio che vede
l’introduzione di ‘Minstrel in the Gallery’ unita ad un’esplosiva ‘Cross-Eyed
Mary’. I concerti di questa tournée cominciano con Ian Anderson da solo su un
palchetto rialzato, mentre imbraccia la chitarra acustica nera seduto al tavolo
di un finto ristorante. All’album ‘Catfish Rising’ di quell’anno (con più
strumenti acustici e piacevoli folate di blues) seguì il triplo tour del 1992,
il disco semi-acustico dal vivo ‘A Little Light Music’, l’arrivo dell’ottimo
Andy Giddings alle tastiere e l’inizio degli spettacoli con Anderson in giacca
e cilindro neri. Durante quest’anno alla batteria troviamo Dave Mattacks (un
altro elemento dei Fairport Convention, tanto per cambiare) al posto di Doane
Perry. Quindi le varie celebrazioni per i 25 anni della band, nel 1993:
box-set, il doppio Cd di rarità
‘Nightcup’, tournèe, e Ian e Martin ancora vivaci e con un look accattivante.
Brillanti, poi, gli inizi dei concerti, con la rivisitazione dei brani di
inizio carriera: ‘My Sunday Feeling’ in apertura, poi ‘For A Thousand Mothers’,
quindi ‘Living In The Past’, con Ian Anderson che irrompeva sul palco
indossando una festosa giacca multicolori, mentre Martin sfoggiava abiti neri
con capelli lunghi e biondi sulle spalle. In qualche occasione Dave Pegg si
lascia sostituire dal figlio Matt. Nel video celebrativo del 25° anniversario
sono presenti ‘Living in the Past’ e il finale di ‘A New Day Yesterday’,
entrambi tratti dal concerto di Brussels del 1993. Anche dello show di
Francoforte esistono belle riprese professionali dei primi quattro brani di
quel tour, che vede tornare in scaletta ‘So Much Trouble’, ‘With You There to
Help Me’ e ‘Dharma for One’. Il sopracitato video (intitolato ‘A New Day
Yesterday: The 25th Anniversary Collection’) mostrava inoltre componenti del
gruppo vecchi e nuovi ritrovarsi in un pub, chiacchierando tra loro e guardando
i vecchi filmati: erano presenti Ian Anderson, Clive Bunker, Mick Abrahams,
Glenn Cornick, John Evan, Barrie Barlow, Martin Barre, Jeffrey Hammond, Mark
Craney, Doane Perry, Tony Williams, Dave Pegg e Martin Alcock. Quest’ultimo era
in realtà un chitarrista, ma aveva imparato in brevissimo tempo a suonare le
tastiere per unirsi al gruppo. Qui John Evan, intervistato, racconta che,
quando qualche cliente della sua società di costruzioni, fan del gruppo,
capisce che lui è proprio l’ex tastierista dei Jethro Tull, solitamente sviene
sul pavimento! Fu in quel periodo che Clive Bunker insegnò a Doane Perry come
suonare ‘My Sunday Feeling’. Il cofanetto si intitola invece ‘25th Anniversary’
e, pur non offrendo inediti, risulta essere molto interessante: si presenta con
la forma di una scatola da sigari e, oltre al booklet rettangolare, contiene
una selezione di tracce dal 1968 al 1982 con un nuovo missaggio, il concerto
alla Carnegie Hall del 1970, una rivisitazione dei vecchi brani incisa nel 1992
ed una serie di pezzi dal vivo registrati attraverso gli anni. Splendida, su
quest’ultimo Cd, la nuova versione di ‘Beggar’s Farm’. Come detto, gli inediti
sono presenti invece sul doppio ‘Nightcup’: un Cd è dedicato infatti alle
“perdute” registrazioni francesi del 1972, mentre l’altro ci regala tracce mai ascoltate prima,
che vanno dal 1974 al 1991. Questo periodo scintillante fu però anche l’ultimo
per i Jethro: l’album ‘Roots To Branches’ del 1995 fu seguito da un tour più
dimesso, senza Dave Pegg al basso (sostituito, come detto, da Jonathan Noyce,
già insieme a Ian durante il tour per il suo ottimo album ‘Divinities’). A
sorpresa, i concerti di questa tournèe cominciano con estratti di brani tratti
da ‘A’. Nel 1996 Ian Anderson partecipò al disco di Mick Abrahams intitolato
‘One’, a dimostrazione dei rapporti divenuti cordiali tra i due. Quello stesso
anno Anderson rimase vittima di un’embolia ad una gamba che lo costrinse alla
sedia a rotelle per diverse date: e dire che durante il tour dei 20 anni, nel
1988, all’inizio del concerto compariva sul palco suonando per scherzo il
flauto proprio su una sedia a rotelle, a voler sottolineare che erano diventati
“troppo vecchi per il rock’n’roll”, liberandosene subito dopo e alzandosi in
piedi per cantare una scoppiettante ‘Cross-Eyed Mary’. Adesso, invece, la
carrozzina doveva usarla sul serio! E’ del 1996 anche una tournèe dei Tull
insieme agli ELP. L’apertura dei concerti dell’anno successivo è affidata ad
una nuova versione di ‘A Song for Jeffrey’. L’album nuovo uscì solo quattro
anni dopo il precedente, nel 1999, e si intitolava ‘Dot Com’: aperto dalla
trascinante ‘Spiral’, era buono, registrato bene, e con ottime spruzzate di
prog. A documentare i concerti del periodo esiste lo show televisivo tedesco
‘Ohne Filter Extra’, ripreso il 15 giugno. Quello sarebbe rimasto però l’ultimo
disco dei Jethro Tull. Seguiranno infatti altri lavori, ma non si sarebbe più
trattato di veri album composti da materiale interamente inedito. ‘Living with
the Past’ presentava, su Cd e Dvd, un concerto del 2001 all’Hammersmith Apollo,
includendo anche tre brani di ‘This Was’ eseguiti nel gennaio 2002 dalla prima
formazione del gruppo (Anderson, Abrahams, Cornick e Bunker): i quattro si
esibivano dal vivo in un pub davanti ad uno sparuto pubblico, formato in realtà
da componenti dei fan club della band, che dovevano fingere disinteresse di
fronte alla loro performance, a ricordare quel che poteva effettivamente
avvenire ai vecchi tempi. ‘The Christmas Album’ del 2003 raccoglieva pezzi di
ispirazione natalizia, mentre ‘Live at Montreux’, pur uscito nel 2007,
documentava su Dvd lo show tenuto dai Tull durante l’edizione di quello stesso
2003 al prestigioso festival svizzero, con riprese in alta definizione. Da anni
ormai Ian Aderson si presenta in scena con la bandana da pirata in testa, una
lunga casacca a maniche corte stretta da una cintura alla vita, gilet colorato
ed una chitarra acustica piccolissima. Martin Barre utilizza invece
amplificatori Soldano dal suono fenomenale per chi si trova davanti al palco.
Nel 2005 viene pubblicata una versione live del disco ‘Aqualung’ (sempre con la
formazione Anderson, Barre, Perry, Giddings e Noyce), eseguita l’anno prima.
Tra il 2006 ed il 2007 la line-up cambiò, e a Ian, Martin e Perry si
affiancarono John O’Hara alle tastiere e David Goodier al basso. Il Dvd ‘Live
at AVO Session Basel’, pubblicato nel 2009, ma filmato l’anno precedente,
documenta bene il gruppo in questa nuova formazione. Un altro Dvd, ‘Jethro
Tull, Their Fully Authorised Story’, uscito nel 2008 per il 40° anniversario
della band, presenta filmati vari ed interviste a Ian Anderson, John Evan, Mick
Abrahams, Martin Barre, Clive Bunker, Dee Palmer, Glenn Cornick (di nuovo con i
capelli lunghi stretti dalla bandana) David Pegg, Doane Perry, Peter Vettese e
Barrie Barlow: quest’ultimo si commuove ancora al ricordo di John Glascock. La
pubblicazione include, su un secondo dischetto, l’intero documentario del 1969
intitolato ‘Swinging In’, del quale i fans conoscevano solo pochi frammenti. E’
sempre del 2008 il Dvd intitolato ‘Jack in the Green: Live in Germany
1970-1993’. Dal 2011 anche Martin Barre e Doane Perry rimangono fuori dal
gruppo: l’ultima data di Barre con i Tull è quella del 31 luglio a Monaco. Dopo
l’uscita dalla band Martin ha formato un gruppo suo, che propone comunque i
vecchi brani dei Tull; Barlow negli anni ’80 ha suonato sui dischi solisti di
Jimmy Page e Robert Plant, per poi aprire un suo studio di registrazione; John
Evan si è trasferito in Australia, cambiando completamente lavoro,
appassionandosi alle corse di ciclismo e vendendo tutti i suoi strumenti; David
Palmer nel 1980 ha formato i Tallis insieme a John Evan, e nel 1984 ha diretto
la London Symphony Orchestra per una versione sinfonica dei “classici” dei
Jethro Tull (‘A Classic Case’, 1985), accompagnato dai componenti dela band
nella formazione di quel periodo (Anderson, Barre, Pegg, Vettese e Paul Burgess
al posto di Doane Perry), per poi decidere addirittura di cambiare sesso,
divenendo appunto Dee Palmer. Ha realizzato anche arrangiamenti orchestrali per
musiche di gruppi quali Genesis, Pink Floyd, Yes, Queen e Beatles. Glenn
Cornick, dopo la sua estromissione dai Tull alla fine del 1970, venne aiutato
da Terry Ellis a formare i Wild Turkey nel 1971, e nel 2006 avrebbe pubblicato
l’ultimo album insieme a questa band, con Clive Bunker alla batteria.
Trasferitosi a Berlino nel 1974, partecipò ad un disco dei Karthago uscito l’anno seguente, e ad altri due con i
Paris nel 1976, mentre viveva a Los Angeles. In tempi più recenti Glenn si era
trasferito alle isole Hawaii, suonando solo per divertimento. Si era sposato
una seconda volta ed aveva tre figli. Le sue ultime esibizioni in pubblico
sarebbero state quelle della fine del 2013, come ospite dei Los Lobos e in
occasione di uno spettacolo di beneficenza. Ci avrebbe lasciati il 28 agosto
del 2014 per i problemi al cuore che avevano già impedito una prima reunion
della line-up originaria prevista per il 1996. Quest’anno è invece quello della
pubblicazione di ‘To Cry You a Song’, un tributo ai Jethro Tull che vede
coinvolti, oltre a nomi quali Keith Emerson, Roy Harper, John Wetton e Glenn
Hughes, anche Mick Abrahams, Clive Bunker, Glenn Cornick e Dave Pegg. Nel 1998
lo stesso Mick Abrahams fa uscire una sua versione dell’album ‘This Was’, in
occasione del trentennale del disco d’esordio dei Jethro Tull al quale aveva
partecipato. E nel 2005 esegue una bella versione di ‘Cat’s Squirrel’
all’interno del Dvd intitolato ‘Black Night is Falling’. Un altro tributo è
quello intitolato ‘A Song for Jethro’, pubblicato nel 2000 e aperto da una
versione di ‘Bourèe’ dei Malibran (il gruppo di chi scrive), con la
partecipazione di Glenn Cornick, Clive Bunker e John Evan sul brano ‘We Used to
Know’. ll bravo chitarrista tedesco Florian Ophale prende il posto di Martin, e
nel 2012, con lui alla chitarra, viene dato alle stampe un sequel del
leggendario album del 1972, intitolato ‘Thick as a Brick 2’. Nel 2014 esce
dunque ‘Thick as a Brick Live in Iceland’, che documenta su Cd e Dvd la
versione live di entrambi i dischi. Per inciso, Ophale, O’Hara e Goodier
comparivano già insieme a Ian Anderson in occasione del concerto con orchestra
pubblicato su Dvd nel 2005. E quella volta il figlio di Ian, James Duncan, era
alla batteria. La carriera di Ian Anderson solista aveva preso il via nel 1983,
quella di Martin Barre nel 1992: e nel corso degli anni vari brani tratti da
questi loro dischi avrebbero trovato posto nelle scalette dal vivo dei Jethro
Tull. Il 2015 vede Anderson esibirsi di nuovo al festival dell’Isola di Wight,
45 anni dopo la prima volta, con i suoi nuovi compagni (O’Hara, Goodier, Ophale
e Scott Hammond alla batteria). Nel 2016, oltre ad una nuova versione dell’EP
‘Ring Out, Solstice Bells’ (per il 40° anniversario), ecco una bella
rivisitazione di brani dei Jethro Tull, pubblicata l’anno dopo con il titolo di
‘The String Quartets', che vede Ian Anderson accompagnato da un quartetto
d’archi. In tempi recenti il leader dei Tull ha indicato nei Led Zeppelin la
miglior rock band di sempre, individuando invece nei Gentle Giant il gruppo
superiore per quanto riguarda il progressive degli anni ’70. Una telone
gigante, collocato dietro al palco nel corso del tour che celebrava il 20°
anniversario, riportava con auto-ironia la scritta: “Oh no, non dateci altri 20
anni di Jethro Tull!”: all’epoca sembrava impossibile, ma sarebbe stato proprio
così. E con gli interessi! Nel 2017, con l’instancabile Ian che compie 70 anni,
la band è ancora in tournèe. E dire che lo stesso Ian Anderson, intervistato da
giovane mentre i Tull muovevano i loro primi passi, aveva dichiarato che, se
fosse stato in grado, avrebbe continuato a suonare “fino a 50 anni”. Le date
già programmate in tutto il mondo arrivano fino al novembre del 2018. A mezzo secolo
dalla formazione della band.
1 - Malibran
2 - The Wood Of Tales
3 - Sarabanda
4 - Pyramid's Street
5 - Prelude
Bonus Tracks:
6 - Mystery (live 1988)
7 - Trequanda (live 1988)
8 - Song For Lisa (live 1990)
9 - Prelude (live 1990)
Line-up:
Angelo Messina - Bass
Giuseppe Scaravilli - vocals,electric & acoustic guitars
Benny Torrisi - piano & Keyboards
Alessio Scaravilli - Drums & Percussion
Giancarlo Cutuli - flute & Saxophones
Jerry Litrico - electric & classical guitars
Gianni Lacagnina - additional keyboards solo on "Pyramid's Street"
Link - http://www65.zippyshare.com/v/71731203/file.html
ciao Giuseppe, potresti ripostarlo . nando caserta
RispondiEliminaBel libro
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