In verità non mi
sentirei di dare consigli: non sono un musicista ricco e famoso. Coerente sì,
però: dunque, posso consigliare di fare musica propria, e non solo cover.
Perché chi si limita a questo, anche se lo fa bene, alla fine non lascia niente
dietro di sé, dal momento che a rimanere poi sarà sempre e solo l'originale.
Posso dare uno stimolo a suonare solo ciò che piace davvero, a sé stessi, e non
agli altri. Se si segue una strada in controtendenza, anche se i gusti dei più
vanno (o sono guidati) da un'altra parte, rimarrà comunque una grande
soddisfazione. E questo nella musica come nella vita. Grazie mille per
l'attenzione rivolta al sottoscritto e alla band!
Intervista di Francesco Paladino
ROCK'N' ROLL HOSPITAL by Giuseppe Scaravilli, 2015
Apro un occhio. Uno solo. Sto uscendo dal coma, è un grande
segnale di ripresa. I medici disperavano, e dicevano ai miei: “Questo ragazzo
non si sveglia, temiamo che possa non venirne fuori”. Mio padre è presente: è
proprio lui a vedere quell’unico occhio che si riapre. Dopo un mese, cioè dopo
più o meno una vita a vagare nel nulla da parte del sottoscritto, tra maggio e
giugno 2012. Adesso lui può finalmente gioire, richiamando l’attenzione di mia
madre. In verità io non ricordo niente di tutto questo. Me lo racconteranno loro
in seguito. In realtà non potrei neanche definirmi propriamente un “ragazzo”: forse
medici ed infermieri mi chiamavano così perché tutti gli altri, nel reparto
della sala rianimazione dell’ospedale, erano più anziani. Però mi chiamavano
così anche quando ero ancora sveglio, al quinto piano. A fine gennaio di quello
stesso anno ero stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Vittorio Emanuele di
Catania: pancreatite acuta. Prima, a casa, avevo improvvisamente sofferto di dolori
sempre più lancinanti, che alla fine che mi avevano letteralmente messo in
ginocchio ad urlare. E sono uno che fa musica, non teatro. Non stavo
esagerando: quel dolore al ventre era diventato davvero fortissimo,
insopportabile. In un primo momento avevo pensato ad una qualche forma di intossicazione: ero stato ad una
festa di compleanno, e, come di consueto, non mi ero lasciato pregare
nell’indulgere nei piaceri del desinare e del bere varie bibite gassate.
Mi era capitato
qualche altra volta, ma in questo caso era diverso. Dovevo sedermi, poi alzarmi
di nuovo, camminare. E non riuscivo neanche a rimettere. Il problema, molto
semplicemente, non era quello. Niente intossicazione: un calcolo (li chiamano
così: forse perché amano “calcolare” se e quando farti fuori) aveva ostruito
non so quale condotto interno, ed il pancreas era andato “in tilt”, prendendo
allegramente a divorare se stesso invece che il cibo assunto. Un problemino da
niente che qualche decennio fa usava la cortesia di mandare all’altro mondo i
malcapitati dieci volte su dieci. Oggi tre volte su dieci, stando a quello che
mi ha riferisce un chirurgo in pensione amico di famiglia. La sera in cui sto
male sul serio viene lui a visitarmi a casa: mi fa stendere sul divano della
cucina, mi visita, quindi sollecita papà a portarmi subito al Pronto Soccorso
dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania. Viene con noi anche mio fratello
Alessio, che mi incoraggia dicendomi che mi metteranno subito “a nuovo”:
nessuno immagina minimamente l’odissea che mi aspetta. Tanto meno il
sottoscritto. Del resto non avevo mai sofferto di niente. In passato andavo in
farmacia solo per prendere i tappi per le orecchie e qualche pillola, in
entrambi i casi solo per dormire meglio la notte. E soprattutto, non avevo mai
avuto dolori che potessero indurmi a farmi visitare da qualcuno, a darmi almeno
un campanello d’allarme. Di solito le cose vanno così. Come era capitato a mio
nonno (mio omonimo) e, più di recente, a mio cugino Ivan. Il nonno era
diventato tutto giallo (!), mentre il cugino aveva accusato forti dolori. In
questi casi, è sufficiente sottoporsi ad una piccola operazione, ed ecco che i
calcoli non ci sono più. Solo due o tre
giorni in ospedale, e tutto si riduce ad un vecchio ricordo. Non nel mio caso,
però. Quando l’equipe medica stabilisce che bisogna operarmi, decidiamo di
trasferirci al nuovo ospedale Garibaldi, perché sia un certo professore,
specializzato in casi delicati come il mio, ad occuparsi dell’intervento.
Andiamo con l’ambulanza. E anche questa si rivela una bella sofferenza! Del
Vittorio Emanuele non ricordo molto, ma per un po’ di giorni ci sono rimasto.
Una volta una dottoressa, che ricordo come una bella ragazza che portava gli
stivali sotto il camice bianco, mi spingeva sulla barella (quella con le ruote) insieme ad un’infermiera. Entrambe in mi
trasportavano quasi correndo, scherzavano e ridevano come bambine, senza
pensare alla “gerarchia” o a cose del genere. Rischiando anche di sbattermi di
qua o di là. Non non stavo bene, ma quella volta mi sono divertito. Credo sia
stato il momento più simpatico di quello sbiadito periodo, prima di cambiare
ospedale. Al Vittorio Emanuele devo anche essere stato sedato. Fatto sta che ricordo
di aver sognato di essere da solo su un battello, in alto mare. L’atmosfera era
tranquilla. Poi però l’atmosfera è cambiata, ed io ho rotto tutto. Non so bene
cosa, nel sogno, ma nella realtà ho strappato via dalle braccia tutti i cerotti
e gli aghi delle flebo. Non sarei il tipo incline a sfuriate di questo tipo, ma
credo che questo sia successo davvero. Ricordo anche un infermiere che si
lamentava, sorpreso, ripetendo (in dialetto siciliano): “Ma guarda cosa ha
combinato”…
All’ospedale Garibaldi Nesima rimango coricato per un mese,
al quinto piano, prima di poter fare l’operazione al pancreas: non so in che
senso, ma il mio corpo doveva essere preparato prima all’intervento, e dovevo
aspettare. Avevo altri compagni di stanza. Ma nel tempo ne avrei avuti tanti,
che non ricordo più chi e quanti fossero i primi, se non in maniera molto vaga.
Alla fine tutti venivano dimessi, andavano via, venivano sostituiti da altri.
Io invece no, sono rimasto lì per mesi, per i motivi che spiegherò meglio. E
dunque avevo finito ormai per essere parte dell’arredamento: c’erano gli
armadietti, le poltroncine, la tv, il crocifisso di fronte a me…e c’ero io.
Anche con gli infermieri avevamo ormai fatto amicizia: ci chiamavamo per nome,
e me li ricordo un po’ tutti. Enzo e Linda lavoravano sempre in coppia:
stranamente lui non portava il classico camice bianco, ma una maglietta nera,
coi muscoli in evidenza, ed un fisico asciutto. I capelli erano bianchi e
corti, aveva famiglia, ma era ancora giovane. Organizzava pure serate in
discoteca: decisamente un contesto diverso, rispetto a quello ospedaliero!
Mi sono operato infine il giorno dopo la morte di Lucio
Dalla. Questa notizia non mi aveva messo esattamente di buon umore, e
l’operazione in sé sarebbe stata comunque estremamente delicata. Eppure non
avevo paura. Si scendeva in sala operatoria venendo trasferiti sopra un altro
lettino più piccolo, con le rotelle. Praticamente nudi, a parte camice di
sottilissima plastica trasparente, verde. E anche con qualcosa in testa, una
cuffietta, o qualcosa del genere, sempre verde. Mi hanno “posteggiato” in una
stanza, al caldo, e stavo piuttosto scomodo. Dovevo avere delle cinghie che mi
trattenevano, ed anche la flebo addosso: in pratica non vedevo l’ora che si
decidessero a farmi quell’accidente di intervento! Finalmente è il mio turno,
sono nella stanza nella quale mi faranno un bel taglio, per asportare pancreas
e cistifellea: quest’ultima con tutti i suoi dannati calcoli all’interno.
Sorpresa, l’anestesista è un compagno del Liceo! Anche l’altra persona che è lì
mi conosce perché è di Belpasso, il paese dove vivo. Ma anche e soprattutto per
via dei Malibran, la mia band dal 1987. E considerato che all’intervento
assisterà anche Roberto, il medico mio ex compagno di banco, potrebbe definirsi
una bella rimpatriata! Certo, se le circostanze fossero diverse, dal momento
che, ridendo e scherzando, sto per giocarmi la pelle (un altro mio coetaneo
siciliano, in quello stesso periodo, si sottopone allo stesso giochetto e non
ne esce vivo). La siringa per l’anestesia mi sembra enorme e mi fa un po’ male.
Naturalmente, poi (ma va?) non ricordo più niente. Mi aprono e mi ricuciono. Mi
ritrovo nella stanza del mio reparto al quinto piano, ma non avverto dolore. Né
sento i punti che “mi tirano”, come sentirò dire ad altri. Con il tempo questi
punti spariranno, e poi le “graffette” le rimuoverà un infermiere con barba e
codino (che mi ricorda tanto Carmelo, il fratello del mio chitarrista). Mi
accorgo che mi hanno rasato il petto. In seguito la stessa sorte toccherà a
barba e capelli, che portavo lunghetti. Ma questo per un problema successivo,
che in seguito racconterò. La dottoressa “capo” del reparto a volte è
spigolosa, ma in altre occasioni ha qualche slancio più affettuoso. Non si capisce
bene che tipo è: riceve telefonate al cellulare solo da sua madre. Ok, ma in
fondo chi se ne frega? In ogni caso mi invita sempre a bere due bottiglie
d’acqua al giorno e a camminare. Io non riesco a fare solo un po’ di entrambe le cose. Sono in grado
di “deambulare”, ma devo tirarmi dietro l’asta (con le rotelle) che sostiene le
flebo. Io la chiamo “l’albero di Natale”. La mia, poi, sembra bloccata,
rispetto a quella degli altri, le rotelle non girano bene. Anche persone
anziane, nella mia stanza, fanno su e giù di continuo con quell’affare,
volitive. Ma io non ci riesco. Cammino molto lentamente. E, soprattutto, quando
stacco la testa dal cuscino, è come se dei cavi rimanessero su quest’ultimo, ed
altri dietro la mia testa: così non sto bene, fino a quando, coricandomi di
nuovo, non permetto a questi cavi (immaginari) di connettersi di nuovo tra
loro. Non so a cosa sia dovuta questa sensazione, ma è così. Papà e mamma (spesso
insieme a mio fratello Alessio) vengono a trovarmi ogni giorno, sia a pranzo che
a cena, con la pioggia o con il caldo. Con papà al mio fianco qualche passo lo
faccio, sempre tirandomi dietro l’asta con le flebo attaccate. Ma la cosa è
talmente rara che, quando mi vedono in piedi, le infermiere mi tributano un
sentito applauso. Quello che chiamo
“l’albero di Natale”, con tutte le flebo attaccate, devo tirarmelo dietro anche
in bagno.
Rimango al Garibaldi fino all’ultimo giorno del marzo 2012.
Due mesi mi sono già sembrati una vita, ma, ahimè, il bello (si fa per dire) deve ancora venire.
Al momento rientro a casa sulle mie gambe, in macchina, con la famiglia al
completo. Salgo le scale a fatica, e, come “bentornato”, rimetto in un
sacchetto di plastica appena entro. Sono stati fatti dei lavori, cambiati gli
infissi, e anche la mia stanza è un po’ diversa. Sempre con le pareti azzurre,
comunque, ma in parte ritinteggiate. Anche alcuni dei manifesti alle pareti
sono stati spostati. Comunque, “home sweet home”, finalmente! Ciò nonostante,
non può certo dirsi che io stia bene: l’ospedale sembra un ricordo da lasciarsi
alle spalle, ma cammino un po’ a fatica, e ho bisogno di sdraiarmi sul letto in
continuazione. Per salire le scale mi aiuto con la ringhiera, e anche quando
faccio la barba devo sedermi a riposare almeno una volta: neanche stessi
scalando l’Everest! Trascorro a casa tutto il mese di aprile ed i primi giorni
di maggio. A fine aprile riesco a suonare la chitarra elettrica, con Alessio
alla batteria. Temevo peggio, perché le dita sembrano incastrarsi un po’ tra
loro. Ma Alessio trova che vado bene. E’ presente anche Jerry, chitarra solista
dei Malibran. Suoniamo insieme con questa band di Progressive Rock dal 1987, e
abbiamo pubblicato otto dischi ed un dvd antologico. Lui però è solo in visita
con il fratello Carmelo, senza strumenti, e loro due sono il nostro pubblico. Facciamo
pezzi del disco “Trasparenze” (lavoro più mio che del gruppo, in verità’), e
secondo Carmelo sembra che non manchi niente, anche se siamo solo in due a
suonare. La cosa mi conforta, e già si parla di fare una prova “vera e propria”
da Jerry, che ha una sala apposita. Purtroppo le cose non andranno così.
Il giorno del Primo Maggio lo trascorro a casa dell’amico
Ignazio, ma non riesco a mangiare tutte le cose buone che ci sono
(“Maledizione!”, direbbe Tex Willer). Negli ultimi giorni il ventre mi si è
inspiegabilmente gonfiato, e cammino come più o meno una donna incinta. Così,
mentre gli altri (grandi e piccoli) giocano allegramente sul prato, dopo
pranzo, io me ne sto seduto in un angolo all’ombra, e poco dopo mi faccio
accompagnare a casa. Collasso all’istante sul letto e mi addormento. No,
decisamente non sto bene. Passo il resto del tempo a leggere nel terrazzino che
abbiamo sotto le scale. Anche se è aprile, fa fresco, ed io me ne sto coperto e
allungato sopra una sdraio, godendomi, se non altro, gli alberi ed il verde che
abbiamo da noi. Un’altra cosa, rispetto al bianco “ospedaliero”. Riesumo anche
un po’ di fumetti da leggere: per circa dieci anni, fino al 1988, ne disegnavo
io stesso, rilegandoli in volumi. L’ultimo era la storia dei Led Zeppelin. Per
il resto si trattava per lo più di racconti di avventura. A volte trasponevo
film o racconti di Edgar Allan Poe. In seguito, però, avevo smesso sia di
realizzare che di leggere fumetti, se non sporadicamente. Così questa
“riscoperta” dell’aprile 2012 era stata una sorta di salto indietro nel tempo.
A proposito di Poe, ho ancora un libro di Carmen Consoli che lei mi aveva
prestato. A quei tempi ci frequentavamo: suonavamo insieme a casa sua, prendendo
le pizze, io andavo ai suoi concerti con la sua band (i Moondogs), mentre lei
veniva a vedermi coi Malibran, durante i primi anni ’90. Da quando è diventata
una cantante famosa a livello nazionale, però, ci siamo persi di vista. E quel
libro coi racconti di Edgar Allan Poe non sono ancora riuscito a
restituirglielo! Lei amava il blues e lo cantava con una voce sorprendente,
quasi da nera americana. Soprattutto considerato il fatto all’epoca aveva solo
16 o 17 anni, e che aveva un fisico davvero minuto. Non amava il Progressive,
ma, per qualche motivo, apprezzava i Malibran. Probabilmente perché allora
avevamo un sound molto rock e potente, e facevamo anche spettacolo sul palco. Una
volta, dopo averci visti alla Festa dell’Unità in Piazza Europa, a Catania, nel
1991, alla chiusura del nostro show si arrampicò sul palco e venne ad abbracciarci
entusiasta, urlando: “ma dove caz (bip) la prendete tutta questa grinta? In
effetti, su un libro tutto dedicato alla Premiata Forneria Marconi, in fatto di
spettacolarità noi veniamo indicati come
gli “eredi” della PFM: loro per gli anni ’70, i Malibran per i ’90. Ad ogni
modo, la “Premiata” (come veniva chiamata all’epoca in Italia) è ancora uno dei
miei gruppi preferiti. Ed è l’unica band Progressive ad aver avuto successo
anche all’Estero, con Tournèe in Inghilterra, vari Paesi europei, USA e
Giappone, specie tra il 1973 ed il 1977. Oltre ad essere stato il gruppo Prog-Rock
più famoso in Italia, un gradino sopra Il Banco Del Mutuo Soccorso e Le Orme.
A proposito di grinta, i Led Zeppelin ne avevano da vendere
(e infatti la vendevano bene, bisogna dire). Cosa c’entrano gli Zeppelin nel
contesto di un racconto “ospedaliero”? C’entrano, perché l’idea di fondo
sottesa a queste pagine è quella di mischiare insieme la mia poco allegra
esperienza con vicende ed aneddoti attinenti ai gruppi rock anni ’70 che più
amo. E di intrecciare a loro volta le storie riguardanti questi gruppi nel
momento in cui, per qualche motivo, queste storie trovavano un qualche punto di
contatto. Questo perché la musica è la mia più grande passione, e perché,
bloccato in ospedale, sia da sveglio, sia nel sonno, sia (ad un certo punto) in
coma, erano queste le cose che rivivevo, ricordavo o sognavo. Con grande beneficio
per la mia salute psico-fisica, devo dire. Però non utilizzerò bibliografie
varie o internet, per tutto questo. Mi baserò solo sulle mie conoscenze, su
quanto ho appreso negli anni. Altrimenti sarebbe troppo facile; ed anche poco
interessante, credo, dal momento che non mancano certo le biografie dedicate a
questa o quella band, con dettagli annessi e connessi. Dunque, tornando ai Led
Zeppelin, la grinta era il loro forte. Ma, unitamente a questa, anche il sound
granitico e ben riconoscibile, oltre ai riff immortali creati dalla
stupefacente chitarra di Jimmy Page. Non ultimo, la presenza di una sezione
ritmica tanto precisa quanto devastante, con un batterista dalla potenza fuori
dal comune. Il boss della casa discografica americana “Atlantic” intendeva
mettere sotto contratto solo i gruppi che avessero tra le loro fila almeno un
musicista straordinario: ebbene, nel caso degli Zeppelin, gli elementi
straordinari erano quattro su quattro.
Jimmy Page e John Paul Jones si conoscevano già prima di
formare la band, perché, a dispetto della giovane età, durante gli anni ‘60
erano entrambi stimatissimi (e molto richiesti) musicisti da studio. Jimmy guadagnava
bene limitandosi a registrare le parti di chitarra che gli venivano richieste.
E questo per una infinita varietà di artisti. A volte si trattava di nomi
famosi, e in questo caso il suo nome non compariva nemmeno nei credits, in
copertina, per non far sfigurare il chitarrista “ufficiale”. Il che non doveva
risultare particolarmente gratificante. Inoltre, spesso, Page era costretto a suonare
musica che non gli piaceva per niente. Oppure, dopo aver tanto lavorato su
qualche parte, poteva capitargli di ascoltare il disco per scoprire che i suoi
sforzi erano stati vanificati da un missaggio nel quale la sua chitarra si
sentiva poco o niente. Così cominciò a stufarsi di quel lavoro, e prese a
suonare dal vivo con varie formazioni. Oppure a partecipare alle jam sessions
che si tenevano al ben noto “Marquee” di Londra, facendosi subito apprezzare.
Anzi, ci fu anche chi decise di “appendere la chitarra al chiodo”, dopo aver
visto quel giovane, gracile e minuto, fare cose pazzesche con il suo strumento.
Anche John Baldwin cominciava ad essere stufo delle sessioni da studio, fatte con
o senza Jimmy. Qualcuno che poteva permetterselo gli disse però che avrebbe
dovuto cambiare il suo nome in “John Paul Jones”. Quest’ultimo era in realtà un
personaggio storico: un ammiraglio che si era fatto valere nella guerra dei
nascenti Stati Uniti contro gli inglesi, nel ‘700. Al tipo era piaciuto il
nome, ma non sapeva un bel niente di tutto questo. Fatto sta che John Baldwin,
eccellente bassista, tastierista ed arrangiatore, divenne da allora John Paul
Jones. E anche lui voleva fare parte di un gruppo. E non di un gruppo
qualsiasi.
Il cantante Robert Plant ed il batterista John Bonham, detto
“Bonzo”, invece, suonavano già insieme nella “Band Of Joy”. Nome che Plant
avrebbe poi “riesumato” alcuni decenni dopo. Rispetto a Page e Jones, loro due
erano i “campagnoli” provenienti dalle Midlands. Più precisamente, dalla zona
denominata “Black Country” (da qui il titolo del brano “Black Country Woman),
per via del fatto che il terreno, a causa dell’estrazione del carbone, era
tutto nero. Bonham dormiva in una roulotte davanti casa dei suoi, e tirava a
campare vendendo anche di nascosto articoli del negozio di sua madre. Mentre
Robert, che stava già insieme alla ragazza indiana Maureen (in seguito sua
moglie) si dava da fare asfaltando le strade. Naturalmente erano soprattutto musicisti
doatissimi, in cerca della grande occasione. Nell’attesa suonavano in vari
gruppi, ancora prima della Band Of Joy.
Ma era un’attesa che non desideravano durasse in eterno. Al
punto che Robert Plant ebbe a dichiarare che avrebbe mollato tutto se non fosse
riuscito a sfondare entro i suoi 20 anni. E 20 anni li avrebbe compiuti di lì a
pochi mesi! Singolarmente, molti personaggi divenuti presto divi del Rock
provenivano da quella stessa zona del Regno Unito, dalle parti di Birmingham: tra
questi, oltre ai due futuri Zeppelin, anche i futuri Black Sabbath, Steve
Winwood (poi leader dei Traffic), Robbie Blunt (chitarrista del primo Plant
solista, già suo amico prima degli Zeppelin) e Glenn Hughes (in seguito nei
Deep Purple). Quest’ultimo, nonostante Robert non fosse di ancora nessuno, lo
ricorda con un atteggiamento già da rockstar, sfacciatamente sicuro di sé e del
proprio luminoso futuro, con un grande carisma, bello, abbigliato in modo
particolare e sempre in compagnia di belle ragazze, che sembrava attrarre come una calamita: e quando Jimmy Page gli offrì
il posto di cantante del suo nuovo gruppo, Robert non disse subito si. Ebbe
modo di parlarne con John Osbourne (detto “Ozzy”, di lì a poco vocalist dei
Sabbath), e quest’ultimo non riusciva a capacitarsi del fatto che Plant potesse
nutrire dei dubbi: nell’ambiente Jimmy era infatti una celebrità, soprattutto
perché era diventato il chitarrista degli Yardbirds: una vera band di successo,
che suonava regolarmente anche in America ed aveva singoli in classifica. Incredibilmente
questa band aveva visto succedersi tra le sue fila prima Eric Clapton, poi Jeff
Beck, quindi Jimmy Page. Jeff e Jimmy erano amici fin dall’adolescenza,
suonavano ed ascoltavano il blues insieme: così, quando si liberò un posto di
bassista, Beck introdusse Page nella band. Naturalmente quest’ultimo, da anni un
gran virtuoso della chitarra elettrica, al basso era sprecato. Eppure accettò l’offerta, pur di
lasciare il monotono lavoro di turnista da studio. Dopo qualche tempo andò a
finire che gli Yardbirds, provvedendo diversamente per il ruolo di bassista,
poterono permettersi di sfoggiare questi due formidabili chitarristi, per circa
sei mesi di concerti infuocati. Per inciso proprio questa formazione, con Beck
e Page insieme, appare nel film “Blow Up” di Michelangelo Antonioni, ambientato
nella “Swinging London” della fine degli anni ’60, con Jeff Beck che sfascia la
sua chitarra contro l’amplificatore (in effetti Antonioni avrebbe voluto gli
Who, che davvero distruggevano i loro strumenti alla fine dei loro concerti,
mentre gli Yardbirds non erano soliti indulgere in questo tipo di bizzarre
attività). Il brano che eseguono nel film è “Train Kept A Rollin”: proprio una
delle cover che gli Zeppelin avrebbero suonato durante la loro prima prova, e
che avrebbero utilizzato anche come apertura dei loro primi concerti. E anche
degli ultimi, oltre 10 anni dopo, quasi a chiusura di un cerchio magico.
Ad ogni modo, Beck decise di piantare la band nel bel mezzo
di un tour negli USA. E così Jimmy divenne l’unico chitarrista della band,
sostenendo benissimo il nuovo ruolo. Con gli Yardbirds si esibiva già con l’archetto
nel brano che sarebbe poi diventato “Dazed And Confused” (intitolato all’epoca
“I’m Confused”) e, seduto da solo sul palco, anche nell’orientaleggiante “White
Summer”. Entrambi i pezzi (il secondo con l’aggiunta di “Black Mountain Side”)
sarebbero entrati nella scaletta degli Zeppelin. Il brano speziato di oriente
sarebbe stato anche documentato nel famoso filmato della Royal Albert Hall del
1970, per essere ripreso, negli ultimi tempi, anche a Knebworth ’79 e
nell’ultimo tour della band (“Led Zeppelin Over Europe”, del 1980). Beck invece
formò il suo “Jeff Beck Group”, con Rod Stewart alla voce. Questa band fu anche
invitata a partecipare al leggendario festival di Woodstock (agosto 1969), ma
si sciolse poco prima. Anche Led Zeppelin e Jethro Tull furono invitati, ma non
parteciparono perché impegnati in altre date, sempre negli Stati Uniti. Un vero
peccato. Del resto, nessuno avrebbe potuto immaginare il successo che avrebbe
avuto quel festival, anche per merito del film, uscito l’anno dopo. Sarebbe stata
una fantastica occasione per poter vedere questi due gruppi inglesi su
pellicola, con ottima qualità audio e video, e proprio nel momento della loro
esplosione oltre Atlantico.
Dei Jethro Tull il bassista Glenn Cornick si sarebbe sempre rammaricato
per l’occasione perduta. Ian Anderson, invece, si è detto felice di non esserci
stato, ritenendo che i partecipanti al festival avrebbero per sempre legato il
loro nome a quell’unico evento. Cosa avvenuta forse per Joe Cocker, a parte gli
altri, con la sua strepitosa interpretazione di “With A Little Help From My
Friends”: forse l’unico caso di una cover migliore dell’originale (un’innocua
marcetta dei Beatles cantata da Ringo Star). Per inciso, la chitarra della
versione di Cocker su disco era, manco a dirlo, di Jimmy Page. Quest’ultimo
prese invece a prestito il Beck’s Bolero per inserirlo all’interno di “How Many
More Times”, il brano che avrebbe chiuso l’album d’esordio dei Led Zeppelin,
registrato nell’ottobre del 1968.
Come detto, io rimango in ospedale fino alla fine di marzo
2012. Due mesi che sembrano un’eternità. Dal momento che fatico ad alzarmi dal
letto, un medico mi chiama scherzosamente (senza riuscire a farmi ridere più di
tanto, in verità) “sacco di patate”. E’ amico e collega di quel mio ex compagno
di banco, Roberto, patito dei Pink Floyd (li vediamo assieme a Roma nel 1988) e
medico anche lui. Ma, come detto, ad aprile sono a casa, e l’ospedale sembra un
ricordo ormai alle spalle. Però continuo a muovermi a fatica, e, ad un certo
punto, il ventre mi si gonfia sempre più. Così torno al Garibaldi (ci andavo
comunque ogni lunedì a fare dei controlli), e, con l’assistenza di Roberto, verifichiamo
che bisogna intervenire per tirare fuori questo liquido che mi appesantisce. La
cosa in sé si rivela poca cosa: mi tirano fuori questo liquido dall’esterno,
con un tubicino che va a finire in una sacca, che man mano si riempie. E allo
stesso tempo io mi “sgonfio”, com’è ovvio. Dunque sono anche contento: tornerò
come prima, e mi avvierò alla guarigione completa entro l’estate! Tutti gli
infermieri mi chiedono che ci faccio di nuovo lì in ospedale. Ricevo la
telefonata di un amico, mentre sono a letto (se ne era liberato uno, e dunque
faccio tutto “al volo”, un venerdì, mentre avevo pensato di dover tornare in un
secondo momento). Quando la telefonata finisce, vedo con una certa sorpresa che
ho riempito due sacche di questo liquido: sono come due grandi palloni
trasparenti, che l’infermiera deve portare fuori trascinandoli per terra, perché
da sola non riuscirebbe a sollevarli (!). Mi dicono che potrò tornare a casa
due giorni dopo, ed io già pianifico una prova con il gruppo. Si, bravo. Invece
comincio a rimettere sangue. Prendo un sacco di plastica, e ogni tanto appoggio
la testa sul cuscino. Ma dura poco: ogni due minuti devo risollevarmi per
rimettere altro sangue, mentre il mio vicino di letto (un anziano) mi porge il
rotolone di carta per pulirmi. Solo che sembra non finire mai. Vado in bagno,
ma alla fine devo chiamare il vicino, perché mi aiuti. Naturalmente le porte
degli ospedali non possono essere chiuse dall’interno, nel caso qualcuno
dovesse avere problemi, e ritrovarsi chiuso dentro. Nel caso specifico quel
“qualcuno” sono io. Il compagno di stanza mi aiuta a sollevarmi, ma non riesco
a rimanere in piedi. Questa volta sembro davvero un “sacco di patate”. Vuoto,
però. Durante il mio primo ricovero ero svenuto (prima volta della mia vita)
mentre mi facevano una radiografia, una lastra, o non ricordo cosa. Dovevo
stare solo in piedi, reggendomi con le mani su dei pomelli, mentre i medici “in
sala regia” mi facevano una specie di foto all’addome. Ma avevo sentito subito
che non avrei resistito più di qualche secondo. L’immagine successiva che
ricordo è quella di me per terra, con dottori ed infermieri tutti attorno a me.
L’infermiere che mi aveva portato fin là con la sedia a rotelle (per fare
prima) assicura che, vedendomi crollare, sono accorsi facendo in tempo a non
farmi battere la testa sul pavimento. Ma io ho la sgradevole sensazione di
averla sbattuta comunque. Adesso, in bagno, ho la stessa sensazione, non riesco
a stare in piedi, mi sento svuotato, sto andando giù.
Arrivano gli infermieri, con il solito Enzo in maglietta
nera, mi sorreggono e mi sdraiano sul letto. A quel punto sto già molto meglio.
Si, non desideravo altro. Ma ricomincio a rimettere sangue. E’ strano, mi piace
il colore rosso vivido di questo sangue che sgorga a fiotti, sono sereno, non
sento niente. Reclino la testa sul lato sinistro, mi mettono dei tovaglioli di
carta sulla spalla, ma non serve a niente: sto vomitando un fiume di sangue a
getto continuo, sto inondando il pavimento della stanza: qualcuno dovrebbe
procurare delle scialuppe di salvataggio, siamo sul Titanic. Enzo mi dice di
non addormentarmi. Gli chiedo per quale motivo, dal momento che così mi
risparmierei almeno un po’ di questo brutto momento. Ma lui insiste, e mi
chiede di parlargli:”Parlami, Giuseppe, parlami, dimmi qualcosa, quello che ti
passa per la testa”. Mi sembra di intuire che, se dovessi addormentarmi, potrei
non risvegliarmi più. E così dico qualcosa, anche se gli argomenti per un
amabile conversazione, arrivati a quel punto, sembrano terribilmente scarseggiare.
Un personaggio poco avvezzo alle “amabili conversazioni” era
il già citato Ozzy Osbourne. Neanche lui ricorda come il suo vero nome, John,
avesse potuto trasformarsi in “Ozzy”. Ad ogni modo, si tolse lo sfizio di
tatuarsi quelle quattro lettere sulle nocche di una mano, quando era ancora adolescente.
E disegnò pure una faccina sorridente sopra una delle sue ginocchia, perché lo
aiutasse a tirarlo un po’ su mentre se ne stava comodamente seduto sulla tazza
del water. Abitava ad Aston (come tutti gli altri membri dei futuri Black
Sabbath) insieme alla famiglia, in una casetta incastrata tra tante altre,
tutte in fila lungo una via che all’epoca gli sembrava lunghissima, ma che non
lo era affatto. Coi suoi amici andava a giocare in una casa bombardata dai
tedeschi, ed era convinto che fosse tutto diroccato apposta per permettere ai
ragazzini di giocarci dentro. A scuola più faceva lo scemo (e fu in questa
“veste” che lo conobbe Tony Iommy (intimo amico di John Bonham), sempre nel
periodo scolastico. Osbourne era un po’ dislessico, veniva trattato male dai professori
e preso in giro dai compagni. Il suo senso di auto-stima era molto, molto
basso. Se ne andava in giro senza scarpe e con un rubinetto appeso al collo,
perché non avrebbe potuto permettersi una collana. Non gli riuscì bene neanche
la carriera di ladro, visto che venne subito beccato, e a 17 anni era già in
prigione: l’esperienza si rivelò talmente traumatica che decise di non
ricaderci mai più. La sua fortuna fu quella di appendere un manifestino in un
negozio di Birmingham, frequentato da tutti i musicisti della zona: con questo
foglietto di “Ozzy” annunciava di essere un cantante in cerca di una band. E,
soprattutto, di essere in possesso di un’amplificazione propria (appena compratagli
dal padre). Una frase magica da quelle parti, in grado di catturare l’attenzione
di molti, al di là delle sue qualità canore.
E infatti tutti i futuri Black Sabbath finirono per bussare presto
alla porta di casa sua: prima “Geezer”, il bassista (che allora suonava ancora
la chitarra), quindi Bill Ward, il batterista, insieme a Tony Iommi. Il tutto in
una processione quasi surreale, perché, dalla
finestra di casa sua, John Osbourne vedeva dei personaggi che sembravano
tutti uguali: baffi e capelli lunghi. Tony però lo riconobbe come lo scemo
della scuola, e disse a Bill di andare via, di lasciarlo perdere senza neppure
metterlo alla prova. Iommy era già un chitarrista molto stimato nella zona, ed
era anche un po’ più grande. Bill però insistette perché ad Ozzy fosse concessa
almeno una possibilità e, sorpresa, alla prima prova cantò bene: era intonato,
e sapeva trovare linee vocali interessanti e molto azzeccate. “Geeser” passò al
basso, si unirono altri musicisti, si cambiarono un po’ di nomi (compreso quello di una marca di borotalco!) e
si cominciò ad andare in giro a suonare. Quando infine si decise di rimanere in
quattro, alla fine degli anni ’60, il nome del gruppo divenne “Earth”. Anche se
ad Ozzy non piaceva più di tanto. In seguito videro il manifesto di un film, in
bella vista davanti alla loro sala prove: era un film horror italiano, e si
intitolava “Black Sabbath”. Così Tony Iommi, notando che la gente faceva la
fila per essere spaventata, pensò che quello sarebbe diventato il nome
definitivo del gruppo, e che la loro musica avrebbe virato verso atmosfere più
tenebrose ed inquietanti. Già in una lettera spedita da Ozzy mentre rientravano
da Amburgo, Ozzy annunciava felice che al ritorno a casa si sarebbero chiamati
Black Sabbath. Ad Amburgo si sentirono quasi arrivati, perché suonavano allo
“Star Club”, lo stesso locale che aveva visto abituali protagonisti i primi
Beatles: proprio il quartetto di Liverpool
che aveva cambiato la vita di Osbourne, quando alla radio aveva
ascoltato per la prima volta “She Love You”, e aveva capito che voleva far
parte di quel mondo. Ma, dopo tutti quegli anni, quel Club era diventato in
realtà un postaccio. E loro si ritrovarono pure a derubare le gentili fanciulle
con le quali si intrattenevano dopo i concerti, pur di “arrotondare”: uno
“intratteneva”, appunto, e l’altro entrava di soppiatto nella stanza e frugava
nella borsetta della malcapitata. Non
andavano fieri di questo, ma dovevano pur mangiare.
E, naturalmente, anche bere e drogarsi! Si spostavano da una città all’altra con un
furgone tutto scassato: pioveva, nevicava, ed i tergicristalli non
funzionavano. Così uno di loro si affacciava da un finestrino, l’altro da
quello opposto, e tiravano i tergicristalli con le mani, ora in un verso, ora
nell’altro, per permettere a chi guidava di vedere qualcosa attraverso il parabrezza (!). Un escamotage che poi
utilizzavano pu di suonare era tanto bizzarro, quanto logorante: si piazzavano
con il furgone carico della strumentazione davanti ai locali nei quali era
previsto il concerto di un gruppo già affermato, e, nel caso il gruppo in questione
non avesse potuto esibirsi, si sarebbero proposti loro. Incredibilmente,
intorno alla fine del 1968, la cosa riuscì. I Jethro Tull non furono in grado di raggiungere il locale
davanti al quale si erano “appostati”, e Ozzy e compagni suonarono al loro posto.
Ian Anderson riuscì ad arrivare e a mescolarsi tra il pubblico, mandando in
estasi il giovane Osbourne perché, mentre questi cantava sul palco, intravedeva
Anderson muovere la testa seguendo la musica. In effetti il sound dello
sconosciuto gruppo di Aston era ancora più pervaso dal blues che dai suoni
funerei che li avrebbero caratterizzati di lì a poco. E c’era molto blues anche
nel primo disco dei Tull (“This Was”, l’unico che avevano pubblicato fino a
quel momento).
Ma ad attrarre l’attenzione di Ian Anderson doveva essere
stata soprattutto la performance di Tony Iommi: Ian doveva trovare un sostituto
a Mick Abrahams, il chitarrista, e Iommi sembrava essere l’uomo giusto. Del
resto, se si ascoltano certi pezzi dei primi lavori dei Black Sabbath, quando
Tony Iommi suona da solo, con la stessa Gibson SG rossa che utilizzava
Abrahams, sembra assomigliargli molto. In qualche caso, quando la chitarra ha un
sound più blues e carico di riverbero, accompagnata solo da un tumultuante
sottofondo di basso e batteria, sembra proprio di ascoltare “Cat’s Squirrell”,
dal disco d’esordio dei Jethro Tull. E in effetti Tony ricevette la proposta di
entrare in quella band, già piuttosto nota, e con la morte nel cuore dovette
comunicare ai compagni che avrebbe dovuto lasciarli. Ozzy e gli altri sentirono
che i loro sogni di gloria stavano andando in pezzi: non sarebbero potuti andare
da nessuna parte senza il talento di Tony Iommi. Sarebbero dovuti tornare a
lavorare in fabbrica, o a fare gli altri i lavori frustranti (o veramente schifosi)
che facevano prima. E questo proprio quando le cose sembrava cominciassero a
funzionare. Eppure, in una maniera che può anche essere ritenuta commovente, tutti
trattennero le lacrime e si congratularono con il loro amico, felici per lui,
che a quel punto sarebbe passato letteralmente da un pianeta all’altro: dalla
fame alla fama, in poche parole. Di lì a poco, tanto per cominciare, Tony
avrebbe partecipato coi Jethro Tull al programma televisivo “The Rolling Stones
Rock And Roll Circus, insieme a gente del calibro di John Lennon (ancora nei
Beatles), The Who, Mitch Mitchell (il batterista di Jimi Hendrix) e,
naturalmente gli stessi Stones (ancora con Brian Jones). Iommi, proprio lavorando
in fabbrica, tempo prima si era visto tranciare di netto la parte superiore
delle dita della mano destra da un macchinario che non sapeva ancora usare
bene. E dal momento che era mancino, si trattava delle dita che avrebbero
dovuto scorrere sulla tastiera. La sua carriera di musicista sembrava già
finita. E invece si era fabbricato da solo delle protesi (simili a ditali) che
gli avevano permesso di riprendere a suonare (e che utilizza ancora oggi).
Così, adesso, con quel nuovo ingaggio, aveva l’occasione di passare, in pochi
anni, dalla triste certezza di aver chiuso per sempre con la musica alla
concreta possibilità di diventare il chitarrista di un gruppo importante. Le
cose sarebbero in effetti andate così, ma non nel modo che sembrava aver prefigurato
il destino: Tony Iommi, infatti, partecipò alle riprese del “Circus” coi Jethro
Tull, il 10 dicembre 1968; ma lasciò quella band dopo un paio di settimane,
preferendo tornare coi suoi vecchi compagni: troppo strette erano risultate per
lui la disciplina, la professionalità e
la serietà che Ian Anderson imponeva alla band (pur avendo poco più di
vent’anni!), e ben presto avrebbe preso il sopravvento la nostalgia per il
divertimento, le follie e le risate con Ozzy e compagni. Il suo posto nei
Jethro sarebbe stato preso da Martin Barre (che non lo avrebbe mollato per 40
anni!), mentre gli Earth, divenuti Black Sabbath, avrebbero sfondato al primo
colpo con l’omonimo disco d’esordio, uscito nel 1970. Lo registrarono
praticamente dal vivo, in 12 ore, scappando subito dopo per un concerto a
Zurigo. Quando poi lo ascoltarono, quasi svennero per la felicità:
il suono era pazzesco, erano state aggiunte campane e
pioggia all’inizio del disco, e la copertina (alla quale non avevano preso parte
in alcun modo) era strepitosa. All’interno dell’ album tutti e quattro
portavano al collo grosse croci di ferro, fabbricate dal padre di Ozzy. E a
quel punto fecero addirittura il bis, ottenendo ancora più successo con il
successivo “Paranoid”: questo secondo lavoro avrebbe dovuto in realtà chiamarsi
“War Pigs”, come uno dei brani contenuti nel disco (e come voleva suggerire la
stessa copertina). Ma la casa discografica aveva preferito evitare problemi con
quella che sarebbe stata facilmente interpretata come un’aperta denuncia contro
la guerra in Vietnam, e preferì attribuire all’album il titolo di un brano che la
band aveva registrato all’ultimo momento, giusto perché c’era ancora spazio per
un’altra traccia: quest’ultima (Paranoid) sarebbe diventata la loro hit più famosa
in assoluto, e avrebbe gettato le basi per quello che sarebbe diventato l’Heavy
Metal. Se anche i Black Sabbath si fossero sciolti subito dopo quei primi due
dischi, avrebbero comunque marchiato con indelebili lettere di fuoco il libro
della storia del Rock.
Sono nel letto d’ospedale a rimettere sangue, con la testa
rivolta da una parte. Linda, l’infermiera collega di Enzo, all’inizio tenta di
raccogliere quel flusso rosso continuo. Poi rinuncia, dal momento che quello
non accenna a smettere. Io sono sdraiato sopra una barella, mentre gli altri,
in camice bianco, corrono tutti, portandomi non so dove. A a fare una tac,
credo, ma i miei ricordi non sono chiari. Vedo i cerchi delle luci sul soffitto
del corridoio scorrere sopra di me: sembra di essere alla fine del film
“Carlito’s Way”, dove Al Pacino in una situazione molto simile, ripensa agli
ultimi avvenimenti della sua vita, per l’ultima volta. Ma non capisco lo stesso
il motivo di tanta concitazione: non mi sento male. Ho sempre preferito vedere
calma intorno a me. E qui invece, dottori ed infermieri che mi trasportano il
più velocemente, le flebo si muovono oscillando, le parole sono concitate. Sto
forse morendo? Penso: e chi se ne frega? Basta che si faccia piano. Qui
finiscono i miei ricordi da persona cosciente di sé stessa, ed entro nel tunnel
senza tempo del coma. In realtà durerà un mese, tra maggio e giugno 2012. Ma io
non so niente. Non so nemmeno di essere di nuovo in sala rianimazione. Ho barba
e capelli ormai lunghissimi, e alla fine mi sbarbano e mi radono a zero. Ma non
ho nessuna memoria di questo: non so chi sia stato, come e quando. Mi
racconteranno anche che i miei riceveranno una telefonata, per sentirsi
chiedere se acconsentono a questa mia “tosatura”. Figuriamoci, una chiamata
dalla sala rianimazione, mentre non si sa se ne uscirò vivo o morto: papà e
mamma rischieranno un infarto. Nel frattempo io non ci sono: settimane di
nulla, a galleggiare tra sogni ed incubi, vita e non vita. Nella mia mente
l’ospedale è montato sopra una chiatta
che attraversa lo Stretto, da Messina a Reggio Calabria, e viceversa. In
continuazione. Non si sa per quale motivo. Ci sono sopra le attrezzature
sanitarie, i letti, i dottori, gli infermieri; ma anche grandi videogiochi,
tipo quelli di una volta, per i figli dei degenti. E’ come una stramba via di
mezzo tra una nave ospedale ed una nave da crociera. Ogni tanto colgo delle
figure reali, infermiere o infermieri, che si trasfigurano nel mio dormire in
personaggi diversi, che popolano questo mondo a parte, che esiste solo nella
mia testa, e che non posso controllare.
Il mio amico Roberto mi fa ascoltare musica in cuffia, ma io
non sento niente. Non ci sono proprio. Ho chiuso con tutto e con tutti. Ad un certo punto, come verrò a sapere in
seguito, lui, che mi è sempre accanto, chiederà agli amici stretti e agli ex
compagni di liceo di pregare tutti insieme per me: ho raggiunto una fase
critica, sono sopravvenuti altri problemi, compresa una febbre altissima. Me ne
sto andando. Si sparge la voce, telefonate, Facebook. Tutti pregano. Io sono in
un altro mondo, eppure il mio corpo vuole proprio rimanere in questo, non vuole
saperne di lasciarlo. E’ un miracolo. Un vero, autentico miracolo.
Non fu un miracolo, invece, se Phil Collins riuscì ad
entrare nei Genesis: Peter Gabriel capì che Phil era bravo non appena vide come
si sedette sul seggiolino della batteria. Leggeva di continuo che quessti
Genesis, nonostante avessero pubblicato due dischi dalle vendite piuttosto
modeste (“From Genesis To Revelation” e, soprattutto, “Trespass”), suonavano da
tutte le parti. Cosa che non riusciva alla sua band. Dunque teneva molto ad
entrare nella band, e si recò alla casa dei genitori di Peter Gabriel, dove si
tenevano le audizioni per tutti gli aspiranti batteristi, insieme al suo amico
Ronnie Caryl, che sperava di essere preso come chitarrista. Mentre aspettava il
suo turno, gli venne offerto di fare un bagno in piscina: e così, sguazzando in
acqua, Phil Collins, a 19 anni, nell’estate del 1970, ebbe modo di ascoltare
sia i brani che gli altri batteristi, capendo al volo cosa volevano i Genesis,
quello che avrebbe dovuto fare, e quello che avrebbe dovuto evitare, quando
sarebbe toccato a lui. Al ritorno a casa il suo amico Ronnie si disse convinto
che avrebbe ottenuto lui il posto, al contrario di Phil. E invece le cose
andarono esattamente al contrario. E quando i Genesis gli telefonarono a casa,
per comunicargli che il posto era suo, fu contento al punto da abbracciare sua
madre! Il gruppo aveva già avuto tre batteristi, prima di lui: Chris Stewart
(sul singolo “The Silent Sun”, John Silver (sul disco d’esordio, registrato
durante le vacanze estive del 1968, quando andavano ancora tutti a scuola) e
John Mahyew (su Trespass). I Genesis erano nati proprio dalla fusione di due
gruppi scolastici, gli Anon e i Garden Wall. Ma le severe regole della
Charterhouse, riservata ai figli delle famiglie più facoltose, li aveva resi
ragazzi piuttosto chiusi ed infelici. Solo la musica era in grado di dar loro
entusiasmo e di salvarli da quell’ambiente tanto austero (quella scuola
somigliava ad una cattedrale gotica, e i familiari erano lontani) quanto
avvilente (suonare la chitarra elettrica sarebbe stato considerato più o meno
un atto rivoluzionario e anti-sistema). Phil Collins invece portò nel gruppo
quella ventata di allegria e spensieratezza che erano necessarie. Oltre,
naturalmente, ad un sound molto più professionale, che trasformò la band dalle
fondamenta, rispetto ai suoi pur volenterosi predecessori.
E così fu con lui che i Genesis intrapresero il tour di
“Trespass”, il 2 ottobre 1970, nonostante non avessero ancora trovato qualcuno
che sostituisse Anthony Phillips alla chitarra. Ant era un elemento
importantissimo per la band, al punto che si pensò seriamente allo
scioglimento, quando, subito dopo la registrazione del secondo LP, Phillips annunciò
agli altri che avrebbe mollato tutto. Era lui, alla 12 corde, l’elegante
tessitore delle delicate trame chitarristiche arpeggiate, tanto caratteristiche
nei i Genesis dei primi tempi. Affiancava la sua voce a quella di Gabriel, e
poteva anche scatenarsi con l’elettrica in un brano come “The Knife”, che
chiudeva sia “Trespass” che i concerti dal vivo. Nonostante non avrebbe poi
partecipato alla registrazione del successivo “Nursery Cryme”, persino
l’immortale “The Musical Box” era in buona parte farina del suo sacco. Alla
fine comunque il gruppo decise di proseguire in quartetto: Peter Gabriel, Tony
Banks, Mike Rutherford e Phil Collins. Tony simulava le parti di chitarra
applicando un distorsore alle tastiere. L’amico di Phil, Ronnie Caryl, riuscì a
fare con loro qualche concerto. E per un paio di mesi il loro chitarrista fu
Mick Barnard, che comparve con loro anche in TV (filmato purtroppo andato
perduto), durante l’esecuzione di “The Knife”. Ma tutti sapevano che era una
soluzione provvisoria e, a seguito di un annuncio di Steve Hackett sul Melody
Maker, andarono ad ascoltarlo a casa sua, accompagnato dal fratello John al
flauto: capirono subito che quello era il chitarrista che giusto per loro,
abile sia nelle parti “bucoliche”, alla chitarra classica, che in quelle
aggressive, alla chitarra elettrica, strumento dal quale riusciva a tirare
fuori suoni particolarissimi, utilizzando con gusto vari effetti a pedale, senza
cercare mai di stupire con “assolo” alla velocità della luce: cosa che loro non
avrebbero gradito affatto. Così, quando Steve andò a vedere i Genesis al
Lyceum, proprio alla fine del 1970, con Mick Barnard alla chitarra, sapeva già
di essere il loro nuovo chitarrista. Per il nuovo album,“Nursery Cryme”(1971),
ai due nuovi arrivati, Phil e Steve, fu concesso di inserire un loro brano,
intitolato “For Absent Friends”. Quello era anche il primo pezzo cantato da
Phil Collins invece che da Peter Gabriel. Un altro sarebbe stato “More Fool
Me”, incluso su “Selling England By The Pound”, del 1973 (pezzo che avrebbe
visto Collins al microfono anche durante il relativo tour). Si trattava
comunque di due canzoni molto brevi e quiete: nulla avrebbe lasciato presagire
che un giorno Phil Collins sarebbe diventato il cantante dei Genesis (dopo che
anche Peter Gabriel, nel 1975, avrebbe lasciato la band).
Personalmente li ho visti a Nizza nel 1992: ricordo che prima
del concerto la folla aveva accolto con un gran boato un video del Gabriel
solista, ed ho sentito un giovane chiedere alla sua ragazza il perché di quella
reazione entusiastica: non sapeva che Peter Gabriel era stato il cantante dei
(migliori) Genesis prima di Phil Collins! E probabilmente sono ancora in tanti a non saperlo. Per l’assolo di “The
Musical Box” Hackett (che avrebbe lasciato a sua volta nel 1977) utilizzò
qualche parte che era di Mick Barnard. Ed utilizzò la tecnica del “tapping”,
diversi anni prima di Eddie Van Halen. All’inizio del 1971 i Genesis partirono
con la nuova formazione (poi divenuta quella “classica”) in un tour insieme ai
Van Der Graaf Generator e agli Audience, tutti facenti parte dell’etichetta
“Charisma”. Sul tour bus, come ama rammentare scherzando Peter Hammill ( leader
dei Van Der Graaf), ai primi posti erano seduti i Genesis coi loro cestini da
pic-nic, al centro gli Audience con le birre, e in fondo gli stessi VdGG con le
droghe (!). Fatto sta che in quel momento erano questi ultimi il gruppo di
maggior richiamo. Fino a quando, concerto dopo concerto, furono i Genesis a
conquistarsi sul campo (anzi, sul palco) il titolo di attrazione principale.
Semplicemente perché era diventato impossibile fare meglio di loro. All’inizio
del 1972 filmarono mezz’ora di musica dal vivo alla TV belga, consegnandoci il
documento (peraltro di buona qualità, e a colori) più “datato” che sia
possibile reperire. Esistono in realtà altri due brani ripresi ad un festival
del 1970, ancora con Phillips e Mayhew in formazione: ma è un filmato senza
sonoro, con l’audio dei pezzi in questione (“Looking For Someone” e “The
Knife”) sovrapposti in un secondo tempo (e non provenienti da quel concerto).
Altri documenti (solo audio) dei Genesis del 1970, riemersi dall’oblio dopo
decenni, sono sia i “Jackson Tapes”, che le registrazioni effettuate alla
trasmissione radiofonica “Nightride”, rispettivamente del gennaio e del
febbraio 1970, entrambi per la BBC. I primi risalgono più precisamente al 9
gennaio: cioè alla stessa sera che vedeva i Led Zeppelin filmati in concerto
alla Royal Albert Hall, da un’altra parte di Londra, il giorno del
ventiseiesimo compleanno di Jimmy Page, che dietro le quinte, avrebbe
conosciuto la sua futura moglie. Per inciso, il film in questione, ritenuto
troppo scuro nelle immagini, rimase nel cassetto, per essere finalmente
pubblicato nel doppio dvd antologico del 2003, con un fantastico suono stereo.
Le registrazioni dei Genesis di quel giorno, recuperate miracolosamente in
tempi recenti, risultano interessantissime, per quanto brevi: si possono
ascoltare infatti i Genesis, ancora senza Collins e Hackett, suonare non solo
spezzoni di “Looking For Someone” (poi su “Trespass”, 1970), ma anche di “The
Fountain Of Salmacis”, “The Musical Box” (entrambe su “Nursery Cryme, 1971) e
addirittura di “Anyway” (in seguito su “The Lamb Lies Down On Broadway”, l’ultimo
disco con Peter ancora nella band, 1974). I Genesis dei primi anni ebbero più
successo in Italia che in Patria: così vennero in tour nel nostro Paese nell’aprile
e nell’agosto del 1972. All’inizio con un semplice furgone, in seguito con una
strumentazione sempre più “ingombrante”, man mano che i loro dischi
(soprattutto da “Foxtrot” in poi) cominciavano a vendere. Suonarono anche con
gli Osanna, e forse i costumi di scena ed i volti truccati del gruppo
partenopeo ispirarono Gabriel per i suoi successivi travestimenti.
Tornarono per il “Charisma Festival” nel gennaio del 1973, e
ancora per il tour di “Selling England”, nel 1974; quindi per quello di “The Lamb”
con l’unica data di Torino, nel 1975. Quindi il ritorno (naturalmente senza
Gabriel) solo nel 1982 (tour in cui tornò in scaletta “Supper’s Ready”, per
festeggiare i 10 anni dell’epica suite) e nel 1987 (anno nel quale io vidi
Peter Gabriel a Roma). Saltò invece la data del 1992 a Torino, spostata a
Nizza, dove, come detto, ebbi modo di vederli. Essendo Phil Collins divenuto il
vocalist della band, già dalla metà degli anni ’70 si era resa necessaria la
presenza di un secondo batterista: prima Bill Bruford (ex Yes e King Crimson),
per la tournèe di “A Trick Of The Tail”. Quindi Chester Thompson, dal 1977 in
poi. Alla chitarra (ma anche al basso) il sostituto di Steve Hackett divenne
invece Daryl Stuermer (americano come Thompson), che esordì con loro in
occasione del tour di “And Then There Are Three”, nel 1978. Con questo
quintetto i Genesis si esibirono in tour fino al 1992.
E, dopo 15 anni di “stop”, tornarono in pista nel 2007, per
una serie di concerti in Europa e negli Stati Uniti. Il dvd del concerto
gratuito al Circo Massimo di Roma (di fronte a mezzo milione di persone)
avrebbe documentato questa reunion. Si era in effetti parlato di tornare “on
stage” con Peter Gabriel, ma la cosa non andò in porto. Un vero peccato che
Peter non abbia pensato di tornare coi suoi vecchi compagni almeno per il bis
finale di Roma: il pezzo sarebbe stato “The Carpet Crawlers”, e sentirglielo
cantare (anche sul dvd) ancora una volta coi Genesis sarebbe stato molto
emozionante. Invece, a conti fatti, l’unica volta di Peter Gabriel di nuovo coi
Genesis, per un concerto intero, e con Steve Hackett nel bis, sarebbe rimasto
quello dell’ottobre 1982 a Milton Keynes, in Inghilterra, sotto la pioggia, con
“Back In New York City” come brano d’apertura, e la versione ridotta di “The
Knife” come magnifica chiusura.
Nel 1975 alcuni membri dei Genesis ascoltarono in macchina
il pezzo nuovo di un gruppo che non riconobbero subito: erano i Led Zeppelin,
ed il brano in questione era “Kashmir”. Phil Collins impazzì per il suono
massiccio e l’incedere imponente di quella batteria, e provò a fare qualcosa
del genere in una canzone che stavano provando per il primo disco dell’era
post-Gabriel: Squonk. Il pezzo si rivelò perfetto anche per l’inizio dei
concerti del 1977, e dunque del doppio disco dal vivo intitolato pubblicato
quell’anno, intitolato “Seconds Out”. Fu questo il disco che mi introdusse al
mondo dei Genesis, quando ero ancora adolescente. Nel 1988 telefonai ad Armando
Gallo, autore della foto di copertina di quel disco (nonché amico personale dei
Genesis fin dai primi anni ’70), parlai con lui e mi feci spedire una copia del
suo (ormai quasi mitico) libro a loro dedicato. Gli chiesi un autografo suo per
me e per i Malibran, il mio gruppo, che all’epoca muoveva i suoi primi passi.
Fu una vera fortuna riuscire a “beccare” Armando nella sua casa romana, dal momento
che viveva (e vive) anche a Los Angeles, e che stava partendo (sempre in
qualità di fotografo) per l’Australia con gli INXS, band di successo negli anni
’80. Un altro importante “riferimento Genesis” per l’Italia sarebbe poi
divenuto Mario Giammetti: sulla prima pagina di un numero della sua fanzine
“Dusk”, mentre io mi trovavo in condizioni ancora critiche all’ospedale, volle
gentilmente rivolgermi un saluto, definendomi
“musicista raffinato”, “leader dei Malibran”, e aggiungendo che “tutto
il mondo del Prog” mi aspettava “a braccia aperte”. Davvero un bell’attestato
di stima, fortunatamente non isolato.
Nel 1975, in macchina, i Genesis non avevano riconosciuto i
Led Zeppelin, perché questi, nel frattempo, erano cambiati un bel po’. Con il
nome di “New Yardbirds” nel 1968 avevano intrapreso un tour in Scandinavia, che
si era rivelato utilissimo per mettere a punto i brani per il disco d’esordio
sotto la nuova denominazione. Degli Yardbirds rimaneva non il solo Jimmy Page,
ma anche il manager Peter Grant, ed il tour manager Richard Cole, che ai tempi delle
tournèe con la vecchia band divideva la stanza con lo stesso Page. Nel film
“The Song Remains The Same” (1976) Cole è la prima faccia che compare,
interpretando il gangster barbuto che viene fuori da una casa, seguito dalla
mole immensa di Peter Grant e da un altro tizio, tutti armati di mitra. Jimmy
pagò di tasca sua la registrazione del primo album degli Zeppelin, avvenuta in
sole trenta ore nell’ottobre del 1968, e con poche sovra-incisioni. A Robert
Plant non sembrava neanche vero di trovarsi in uno studio a registrare, e
quando ascoltò la musica in cuffie andò letteralmente in estasi.
John Paul Jones e Jimmy Page, invece, registravano già da
anni; ma fu il secondo, Page, a guidare le operazioni, sapendo perfettamente
cosa voleva ottenere, e come ottenerlo. Si occupò in prima persona anche del
fenomenale suono della batteria che sarebbe venuto fuori da quel disco (benchè
in buona parte generato dalla stessa potenza di John Bonham), tenendo i
microfoni a distanza per “generare profondità” (come era solito asserire).
Peter Grant adorava e rispettava Jimmy. E quando Bonham ebbe a polemizzare con quest’ultimo, durante le registrazioni, sempre
a proposito della batteria, Grant intimò a “Bonzo” di fare quello che diceva
Jimmy Page, perché, in caso contrario, l’avrebbe sbattuto fuori dal gruppo (e
probabilmente anche dalla finestra). E, per inciso, nessun altro si sarebbe
potuto permettere di parlare in quel modo a John Bonham, senza rischiare di
farsi male sul serio.
Ma John fece buon viso a cattivo gioco, perché aveva capito
che quello era il gruppo giusto per combinare qualcosa di veramente grande (e
per questo aveva rinunciato a possibili lavori con gente del calibro di Chris
Farlowe e Joe Cocker). Lo stesso John Paul Jones ebbe a dire che di lì a poco
avrebbe fatto un sacco di soldi: e infatti, in poco tempo guadagnò due milioni
di sterline. Gli Zeppelin, dopo la Scandinavia, fecero ancora qualche data in
patria come “New Yardbirds”. Quando infine esordirono con il nuovo nome “Led
Zeppelin” (in un primo tempo scritto “Lead Zeppelin”, da un’idea di Keith Moon,
il batterista degli Who, che intendeva formare un “super-gruppo” con membri
degli stessi Who e dei futuri Zeppelin), la scritta “ex Yardbirds” era comunque
scritta più grande sull’insegna del locale dove si sarebbero esibiti (!). Non
mancarono nemmeno l’immancabile passaggio al ben noto “Marquee Club”. Ma la
mente di Grant e Page era già rivolta agli States, e, ottenuto un
vantaggiosissimo contratto con l’Atlantic Records, proprio nei giorni di Natale
volarono in America, per l’unica volta senza Peter Grant, ma accolti
all’aereoporto da Richard Cole. Quello con gli USA fu amore a prima vista:
all’inizio il nome del gruppo compariva anche storpiato, sulla facciata dei
club dove avrebbero suonato. Ma poco dopo i ragazzi impazzirono sia per il
disco appena uscito, sia per le loro performances dal vivo. Jones raccontò di
essersi reso conto dell’effetto che avevano sul pubblico quando notò che
c’erano giovani che battevano addirittura la testa contro il palco, mentre loro
ci davano dentro. Steve Tyler, in seguito cantante degli Aereosmith, racconta
di aver pianto dopo aver visto gli Zeppelin in azione per la prima volta. E di
aver pianto di nuovo quando vide la sua ragazza uscire dalla stanza di Jimmy
Page!
Mentre a Plant e a Bonham non sembrava vero di essere in
America, Jimmy camminava impettito, sicuro di sé, già star degli Yardbirds
anche a quelle latitudini. Ma il gruppo stava comunque bene insieme: era sempre
unito, non solo sul palco, ma anche nei locali dove andavano a mangiare. Al
contrario di quanto si potrebbe pensare, le due “coppie” interne alla band non
erano erano Page e Plant da un lato e la sezione ritmica dall’altro, bensì i
ragazzi delle “Midlands” da una parte (Plant e Bonham), e i più esperti
“meridionali” di Londra (Page e Jones) dall’altra, con conseguenti, affettuose,
prese in giro reciproche. Robert e “Bonzo” litigavano spesso, ma solo per
stupidaggini, proprio come fratelli. E si intendevano a meraviglia, anche senza
parlare, cosa che non sarebbero stati capaci di fare con gli altri. L’intesa
perfetta tra tutti e quattro era soprattutto quella che avveniva sul palco: un’alchimia
magica, che li portava ad andare nella stessa direzione e a fare le stesse
cose, gli stessi stacchi, anche senza aver mai provato prima quelle cose. Fu così
che le versioni live dei brani assunsero una vita propria, con versioni diverse
(e molto dilatate) rispetto a quelle incise su nastro. Il secondo disco, intitolato
semplicemente “Led Zeppelin II”(solo con “The House Of The Holy”, registrato
nel ’72 ed uscito nel ’73, si sarebbero decisi a pubblicare un LP con un vero
titolo) fu praticamente registrato in vari studi sparsi qua e là, mentre erano
in tour negli USA.“Hearthbreaker”, addirittura, venne registrato in una sala,
mentre l’assolo di Page, in esso contenuto, fu inciso altrove (e infatti il
suono è diverso). Plant compose il suo finalmente il suo primo pezzo per la
band (“Thank You”), anche se a farla da padrone sarebbe stato il micidiale riff
di apertura: quello di “Whole Lotta Love”, divenuto ben presto uno dei brani
Hard Rock più famosi della storia: Jimmy Page l’avrebbe suonato anche in
occasione della cerimonia di chiusura dei giochi olimpici di Pechino, nel 2008,
con il “passaggio di testimone” per quelli di Londra del 2012, a rappresentare
lo stesso Regno Unito! Per il terzo
disco (“Led Zeppelin III”) la band decise di cambiare registro: si trasferì con
famiglia, tecnici e strumenti a Bron-Yr-Aur, una tranquilla dimora in una zona
sperduta del Galles, e con le chitarre acustiche cominciò a comporre brani più
tranquilli, di matrice decisamente folk. Pezzi di questo tipo erano in realtà
presenti anche sugli album precedenti: solo che questa volta occupavano una
buona metà del lavoro! Ciò nonostante, il disco che fu poi dato alle stampe si
apriva con “Immigrant Song”, uno dei brani più devastanti della discografia
Zeppelin, utilizzato anche come apertura dei concerti del periodo ’71-’72.
Erano presenti anche
altri brani “elettrici”, quali “Celebration Day” e “Out On The Tiles” (il cui
inizio si rivelò poi utile come apertura delle versioni live di “Black Dog”. E
c’era anche il lento, straziante, epico blues “bianco” intitolato “Since I’ve
Been Loving You”: catturato praticamente dal vivo, non si preoccupava di
nascondere qualche pecca (una nota dei bass pedals di Jones sbagliata, la
cinghia della cassa di Bonham che si sente distintamente), in favore di una
spontaneità e di un’enfasi fuori dal comune: la voce di Plant comincia sui toni
bassi, per lanciarsi verso la fine in acuti da paura; l’organo di John Paul
(niente basso elettrico su questo pezzo) è straordinario; ogni colpo di cassa o
rullante di “Bonzo” suona come una sentenza, possente, implacabile; Page
alterna arpeggi e contrappunti delicatissimi ad un assolo sfrenato, a velocità
forsennata, eppure emozionante nota per nota: il semplice (si fa per dire)
controllo delle dinamiche da parte di tutta la band, per un risultato
strepitoso. Anche “Bron-Yr Aur Stomp” era nato come brano elettrico (questa
versione è ufficialmente inedita, ma reperibile), per essere poi trasformato in
un incalzante “stomp” (appunto) acustico, utile anche per i concerti. Pure
“That’s The Way” (durante la registrazione della quale pare che Jimmy abbia
concepito la figlia) e “Tangerine” erano contraddistinti dalle chitarre
acustiche. E così l’ultimo brano (solo chitarra con “bottleneck” e voce con
effetto “tremolo”), dedicato già dal titolo al cantautore Roy Harper.
Quest’ultimo si era esibito ad Hyde Park con i Jethro Tull e i Pink Floyd il 29
giugno 1968 (lo stesso giorno in cui usciva il secondo LP di questi ultimi, “A
Saucerful Of Secrets”, con David Gilmour al posto di Syd Barrett). Roy avrebbe
anche cantato “Have A Cigar” su “Wish You Were Here” (1975), e avrebbe suonato
con Page nel 1984, sia su disco che dal vivo. Un personaggio molto stimato
nell’ambiente dei musicisti. Naturalmente, in ogni caso, la vera “pietra miliare”
della discografia Zeppelin sarebbe venuta fuori come per magia solo sul
successivo quarto album (di fatto senza titolo): piazzata spesso al primo posto
nei sondaggi riguardanti le canzoni più belle del Rock di tutti i tempi,
“Stairway To Heaven” si staglia imperiosa tra gli altri brani (comunque
eccellenti): anche qui, un grande lavoro di dinamiche, dall’inizio quieto e
celtico, con il delicato, evocativo (e conosciutissimo) arpeggio di Page, il
mellotron di Jones (a simulare i flauti) e la voce morbida di Plant, fino
all’esplosione dell’assolo di chitarra (una Fender Telecaster sul disco, la
mitica “doppio manico” dal vivo), fino alla conclusione, con la parossistica
linea vocale di Robert, che torna soffice solo sull’ultimissima frase, che suggella
il brano proprio con quello che è il suo titolo: “And she’s buying a stairway
to heaven”.
Fu proprio nel 1971 (il 5 luglio) che gli Zeppelin suonarono
per l’unica volta in Italia. Ma solo per 20 minuti. Al velodromo Vigorelli di
Milano era prevista infatti una delle tappe del cosiddetto “Cantagiro” (con
gruppi e cantanti che andavano appunto in giro per l’Italia, al posto dei
ciclisti), con il celebre gruppo inglese ospite della serata. Quando però Page
e soci cominciarono il loro concerto (un po’ in anticipo rispetto ai tempi
previsti), i ragazzi ancora fuori dal velodromo cominciarono a pressare per
riversarsi all’interno della struttura. E la polizia reagì sparando i gas
lacrimogeni. Plant dovette interrompere lo show e, ignaro di quanto stesse
effettivamente succedendo, sollecitò il pubblico a “smettere di accendere
fuochi”. In quel periodo i musicisti della band portavano tutti la barba, Plant
anche una tunica colorata, e Page dei vistosi pantaloni a quadri. Sarebbe stato
un bellissimo show, ma la gente, ancora prima degli incidenti, era ammassata proprio
non solo sotto il palco, ma anche attorno e dietro (come testimoniano le foto
di quel giorno). Quando il fumo dei lacrimogeni costrinse quella massa di
giovani a cercare scampo in direzione del palco, la strumentazione finì per
essere travolta, con i roadies che tentavano disperatamente di salvare il
salvabile. Gli Zeppelin provarono una volta a riprendere lo spettacolo, ma la
situazione era ormai fuori controllo, e dovettero cercare rifugio nei camerini.
In quell’occasione si erano esibiti anche i New Trolls e i Pooh (ancora con
Riccardo Fogli), ed anche questi ultimi dovettero rinchiudersi nei camerini,
senza per questo riuscire a sfuggire alle esalazioni dei gas. Robert Plant andò
via in lacrime (più per la rabbia che per i lacrimogeni), giurando “Mai più in
Italia” (come avrebbe titolato anche qualche giornale, dopo quegli sciagurati
eventi).
E purtroppo così fu. Io stesso avrei visto Page e Plant,
sempre a Milano, solo nel giugno del 1995: ma non erano più i Led Zeppelin, appunto.
Anche se suonarono quasi tutti brani del vecchio “dirigibile” (con qualche
sorpresa, come “Dancing Days”, e una “The Song Remains The Same” con tanto di
chitarra “double neck” rossa, come ai bei tempi. Gli scontri tra polizia e
pubblico (soprattutto contro quelli che reclamavano “la musica gratis”)
finirono per protrarsi per tutti gli anni ’70, con scontri in occasione del
concerto dei Jethro Tull a Bologna nel ’73, i palchi di Lou Reed e Santana dati
alle fiamme (rispettivamente nel 1975 e nel 1977), più i “processi politici” a
Francesco De Gregori ed Antonello Venditti. I manager italiani (soprattutto
Zard, Mamone e Sanavio), che portavano in Italia i grossi gruppi stranieri,
venivano accusati di arricchirsi a spese dei giovani. Soprattutto, si
pretendeva che la musica fosse “di
tutti”, e che non si dovesse pagare per ascoltarla. Gianni Nocenzi (del Banco
Del Mutuo Soccorso) si disse d’accordo, a patto che fosse il pubblico ad
onorare le cambiali per gli strumenti acquistati. I Gentle Giant cercarono di
far capire che, tolte le spese, anche i musicisti dovevano poter mangiare. La
PFM subì un’aggressione, con Franco Mussida pronto a fronteggiare i più
esagitati stringendo la chitarra per il manico, come fosse una clava. Franz Di
Cioccio, il batterista della stessa “Premiata” (come veniva chiamato all’epoca il
gruppo) la mise sul ridere: chiamò sul palco uno dei contestatori, gli consegnò le bacchette e gli disse: “Ah,
la musica è di tutti? E allora suona tu”. Il risultato di tutto questo
trambusto fu comunque che l’Italia venne praticamente cancellata dai tour di
tutti i grandi gruppi inglesi ed americani. I Van Der Graaf Generator,
riformatisi nel ’75 (dopo lo scioglimento del ’72) si fecero vedere solo perché
riuscirono ad esibirsi sulla riviera romagnola, in un clima di vacanze ed
ombrelloni. Ma quando suonarono a Roma, nel dicembre del 1975, subirono il
furto del furgone con tutti gli strumenti dentro, e, nonostante fossero
riusciti a recuperare un po’ tutto, se ne tornarono a casa; sarebbero dovuti
venire a suonare anche a Catania, ma, dopo i fatti di Roma, ma tutte le date
rimanenti di quel mese vennero cancellate. E così il sottoscritto li avrebbe visti solo
30 anni dopo, nel 2005, a Roma e a Taormina. Di fatto il nostro Paese perse
l’occasione di vedere i gruppi più grandi della storia del Rock proprio nel
momento del loro massimo fulgore. I Genesis ed i Jethro Tull si sarebbero
rifatti vivi solo nel 1982, quando le acque si furono calmate.
Esco dal coma. Almeno in parte. Nella sala rianimazione mi
trovo in una stanza a parte, rispetto agli altri degenti. Un po’ perché sono il
più grave, ma forse anche perché sono il più giovane. Intorno a me, solo
respiri nel silenzio. Ho l’impressione di essere circondato da malati in fase
terminale. Da moribondi. Senza realizzare bene che anche io sono uno di loro.
Quando ho bisogno di qualcosa, è un grosso problema, perché non si vede nessuno.
Per lo meno, non dal mio letto. E neanche riesco a pronunciare una parola, ad
emettere un suono, per richiamare l’attenzione di qualcuno: ho avuto un tubo in
gola per respirare (anche se questo è un particolare che non ricordo per
niente), e dunque ho perso la voce. Per farmi notare posso solo sollevare un
braccio, se intravedo un qualunque essere deambulante. Mi piacerebbe avere
qualcosa da sbattere, per farmi sentire, ma non ho niente di niente. E sono
quasi del tutto immobile. Non riesco neanche a tirarmi su le lenzuola, quando
sento freddo per via dell’aria condizionata; il mio sogno sarebbe riuscire a
girarmi su un fianco, ma mi sento come un bambolotto inchiodato, avvitato
contro il letto: posso stare solo a pancia in su. Riesco a farmi capire un po’
solo con il labiale. Ma certi giorni c’è un’infermiera che non capisce nulla di
quel che cerco di esprimere. A parte il fatto che uno in quelle condizioni non
potrebbe che chiedere le solite cose (“un po’ d’acqua”, o cose del genere), lei
segue il mio labiale, e ripete cose surreali: magari che ho la necessità
urgente di andare sulla luna a cavallo di un ornitorinco. In rianimazione di
solito viene a trovarmi papà: può farlo una sola volta al giorno, con camice e
cuffia verdi, sempre sorridente. Anche se fuori piangono tutti. Mamma spesso deve
rimanere fuori, e può solo guardarmi da una finestrella. Quando mi vede per la
prima volta con il cranio rasato, le ricordo mio fratello Alessio. Di frequente
viene anche mio zio Carlo (il fratello più piccolo di mio padre), direttamente da
Bronte: tutto quel viaggio, solo per guardarmi da quella stupida finestrella.
E’ stato lui, quando era un capellone barbuto (ed io un
ragazzino) a farmi conoscere i Doors e i Jethro Tull, e ad insegnarmi i primi
accordi di chitarra. Se sono alla finestra, io do loro le spalle, e per
permettermi almeno di salutarli, papà deve mettermi davanti un piccolo
specchio. E’ così che scopro di avere i capelli rasati a zero, e di avere
l’aspetto di un detenuto in un campo di concentramento della Seconda Guerra
Mondiale. Qualche volta entrano anche mamma, Alessio e lo zio. Ad Alessio
chiedo di portarmi un libro che è a casa, nella mia stanza: ma scopro presto di
non essere in grado di sfogliare le pagine. Neanche una. Ed è sempre ad Alessio (architetto, nonché
batterista dei Malibran dal 1988) che tutti telefonano per avere mie notizie.
Mentre sono in cattive condizioni, lui si avvilisce non meno dei miei: si
trascura, dimagrisce (ed è sempre stato in palestra a fare “body building”), si
lascia crescere la barba. Un infermiere napoletano, Luigi, mi aiuta moltissimo.
Stranamente, quando sono in quell’altro mondo, sogno lui che mi fa la doccia
spruzzandomi addosso acqua gelata con un tubo di gomma, mentre io mi rannicchio
completamente nudo sopra una roccia, sperando che giunga presto il momento di
essere avvolto in un morbido accappatoio (!?). Un altro aiuto mi viene
amorevolmente offerto da Fiammetta: in realtà lei si occupa dei bambini, in un
altro reparto. Ma suo marito, medico e chitarrista del gruppo “Metatrone”, mi
conosce. E quando lei gli parla di me, lui fa: “Ah, Peppe dei Malibran!”. Così
passa a trovarmi spesso, mi parla, e qualche volta mi porta pure il gelato. In
seguito ci risentiremo su Facebook, quando sarò finalmente a casa (ebbene si:
sono sopravvissuto): io non ero neanche certo se me la ero sognata, Fiammetta, oppure
no; e invece lei mi scrive: “Ma ti ricordi tutto!”. Si rincuora, a vedermi,
tanto tempo dopo, sul pc, con un aspetto decisamente migliore. Un suo collega
dice che sono “bellissimo”!. In effetti per lei è molto frustrante prodigarsi
tanto, e poi non riuscire a salvare le vite che accudisce. Soprattutto lei, che
si occupa di bambini. Così ha quasi l’impressione di impegnarsi per niente.
Vedere che io ne sono venuto fuori, invece, sarà per lei motivo di enorme
felicità e gratificazione. Addirittura verrà a vedermi suonare (per quanto io
sia sulla sedia a rotelle), con il marito ed i colleghi della rianimazione. E
sono io a rianimare loro, dal momento che mi vedono vitale, felice e
completamente preso dalla musica. Come se non fosse successo niente (anche se
non suono certo con la scioltezza di un tempo). Durante il coma (o mentre sono
un po’ di qua e un po’ di là) la figlia del comandante-primario della
nave-ospedale è una ragazza che si chiama Federica. Io non riesco mai a
ricordarmi questo nome (non chiedetemi perché), e per riuscirci utilizzo sempre
un “escamotage”: penso a quella che immagino potrebbe essere l’etimologia
latina del nome: tradotto in italiano, “ricca di fede”. E da qui, ecco
Federica! E’ anche un tipo che mi piace, occhi blu e capelli lunghi neri. A
volte è un’amazzone a cavallo. Però scompare sempre, non si vede mai. Inoltre,
nella veste di figlia del “comandante”, è fidanzata con un giovane medico che è
a bordo. Il padre però è contrario, e i due sono sempre lontani l’uno
dall’altra, ai due lati opposti della nave. Anche queste due persone sono
reali, intraviste in un momento di veglia, accanto al mio letto, per poi
“infiltrarsi” nel film che inconsciamente sto girando nella mia testa. Alla
fine mi riportano su, in reparto, sempre al quinto piano. Alla fine mi
riportano su, in reparto, sempre al quinto piano. Sono lucido, ma praticamente
immobile. Non vedo l’ora, e dunque rifiuto l’ultima visita di fisioterapia che
stavano per farmi, perché voglio salire al più presto. Solo che mi ritrovo in
una stanza singola, con la tv che neanche funziona. Viceversa, dopo tanta
solitudine, avrei voluto tornare in una stanza (magari la stessa di prima) con
almeno altre due persone, sentire qualcuno parlare. Ed avere anche dei compagni
di stanza (al di là degli infermieri) a cui poter chiedere di porgermi questo o
quello, dal momento che da solo non riesco a prendere niente. Ancora non lo so,
ma purtroppo sono uscito dal coma con una lesione al cervelletto. Di qui, a
parte lo stare a letto per un tempo lunghissimo, i tremori alle mani e
l’impossibilità di alzarmi. Papà e mamma sembrano contenti della stanza, dicono
che si vedono gli alberi dalla finestra. Ma io non sono in grado di vederli,
questi alberi, questo verde. E quando rimango solo, combino pure un guaio:
muovendo male le mani, faccio rovesciare la bottiglietta d’acqua (senza tappo)
sul ripiano che fa da comodino, accanto al letto. Ed il mio telefonino, che è
lì sopra, annega miseramente in quest’acqua. Mi basterebbe tirarlo fuori con
due dita, ma non ci riesco.
Rubrica, messaggi, tutto può andare perduto, e non riesco a
fare niente. Il campanello per chiamare gli infermieri sembra non funzionare:
non arriva nessuno, si accende solo la luce. Chiamo il solito Enzo con tutta la
voce che ho (stranamente mi viene fuori), ma la porta è chiusa, la stanza è in
un corridoio deserto, e mi metto a piangere di rabbia. Perché capisco in quel
momento che non sono autonomo, che non posso rimanere da solo. Per fortuna dopo
un po’ arriva un infermiere, che tira fuori il cellulare dall’acqua e asciuga
tutto. Era venuto per conto suo, non perché avesse sentito suonare: ero io che
non avevo individuato il pulsante giusto, abilmente nascosto alla base del
pomello coi vari tasti! Quando mamma e papà ritornano nel tardo pomeriggio,
decidono di rimanere con me una notte ciascuno, dormendo sulla poltrona
allungabile (e certo non comodissima) che è lì. Lui smonta il telefonino e,
asciugandolo a lungo con un phon, riesce insperatamente a salvarlo. All’inizio
sembra di no, ma poi riprende a funzionare. Così portano una piccola tv da
casa, e continuano a venire a trovarmi di giorno. Poi uno di loro si trattiene
anche di notte. Anche se, non avendo più il pancreas, ho ormai il diabete a
vita, mi faccio portare spesso un ghiacciolo: riscopro quello al gusto
Coca-Cola, del quale avevo dimenticato l’esistenza. Oppure mi accontento di
quello al limone. Non assaggiavo più ghiaccioli da decenni, ma è estate, e ho
bisogno di qualcosa che mi rinfreschi, e mi tiri un po’ su. Ho una tosse
violenta, e, soprattutto di notte, ho bisogno di qualcuno che mi porga un
tovagliolo di carta. In questo mio padre è sorprendente: nonostante stia
dormendo aggrovigliato su quella stupida poltrona, con un guizzo si alza e in
un secondo è già da me. La sera ci addormentiamo presto, e dunque, quando ci
svegliamo, di solito è ancora buio: accendiamo la tv e seguiamo il tg di Rai
News 24. Solo qualche volta mi sveglio con la luce del giorno, e quasi non mi
pare vero.
Nei ricordi di Ian Anderson, relativi ai primi tempi con i
Jethro Tull, c’era invece la presenza un po’ ingombrante di Mick Abrahams:
quest’ultimo era un eccellente chitarrista, ma era anche un cantante ed una “prima
donna”, che avrebbe voluto guidare la band e lasciare Anderson un po’ sullo
sfondo, durante i concerti, giusto per qualche intervento al flauto o all’armonica.
Ma fu Ian a divenire ben presto la vera figura di riferimento della band (nata
alla fine del 1967), un po’ per il suo carisma, e un po’ per quella sua bizzarra idea di inserire il flauto traverso
(strumento utilizzato solitamente in contesti Jazz o di musica classica) in un
gruppo rock-blues. Ian Anderson aveva in realtà cominciato con la chitarra, ma,
dopo aver visto Eric Clapton, si era reso conto che non sarebbe mai riuscito a
fare di meglio. Così rivolse la sua attenzione ad uno strano strumento
argentato, esposto in un negozio, e che non aveva mai visto prima. Imparò
“Serenade To A Cuckoo” (un brano strumentale del fiatista di colore Roland
Kirk) e come flautista migliorò
tantissimo in pochi mesi, utilizzando anche l’aggressiva tecnica di “cantare”
con la voce “dentro” le note che suonava, agitandosi davanti all’asta del
microfono e reggendosi su una gamba sola, tenendo l’altra sospesa a mezz’aria: uno
spettacolo nello spettacolo. I Jethro Tull esordirono disco graficamente con un
45 giri accreditato erroneamente ai “Jethro Toe”. E, fin dall’inizio del 1968,
cominciarono a farsi le ossa come band live suonando in giro per locali e club
dell’Inghilterra. Soprattutto al ben noto “Marquee” di Londra, fino a quando
non riuscirono a conquistarsi lo “status” di attrazione principale: per
questo dedicarono un pezzo in bilico tra jazz e swing al proprietario del
locale (“One For John Gee”, appunto), al quale dovettero molto, al tempo dei
loro primi passi. Durante l’estate di quello stesso anno registrarono “This
Was”, il loro primo LP (nonché l’unico con Mick Abrahams alla chitarra), un lavoro
piacevolissimo, con poche sovra-incisioni, intriso di blues e di venature
vagamente jazz, con Ian e Mick a scambiarsi i ruoli di cantanti e di solisti,
ciascuno al proprio strumento. Questo è l’unico album della band a contenere
due brani nei quali Ian Anderson non compare affatto: “Move On Alone” (cantata
da Mick) e “Cat’s Squirrell”, che lascia spazio alla chitarra distorta e
riverberata di Abrahams, con il solo supporto della sezione ritmica (Glenn
Cornick al basso e Clive Bunker alla batteria): in questo pezzo i Jethro Tull
si trasformano in una sorta di “Power Trio”, tipo i Cream, la Jimi Hendrix
Experience o i Taste. Ed il lavoro del chitarrista di Luton è comunque
pregevole e raffinato su tutto “This Was”, tra assoli eleganti sofisticati
accordi jazz-blues.
Non era questa però
la strada che la band avrebbe continuato a percorrere: Abrahams aveva ottenuto
il suo spazio, “Cat’s Squirrel” era la sua passerella personale per i concerti
dal vivo; ma il gruppo stava per cambiare direzione, affidandosi completamente
alla guida (e al flauto) di Ian Anderson. L’ultima incisione di Mick Abrahams
con la band è degli ultimissimi mesi del 1968, con il brano “Love Story”: un
singolo che, dall’altro lato (“A Christmas Song”) vede Ian Anderson impegnato
alla voce e al mandolino (strumento mai utilizzato su “This Was”), accompagnato
dai soli Clive e Glenn, oltre che da un bell’arrangiamento d’archi: una sorta
di “antipasto” dei Jethro Tull che verranno. Oltre a Tony Iommy la band proverà
anche il chitarrista dei Nice (il gruppo di Keith Emerson prima degli E.L.P.).
Ma, alla fine, opterà per il tranquillo e malleabile Martin Barre, dopo
un’audizione (con “Nothing is Easy”) della fine del 1968.
All’inizio la scelta
non sembra rappresentare un gran passo avanti rispetto all’abilità,
all’eleganza e alla sicurezza di Mick Abrahams: nella registrazione del
concerto insieme a Jimi Hendrix (Stoccolma, 9 gennaio 1969) il nuovo
chitarrista, un po’ impacciato (e ancora senza barba) non appare del tutto
convincente. Poco dopo, però, dopo il primo tour in USA, Barre acquista sempre
maggior sicurezza, e per 40 anni (!) diverrà la fidata “spalla” di Ian
Anderson. Nel 1969 sono in giro per gli States anche con i Led Zeppelin (Mick
Abrahams non amava viaggiare: altro punto a suo sfavore): esiste anche una
bella foto, coi Jethro Tull che impazzano sul palco (stavano diventando sempre
più spettacolari, anche da un punto di vista puramente “scenico”) e John Bonham
seduto dietro di loro, intento a seguire il lavoro di Clive Bunker alla batteria.
Mentre erano in tour in America, fu Joe Cocker ad annunciare loro che in Patria
erano arrivati primi in classifica con il singolo “Living In The Past”. Jethro
Tull continuarono a suonare negli States anche per tutto il 1970 (senza però
mancare all’appuntamento dell’ Isola di Wight, alla fine di agosto di
quell’anno). Quando però si concluse l’ultimo tour americano, a novembre, Ian
Anderson decise di “scaricare” Glenn Cornick: erano tutti all’aereoporto, in
procinto di tornare in Inghilterra, e Ian prese da parte Glenn, annunciandogli senza
mezzi termini che era fuori dal gruppo, e che sarebbe tornato a casa con un
altro volo. Possiamo immaginare con che stato d’animo quello che era stato fino
a quel momento il bassista dei Jethro Tull avrà fatto quel viaggio, da solo,
senza più i suoi compagni, dopo gli anni di gavetta trascorsi insieme, i
concerti, gli hotel, i viaggi e le risate insieme. Ho parlato con lui di
persona nel 2006, ma ho preferito non toccare l’argomento, perché sapevo che
Glenn Cornick non aveva ancora dimenticato. Era anche riuscito a “sfiorare” il
colpo grosso, arrivato con il successivo album “Aqualung”, perché aveva anche
registrato alcuni pezzi di quel disco, poi rifatti nel febbraio del 1971 dal
vecchio amico di Anderson, Jeffrey Hammond Hammond, che sarebbe rimasto nella
band fino al 1975. Uno dei ricordi più belli per Glenn rimase comunque il
festival gratuito di Hyde Park, come detto, insieme a Pink Floyd e Roy Haper,
il 29 giugno 1968: non avevano ancora pubblicato neanche il loro primo disco,
ma, raccogliendo consensi al Marquee ed in altri mille piccoli locali
britannici, ecco che avvenne qualcosa di inaspettato: tutti i loro fans si
raccolsero a quel festival, e quando un roadie salì sul palco, poggiando una
borsa, dal pubblico partì un boato: tutti sapevano che quella era la borsa
nella quale Ian Anderson teneva i suoi vari strumenti a fiato: e dunque era il
segnale che stavano per suonare i Jethro Tull! Gerry Conway, un batterista
amico di Clive Bunker (poi a sua volta nei Tull del periodo ’81-’82), aveva
saputo da quest’ultimo che si trattava di una band che si esibiva in piccoli
locali. Ora, vedendo tutto questo, pensò
di essere stato preso benevolmente in giro da Clive. La verità era invece che neanche quest’ultimo si sarebbe aspettato un
successo simile. Per inciso quel giorno i Jethro Tull (che stavano già registrando
il primo album) si esibirono di giorno, vestiti come nelle foto che li
ritraggono al Marquee il 3 maggio 1968, per quella che fu la loro prima data
come gruppo principale in cartellone (Ian con un giubottino corto, e Glenn con
un cappellino). Al Sanbury Jazz Festival (agosto 1968) appariranno invece con
gli stessi abiti della copertina di “This Was” (escluso il trucco da
vecchietti), con Anderson in cappottone verde e Glenn Cornick in gilet giallo e
bombetta rossa. Così come anche nel filmato del “Rolling Stones Rock And Roll Circus”,
nel dicembre di quello stesso anno, con Tony Iommi alla chitarra.
Mi riportano su, in reparto, sempre al quinto piano. Sono
lucido, ma praticamente immobile. Non vedo l’ora di lasciare la sala
rianimazione, e dunque rifiuto l’ultima visita di fisioterapia che stavano per
farmi, perché voglio salire al più presto. Purtroppo mi ritrovo in una stanza
singola, con la tv che neanche funziona. Viceversa, dopo tanta solitudine,
avrei voluto tornare in una camera grande (magari la stessa di prima), con
almeno altre due persone, sentire gente parlare, ed avere anche dei compagni di
stanza a cui poter chiedere di porgermi questo o quello, dal momento che da
solo non riesco a prendere niente. Ancora non lo so, ma purtroppo sono uscito
dal coma con una lesione al cervelletto. Di qui, a parte lo stare coricato per
un tempo lunghissimo (lo chiamano “eccessivo allettamento), i tremori alle mani
e l’impossibilità di alzarmi in piedi. Papà e mamma sembrano contenti della
stanza, dicono che si vedono gli alberi dalla finestra. Ma io, dal letto, non
sono in grado di vederli questi alberi, questo verde di cui parlano. E quando
rimango solo, combino pure un guaio: muovendo male le mani, faccio rovesciare
la bottiglietta d’acqua (senza tappo) sul ripiano che fa da comodino, accanto
al letto. Ed il mio telefonino, che è lì sopra, annega miseramente in
quest’acqua. Mi basterebbe tirarlo fuori con due dita, ma non ci riesco.
Rubrica, messaggi, tutto adesso può andare perduto. Ed io
non riesco a fare niente. Il campanello per chiamare gli infermieri sembra non
funzionare: non arriva nessuno, si accende solo la luce. Chiamo il solito Enzo
con tutta la voce che ho (stranamente mi viene fuori), ma la porta è chiusa, la
stanza è in un corridoio deserto, e mi metto a piangere di rabbia. Perché
capisco in quel preciso momento che non sono autonomo, che non posso rimanere
da solo. Per fortuna dopo un po’ arriva un infermiere, che tira fuori il
cellulare dall’acqua e asciuga tutto. Era venuto per conto suo, non perché
avesse sentito suonare: ero io che non avevo individuato il pulsante giusto,
abilmente nascosto alla base del pomello coi vari tasti! Quando mamma e papà
ritornano nel tardo pomeriggio, decidono di rimanere con me una notte ciascuno,
dormendo sulla poltrona allungabile (e certo non comodissima) che è lì. Lui smonta
il telefonino e, asciugandolo a lungo con un phon, riesce insperatamente a
salvarlo. All’inizio sembra di no, ma poi riprende a funzionare. Così portano
una piccola tv da casa, e continuano a venire a trovarmi di giorno. Poi uno di
loro si trattiene anche di notte. Anche se, non avendo più il pancreas, ho
ormai il diabete a vita, mi faccio portare spesso un ghiacciolo: riscopro
quello al gusto Coca-Cola, del quale avevo dimenticato l’esistenza. Oppure mi
accontento di quello al limone. Non assaggiavo più ghiaccioli da decenni, ma è
estate, e ho bisogno di qualcosa che mi rinfreschi, e mi tiri un po’ su. Ho una
tosse violenta, e, soprattutto di notte, ho bisogno di qualcuno che mi porga un
tovagliolo di carta. In questo mio padre è sorprendente: nonostante stia
dormendo aggrovigliato su quella stupida poltrona, con un guizzo si alza e in
un secondo è già da me. La sera ci addormentiamo presto: e dunque, quando ci
svegliamo, di solito è ancora buio: accendiamo la TV e seguiamo il tg di Rai
News 24. Solo qualche volta mi sveglio con la luce del giorno, e quasi non mi
sembra vero. Io in ogni caso io non sono in grado di utilizzare il telecomando,
non essendo in grado di premere un solo tasto! Ogni tanto viene un
fisioterapista (che si fa chiamare “Pablo”): prova a farmi almeno sedere sul
letto. Ma non ci riesco, per me è una fatica immane, tremo tutto e devo
sdraiarmi di nuovo, spossato, come se avessi appena scalato l’Himalaya!
Dopo l’ospedale Garibaldi mi sposto (in ambulanza,
naturalmente) al Centro “Villa Sofia” di Acireale. Ma non mi piace, e rimango
lì solo quattro giorni. Non funziona la TV, l’atmosfera è grigia, ed ho pure un
vicino di letto, anziano, che di tanto in tanto lancia urla fortissime: senza
motivo, così, tanto per gradire. Come speravo, vengo spostato al “Calaciura” di
Biancavilla, che è tutta un’altra cosa: sembra quasi un Hotel, le infermiere
sono attente, giovani e graziose, gli infermieri simpatici (non tutti),
l’ambiente luminoso, ed è molto più vicino casa. A Biancavilla avevo visto suonare
la PFM (Franz Di Cioccio mi aveva chiesto anche le riprese che avevo fatto da
sotto il palco) e Franco Battiato. Naturalmente non pensavo di tornarci in ambulanza e passarci
due mesi a letto, ma non ho ragione di lamentarmi. Ho solo un “vicino di letto”,
che cambia di volta in volta (prima due giovani, poi due anziani), ma mi trovo
bene con tutti. E detengo anche il
possesso del telecomando, per guardare in televisione quello che preferisco.
Praticamente tutto il giorno! Non mi va di leggere, né (udite, udite!) di
ascoltare musica con il piccolo lettore mp3. Per la fisioterapia si scende in
palestra un’ora di mattina ed un’altra di pomeriggio. Ma io sono uno scheletro
quasi immobile, e non posso fare granchè, a parte il lettino e lo “Standing”
(un affare che ti fa stare in piedi, ma immobile). A seguirmi sono di più
Daniela e Valentina. Il problema, però, è già “ab origine”: essere cioè tirato
su dal letto per il trasferimento sulla sedia a rotelle: a quel punto, quando
le ragazze mi mettono a sedere sul letto (sollevandomi la testa dal cuscino),
partono i tremori (clonìe) a tutto spiano, e sgambetto come una marionetta
impazzita (sono io stesso a definirmi così), rifilando calcioni ad ogni
sfortunato essere umano che si trovi nelle immediate vicinanze. Il tutto dura
circa un minuto, ma qualcuno deve piantarmi bene i piedi a terra, come se
volesse conficcarli nel pavimento (!). Solo allora mi calmo (naturalmente si
tratta di un riflesso non voluto), ed è possibile farmi passare sulla
carrozzina. A quel punto, anche una sola fisioterapista è in grado di prelevare
più “degenti” (età media circa 90 anni) e di accatastarli tutti nell’ascensore,
per scendere a fare fisioterapia. E di solito uno di loro, sulla sua sedia a
rotelle, viene abilmente utilizzato per tenere aperta la porta dell’ascensore,
così da fare entrare tutti! La palestra è ampia, e anche se io sono uno dei più
giovani, ecco che devo guardare signori e signore in età avanzata fare molto
meglio di me: salgono e scendono la scaletta, camminano agevolmente con il
deambulatore, o sorreggendosi alle parallele per andare più volte avanti e
indietro. Ma porca miseria! Io fatico anche a rimanere seduto sulla carrozzina,
e quando mi spostano per il lettino o lo Standing partono di nuovo le clonìe.
Non riesco neanche a chiudere le mani, che rimangono semi-aperte, tipo
artiglio. Altro che riprendere a suonare! Una volta Daniela, cercando di farmi
chiudere a forza il pugno, mi fa urlare di dolore, neanche stessero
torturandomi durante il regime di Pinochet in Cile. L’amico Ignazio mi porta in
stanza la sua chitarra acustica, ma niente: non riesco più a fare una nota. Non
un accordo completo, si badi bene: una sola, stupidissima nota. Mano destra e
sinistra non si coordinano tra loro, e sono troppo deboli. Avrei tutto in
testa, ma il corpo non mi segue. Il mio sogno, dopo aver suonato da una vita le
cose più complicate, sarebbe soltanto quello di riuscire a fare un sol
maggiore, oppure un re. Quel tempo arriverà, ma, mentre sono ricoverato a
Biancavilla (agosto e settembre 2012), è ancora troppo presto. Per inciso, una
volta mi ritrovo per caso davanti ad uno specchio, e mi atterrisco: senza più
barba, smunto, con gli occhi e le spalle che sembrano voler venire fuori. Mi
atterrisco! Meglio evitare gli specchi, al momento!
INTERVISTA DI MAURO SELIS A GIUSEPPE SCARAVILLI, APRILE 2015:
Come
prima cosa come stai dopo il grave problema fisico del 2012?
Direi
molto meglio, considerato il fatto che ho rischiato sul serio di andarmene! Ho
subito l’asportazione del pancreas, ma, soprattutto, una successiva emorragia
interna che mi ha mandato in coma per un mese, con conseguente lesione al
cervelletto. Per questo oggi sono sulla sedia a rotelle, ho tremori alle gambe
(se mi alzo in piedi) e alle mani, e non parlo più in modo scorrevole. Però
stavo molto peggio qualche tempo fa: oggi parlo meglio e riesco a camminare, se
sostenuto da qualcuno o qualcosa. Ho ricominciato a suonare, sono in grado di salire le scale di
casa (con il supporto delle ringhiere ravvicinate), mangio da solo e sono
abbastanza autonomo. I medici hanno parlato di miracolo, dunque direi che non
ho ragione di lamentarmi!
Quanto sono stati importanti i tuoi cari in questo
periodo?
Moltissimo. Venivano a trovarmi ogni giorno in
ospedale: e questo per mesi interi. Anche in sala di rianimazione, nonostante
io fossi in un altro mondo, e non sapessi nemmeno che loro fossero lì. Quando sono
“tornato”, poi, dormivano una notte ciascuno nella mia stanza d’ospedale, per
assistermi in ogni momento. Al mio ritorno a casa hanno continuato a
prodigarsi, senza lasciarmi mai solo. Mio padre è diventato in pratica anche
uno dei miei fisioterapisti, il mio barbiere ed il mio infermiere. E,
soprattutto, uno stimolo continuo ad osare di più. Pensa lui a prendere e a
prepararmi le varie medicine, giorno per giorno. A controllarmi la glicemia e a
farmi le quotidiane quattro somministrazioni di insulina (naturalmente, non
avendo più il pancreas, ho il diabete!). E’ sempre in giro per qualcosa che mi
riguarda, o per portarmi nei vari centri di fisioterapia. E pure in piscina,
per qualche tempo. Di mia madre non parliamo nemmeno. Si sa come sono le mamme
per i figli: bene, la mia di più. Tra l’altro, con me era così anche quando
stavo bene, figuriamoci adesso!
Alcune persone uscite dal coma raccontano esperienze
di percezione del mondo esterno nonostante il loro stato incosciente, a te è
capitato?
Si. Mi hanno fatto ascoltare musica in cuffia, mentre
ero in coma, e non ho sentito niente. Però in qualche momento devo aver
percepito e visualizzato le persone che mi stavano intorno, infermiere ed
infermieri. Tanto è vero che entravano nei miei sogni (non sempre piacevoli),
seppur trasfigurate in altri personaggi. Forse mi trovavo nella fase conclusiva
del coma. Fatto sta che, in seguito, ho scoperto che quelle persone erano
reali. Nel mio mondo mi trovavo su una sorta di traghetto-ospedale, che
attraversava di continuo lo Stretto di Messina, avanti e indietro. Sopra
c’erano non solo le attrezzature ospedaliere, ma anche grandi videogiochi per i
figli dei pazienti. Veramente assurdo! Il direttore dell’ospedale era anche il
comandante della nave.
Facciamo un salto a ritroso, alla tua infanzia, il tuo
sogno nel cassetto da bambino qual’era?
Facevo disegni a fumetti, e certamente mi sarebbe
piaciuto, se questo fosse diventato un giorno il mio lavoro. La passione per la
musica è arrivata dopo. Avevo anche scritto e mandato alcune mie tavole a Sergio
Bonelli (Tex, ecc.), che gentilmente aveva risposto: invitandomi però, pur
apprezzando, a non rischiare, e a pensare prima agli studi, perché il settore
era in crisi, e anche disegnatori esperti trovavano difficoltà ad inserirsi.
Così mi sono diplomato al Liceo Classico e in seguito laureato in Legge. Ma non
era questo il mio sogno nel cassetto. Sono avvocato ed ho insegnato Diritto.
Sfortunatamente, però, la mia passione era la Storia, e quella è la materia che
avrei voluto insegnare! Credo proprio che sarei stato felice, al di là del
tanto vituperato stipendio esiguo. Sono a mio agio coi ragazzi, specie se parlo
di cose che mi piacciono. Non di Diritto, dunque! E la sera avrei continuato a
suonare in giro. Ad ogni modo, oggi, senza poter più guidare, camminare e
parlare bene, sarebbe stato un bel problema in ogni caso, per quanto io possa
ancora migliorare. Ma è inutile piangere sul latte versato, giusto?
Andiamo avanti un po' di anni e sei adolescente, avevi
un desiderio predominante in quella delicata ma affascinante fase di crescita?
La passione per il disegno, della quale parlavo sopra,
si poneva a cavallo tra infanzia e adolescenza. Leggevo i fumetti, e dunque ne
volevo realizzare di miei. Poi mi ha preso l’ascolto della musica, e allo
stesso modo ho voluto anche farla. Ad un certo momento questi miei due
interessi si sono incrociati, quando ho realizzato la storia dei Led Zeppelin a
fumetti. A quel punto, però (siamo nel 1988) erano già nati i Malibran, e la
mia attenzione si era rivolta totalmente al gruppo. Oltre a comporre, cantare e
suonare diversi strumenti, ero anche un po’ il manager della band: trovavo le
serate, i contatti per fare i dischi, organizzavo le prove e andavo in giro ad
attaccare locandine per pubblicizzare i nostri concerti. Abbiamo fatto otto
dischi ufficiali (compresi due “live” ed uno di rarità varie), più un DVD
antologico, e non mi sarei mai aspettato tanto. Il tutto sempre nell’ambito del
Rock Progressivo, traendo ispirazione dai grandi gruppi degli anni ’70, ma
creando un sound che ritengo sia tutto nostro. Il secondo lavoro dei Malibran
(“Le Porte del Silenzio”) è stato definito forse il migliore del Prog italiano
anni ’90. Ed abbiamo suonato con il Banco Del Mutuo Soccorso, gli Osanna, Il
Balletto di Bronzo e tanti altri. A molti giovani questi nomi risulteranno sconosciuti,
ma per chi ama il genere, sarebbe come essere un fan degli U2, e ritrovarsi a
suonare con loro, avere Bono e The Edge
in macchina (come, nel mio caso, Francesco Di Giacomo e Vittorio Nocenzi),
cenare insieme e vedersi trattato come loro amico e collega. La nostra musica
ci ha portati a suonare anche in America, altra cosa che sarebbe stata
inimmaginabile quando abbiamo cominciato. Avremmo anche aprire il concerto
dei Jethro Tull a Palermo (nel 2003), e della PFM a Catania (nel 2004), ma entrambe
le occasioni sono sfumate all’ultimo minuto. Sempre a Catania, nel 1996, ci
siamo esibiti di fronte a ventimila persone, salendo sul palco subito prima di
Gino Paoli ed Edoardo Bennato.
Parliamo
dell’oggi, hai un sogno musicale che ti piacerebbe realizzare?
Il sogno
si è già realizzato, ed è quello di riuscire a suonare ancora, sia a casa mia che
con i Malibran. Un neurologo aveva confidato ad un amico comune che
difficilmente sarei stato più in grado di farlo: la lesione al cervelletto, che
sovraintende ai movimenti, le dita tremanti, deboli e non coordinate tra loro:
all’inizio, infatti, non riuscivo più a fare una sola nota, con la chitarra. La
suono dal 1980, e non ero più in grado di fare niente! Del resto, non riuscivo
neanche a chiudere le mani per fare il pugno. in Invece, poco alla volta, sono riuscito a suonare di nuovo. Non come
prima, certo, ma suono la chitarra acustica ed elettrica, da solo accompagnando
i dischi. Anche se non riesco più a fare arpeggi, parti soliste veloci e
accordi complessi. Con il gruppo mi è
risultato più facile suonare il basso, e così ho cambiato “ruolo”. Almeno in
concerto. Con il flauto traverso è tutto più difficile, perché è uno strumento
che si deve tenere in equilibrio, sospeso per aria, mentre chitarra e basso
offrono l’appoggio stabile del manico. Ho perso anche un bel po’ di voce, e non
sono in grado di pronunciare parole ravvicinate tra loro. Così i nuovi Malibran
sono una band solo strumentale. E del resto, ritengo che sia sempre stato questo
il nostro punto di forza, non certo la mia voce. Ho scelto e arrangiato i brani
in modo da poterli suonare senza problemi. E i risultati sono buoni, anche a
giudicare dalla reazione del pubblico ai nostri spettacoli!
Hai materiale inedito ancora a disposizione dopo il
disco - di fatto “solista” –Trasparenze del 2009?
Si, moltissimo materiale. Sette CD inediti già pronti,
in pratica, tra brani registrati in studio ma non pubblicati, live e cover.
Molto di questo materiale è reperibile sul nostro “Malibran Official Blog” e su
You Tube, insieme a tanti video, con la band in concerto o in TV. La Mellow si
sta occupando della ristampa (con mix diverso) del nostro secondo disco. Ma
conto anche di far pubblicare “Straniero”, una corposa raccolta di “rari ed
inediti”, tutti registrati bene, lungo 80 minuti. Sarebbe un peccato tenerlo
solo per me.
Hai riformato il gruppo chiamandolo “Malibran ensemble”:
puoi illustrarci in sintesi questo progetto?
Si tratta sempre dei Malibran. Ho aggiunto “ensemble”
perché ora la scaletta è tutta strumentale, come se si trattasse di un gruppo
Jazz, che invece suona Prog. Inoltre la formazione è cambiata, ed essendo
rimasto fuori il bassista “originale”, era giusto dare il segno di un nuovo
corso, anche per non avere problemi con lui, che non l’ha presa bene. Ma io,
Alessio e Jerry siamo sempre presenti, dal 1988 ad oggi, e dal 2013 si è
aggiunto Alberto alle tastiere. Siamo due coppie di fratelli!
Quali brani del Prog Internazionale e /o Italiano ti
sarebbe piaciuto comporre e per quale motivo?
Dovrei fare un elenco troppo lungo. “Starless” dei
King Crimson, “Maggio” de Le Orme, “Firth of Fifth” dei Genesis, “Man-Erg” dei
Van Der Graaf Generator, “Minstrel in the Gallery” dei Jethro Tull, “La
Conquista della Posizione Eretta” del Banco, “River Of Life” della PFM, giusto
per citare un titolo per ognuno dei miei gruppi preferiti. Il motivo per me
risiede solitamente nella bellezza della musica, mentre bado meno ai testi.
Anche ai miei! Però in questi giorni ascoltavo “Figure di Cartone” de Le Orme,
e notavo che ha un testo proprio toccante, perfetto e commovente. Mi sono reso
conto dell’importanza dei testi solo quando la PFM ha accompagnato De Andrè,
alla fine degli anni ’70. E il testo più bello della stessa PFM rimane sempre quello
di “Impressioni di Settembre”, che però è di Mogol: un vero dipinto in parole,
evocativo e descrittivo insieme. Anche
qualcuno dei miei testi mi piace, ma, ripeto, tendo a seguire più la musica. E,
da questo punto di vista, io, ascoltando un brano, “sento” la voce come uno degli
altri strumenti: devono attirarmi timbro, interpretazione e linea melodica.
Poi, se il testo è anche bello, meglio!
Se dovessi inviare tre dischi di Rock Progressive
nello Spazio per diffonderli nell’universo quali sceglieresti e perché?
Ma nello Spazio andrebbero perduti! Di solito si parla
di dischi da portarsi sull’isola deserta… Scherzi a parte, capisco cosa
intendi. Ed è un’altra domanda cui è difficile dare una risposta, per il
semplice fatto che riempirei lo Spazio di dischi! Invierei comunque i primi tre
dischi del Banco, quelli della PFM fino al 1977, più “Stati di Immaginazione”
(di 30 anni successivo). Ancora, i dischi dei Jethro Tull, dal 1968 al 1978,
live compreso. I King Crimson del primo disco e del periodo ’73-74. I Genesis
da “Trespass”(1970) fino a “A Trick of the Tale” (1976). Le Orme dal 1971 al
1977, con speciale menzione per il brano “Sera” (1975). “Forse Le Lucciole Non
si Amano Più” (1977) de La Locanda delle Fate, ed il brano “Vorrei incontrarti”
dell’Alan Sorrenti periodo “Progressive”. “Dolce Acqua” (1971) e “Viaggio negli
Arcipelaghi del Tempo” dei Delirium. I dischi anni ’70 dei Van Der Graaf, con
speciale citazione per “World Record” (1976), che me li ha fatti conoscere.
“Vemod” degli Anekdoten, coi quali abbiamo suonato nel 1994. Le cose meno
ostiche degli Area, e quasi tutti i Pink Floyd, con menzione speciale per “il
disco perfetto”, cioè “The Dark Side Of The Moon” e del brano “Echoes”. Fuori
dal Prog, molte cose dei Deep Purple anni ’70, sia con Gillan che con Coverdale.
I Led Zeppelin fino a “Presence” (1976”), i pochi dischi dei Free, i primi due
dei Black Sabbath (entrambi del 1970), più “Sabbath Bloody Sabbath” (1973). E
se mi è consentito, invierei anche una buona compilation dei Malibran!
Ti propongo un gioco, scegli una tra queste due
opzioni e se hai voglia di commentare brevemente lo puoi fare….
Mare o Montagna?
Abito in Sicilia, ma non vado mai al mare. In media ci
andavo una volta ogni estate! Non amo il caldo, né le spiagge con gli
ombrelloni. E ancora meno il viaggio per arrivarci! Non invidio chi si mette
disteso a cuocere per abbronzarsi: io soffrirei, e mi annoierei pure a morte.
Né mi piacciono le ragazze troppo abbronzate! Mio fratello (batterista dei
Malibran) è l’esatto opposto: d’estate va al mare tutti i giorni, anche da
solo! A me piaceva solo quando ero piccolo. Posso dire che sono
stati piacevoli, quanto sporadici, alcuni bagni notturni. Mi piace il mare dei
documentari e delle navi, o quello degli antichi velieri dei film. Ma, d’altra
parte, non posso dire di andare neanche in montagna! Sto bene a casa mia. Ed è
un bene, considerata la mia condizione attuale! Anche viaggiare non mi piaceva
più quando ero ancora in piena salute. E in realtà, a parte le gite
scolastiche, partivo solo per andare a suonare, o per andare a vedere i miei
gruppi preferiti (i Jethro Tull li ho visti otto volte, i Deep Purple tre
(anche nella formazione di “Made in Japan”). Ma ho fatto in tempo anche a
vedere i Pink Floyd, Page & Plant, i Genesis, Peter Gabriel nel tour di “So”
(1987), Joe Cocker e tanti altri. A pensarci bene non ho mai fatto viaggi “di
piacere”, come semplice turista.
Sole o Luna?
Direi luna, dopo quanto detto sopra! Sole soltanto se
devo suonare all’aperto, per non avere l’ansia di eventuali piogge che possano
rovinare tutto! Mi è piaciuto tanto suonare di giorno, quando è capitato. E, in
questo caso, evviva il sole!
Realtà o
Fantasia?
Per il
tipo che sono io, fantasia. Ho frequenti contatti con la realtà, e voglio
averli. Seguo anche TG e Talk Show politici. Ma di solito galleggio in un mondo
di fantasia, e queste sono solo provvisorie interruzioni.
Essere o Avere?
Sicuramente essere. Mi è sempre bastato quello che ho
avuto, mentre ho sempre cercato di alimentare spirito e cultura. Non solo
musicale. Probabilmente tutto questo non mi ha giovato, ma sono fatto così. Non ho mai avuto interesse per soldi o
macchine nuove. Magari per molti è così. Per me no.
Psiche o Soma?
Direi Psiche
Chitarra o Flauto?
Mi sento soprattutto un chitarrista. Il flauto per me
è arrivato dopo. Ho imparato entrambi gli strumenti suonando sui dischi, e
affinando l’orecchio musicale. So quale è la nota giusta, e come suona, ancora
prima di toccare il relativo tasto. Una volta, a casa di un mio zio, c’era il
rumore di un trapano, e ho detto che, a mio avviso, stava emettendo un suono in
re: ho suonato il pianoforte che era lì accanto, ed era effettivamente un re. E’
come un dono. Comunque, come flautista sono stato apprezzato moltissimo, dopo
che Giancarlo ha lasciato il gruppo: lo suonavo già a per conto mio, sui dischi
dei Jethro Tull, e così ho assimilato quel tipo di tecnica. Giancarlo invece,
avendo studiato sul serio lo strumento, aveva un suono più pulito ed
“accademico”, nonostante sul palco apparisse come una furia, coi capelli lunghi
al vento! Insieme dal vivo l’unico pezzo che suonavamo a due flauti era “Magica
Attesa”. Quando lui ed il tastierista hanno lasciato la band, nel 2001, ho
dovuto occuparmi anche del flauto, e sono migliorato nel tempo. In sala mi
piace armonizzare più flauti tra loro, approfittando della possibilità delle sovra-incisioni:
viene fuori una sorta di orchestrina di fiati, molto gradevole.
Jazz o Blues?
Blues. Anche l’Hard Rock che ascolto (o suono) ha
radici Blues. Per questo non arrivo al Metal. Nonostante un mio pezzo, “Vento d’Oriente”, è stato
definito “Prog Metal”, a me ricorda piuttosto cose tipo “Kashmir” degli
Zeppelin. Con il Jazz ho provato, e mi sono pure abbonato ad alcune rassegne,
anni fa.
Voglio essere
aperto a tutto. Ma se è Jazz puro, non contaminato, non capisco niente: riesco
solo a seguire la batteria. Avverto che i musicisti sono bravi, ma quanto ad
emozioni, più o meno non pervenute. E mi dispiace, perché vorrei godere di
tutta la musica che esiste. Mi “arriva” qualcosa di più con la musica classica,
anche perché amo il suono dell’orchestra. Ma non in dosi massicce. Mio padre
ascolta Mozart da quando sono nato, e dunque è musica per me familiare, anche
se poi non vado a comprarmi i dischi…
Cd o Vinile?
Dicono che il vinile si senta meglio, che il CD
appiattisca certe frequenze e che abbia un suono meno caldo. Sono grande
abbastanza da aver vissuto in pieno l’era del vinile (era in vinile anche il
nostro primo disco, uscito nel 1990). Ma, ormai, non ho più modo di ascoltare i
vecchi dischi, anche se sono ancora nella mia stanza: ho solo lettori CD, e dunque
non ho modo di cogliere la differenza. So che gli “audiofili” ascoltano solo
dischi in vinile. E mi fa piacere sentire che stia un po’ tornando a circolare.
Il CD, invece, sembra destinato a durare meno del previsto, rimpiazzato da
altri “supporti”. Però a me piace: Io voglio avere non solo la musica, ma anche
la copertina (che magari preparo io, se non si tratta di un originale), i
titoli, i nomi dei musicisti, sapere dove è registrato il lavoro, ecc.
Live o Studio?
Ascolto più musica live che in studio, in effetti. Amo
i concerti dei gruppi che preferisco, che siano registrazioni ufficiali o meno.
Una volta ascoltavo cassette registrate dal pubblico, di pessima qualità.
Adesso preferisco procurarmi registrazioni dal mixer, e magari migliorare io
stesso il suono, per mezzo di un programma che ho sul PC. Mi piace
personalizzare queste cose, e fare da me le copertine, mettendo le foto del
periodo, se non proprio di quella data specifica. Cerco di avere almeno un
concerto registrato dal mixer per ogni tour delle band che amo. E degli stessi
Malibran ho passato su CD circa 50 serate. L’ho fatto per me, ma qualche nostro
fan più accanito (ne ricordo uno dalla Germania) me li ha richiesti tutti,
spendendo anche un bel po’ di soldi!
Carmen Consoli o Vincenzo Bellini?
Ho frequentato Carmen Consoli per molto tempo, negli
anni ’90, prima che divenisse veramente famosa. Non posso dire lo stesso di
Vincenzo Bellini, dal momento che non ho avuto la ventura di vivere nei primi
decenni del 1800. Anche se mi sarebbe piaciuto. Ho conosciuto Carmen dopo un
nostro concerto del 1991, quando è venuta da me per congratularsi per il mio
modo di suonare la chitarra. Non era una di quelle ragazze che vanno dal
cantante perché è “carino”, e parlava con cognizione di causa. Non amava il
Prog, ma i Malibran sono stati sempre molto Rock, e così lei veniva a vedere
noi, ed io a vedere lei, quando suonava con la sua blues band (i “Moondogs”) o
accompagnata solo da un chitarrista. La prima volta sua voce mi ha sorpreso:
era intrisa di Soul e Blues (faceva cover) ed era molto potente, considerata l’età
e l’ aspetto minuto. Aveva 16 o 17 anni. Si trasferì a Roma, ma tornò delusa.
Era ancora alla ricerca di una sua vocalità. E, in effetti, la sua voce poi è
cambiata, ha trovato una “chiave”tutta sua. All’epoca, quando finivamo di
suonare, saliva pure sul palco per abbracciarci, entusiasta. Al telefono mi
diceva che stavamo per “esplodere”, ed eravamo nel periodo tra il primo ed il
secondo disco. Ma ad esplodere davvero è stata lei: l’altra volta era ospite a
“Che Tempo Che Fa”, su RAI 3: una trasmissione nella quale si esibiscono Sting,
Madonna, Robert Plant o gli U2. Naturalmente all’epoca non ci avrei creduto. Ma
era davvero molto determinata. Si andava a casa sua, tra pizze e chitarre
acustiche. Le ho prestato una VHS dei Free, che le piacevano, ma che non aveva
mai visto. E durante un suo concerto mi dedicò un loro brano (Mr Big). Ho ancora
un suo libro di Poe che mi aveva prestato, ma purtroppo ci siamo persi di vista
e non ho potuto restituirglielo. Ci siamo incontrati di nuovo solo nel 2000,
all’aeroporto di Catania, mentre noi partivamo per gli USA e lei per Bari. E in
poche altre occasioni. In anni più recenti la stavano premiando, ed era
circondata da fans e giornalisti: eppure, quando mi vide, devo dire che scansò
tutti per venire a salutarmi.
Ma anche con Vincenzo Bellini i Malibran hanno un punto
di contatto: Maria Malibran, mezzo-soprano dell’800, cantava le sue Opere. E
qualcuno dice che avesse una passione nei suoi confronti, al punto che, alla
notizia della morte di lui, si uccise a sua volta, lanciandosi follemente al
galoppo, fino a cadere malamente. Non so se sia vero, ma anche Francesco Di Giacomo,
la voce del Banco, una volta mi disse che la Malibran era morta cadendo da
cavallo, aggiungendo, con la sua ben
nota ironia tutta romanesca: “Eh, se allora ce fossero stati i taxi”…
Solista o Band?
Diciamo che sono stato anche “solista nella band”, se
parliamo di me. Infatti diversi dischi dei Malibran contengono brani composti e
suonati solo dal sottoscritto. Pezzi che spesso gli altri non avevano neanche
mai sentito, fino alla pubblicazione (!). Lo stesso “Trasparenze”, il nostro
ultimo CD ufficiale, è in realtà un mio lavoro solista, come dicevi, con alcuni
ospiti, tra i quali qualcuno dei Malibran. Ma l’etichetta ha insistito perché
uscisse a nome “Malibran”, e alla fine, dal momento che il sound era quello, e
tre su quattro di noi erano presenti (più l’ex Giancarlo al sax), ho
acconsentito. Ma avevo già composto e suonato tutto il disco, e gli altri hanno
(ottimamente) contribuito venendo in sala solo una volta, e seguendo le mie “istruzioni”.
Ricordo comunque con più piacere i tempi dei primi dischi, quando era più un
lavoro di squadra. Già con “Oltre L’Ignoto” (2001) ad essere presente in sala
con il fonico spesso c’era solo uno di noi. E indovinate chi era? Non parla
riamo poi del lavoro per la grafica per ogni disco, del quale mi sono sempre
occupato in prima persona. Magari con l’aiuto di qualche amico, me senza
nessuno della band. Peccato, perché mi sarebbe piaciuto. Oltre al nome stesso della
gruppo, inoltre, sono anche miei i titoli di tutti i nostri dischi e dei
singoli brani, oltre al loro ordine su ciascun disco. E i testi, naturalmente,
oltre che un bel po’ delle musiche. In ogni caso, ritengo che i veri talenti
dei Malibran siano Alessio alla batteria e Jerry alla chitarra solista. Soprattutto
considerato il fatto che non suonano mai, se non quando abbiamo una data in
vista! Io ho invece una maggiore visione d’insieme, una passione certamente più
maniacale, e la fortuna di essere anche compositore, polistrumentista, ed
arrangiatore.
Cinema o Televisione?
Entrambi. Andavo al cinema ogni martedì con una ex compagna
di Liceo, per non so quanti anni. Ma tutto si è bruscamente interrotto tre anni
fa, quando sono stato male. Adesso non sarei più nelle condizioni, e mi rimane
la TV. Anche per vedere quei film che altrimenti avrei visto al cinema. Per fortuna
ho un bel TV Color, nella mia stanza, collegato pure alle casse dello stereo.
E’ grande e si vede benissimo. Così non è il cinema quello che mi manca di più,
ad essere sinceri. E magari, più in là, sarò nelle condizioni di andarci di
nuovo. Forse potrei anche adesso, ma, considerati “pro” e “contro”, temo che non ne varrebbe la pena.
Pittura
o Scultura?
Direi
pittura, anche per via dei miei “trascorsi” di disegnatore. Ma dipende anche da
quale pittore e da quale scultore. In Italia abbiamo avuto artisti eccelsi in
entrambe le forme d’arte. Specie nel Rinascimento.
Romanzo o Racconto?
Ho apprezzato entrambi, ma leggevo di più prima di
stare male. Soprattutto riviste e libri attinenti alla Storia o alla musica. Mi
piacciono le biografie dei gruppi Rock con belle foto a colori. Io stesso ho
scritto il mio racconto, riguardante le mie “vicissitudini” ospedaliere. Dicono
che scrivo bene. Ma la musica è presente anche lì, e, ampliandolo, il racconto
potrebbe anche diventare un libro. Leggevo molti romanzi. Adesso non più.
Magari ricomincerò, chi può dirlo? Da piccolo ho divorato tutti quelli di
Salgari attinenti al “Ciclo
Malese”(Sandokan), e a quello del Corsaro Nero. Poi Ho letto tutti i racconti
di Poe, traducendone qualcuno a fumetti, compreso l’unico romanzo che aveva
scritto, “Le avventure di Gordon Pym”.
Lui non fece in tempo a completarlo, e a concluderlo
fu Giulio Verne, per quel che mi ricordo. Ma nel fumetto io avevo ideato un mio
finale. Ho letto molto Camilleri e Baricco. Adesso mi hanno regalato tantissimi
libri, ma non saprei da dove cominciare. Anche perché ci vedo pure meno! Colpa
del diabete?
Pasta con le sarde o Granita alla siciliana?
Appunto, si diceva del diabete! Granita, comunque. La
prendevo al bar ogni mattina, in estate, con gli amici. Ora non dovrei, ma
qualche dolce me lo concedo ancora, e ci scapperà anche la granita, con quegli
stessi amici! Ogni tanto vengono a prendermi e andiamo a prendere la pizza…