CI HA LASCIATI IMPROVVISAMENTE FRANCESCO DI GIACOMO, VOCE DEL BANCO DEL MUTUO SOCCORSO. UNA NOTIZIA CHE MI COGLIE ALLA SPROVVISTA. HO VISTO IL BANCO PIU' VOLTE DAL 1989 IN POI. E SOLO PER UN CASO AVEVO DOVUTO PERDERMELI GIA’ NEL 1988. NEL 1999 HO DIVISO IL PALCO COI MALIBRAN PRIMA DEL BANCO, CHE AVEVO INVITATO IO STESSO A SUONARE CON NOI A BELPASSO. HO AVUTO FRANCESCO IN MACCHINA, QUELLA VOLTA. E DOPO IL CONCERTO ANCHE VITTORIO NOCENZI. LORO ERANO APPENA STATI IN MESSICO, ACCOLTI COME STAR. PIU' VOLTE ABBIAMO CENATO INSIEME. AL FESTIVAL DI ANDRIA LORO SUONAVANO LA SERA DOPO DI NOI, NEL 2006. E A CITTAVOVA GLI AVEVO CONSEGNATO UNA MIA VERSIONE DEL LORO "CANTO DI PRIMAVERA". ANCHE A CALTANISSETTA, DOVE LUI AVEVA PURE RINGRAZIATO I MALIBRAN AL MICROFONO, AVEVAMO MANGIATO INSIEM,. E SCHERZANDO DICEVA: "MO’ BASTA CO' 'STO DARWIN, VOJO CANTA' "PAPAVERI E PAPERE"! GRANDE IRONIA. MI AVEVA AUTOGRAFATO ANCHE ALCUNI CD DEL BANCO MASTERIZZATI (!) E NON ORIGINALI, SENZA BATTERE CIGLIO. UNA GRANDE PERSONA. E UN POETA, SICURAMENTE. COMPARE ANCHE IN UN FILM DI FELLINI. HO SAPUTO DA LUI, 23 ANNI FA, CHE LA SOPRANO DELL'800 MARIA MALIBRAN ERA MORTA CADENDO DA CAVALLO. E PROPRIO IERI AVEVO VERIFICATO CHE ERA IL FATTO ERA VERO. MI DICEVA CHE SUO SUOCERO, ANCHE DOPO GLI IMMORTALI PRIMI DISCHI DEL BANCO, ANCORA GLI CHIEDEVA CHE MESTIERE FACESSE EFFETTIVAMENTE (?!), FINCHE' NON AVEVA VISTO CHE CON QUEI PRIMI GUADAGNI AVEVA COMPRATO CASA. AL PROG EXHIBITION DEL 2010 STAVA MALE RODOLFO MALTESE, NON LUI. E’ STATO UN INCIDENTE STRADALE, DOPO CHE AVEVA AVUTO UN MALORE, A ZAGAROLO, ALLE 18.00 DI QUESTO 21 FEBBRAIO 2014. SU "METAMORFOSI" E "LA CONQUISTA DELLA POSIZIONE ERETTA" LA SUA VOCE ARRIVAVA SOLO ALLA FINE DI PEZZI LUNGHISSIMI, MA METTEVA SEMPRE I BRIVIDI, PER LA BELLEZZA DEI TESTI E L’A CONSUETA INTENSITA' INTERPRETATIVA. LEGGO ORA CHE FABIO FAZIO HA DATO IN DIRETTALA NOTIZIA A SAN REMO, SUSCITANDO UN GRANDE APPLAUSO, CON IL PUBBLICO IN PIEDI. SARA' DIFFICILE CHE IL BANCO POSSA CONTINUARE. NON OSO NEANCHE IMMAGINARE COME STIA ORA VITTORIO. LO CHIAMAVA " A FRANCE' ". ERANO COME FRATELLI DA OLTRE 40 ANNI. RAPPRESENTAVA ANCHE L'IMMAGINE STESSA DEL BANCO. DAVVERO NON SO SE POTRANNO CONTINUARE SENZA DI LUI. NOI CI PROVEREMO.
Giuseppe Scaravilli, febbraio 2014
Circa una ventina di anni fa quando ti ho raccontato del mio amore per la
tua composizione "Il volo del gabbiano" mi hai subito accolto nel tuo
mondo e mi hai detto: dai prendi il clarinetto e suoniamolo insieme. Io ero
emozionatissimo e tu, gentile come sempre, con il tuo sorriso sereno mi hai
detto: lo suoneremo ancora. Ed è stato così, in duo, in trio, con Vicky, con
Maurizio Pizzardi, con Massimo Alviti, con gli Indaco. E poi il Banco, e i
viaggi insieme, e le risate, e le passeggiate a Città del Messico, e il
Brasile, e il Giappone, e la Musica, la Vita. Non potrò mai dimenticare tutto
quello che mi hai insegnato, come Uomo e come Musicista. Una parte della mia
vita prende il volo insieme a te, ma una parte di te rimarrà sempre qui nel mio
cuore finchè vivrò. E racconterò a tutti finchè avrò fiato della fortuna che ho
avuto nel conoscere un artista eccezionale con un istinto e una passione fuori
dal comune, ma anche un uomo straordinario, dai modi sempre gentili e cordiali,
un amico sincero e leale. Sono orgoglioso di aver condiviso questi anni con te.
Il gabbiano ora spiega le ali e vola, planando su quel mare che ama così tanto,
alla ricerca dello sbuffo d'argento della balena bianca, del suo amico Moby
Dick. Non ti dimenticherò mai Amico mio. Grazie di tutto Rudy e Buon Viaggio.
Belissime le tue parole,
Alessandro...condivido tutto. Un grande musicista ed una persona cordialissima
e sorridente. Ricorderai di quel concerto coi miei Malibran e il Banco nel 99,
prima che tu fossi nel gruppo, ne ho parlato...Io ho suonato con l'ampli-una
sorta di cassa, in verità-di Rodolfo, quella sera...Poi, per il bis di Non mi Rompete,
lui non trovava più il suo bottleneck per suonarla, ed il mio chitarrista gli
ha prestato il suo...e poi, a cena dopo il concerto, mi raccontava della
fortuna di aver potuto fare della propria passione il proprio mestiere...Già
nel 1997, prima di un concerto del Banco a Catania, avevo parlato con lui...si
era sorpreso quando lo avevo anticipato, dicendogli del loro concerto al Teato
Malibran di Venezia nel 75...Ma non pensavo mi avrebbe riconosciuto, con un
gran sorriso, quando, due anni dopo, era arrivato all'aeroporto di Catania per
il concerto insieme a Belpasso...e a cena insieme anche nel 2000, a
Caltanissetta, quando suonava i Beatles (e 2 pezzi del Banco alla fine) con
l'altrettanto compianto Francesco Di Giacomo ed un altra chitarra, tutto in
acustico...con l'acustica era ancora più bravo...e sempre cordiale e
disponibile...Mi aveva anche inviato degli auguri di Buon Natale via sms...e
ancora il suo riconoscermi, con sorriso bello e spontaneo, prima di un altro
concerto del Banco a Cittanova-Calabria-nel 2006...ed il suo bel diario di 40
anni fa, nel booklet del cd live 75 a Salerno, "Seguendo le tracce",
se ricordo tutto bene...e 40 anni dopo ci lascia. Si vedeva, nel dvd del Prog
Exhibition 2010 (ottimo il tuo lavoro) che non stava bene...ma credevo stesse
riprendendosi...e invece, sono io a dovermi ancora riprendere, dopo la
notizia...
Giuseppe Scaravilli
Ottobre 2015
GIUSEPPE
SCARAVILLI with other
bands:
XALIA / GALADRIEL / JADE & THE OTHERS
11 JUNE
99 RADIO ANTENNA 1 – ANGELI
DELLA NOTTE – ACOUSTIC SET
15 JUNE
99 SIRACUSA ( CANCELLED )
21 JUNE
99 BELPASSO, VILLA COMUNALE,
FESTA DELLA MUSICA
30 JULY
99 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
6 SEP
99 CATANIA, VILLA PACINI,
FESTA DI LIBERAZIONE
28 SEP
99 CATANIA, PARCO GIOENI,
FESTA DELL’ UNITA’ ( CANCELLED )
30 SEP
99 CATANIA, PARCO GIOENI,
FESTA DELL’ UNITA’ ( CANCELLED )
7 DEC
03 SAN GIOVANNI GALERMO,
PIAZZA
21 DEC
03 SAN GIOVANNI GALERMO,
SCUOLA QUASIMODO
12 MAR
04 CATANIA , ROCK FLY
14 APR
04 BELPASSO, THE EIGHT HORSES
PUB
30 APR
04 BELPASSO, EGO PUB
3 MAY
04 CATANIA , WAXY O ’ CONNORS
28 MAY 04
CATANIA, LA
COLLEGIATA
30 JUNE
04 BELPASSO, THE EIGHT HORSES
PUB
6 JULY
04 SAN GIOVANNI LA PUNTA , CASA LIMONI
9 JULY
04 CATANIA,
LA COLLEGIATA
25 AUG
04 BELPASSO, EGO PUB
2 OCT
04 CATANIA, PARCO GIOENI,
FESTA DELL’ UNITA’
27 OCT
04 BELPASSO, THE EIGHT
HORSES PUB
9 DEC
04 MASCALUCIA, RIGEL
29 JAN 05 MASCALUCIA, RIGEL
16 FEB O5 BELPASSO, EGO PUB ( CANCELLED )
5 APR
05 CATANIA, LA CHIAVE
13 APR 05 BELPASSO, EGO PUB ( CANCELLED )
22 APR 05 CATANIA, LA COLLEGIATA
21 MAY 05 SIGONELLA, DAYS INN
7 JUNE
05 ACIREALE, LA CAVERNA DEL MASTRO BIRRAIO (
CANCELLED )
1 SEP
05 BELPASSO, ARENA MARTOGLIO , LENNON FESTIVAL
3 SEP
05 BELPASSO, ARENA MARTOGLIO, LENNON FESTIVAL
22 JULY
07 ETNAPOLIS, LENNON
FESTIVAL
27 JULY
07 MASCALUCIA, PARTY
18 SEP
07 ACIREALE, BANBUDDHA
13 FEB
08 PALERMO, I CANDELAI (
ROCK TARGATO ITALIA )
30 APR
08 BELPASSO, THE EIGHT
HORSES PUB
4 MAY
08 CATANIA , MUSIC VILLAGE
16 MAY
08 MASCALUCIA, HAPPY FAMILY
( BLUES ON STAGE )
19 JULY
08 BELPASSO, ETNAPOLIS (
LENNON FESTIVAL )
27 JULY
08 GIARDINI NAXOS, IL
GIARDINO DI ECATE
9 AUG 08 VALVERDE, ROCK SOTTO LE STELLE ( CANCELLED )
29 AUG
08 BELPASSO, ARENA COMUNALE ( LENNON FESTIVAL )
28 SEP
08 BIANCAVILLA ( ETNA ROCK
FESTIVAL )
14 DEC
08 BRONTE ( CANCELLED )
8 APR
09 BELPASSO, THE EIGHT
HORSES PUB
13 MAY
09 BELPASSO, THE EIGHT
HORSES PUB ( + ACOUSTIC TANGERINE )
27 JAN
10 BELPASSO, THE EIGHT
HORSES PUB ( CANCELLED )
DEEP SOUTH
6 JAN
07 CATANIA ,
LED ZEPPELIN CLUB
27 JAN
07 CATANIA ,
LED ZEPPELIN CLUB
18 MAR 07 CATANIA, LED ZEPPELIN CLUB
23 MAR 07
CATANIA, LED ZEPPELIN CLUB
27 MAR 07
CATANIA, LA CHIAVE
31 MAR 07
CATANIA,
LED ZEPPELIN CLUB
14 APR
07 CATANIA ,
LED ZEPPELIN CLUB
18 APR
07 CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
19 APR 07 ADRANO,
CONTE RUGGERO PUB
28 APR 07 CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
5 MAY
07 CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
10 MAY 07
ADRANO, CONTE RUGGERO PUB
12 MAY 07
CATANIA ,
LED ZEPPELIN CLUB
19 MAY 07
CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
26 MAY 07 CATANIA , LED ZEPPELIN
CLUB
2 JUNE 07 CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
9 JUNE 07 CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
16 JUNE 07 CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
23 JUNE 07 CATANIA ,
LED ZEPPELIN CLUB
30 JUNE 07 CATENANUOVA, PIAZZA ( FESTIVAL )
20 JULY
07 CAMPOBELLO DI LICATA ( CANCELLED )
14 JULY
07 CATENANUOVA, SPAGHETTI CONNECTION
1 AUG 07 BELPASSO,
THE EIGHT HORSES PUB
3 AUG 07
CAMPOBELLO DI LICATA, MANHATTAN
23 AUG 07
CATENANUOVA, SPAGHETTI CONNECTION
31 AUG
07 ACIREALE, BORA BORA ( CANCELLED )
8 SEP
07 CATANIA, LED ZEPPELIN CLUB
12 SEP
07 ACIREALE, LA VELA
22 SEP
07 CATENANUOVA, SPAGHETTI CONNECTION
26 SEP 07
BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
6 OCT
07 CATANIA, LED
ZEPPELIN CLUB
13 OCT
07 CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
24 OCT
07 CATANIA ,
HAVANA
CLUB
30 OCT
07 CATANIA ,
HAVANA
CLUB
7 NOV
07 CATANIA ,
HAVANA
CLUB
11 NOV
07 CATANIA , LOUNGE CAFÉ ( CANCELLED )
16 NOV
07 CATANIA , LED ZEPPELIN CLUB
17 NOV
07 BRONTE, PARTY
21 NOV 07 CATANIA ,
HAVANA
CLUB
28 NOV 07
CATANIA , HAVANA CLUB ( CANCELLED )
5 DEC
07 CATANIA ,
HAVANA
CLUB ( CANCELLED )
26 JAN
08 CATANIA , HAVANA
CLUB
1 FEB
08 CATANIA, NOTORIUS
16 FEB
08 CATANIA, LED
ZEPPELIN CLUB
23 FEB
08 CATANIA, HAVANA
CLUB
1 MAR
08 CATANIA, LED
ZEPPELIN CLUB
19 MAR
08 CATANIA, VELENO ( CANCELLED )
29 MAR
08 CATANIA,
VELENO
19 APR
08 CATANIA, HAVANA
CLUB ( CANCELLED )
13 JUNE
08 CATANIA, FONDERIA
18 JUNE
08 CATANIA, BARRIQUE
( FEAT. ALFREDO LONGO )
27 JUNE
08 CATANIA,
BARRIQUE ( CANCELLED )
4 JULY
08 CATANIA, BARRIQUE
11 JULY
08 CAMPOBELLO DI
LICATA, MANHATTAN
19 JULY
08 CATANIA , LA
THUJA ( CANCELLED )
24 JULY
08 NICOLOSI, AI PINI
26 JULY
08 CATANIA, LA THUJA ( CANCELLED )
14 AUG
08 GIARDINI NAXOS,
MARA ONE
15 AUG
08 NICOLOSI, AI
PINI ( CANCELLED )
30 AUG
08 NICOLOSI, AI
PINI
11 SEP
08 ACICASTELLO, LA FUNGAIA ( CANCELLED )
11 OCT
08 CATANIA, VELENO
29 OCT
08 CATANIA, VELENO
19 NOV
08 CATANIA, VELENO
26 NOV
08 CATANIA, HAVANA
CLUB
4 DEC
08 CHAKRA LOUNGE,
CATANIA ( CANCELLED )
10 DEC
08 CATANIA, VELENO
( + INTERFERENCE )
12 DEC
08 CATANIA,
BARRIQUE
18 DEC
08 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE
25 DEC
08 CATANIA, HAVANA CLUB
7 JAN
09 CATANIA, VELENO
( CANCELLED )
14 JAN
09 CATANIA, HAVANA CLUB
15 JAN
09 CATANIA , CHAKRA LOUNGE (
CANCELLED )
22 JAN
09 CATANIA , CHAKRA LOUNGE
6 FEB
09 SOLARINO ( SR
), MEGALITHOS
12 FEB
09 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE
13 FEB
09 CATANIA, HAVANA
CLUB
14 FEB
09 CATANIA, VELENO
19 FEB
09 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE
26 FEB
09 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE
27 FEB
09 CATANIA, HAVANA CLUB
( CANCELLED )
5 MAR
09 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE
12 MAR
09 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE
13 MAR
09 CATANIA, HAVANA CLUB
19 MAR
09 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE
26 MAR
09 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE
27 MAR
09 CATANIA, HAVANA CLUB
2 APR
09
CATANIA, CHAKRA LOUNGE (
CANCELLED )
3 APR 09 CATANIA, HAVANA CLUB
9 APR
09 CATANIA, CHAKRA LOUNGE
17 APR 09 CATANIA, HAVANA CLUB
30 APR
09 CATANIA, CHAKRA LOUNGE
21 MAY
09 CATANIA,
VELENO
30 MAY
09 CATANIA,
CHAKRA LOUNGE
18 JUNE 09
NICOLOSI, AI PINI
29 JUNE
09 CATANIA,
BORA BEACH
24 JULY 09 CATANIA, CAMPI S.
FRANCESCO, PLAJA, FESTA DELLA BIRRA
26 AUG
09 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES
27 AUG
09 NICOLOSI, AI PINI
29 AUG
09 SANTA
VENERINA, ANFITEATRO, FESTA DELLA BIRRA
12 SEP
09 SANTA MARIA DI
LICODIA, PARTY
25 SEP
09 CATENANUOVA,
SPAGHETTI CONNECTION
16 OCT
09 NOTO (
CANCELLED )
24 OCT 09 CENTURIPE , SOUND MUSIC PUB
6 NOV
09 CATANIA , CHAKRA LOUNGE
13 NOV
09 CATANIA, HAVANA
CLUB
4 DEC
09 CATANIA, HAVANA CLUB
5 DEC
09 NOTO, AL VECCHIO
MOLO
25 DEC
09 CATANIA, HAVANA
CLUB
8 JAN 10 AVOLA ( CANCELLED )
29 JAN
10 CATANIA, CHAKRA
LOUNGE ( + TANGERINE )
24 FEB 10 CATANIA , PALACE HOTEL ( ITALIA’S GOT TALENT )
27 FEB 10 CATANIA, HAVANA CLUB
27 MAR 10 CATANIA, HAVANA CLUB
19 APR
10 ROMA,
TEATRO MASSIMO, ITALIA’ S GOT TALENT ( CANALE 5 )
13 MAY
10 CATANIA, LA CARTIERA
25 AUG 10 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB ( CANCELLED )
5 SEP
10 NICOLOSI,
AI PINI ( CANCELLED )
16 SEP 10
CATANIA, QUARANTA
25 SEP 10 SANTA MARIA DI LICODIA, PARTY
7 OCT
10 CATANIA, QUARANTA
14 OCT
10 CATANIA, QUARANTA
27 OCT
10 CATANIA, NO NAME
4 NOV
10 CATANIA, QUARANTA
8 DEC 10 CATANIA, NO NAME
17 DEC 10 CATANIA, CHAKRA LOUNGE
26 JAN
11 CATANIA , NO NAME
28 JAN
11 CATANIA , NO NAME
29 JAN 11 CATANIA , CHAKRA LOUNGE
2 FEB 11 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
2 MAR 11 CATANIA, NO NAME
12 MAR
11 CATANIA, KM 5
23 APR
11 CATANIA, KM 5 (
CANCELLED )
30 APR
11 CATANIA, KM 5
1 MAY
11 CATANIA, LE
CAPANNINE ( + PINO SCOTTO )
28 MAY
11 NICOLOSI, PINETA
MONTI ROSSI, MOTORADUNO “ GLI SCASELLATI
”
22 JUNE 11 CATANIA, NO NAME
9 JUL
11 SCHETTINO,
MOTORADUNO “ VULCANICI ”
13 JUL
11 BELPASSO,
THE EIGHT HORSES PUB ( CANCELLED )
13 JUL
11 NICOLOSI, TITANIC
20 JUL
11 BELPASSO,
THE EIGHT HORSES PUB
22 JUL
11 CATANIA,
TERRAZZA ULISSE ( CANCELLED )
30 JUL
11 RIPOSTO, PIAZZA
( + LUCIO DALLA, CARMEN CONSOLI – CANCELLED )
13 AUG
11 NICOLOSI, PINETA
( MAX GAZZE’ – CANCELLED )
17
AUG 11 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB ( Festa della Birra )
19 JUL
11 NOTO, CENTRO
STORICO
24 JUL
11 CATANIA, TERRAZZA ULISSE (
CANCELLED )
4 SEP 11
NICOLOSI, AI PINI
21 SEP
11 CATANIA, NO NAME
19 OCT
11 CATANIA , NO NAME
29 OCT
11 SIRACUSA , LA
FACTORY
11 NOV
11 RIPOSTO, CLAN
ONE
30 NOV
11 CATANIA, NO NAME
7 DEC
11 CATANIA, IL FARO
( + VODOO HIGHWAY & PINO SCOTTO )
10 DEC
11 RIPOSTO, CLAN ONE
18 JAN
12 CATANIA, NO NAME
19 JAN
12 CATANIA , NO NAME ( Rock Festival )
21 AUG 15 NICOLOSI, PINETA MONTI ROSSI, (REUNION)
21 AUG 15 NICOLOSI, PINETA MONTI ROSSI, (REUNION)
TANGERINE
13 MAY
09 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB ( ACOUSTIC SET + JADE & THE OTHERS )
20 JUNE
09 NICOLOSI, ROCK
PARTY ( + ROCKFELLAS )
1 JULY
09 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB ( + MALIBRAN )
1
5 JULY 09 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
5 AUG 09 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
10 DEC
09 CATANIA , IL
QUINTO
6 JAN
10 CATANIA , IL
QUINTO
13 JAN 10 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
( CANCELLED )
15 JAN
10 BELPASSO, EGO
PUB ( CANCELLED )
22 JAN
10 BELPASSO, EGO
PUB
27 JAN 10 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
29 JAN
10 CATANIA , CHAKRA LOUNGE ( +
DEEP SOUTH )
12 FEB
10 CATANIA, IL QUINTO
( CANCELLED )
17 MAR 10 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
5 MAY 10 CATANIA , LA
CARTIERA
9 MAY 10 CATANIA , CHAKRA LOUNGE
8 SETT 10 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
( CANCELLED )
29 APR
11 CATANIA,
MAGAZZINI SONORY, EMERGENCY ( CANCELLED )
JUST FOR FUN
24 SEP
10 SIGONELLA, AUTUMN FEST
24 OCT
10 SIGONELLA ,
BIKERS PARTY
30 OCT
10 RAMACCA,
AMERICAN PARTY
15 DEC
10 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB
23 DEC
10 BELPASSO, HOSTARIA PROSIT, BIKERS
PARTY
4 MAY
11 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB
29 APR
11 CATANIA, MAGAZZINI SONORY, EMERGENCY
4 MAY
11 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB
27 MAY
11 SIGONELLA, JOX
1 JUNE
11 CATANIA ,
NO NAME
15 JULY
11 NICOLOSI, AI
PINI
29 JULY
11 BELPASSO, BAR
BONANNO
28 OCT
11 SIGONELLA, AUTUMN
FEST
13 NOV
11 PATERNO’, HOUSE CLUB
13 JAN
12 GRAVINA,
ALBATROS
GIUSEPPE SCARAVILLI & OTHERS
16 JULY
82 BRONTE, PIAZZA ( IRON STREET )
16 FEB
83 BELPASSO, CLUB
DEI PROGRESSISTI ( IRON STREET )
8 MAR
85 PATERNO ’ , LICEO
CLASSICO MARIO RAPISARDI
8 MAR
86 PATERNO ’ , LICEO
CLASSICO MARIO RAPISARDI
21 AUG 86 BELPASSO, VILLA COMUNALE ( AFU JJ )
? ? 86 SANTA MARIA DI LICODIA ( AFU JJ )
21 AUG 86 BELPASSO, VILLA COMUNALE ( AFU JJ )
? ? 86 SANTA MARIA DI LICODIA ( AFU JJ )
29 AUG
88 CAPACI, PIAZZA ( BLUE IN BLUES )
10 DEC
93 GIARRE, PIAZZA (
KARAOKE, FIORELLO, ITALIA 1 )
? ? ? RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB ( LAUTARI )
? ? ? CATANIA, LA SONNAMBULA ( IGNAZIO SCHIRONE )
7 JUNE
99 BELPASSO, CENTRO
SOCIALE, JAM SESSION
1 JULY
99 BELPASSO, TEATRO
MARTOGLIO ( PENSIONATI )
7 MAY
04 ACIREALE,
MARGUTTA ( MORRIS E GLI SCIACALLI )
29 SEP
04 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB ( MORRIS E GLI SCIACALLI )
2 APR
05 CATENANUOVA,
ESCOBAR ( MORRIS E GLI SCIACALLI )
17 SEP
05 PEDARA, PIAZZA
DON BOSCO ( WORK IN PROG )
8 APR
06 CATANIA , BARRIQUE (
INTERFERENCE )
7 MAR
07 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB ( INTERFERENCE )
26 APR
07 ADRANO, CONTE
RUGGERO PUB ( WORK IN PROG )
29 SEP
07 BELPASSO, TEATRO
MARTOGLIO ( DEUDADA )
5 MAR 08
BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB ( DEUDADA )
9 AUG 08 BELPASSO, LA NUOVA QUERCIA ( DEUDADA )
10 SEP 08 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
( INTERFERENCE )
10 NOV
08 CATANIA , VELENO (
INTERFERENCE + DEEP SOUTH )
25 MAR
08 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB ( WORK IN PROG )
13 MAY
08 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB ( INTERFERENCE )
7 JAN
09 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB ( HYPERSONIC )
5 JUNE 09 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
( DEODADA )
8 JAN
10 BELPASSO, EGO
PUB ( LA MENTE LOCALE
)
25 FEB
10 CATANIA, ENOLA
( LUCA GALEANO & EDOARDO MUSUMECI )
11 MAR 10 CATANIA, ENOLA ( LUCA GALEANO,
ANTHONY PANEBIANCO & EDOARDO MUSUMECI )
14 APR
10 CATANIA, LA CARTIERA ( INTERFERENCE )
28 MAY
10 CATANIA, NO
NAME ( LA MENTE LOCALE
)
5 JUNE 10 CATANIA, LA CARTIERA ( LA MENTE LOCALE )
22 SEP
10 BELPASSO, THE
EIGHT HORSES PUB ( LA MENTE
LOCALE )
20 NOV
10 CATANIA, ENOLA
( JADE, LUCA GALEANO, EDOARDO MUSUMECI, PACO, LAURA PIRRONE )
30 DEC
10 CATANIA, LA CHIAVE ( JAM SESSION:
IGNAZIO SCHIRONE, MARTIN ROMERO… )
29 MAR
11 CATANIA , RA 5 (
BLUESCREAM )
19 JAN
12 CATANIA , NO NAME 5 (
BLUESCREAM, cancelled )
Resoconto di Giuseppe Scaravilli...in ospedale
Resoconto di Giuseppe Scaravilli...in ospedale
Apro un occhio. Uno solo. Sto uscendo dal coma, è un grande
segnale di ripresa. I medici disperavano, e dicevano ai miei: “Questo ragazzo
non si sveglia, temiamo che possa non venirne fuori”. Mio padre è presente: è
proprio lui a vedere quell’unico occhio che si riapre. Dopo un mese, cioè dopo
più o meno una vita a vagare nel nulla da parte del sottoscritto, tra maggio e
giugno 2012. Adesso lui può finalmente gioire, richiamando l’attenzione di mia
madre. In verità io non ricordo niente di tutto questo. Me lo racconteranno loro
in seguito. In realtà non potrei neanche definirmi propriamente un “ragazzo”: forse
medici ed infermieri mi chiamavano così perché tutti gli altri, nel reparto
della sala rianimazione dell’ospedale, erano più anziani. Però mi chiamavano
così anche quando ero ancora sveglio, al quinto piano. A fine gennaio di quello
stesso anno ero stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Vittorio Emanuele di
Catania: pancreatite acuta. Prima, a casa, avevo improvvisamente sofferto di dolori
sempre più lancinanti, che alla fine che mi avevano letteralmente messo in
ginocchio ad urlare. E sono uno che fa musica, non teatro. Non stavo
esagerando: quel dolore al ventre era diventato davvero fortissimo,
insopportabile. In un primo momento avevo pensato ad una qualche forma di intossicazione: ero stato ad una
festa di compleanno, e, come di consueto, non mi ero lasciato pregare
nell’indulgere nei piaceri del desinare e del bere varie bibite gassate.
Mi era capitato
qualche altra volta, ma in questo caso era diverso. Dovevo sedermi, poi alzarmi
di nuovo, camminare. E non riuscivo neanche a rimettere. Il problema, molto
semplicemente, non era quello. Niente intossicazione: un calcolo (li chiamano
così: forse perché amano “calcolare” se e quando farti fuori) aveva ostruito
non so quale condotto interno, ed il pancreas era andato “in tilt”, prendendo
allegramente a divorare se stesso invece che il cibo assunto. Un problemino da
niente che qualche decennio fa usava la cortesia di mandare all’altro mondo i
malcapitati dieci volte su dieci. Oggi tre volte su dieci, stando a quello che
mi ha riferisce un chirurgo in pensione amico di famiglia. La sera in cui sto
male sul serio viene lui a visitarmi a casa: mi fa stendere sul divano della
cucina, mi visita, quindi sollecita papà a portarmi subito al Pronto Soccorso
dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania. Viene con noi anche mio fratello
Alessio, che mi incoraggia dicendomi che mi metteranno subito “a nuovo”:
nessuno immagina minimamente l’odissea che mi aspetta. Tanto meno il
sottoscritto. Del resto non avevo mai sofferto di niente. In passato andavo in
farmacia solo per prendere i tappi per le orecchie e qualche pillola, in
entrambi i casi solo per dormire meglio la notte. E soprattutto, non avevo mai
avuto dolori che potessero indurmi a farmi visitare da qualcuno, a darmi almeno
un campanello d’allarme. Di solito le cose vanno così. Come era capitato a mio
nonno (mio omonimo) e, più di recente, a mio cugino Ivan. Il nonno era
diventato tutto giallo (!), mentre il cugino aveva accusato forti dolori. In
questi casi, è sufficiente sottoporsi ad una piccola operazione, ed ecco che i
calcoli non ci sono più. Solo due o tre
giorni in ospedale, e tutto si riduce ad un vecchio ricordo. Non nel mio caso,
però. Quando l’equipe medica stabilisce che bisogna operarmi, decidiamo di
trasferirci al nuovo ospedale Garibaldi, perché sia un certo professore,
specializzato in casi delicati come il mio, ad occuparsi dell’intervento.
Andiamo con l’ambulanza. E anche questa si rivela una bella sofferenza! Del
Vittorio Emanuele non ricordo molto, ma per un po’ di giorni ci sono rimasto.
Una volta una dottoressa, che ricordo come una bella ragazza che portava gli
stivali sotto il camice bianco, mi spingeva sulla barella (quella con le ruote) insieme ad un’infermiera. Entrambe in mi
trasportavano quasi correndo, scherzavano e ridevano come bambine, senza
pensare alla “gerarchia” o a cose del genere. Rischiando anche di sbattermi di
qua o di là. No, non stavo bene, eppure quella volta mi sono divertito. Credo
sia stato il momento più simpatico di quello sbiadito periodo, prima di
cambiare ospedale. Al Vittorio Emanuele devo anche essere stato sedato. Fatto
sta che ricordo di aver sognato di essere da solo su un battello, in alto mare.
L’atmosfera era tranquilla. Poi però l’atmosfera è cambiata, ed io ho rotto
tutto. Non so bene cosa, nel sogno, ma nella realtà ho strappato via dalle
braccia tutti i cerotti e gli aghi delle flebo. Non sarei il tipo incline a
sfuriate di questo tipo, ma credo che questo sia successo davvero. Ricordo
anche un infermiere che si lamentava, sorpreso, ripetendo (in dialetto
siciliano): “Ma guarda cosa ha combinato”…
All’ospedale Garibaldi Nesima rimango coricato per un mese,
al quinto piano, prima di poter fare l’operazione al pancreas: non so in che
senso, ma il mio corpo doveva essere preparato prima all’intervento, e dovevo
aspettare. Avevo altri compagni di stanza. Ma nel tempo ne avrei avuti tanti,
che non ricordo più chi e quanti fossero i primi, se non in maniera molto vaga.
Alla fine tutti venivano dimessi, andavano via, venivano sostituiti da altri.
Io invece no, sono rimasto lì per mesi, per i motivi che spiegherò meglio. E
dunque avevo finito ormai per essere parte dell’arredamento: c’erano gli
armadietti, le poltroncine, la tv, il crocifisso di fronte a me…e c’ero io.
Anche con gli infermieri avevamo ormai fatto amicizia: ci chiamavamo per nome,
e me li ricordo un po’ tutti. Enzo e Linda lavoravano sempre in coppia:
stranamente lui non portava il classico camice bianco, ma una maglietta nera,
coi muscoli in evidenza, ed un fisico asciutto. I capelli erano bianchi e
corti, aveva famiglia, ma era ancora giovane. Organizzava pure serate in
discoteca: decisamente un contesto diverso, rispetto a quello ospedaliero!
Mi sono operato infine il giorno dopo la morte di Lucio
Dalla. Questa notizia non mi aveva messo esattamente di buon umore, e
l’operazione in sé sarebbe stata comunque estremamente delicata. Eppure non
avevo paura. Si scendeva in sala operatoria venendo trasferiti sopra un altro
lettino più piccolo, con le rotelle. Praticamente nudi, a parte camice di
sottilissima plastica trasparente, verde. E anche con qualcosa in testa, una
cuffietta, o qualcosa del genere, sempre verde. Mi hanno “posteggiato” in una
stanza, al caldo, e stavo piuttosto scomodo. Dovevo avere delle cinghie che mi
trattenevano, ed anche la flebo addosso: in pratica non vedevo l’ora che si
decidessero a farmi quell’accidente di intervento! Finalmente è il mio turno,
sono nella stanza nella quale mi faranno un bel taglio, per asportare pancreas
e cistifellea: quest’ultima con tutti i suoi dannati calcoli all’interno.
Sorpresa, l’anestesista è un compagno del Liceo! Anche l’altra persona che è lì
mi conosce perché è di Belpasso, il paese dove vivo. Ma anche e soprattutto per
via dei Malibran, la mia band dal 1987. E considerato che all’intervento
assisterà anche Roberto, il medico mio ex compagno di banco, potrebbe definirsi
una bella rimpatriata! Certo, se le circostanze fossero diverse, dal momento
che, ridendo e scherzando, sto per giocarmi la pelle (un altro mio coetaneo
siciliano, in quello stesso periodo, si sottopone allo stesso giochetto e non
ne esce vivo). La siringa per l’anestesia mi sembra enorme e mi fa un po’ male.
Naturalmente, poi (ma va?) non ricordo più niente. Mi aprono e mi ricuciono. Mi
ritrovo nella stanza del mio reparto al quinto piano, ma non avverto dolore. Né
sento i punti che “mi tirano”, come sentirò dire ad altri. Con il tempo questi
punti spariranno, e poi le “graffette” le rimuoverà un infermiere con barba e
codino (che mi ricorda tanto Carmelo, il fratello del mio chitarrista). Mi
accorgo che mi hanno rasato il petto. In seguito la stessa sorte toccherà a
barba e capelli, che portavo lunghetti. Ma questo per un problema successivo,
che in seguito racconterò. La dottoressa “capo” del reparto a volte è
spigolosa, ma in altre occasioni ha qualche slancio più affettuoso. Non si capisce
bene che tipo è: riceve telefonate al cellulare solo da sua madre. Ok, ma in
fondo chi se ne frega? In ogni caso mi invita sempre a bere due bottiglie
d’acqua al giorno e a camminare. Io non riesco a fare solo un po’ di entrambe le cose. Sono in grado
di “deambulare”, ma devo tirarmi dietro l’asta (con le rotelle) che sostiene le
flebo. Io la chiamo “l’albero di Natale”. La mia, poi, sembra bloccata,
rispetto a quella degli altri, le rotelle non girano bene. Anche persone
anziane, nella mia stanza, fanno su e giù di continuo con quell’affare,
volitive. Ma io non ci riesco. Cammino molto lentamente. E, soprattutto, quando
stacco la testa dal cuscino, è come se dei cavi rimanessero su quest’ultimo, ed
altri dietro la mia testa: così non sto bene, fino a quando, coricandomi di
nuovo, non permetto a questi cavi (immaginari) di connettersi di nuovo tra
loro. Non so a cosa sia dovuta questa sensazione, ma è così. Papà e mamma (spesso
insieme a mio fratello Alessio) vengono a trovarmi ogni giorno, sia a pranzo che
a cena, con la pioggia o con il caldo. Con papà al mio fianco qualche passo lo
faccio, sempre tirandomi dietro l’asta con le flebo attaccate. Ma la cosa è
talmente rara che, quando mi vedono in piedi, le infermiere mi tributano un
sentito applauso. Quello che chiamo
“l’albero di Natale”, con tutte le flebo attaccate, devo tirarmelo dietro anche
in bagno.
Rimango al Garibaldi fino all’ultimo giorno del marzo 2012.
Due mesi mi sono già sembrati una vita, ma, ahimè, il bello (si fa per dire) deve ancora venire.
Al momento rientro a casa sulle mie gambe, in macchina, con la famiglia al
completo. Salgo le scale a fatica, e, come “bentornato”, rimetto in un
sacchetto di plastica appena entro. Sono stati fatti dei lavori, cambiati gli
infissi, e anche la mia stanza è un po’ diversa. Sempre con le pareti azzurre,
comunque, ma in parte ritinteggiate. Anche alcuni dei manifesti alle pareti
sono stati spostati. Comunque, “home sweet home”, finalmente! Ciò nonostante,
non può certo dirsi che io stia bene: l’ospedale sembra un ricordo da lasciarsi
alle spalle, ma cammino un po’ a fatica, e ho bisogno di sdraiarmi sul letto in
continuazione. Per salire le scale mi aiuto con la ringhiera, e anche quando
faccio la barba devo sedermi a riposare almeno una volta. Neanche stessi
scalando l’Everest! Trascorro a casa tutto il mese di aprile ed i primi giorni
di maggio. A fine aprile riesco a suonare la chitarra elettrica, con Alessio
alla batteria. Temevo peggio, perché le dita sembrano incastrarsi un po’ tra
loro. Ma Alessio trova che vado bene. E’ presente anche Jerry, chitarra solista
dei Malibran. Suoniamo insieme con questa band di Progressive Rock dal 1987, e
abbiamo pubblicato otto dischi ed un dvd antologico. Lui però è solo in visita
con il fratello Carmelo, senza strumenti, e loro due sono il nostro pubblico. Facciamo
pezzi del disco “Trasparenze” (lavoro più mio che del gruppo, in verità’), e
secondo Carmelo sembra che non manchi niente, anche se siamo solo in due a
suonare. La cosa mi conforta, e già si parla di fare una prova “vera e propria”
da Jerry, che ha una sala apposita. Purtroppo le cose non andranno così.
Il giorno del Primo Maggio 2012 lo trascorro a casa
dell’amico Ignazio, ma non riesco a gustare tutte le cose buone che ci sono (ahimè!”,
non riesco proprio a mangiare niente). Negli ultimi giorni il ventre mi si è
inspiegabilmente gonfiato, e cammino come più o meno una donna incinta. Così,
mentre gli altri (grandi e piccoli) giocano allegramente sul prato, dopo pranzo,
io me ne sto seduto in un angolo all’ombra, e poco dopo mi faccio accompagnare
a casa. Collasso all’istante sul letto e mi addormento. No, decisamente non sto
bene. Passo il resto del tempo a leggere nel terrazzino che abbiamo sotto le
scale. Anche se è aprile, fa fresco, ed io me ne sto coperto e allungato sopra
una sdraio, godendomi, se non altro, gli alberi ed il verde che abbiamo da noi.
Un’altra cosa, rispetto al bianco “ospedaliero”. Riesumo anche un po’ di
fumetti da leggere: per circa dieci anni, fino al 1988, ne disegnavo io stesso,
rilegandoli in volumi. L’ultimo era la storia dei Led Zeppelin. Per il resto si
trattava per lo più di racconti di avventura. A volte trasponevo film o
racconti di Edgar Allan Poe. In seguito, però, avevo smesso sia di realizzare
che di leggere fumetti, se non sporadicamente. Così questa “riscoperta”
dell’aprile 2012 era stata una sorta di salto indietro nel tempo. A proposito
di Poe, ho ancora un libro di Carmen Consoli che lei mi aveva prestato. A quei
tempi ci frequentavamo: suonavamo insieme a casa sua, prendendo le pizze, io
andavo ai suoi concerti con la sua band (i Moondogs), mentre lei veniva a
vedermi coi Malibran, durante i primi anni ’90. Da quando è diventata una
cantante famosa a livello nazionale, però, ci siamo persi di vista. E quel
libro coi racconti di Edgar Allan Poe non sono ancora riuscito a
restituirglielo! Lei amava il blues e lo cantava con una voce sorprendente,
quasi da nera americana. Soprattutto considerato il fatto all’epoca aveva solo
16 o 17 anni, e che aveva un fisico davvero minuto. Non amava il Progressive,
ma, per qualche motivo, apprezzava i Malibran. Probabilmente perché allora
avevamo un sound molto rock e potente, e facevamo anche spettacolo sul palco. Una
volta, dopo averci visti alla Festa dell’Unità in Piazza Europa, a Catania, nel
1991, alla chiusura del nostro show si arrampicò sul palco e venne ad abbracciarci
entusiasta, urlando: “ma dove caz (bip) la prendete tutta questa grinta? In
effetti, su un libro tutto dedicato alla Premiata Forneria Marconi, in fatto di
spettacolarità noi veniamo indicati come
gli “eredi” della PFM: loro per gli anni ’70, i Malibran per i ’90. Ad ogni
modo, la “Premiata” (come veniva chiamata all’epoca in Italia) è ancora uno dei
miei gruppi preferiti. Ed è l’unica band Progressive ad aver avuto successo
anche all’Estero, con tour in Inghilterra, vari Paesi europei, USA e Giappone,
specie tra il 1973 ed il 1977. Oltre ad essere stato il gruppo Prog-Rock più
famoso in Italia, oltre al Banco Del Mutuo Soccorso e a Le Orme.
Come detto, io rimango in ospedale fino alla fine di marzo
2012. Due mesi che sembrano un’eternità. Dal momento che fatico ad alzarmi dal
letto, un medico mi chiama scherzosamente (senza riuscire a farmi ridere più di
tanto, in verità) “sacco di patate”. E’ amico e collega di quel mio ex compagno
di banco, Roberto, patito dei Pink Floyd (li vediamo assieme a Roma nel 1988) e
medico anche lui. Ma, come detto, ad aprile sono a casa, e l’ospedale sembra un
ricordo ormai alle spalle. Però continuo a muovermi a fatica, e, ad un certo
punto, il ventre mi si gonfia sempre più. Così torno al Garibaldi (ci andavo
comunque ogni lunedì a fare dei controlli), e, con l’assistenza di Roberto, verifichiamo
che bisogna intervenire per tirare fuori questo liquido che mi appesantisce. La
cosa in sé si rivela poca cosa: mi tirano fuori questo liquido dall’esterno,
con un tubicino che va a finire in una sacca, che man mano si riempie. E allo
stesso tempo io mi “sgonfio”, com’è ovvio. Dunque sono anche contento: tornerò
come prima, e mi avvierò alla guarigione completa entro l’estate! Tutti gli
infermieri mi chiedono che ci faccio di nuovo lì in ospedale. Ricevo la
telefonata di un amico, mentre sono a letto (se ne era liberato uno, e dunque
faccio tutto “al volo”, un venerdì, mentre avevo pensato di dover tornare in un
secondo momento). Quando la telefonata finisce, vedo con una certa sorpresa che
ho riempito due sacche di questo liquido: sono come due grandi palloni
trasparenti, che l’infermiera deve portare fuori trascinandoli per terra,
perché da sola non riuscirebbe a sollevarli (!). Mi dicono che potrò tornare a
casa due giorni dopo, ed io già pianifico una prova con il gruppo. Si, bravo.
Invece comincio a rimettere sangue. Prendo un sacco di plastica, e ogni tanto
appoggio la testa sul cuscino. Ma dura poco: ogni due minuti devo risollevarmi
per rimettere altro sangue, mentre il mio vicino di letto (un anziano) mi porge
il rotolone di carta per pulirmi. Solo che sembra non finire mai. Vado in
bagno, ma alla fine devo chiamare il vicino, perché mi aiuti. Naturalmente le
porte degli ospedali non possono essere chiuse dall’interno, nel caso qualcuno
dovesse avere problemi, e ritrovarsi chiuso dentro. Nel caso specifico quel
“qualcuno” sono io. Il compagno di stanza mi aiuta a sollevarmi, ma non riesco
a rimanere in piedi. Questa volta sembro davvero un “sacco di patate”. Vuoto,
però. Durante il mio primo ricovero ero svenuto (prima volta della mia vita)
mentre mi facevano una radiografia, una lastra, o non ricordo cosa. Dovevo
stare solo in piedi, reggendomi con le mani su dei pomelli, mentre i medici “in
sala regia” mi facevano una specie di foto all’addome. Ma avevo sentito subito
che non avrei resistito più di qualche secondo. L’immagine successiva che
ricordo è quella di me per terra, con dottori ed infermieri tutti attorno a me.
L’infermiere che mi aveva portato fin là con la sedia a rotelle (per fare
prima) assicura che, vedendomi crollare, sono accorsi facendo in tempo a non
farmi battere la testa sul pavimento. Ma io ho la sgradevole sensazione di
averla sbattuta comunque. Adesso, in bagno, ho la stessa sensazione, non riesco
a stare in piedi, mi sento svuotato, sto andando giù.
Arrivano gli infermieri, con il solito Enzo in maglietta
nera, mi sorreggono e mi sdraiano sul letto. A quel punto sto già molto meglio.
Si, non desideravo altro. Ma ricomincio a rimettere sangue. E’ strano, mi piace
il colore rosso vivido di questo sangue che sgorga a fiotti, sono sereno, non
sento niente. Reclino la testa sul lato sinistro, mi mettono dei tovaglioli di
carta sulla spalla, ma non serve a niente: sto vomitando un fiume di sangue a
getto continuo, sto inondando il pavimento della stanza: qualcuno dovrebbe
procurare delle scialuppe di salvataggio, siamo sul Titanic. Enzo mi dice di
non addormentarmi. Gli chiedo per quale motivo, dal momento che così mi
risparmierei almeno un po’ di questo brutto momento. Ma lui insiste, e mi
chiede di parlargli:”Parlami, Giuseppe, parlami, dimmi qualcosa, quello che ti
passa per la testa”. Mi sembra di intuire che, se dovessi addormentarmi, potrei
non risvegliarmi più. E così dico qualcosa, anche se gli argomenti per un
amabile conversazione, arrivati a quel punto, sembrano terribilmente scarseggiare.
Sono nel letto d’ospedale a rimettere sangue, con la testa
rivolta da una parte. Linda, l’infermiera collega di Enzo, all’inizio tenta di
raccogliere quel flusso rosso continuo. Poi rinuncia, dal momento che quello
non accenna a smettere. Si sta allagando tutta la stanza, e più che una
bacinella od uno straccio, servirebbe una scialuppa di salvataggio. Ora sono sdraiato
sopra una barella, mentre infermieri e dottori corrono tutti, portandomi non so
dove. A a fare una tac, credo, ma i miei ricordi non sono chiari. Vedo i cerchi
delle luci sul soffitto del corridoio scorrere sopra di me: sembra di essere
alla fine del film “Carlito’s Way”, dove Al Pacino in una situazione molto
simile, ripensa agli ultimi avvenimenti della sua vita, per l’ultima volta. Ma
non capisco lo stesso il motivo di tanta concitazione: non mi sento male. Ho
sempre preferito vedere calma intorno a me. E qui invece, dottori ed infermieri
che mi trasportano il più velocemente, le flebo si muovono oscillando, le
parole sono concitate. Sto forse morendo? Penso: ok, purchè si faccia piano,
senza tutto questo chiasso! Qui finiscono i miei ricordi da persona cosciente
di sé, ed entro nel tunnel senza tempo del coma. Durerà un mese, tra maggio e
giugno 2012. Ma io non so niente. Non so nemmeno di essere di nuovo in sala rianimazione.
Ho barba e capelli ormai lunghissimi, e alla fine mi sbarbano e mi radono a
zero. Ma non ho nessuna memoria di questo: non so chi sia stato, come e quando.
Mi racconteranno anche che i miei riceveranno una telefonata, per sentirsi
chiedere se acconsentono a questa mia “tosatura”. Figuriamoci, una chiamata
dalla sala rianimazione, mentre non si sa se ne uscirò vivo o morto: papà e
mamma rischieranno un infarto. Nel frattempo io non ci sono: settimane di
nulla, a galleggiare tra sogni ed incubi, vita e non vita. Nella mia mente
l’ospedale è montato sopra una chiatta
che attraversa lo Stretto, da Messina a Reggio Calabria, e viceversa. In
continuazione. Non si sa per quale motivo. Ci sono sopra le attrezzature
sanitarie, i letti, i dottori, gli infermieri; ma anche grandi videogiochi,
tipo quelli di una volta, per i figli dei degenti. E’ come una stramba via di
mezzo tra una nave ospedale ed una nave da crociera. Ogni tanto colgo delle
figure reali, infermiere o infermieri, che si trasfigurano nel mio dormire in
personaggi diversi, che popolano questo mondo a parte, che esiste solo nella
mia testa, e che non posso controllare.
Il mio amico Roberto mi fa ascoltare musica in cuffia, ma io
non sento niente. Non ci sono proprio. Ho chiuso con tutto e con tutti. Ad un certo punto, come verrò a sapere in
seguito, lui, che mi è sempre accanto, chiederà agli amici stretti e agli ex
compagni di liceo di pregare tutti insieme per me: ho raggiunto una fase
critica, sono sopravvenuti altri problemi, compresa una febbre altissima. Me ne
sto andando. Si sparge la voce, telefonate, Facebook. Tutti pregano. Io sono in
un altro mondo, eppure il mio corpo vuole proprio rimanere in questo, non vuole
saperne di lasciarlo. Poi avverrà un miracolo. Un vero miracolo.
Esco dal coma. Ma non del tutto. Nella sala rianimazione mi
trovo in una stanza a parte, rispetto agli altri degenti. Un po’ perché sono il
più grave; forse anche perché sono il più giovane. Intorno a me, solo respiri
nel silenzio. Ho la sgradevole impressione di essere circondato da malati in
fase terminale. Da moribondi. Senza realizzare bene che anche io sono uno di
loro. Quando ho bisogno di qualcosa, è un grosso problema, perché non si vede
nessuno. Per lo meno, non dal mio letto. E neanche riesco a pronunciare una
parola, ad emettere un suono, per richiamare l’attenzione di qualcuno: ho avuto
un tubo in gola per respirare (anche se questo è un particolare che non ricordo
per niente), e dunque ho perso la voce. Per farmi notare posso solo sollevare
un braccio, se intravedo un qualunque essere deambulante. Mi piacerebbe avere
qualcosa da sbattere, per farmi sentire, ma non ho niente di niente. E sono
quasi del tutto immobile. Non riesco neanche a tirarmi su le lenzuola, quando
sento freddo per via dell’aria condizionata; il mio sogno sarebbe riuscire a
girarmi su un fianco, ma mi sento come un bambolotto inchiodato, avvitato
contro il letto: posso stare solo a pancia in su. Riesco a farmi capire un po’
solo con il labiale. Ma certi giorni c’è un’infermiera che non capisce nulla di
quel che cerco di esprimere. A parte il fatto che chiunque, in quelle
condizioni, non potrebbe che chiedere le solite cose (un po’ d’acqua, o cose
del genere), lei segue il mio labiale, e ripete cose surreali: magari che ho la
necessità urgente di andare sulla luna a cavallo di un ornitorinco, tanto per
dire.
In rianimazione di solito viene a trovarmi papà: può farlo
una sola volta al giorno, con camice e cuffia verdi, sempre sorridente. Mamma spesso
deve rimanere fuori, e può solo guardarmi da una finestrella. Quando mi vede per
la prima volta con il cranio rasato, le ricordo mio fratello Alessio. Di
frequente viene anche mio zio Carlo (il fratello più piccolo di mio padre), direttamente
da Bronte: tutto quel viaggio, solo per guardarmi da quella minuscola finestrella!
E’ stato lui, quando era un capellone barbuto (ed io un ragazzino) a farmi
conoscere i Doors e i Jethro Tull, e ad insegnarmi i primi accordi di chitarra.
Quando loro sono alla finestra, possono vedermi solo di spalle. E per
permettermi di salutarli con la mano, papà deve mettere davanti a me un piccolo
specchio. E’ così che scopro di avere i capelli rasati a zero, il volto smunto
e gli occhi di fuori. Insomma, di avere l’aspetto di un detenuto in un campo di
concentramento! Qualche volta, possono entrare mamma, Alessio o lo zio, al
posto di papà. Ad Alessio chiedo di portarmi un libro (“Io sono Ozzy”) che è a
casa, nella mia stanza: ma scopro presto di non essere in grado di sfogliare le
pagine. Neanche una. Ed è sempre ad Alessio (architetto, nonché batterista dei
Malibran dal 1988) che tutti telefonano per avere mie notizie. Mentre sono in
quelle condizioni, lui si avvilisce non meno dei miei genitori: si trascura,
dimagrisce (nonostante sia sempre andato in palestra a fare “body building”),
si lascia crescere la barba. Un infermiere napoletano, Luigi, mi aiuta
moltissimo, e gli devo tanto. E anche lui risentirò qualche anno dopo su
Facebook. Stranamente, quando sono in quell’altro mondo, sogno lui che mi fa la
doccia spruzzandomi addosso acqua gelata con un tubo di gomma, mentre io mi
rannicchio completamente nudo sopra una roccia, sperando che giunga presto il
momento di essere avvolto in un morbido accappatoio (!?). Un altro aiuto mi
viene amorevolmente offerto da Fiammetta: in realtà lei si occupa dei bambini,
in un altro reparto. Ma suo marito, medico e chitarrista del gruppo “Metatrone”,
mi conosce. E quando lei gli parla di me, lui fa: “Ah, Peppe dei Malibran!”.
Così passa a trovarmi spesso, mi parla, e qualche volta mi porta pure il
gelato. In seguito ci risentiremo anche con lei su Facebook, quando sarò
finalmente a casa (ebbene si: poi sono sopravvissuto!): io non ero neanche
certo se me la ero sognata, Fiammetta, oppure no; e invece lei mi scrive: “Ma
ti ricordi tutto!”. Si rincuora, a vedermi (tanto tempo dopo) sul pc, con un
aspetto decisamente migliore. Un suo collega dice che sono “bellissimo”!. In
effetti per lei è molto frustrante prodigarsi tanto, e poi non riuscire a
salvare le vite che accudisce. Soprattutto lei, che si occupa di bambini. Così
ha quasi l’impressione di impegnarsi per niente. Vedere che io ne sono venuto
fuori, invece, sarà per lei motivo di enorme felicità e gratificazione.
Addirittura verrà a vedermi suonare (per quanto io sia sulla sedia a rotelle),
con il marito ed i colleghi della rianimazione. E sono io a rianimare loro, dal
momento che mi vedono vitale, felice e completamente preso dalla musica. Come
se non fosse successo niente (anche se non suono certo con la scioltezza di un
tempo).
Durante il coma (o mentre sono un po’ di qua e un po’ di là)
la figlia del comandante-primario della surreale nave-ospedale è una ragazza
che si chiama Federica. Io non riesco mai a ricordarmi questo nome (non
chiedetemi perché), e per riuscirci utilizzo sempre un “escamotage”: penso a
quella che immagino potrebbe essere l’etimologia latina del nome: tradotto in
italiano, “ricca di fede”. E da qui, ecco Federica! E’ anche un tipo che mi
piace, occhi blu e capelli lunghi neri. A volte è un’amazzone a cavallo. Però
scompare sempre, non si vede mai. Inoltre, nella veste di figlia del
“comandante”, è fidanzata con un giovane medico che è a bordo. Il padre però è
contrario, e i due sono sempre lontani l’uno dall’altra, ai due lati opposti
della nave. Anche queste due persone sono reali, intraviste in un momento di
veglia, accanto al mio letto, per poi “infiltrarsi” nel film che inconsciamente
sto girando nella mia testa.
Alla fine mi riportano su, in reparto, sempre al quinto
piano. Sono lucido, ma praticamente immobile. Non vedo l’ora, e dunque rifiuto
l’ultima visita di fisioterapia che stavano per farmi, perché voglio salire al
più presto. Solo che mi ritrovo in una stanza singola, con la tv che neanche
funziona. Viceversa, dopo tanta solitudine, avrei voluto tornare in una stanza
(magari la stessa di prima) con almeno altre due persone, sentire qualcuno parlare.
Ed avere anche dei compagni di stanza (al di là degli infermieri) a cui poter
chiedere di porgermi questo o quello, dal momento che da solo non riesco a
prendere niente. Ancora non lo so, ma purtroppo sono uscito dal coma con una
lesione al cervelletto. Di qui, a parte lo stare a letto per un tempo
lunghissimo, i tremori alle mani e l’impossibilità di alzarmi. Papà e mamma
sembrano contenti della stanza, dicono che si vedono gli alberi dalla finestra.
Ma io non sono in grado di vederli, questi alberi, questo verde. E quando
rimango solo, combino pure un guaio: muovendo male le mani, faccio rovesciare
la bottiglietta d’acqua (senza tappo) sul ripiano che fa da comodino, accanto
al letto. Ed il mio telefonino, che è lì sopra, annega miseramente in
quest’acqua. Mi basterebbe tirarlo fuori con due dita, ma non ci riesco.
Rubrica, messaggi, tutto può andare perduto, e non riesco a
fare niente. Il campanello per chiamare gli infermieri sembra non funzionare:
non arriva nessuno, si accende solo la luce. Chiamo il solito Enzo con tutta la
voce che ho (stranamente mi viene fuori), ma la porta è chiusa, la stanza è in
un corridoio deserto, e mi metto a piangere di rabbia. Perché capisco in quel
momento che non sono autonomo, che non posso rimanere da solo. Per fortuna dopo
un po’ arriva un infermiere, che tira fuori il cellulare dall’acqua e asciuga
tutto. Era venuto per conto suo, non perché avesse sentito suonare: ero io che
non avevo individuato il pulsante giusto, abilmente nascosto alla base del
pomello coi vari tasti! Quando mamma e papà ritornano nel tardo pomeriggio,
decidono di rimanere con me una notte ciascuno, dormendo sulla poltrona
allungabile (e certo non comodissima) che è lì. Lui smonta il telefonino e,
asciugandolo a lungo con un phon, riesce insperatamente a salvarlo. All’inizio
sembra di no, ma poi riprende a funzionare. Così portano una piccola tv da
casa, e continuano a venire a trovarmi di giorno. Poi uno di loro si trattiene
anche di notte. Anche se, non avendo più il pancreas, ho ormai il diabete a
vita, mi faccio portare spesso un ghiacciolo: riscopro quello al gusto
Coca-Cola, del quale avevo dimenticato l’esistenza. Oppure mi accontento di
quello al limone. Non assaggiavo più ghiaccioli da decenni, ma è estate, e ho
bisogno di qualcosa che mi rinfreschi, e mi tiri un po’ su. Ho una tosse
violenta, e, soprattutto di notte, ho bisogno di qualcuno che mi porga un tovagliolo
di carta. In questo mio padre è sorprendente: nonostante stia dormendo
aggrovigliato su quella stupida poltrona, con un guizzo si alza e in un secondo
è già da me. La sera ci addormentiamo presto, e dunque, quando ci svegliamo, di
solito è ancora buio: accendiamo la tv e seguiamo il tg di Rai News 24. Solo
qualche volta mi sveglio con la luce del giorno, e quasi non mi pare vero.
Malibran live in USA (di Giuseppe Scaravilli, Febbraio 2015)
Siamo partiti dall’aereoporto di Catania ai primi di ottobre
2000: lì trovo Carmen Consoli, che va a suonare a Bari: ci conosciamo da anni,
e la riprendo con la telecamera, facendole una finta intervista scherzosa. Lei,
come sempre, mi chiama “Scaravilli”…poi la lascio a farsi un po’ di foto con un
nugolo di ragazzine…C’è anche un mio ex compagno di banco del Liceo che parte
per il viaggio di nozze! Tra andata e ritorno, per suonare negli States,
dobbiamo prendere 6 voli (Catania-Roma-Newark-Raleigh, e poi Raleigh-Newark-Milano-Catania):
ma è bello attraversare l’Atlantico per andare a suonare la propria musica,
pagati! Jerry porta con sé moglie e figlia di 7 mesi (così, in effetti, non
abbiamo un aspetto molto Rock…). Lui e Angelo sono gli unici a partire con i
propri strumenti personali, mentre io e gli altri utilizzeremo quelli che
troveremo in America. Per arrivarci voliamo per 9 ore sull’oceano. Quando arriviamo
fa un gran caldo, e quelli del ProgDay Festival vengono a prenderci e a
trasferirci in hotel. Il palco è collocato in un prato verde, con una tettoia
di tipo Chiesa: la location si chiama “Storybook Farm”, ed è a Chapel Hill. La
gente, proveniente da vari Stati, ascolta i gruppi che si alternano, provenienti
da varie parti del Mondo (anche dall’India, o dalla Svezia…); oppure
passeggiano sull’erba, o comprano qualche CD negli stand sparsi qua e là…alcuni
ci conoscono e ci chiedono un autografo. Noi ci sdraiamo sul prato,
chiacchierando con Leonardo Pavcovich, che 2 anni dopo porterà la PFM in
Giappone (comparirà anche sul loro DVD, e verrà ringraziato al microfono da
Franz Di Cioccio). C’è un bel sole, ma per il giorno dopo (quando toccherà a
noi) è previsto un peggioramento: gli organizzatori chiedono a tutte le band se
preferiranno suonare in un luogo chiuso, ma tutti rispondono di no. Il giorno
dopo, in effetti, il clima è completamente cambiato…dall’estate all’inverno in
24 ore! Freddo, giubbotti, cappucci in testa e cioccolate calde…Noi dovremmo
suonare alla fine, come gruppo “clou”, ma saliamo sul palco come penultimi. In
ogni caso si svolge tutto di giorno, prima che faccia buio. Proprio questa
edizione del festival non viene registrata dal mixer, ma ci regaleranno
comunque dei cd del nostro show che sembrano dischi ufficiali, anche se non di
qualità audio altrettanto buona.
Senza la nostra strumentazione non abbiamo un
gran suono, e fa talmente freddo che il basso si scorda spesso; mentre io, dopo
qualche pezzo, mi vedo costretto ad indossare il giubbotto che avevo con me… Mentre
suoniamo, tramite l’amico Alfredo (partito con noi) vendiamo tutti i CD che ci
eravamo portati dietro. Io, naturalmente, devo anche parlare in inglese al
microfono, improvvisando sul momento, presentando i brani, il gruppo, e
ringraziando per gli applausi. Il giorno dopo andiamo a New York, questa volta
in veste di semplici turisti: saliamo in cima all’Empire State Building,
entriamo nelle Twin Towers e vediamo più a distanza la Statua della Libertà, il
Madison Square Garden ed il Radio City Music Hall. Per pura coincidenza incontriamo
i Mary Newsletter, l’unico gruppo italiano presente al festival oltre noi. E
anche (ci eravamo divisi) Alessio ed Alfredo al Central Park (!). Un tassista
sudamericano (anche lui musicista) ci porta in giro, e riesco a comunicare con
lui utilizzando un mix tra inglese e…il messicano dei fumetti di Tex Willer! Il
tipo si dimostra una grande persona: dopo che ci ha lasciati all’aereoporto, mentre
il nostro volo per il rientro a casa sta per partire, Jerry si accorge di aver
dimenticato la sua chitarra sul taxi (!). Ma il tassista, invece di tenerselo, appena
si accorge di avere ancora con sé lo strumento, fa il giro dell’aereoporto e
riesce a raggiungere Jerry, che correva di qua e di là, cercando disperatamente di contattarlo (ci
aveva lasciato il suo numero di telefono). Alla fine l’abbraccio fra i due è
quasi commovente!
MALIBRAN & JETHRO TULL
MALIBRAN & JETHRO TULL
Quando apprendo che i Jethro Tull avrebbero suonato a
Palermo l’8 luglio 2003 (prima volta in Sicilia) al Teatro di Verdura
(anfiteatro all’aperto, sorta di “appendice estiva” del Teatro Massimo), mi
attivo subito per “piazzare” i Malibran come gruppo di apertura del loro show.
Li avevo visti dal vivo numerose volte, in giro per l’Italia, fin dall’estate
del 1988. E, soprattutto, erano da sempre il mio gruppo preferito. Dunque,
esibirmi con loro sullo stesso palco, magari conoscerli di persona, e poterlo
fare davanti ad un pubblico numeroso, presumibilmente “affine” al nostro tipo
di proposta musicale, sarebbe stato quanto di meglio avrei potuto sperare. Un’
operazione simile mi era già riuscita con il Banco del Mutuo Soccorso, 4 anni
prima, e dunque mi metto subito “al lavoro” per rendere concreta questa
possibilità: contatto Aldo Tagliaferro, presidente del “fan club” italiano dei
Tull (del quale facevo parte), che apprezza i Malibran, e che conosce di
persona Ian Anderson e soci. Anzi, da semplice loro fan, Aldo è diventato un
po’ il “referente italiano” del gruppo: durante i tour, va a prenderli
all’aeroporto, li “scarrozza” in macchina da una città all’altra, li porta nei
vari hotel e ristoranti e tutto il resto.
Tra l’altro conoscevo Tagliaferro
ancora prima che fondasse il “fan club” (e la relativa rivista “Itullians”, cui
ero abbonato), perché era lui (insieme ad Aldo Pancotti, amico del Banco, e
primo “gancio” per riuscire a suonare insieme allo storico gruppo romano nel
1999) a farmi avere rare registrazioni dei Jethro Tull. Quindi mi metto anche
in contatto anche con la “Blue Sky”, l’agenzia che porta i Tull in Italia: loro
sono sempre gentilissimi, e, “in sinergia” con Aldo Tagliaferro si cerca di rendere
concreta la cosa: Malibran e Jethro Tull insieme a Palermo. Passano mesi di
telefonate, con conseguente alternanza di speranze e delusioni: “si può fare”,
“anzi no, ci sarebbe questo problema”, e così via. Alla fine Aldo mi chiama,
non mi trova, ma parla coi miei, ed io, al mio rientro a casa, trovo un
biglietto sul tavolo: “suonerete con i Jethro Tull”: wow, meglio del biglietto
vincente della lotteria di Capodanno! Si entra nei dettagli, e continuo a
sentire sia Tagliaferro che la Blue Sky: Ian Anderson ha gradito il CD di
tributo ai Tull (“Songs for Jethro”), aperto da una nostra versione di Bourèe:
dunque i Malibran sono la prima band del disco che ha ascoltato. Ma pone delle
condizioni: innanzitutto, non dobbiamo essere una cover band dei Jethro Tull,
ma un gruppo con una discografia propria: e in effetti è così. In secondo
luogo, io non posso suonare il flauto: Ian Anderson non vuole altri gruppi che lo
suonino, prima che lui salga sul palco.
La cosa mi sembra comprensibile sotto vari punti di vista, e per noi non è un problema:
di fatto sono pochi i brani nei quali, dal vivo, utilizzo il flauto: dopo che
Benny (il tastierista) ha lasciato i Malibran insieme a Giancarlo (flauto e
sax), io, oltre a cantare, con la chitarra devo anche coprire i vuoti lasciati
dai due “transfughi”: e dunque, dal momento che non dovremo tenere un concerto
intero, sarà sufficiente non mettere in scaletta “Magica Attesa” e “Pyramid’s
Street”. Inoltre, inizieremo “Prelude” saltando la parte iniziale ed eseguiremo
una versione ridotta di “Malibran” senza l’assolo di flauto (che, tra l’altro,
essendo quasi tutto un omaggio ai Tull, nell’occasione non avrebbe proprio avuto
senso!).
Ecco però in arrivo un altro guaio: Alessio, il nostro batterista (e mio
fratello), quel giorno potrebbe non essere disponibile, e cominciamo a
considerare l’ipotesi di un sostituto (ma come? Eravamo in sei e adesso diventiamo
in tre, più un batterista “esterno” che non conosce i nostri pezzi? E questo giusto
nell’occasione più importante?!?). Comunque questa cosa si risolve: Alessio ci
sarà, e si comincia ad entrare nei dettagli tecnici: noi dovremo suonare 40
minuti e lasciare il palco ad una certa ora; non potremo usare la
strumentazione dei Jethro, dal momento che verremo solo collegati all’impianto
principale: dunque il mio amico Riccardo (del service “Moonlight”) mi presterà
i microfoni, mentre Ignazio (un altro amico) sarà per noi al mixer: in cambio
chiede solo se sarà possibile far entrare la moglie senza farla pagare: giro la
richiesta, che mi viene accordata. Per Ian Anderson, per lo storico tour
manager inglese della band, per quello italiano (Massimo) è tutto ok. Noi ci
limitiamo a fare una sola, normale prova, constatando che il nostro show
funzionerà benissimo anche senza flauto: del resto, in molti dei nostri “pezzi
forti”, quali “On The Lightwaves”, “La Città sul Lago” o “Nuvole di Vetro”,
nelle nuove versioni senza Giancarlo il flauto non è previsto comunque).
Sul giornale “La Sicilia” esce un paginone tutto dedicato a
questo concerto che abbina i siciliani Malibran ai leggendari Jethro Tull, con
belle foto a colori e biografie di entrambi i gruppi. Ma, appena un paio di
giorni prima della data tanto attesa, ecco una laconica e-mail da parte del
tour manager italiano, che mi comunica semplicemente quanto segue: “per motivi
tecnico-burocratici non potrete suonare con i Jethro Tull”). Ma come, era tutto
definito nei minimi dettagli, c’era l’ok di Ian Anderson e di tutto l’entourage
della band, e adesso non possiamo suonare? Chiamo il tour manager, e poi anche
l’organizzatore dell’evento a Palermo. Mi
sento dire, addirittura, che se suoneremo noi, non suoneranno i Jethro Tull!
Alla fine si scopre che l’agenzia “Blue Sky”, purtroppo, aveva pensato più che
altro al benestare di Ian Anderson, ma non a comunicare la partecipazione dei
Malibran agli organizzatori di Palermo, i quali avevano probabilmente saputo
della cosa proprio dal giornale, sentendosi “scalzati”, e senza essere in possesso
della necessaria documentazione (EMPALS, o chissà cos’ altro). Le provo tutte,
ma otteniamo solo il “contentino” di assistere gratis al concerto dei Jethro
Tull, senza gruppo di apertura (!). E dire che la nostra presenza era data per
certa al punto che, su Internet, nelle liste dei concerti dei Tull dagli inizi
(1968) ad oggi, relativamente alla data di Palermo si può leggere: “Open Act:
Malibran (cancelled)”.
Ci andiamo comunque, con il macchinone di Jerry, e
arrivati sul posto (dove vedrò Steve Hackett l’anno dopo) sento Tagliaferro al
telefono: lui è lì, ma non riusciamo ad incontrarci. Riesce comunque a farci
entrare senza pagare (e vorrei vedere!). Il bello (si fa per dire) è che un
tipo seduto davanti a me si lamenta del fatto che non c’è un gruppo ad
intrattenere il pubblico in attesa dei Jethro Tull (!!!). Scherzando, quando
qualcuno mi chiedeva se non ero emozionato per il fatto che avremmo suonato con
il mitico gruppo di Ian Anderson, io rispondevo che sarei stato soddisfatto
solo quando i Jethro Tull avessero fatto da “gruppo spalla” a noi. Naturalmente
non parlavo sul serio. Anche se qualcosa del genere accadde con i Marillion: il
gruppo di Fish, non avendo ancora raggiunto il successo, pregava Anderson di
permettergli di aprire qualche loro concerto, inviando cassette, o qualcosa del
genere. E ci riuscirono. Finchè i Marillion esplosero con “Misplaced Childhood”
e nel 1986, a Milton Keynes (come disse lo stesso Anderson da quel palco) ricambiarono
il favore, lasciando suonare i Tull (piuttosto in ombra, in quel periodo) prima
di loro. Ad ogni modo, nel nostro caso, sul giornale del giorno dopo scrissero
che i Malibran avevano suonato prima dei Jethro Tull. Ma come li scrivono certi
articoli? Da casa? E’ vero, noi c’eravamo, ma tra il pubblico! Io ho filmato il
concerto, e in realtà ci siamo pure divertiti, nonostante ci fosse sfuggita
all’ultimo momento un’occasione poi rivelatasi unica. Quattro giorni dopo
abbiamo suonato a Bronte e la nostra carriera è andata avanti, con qualche
altra soddisfazione (più di una, in verità).
Personalmente, in seguito, ho
davvero suonato prima di Ian Anderson a Novi Ligure, nel 2006, nel corso della
Convention annuale di “Itullians”. La nostra versione di “Bourèe si sentiva in
diffusione, mentre io ho partecipato come flautista a due brani dei Jethro (“We
Used To Know e Weathercock”, con in mezzo il mio consueto assolo) in qualità di
ospite del cantante-chitarrista Andrea Vercesi. C’erano anche gli ex Jethro
Glenn Cornick, Clive Bunker e Dave Pegg, più l’ex batterista dei Gentle Giant.
Non è stata la stessa cosa, ma chi si accontenta…
A Danilo
Giuseppe Scaravilli - Gli incroci del rock -
Prefazione dell’Autore
Con questo volume ho inteso
ripercorrere l’irripetibile stagione del rock anni Settanta, utilizzando
l’escamotage narrativo dell’incrocio tra le biografie delle varie band, progressive
e non, mettendo insieme una documentazione esaustiva e una scrittura che vuole
rimanere scorrevole ed avvincente. Non mancano dunque analisi dettagliate
riguardanti la storia di ciascuno dei gruppi trattati, unitamente alla
narrazione di aneddoti interessanti forse non conosciuti ai più. A completare
il tutto mi sono occupato di preparare e restaurare in prima persona gli
inserti fotografici che raccontano per immagini quanto si può leggere nel
libro, con inedite foto d’epoca che consentono anche di vedere quanto
raccontato: tutte le illustrazioni presentano infatti le band delle quali si
occupa il volume mentre sono impegnate a suonare proprio nel corso degli
spettacoli ai quali fa riferimento il testo. Non mancano i resoconti degli
eventi caratterizzanti gli anni Settanta, quali i grandi festival e gli scontri
per la musica gratis. Se sono trascorsi ormai decenni da tutto questo, è
rimasta la musica a testimoniare una delle stagioni più creative di sempre, che
è spesso ancora avanti a noi, e non alle nostre spalle: così come i sogni, gli
ideali e il desiderio di scoprire il nuovo che animavano i giovani che si
trovavano sopra o sotto il palco. E che ancora ci indicano la via.
LED ZEPPELIN
I Led Zeppelin avevano grinta
vendere. Ma, unitamente a questa, anche un sound granitico e ben riconoscibile,
oltre ai riff immortali creati dalla stupefacente chitarra di Jimmy Page. Non
ultimo, la presenza di una sezione ritmica tanto precisa quanto devastante, con
un batterista dalla potenza fuori dal comune. Il boss della casa discografica
americana Atlantic intendeva mettere sotto contratto solo i gruppi che avessero
tra le proprie fila almeno un musicista straordinario: ebbene, nel caso degli
Zeppelin, gli elementi straordinari erano quattro su quattro! Jimmy Page e John
Paul Jones si conoscevano già prima di formare la band perché, a dispetto della
loro giovane età, durante gli anni Sessanta erano entrambi stimatissimi
musicisti da studio. Jimmy guadagnava bene limitandosi a registrare le parti di
chitarra che gli venivano richieste. E questo per una infinita varietà di
artisti. A volte si trattava di nomi famosi, e in questo caso il suo nome non
compariva neanche nei credits di copertina, per non far sfigurare il
chitarrista ufficiale della band: il che non doveva risultare particolarmente
gratificante per il giovane Page. Inoltre, era spesso costretto a suonare
musica che non gli piaceva per niente. Oppure, dopo aver tanto lavorato su
qualche parte, poteva capitargli di ascoltare il disco per scoprire che i suoi
sforzi erano stati vanificati da un missaggio nel quale la sua chitarra si
sentiva poco o niente. Così cominciò a stufarsi di quel lavoro, e prese a
suonare dal vivo con vari gruppi. Oppure a partecipare alle jam session che si
tenevano al ben noto Marquee Club di Londra, facendosi subito apprezzare. Anzi,
ci fu pure chi decise di “appendere la chitarra al chiodo”, dopo aver visto
quel giovane, così gracile e minuto, fare cose pazzesche con il suo strumento.
Anche John Baldwin cominciava ad essere stanco delle sessioni in studio, fatte
con o senza Jimmy. Qualcuno gli disse però che avrebbe dovuto cambiare il suo
nome in John Paul Jones. Quest’ultimo era in realtà un personaggio storico, un
ammiraglio che si era fatto valere nella guerra dei nascenti Stati Uniti contro
gli inglesi nel Settecento. Fu così che John Baldwin, eccellente bassista,
tastierista ed arrangiatore, divenne da allora in poi John Paul Jones. Il
cantante Robert Plant e il batterista John Bonham, detto “Bonzo”, invece,
suonavano già insieme nella Band Of Joy (nome che Plant avrebbe poi riesumato
alcuni decenni più tardi). Rispetto a Page e Jones, loro due erano i
“campagnoli” provenienti dalle Midlands. Più precisamente, dalla zona
denominata “Black Country” (da qui il titolo del brano Black Country Woman degli Zeppelin), per via del fatto che il
terreno, a causa dell’estrazione del carbone, era tutto nero. Bonham dormiva in
una roulotte davanti casa dei suoi e tirava a campare vendendo anche di
nascosto articoli del negozio di sua madre. Mentre Robert, che stava insieme alla ragazza indiana Maureen (in
seguito sua moglie) si dava da fare asfaltando le strade. Naturalmente erano
soprattutto musicisti di talento in attesa della grande occasione. Ma era
un’attesa che non desideravano durasse in eterno. Al punto che Robert ebbe a
dichiarare che avrebbe mollato tutto se non fosse riuscito a sfondare entro i
suoi 20 anni (e li avrebbe compiuti di lì a pochi mesi!). Singolarmente, molti
personaggi divenuti in seguito veri e propri divi del rock, attivi ancora oggi,
provenivano da quella stessa zona del Regno Unito, dalle parti di Birmingham.
Tra questi, oltre ai due futuri Zeppelin, anche i Black Sabbath, Steve Winwood
(poi leader dei Traffic), Robbie Blunt (chitarrista del primo Plant solista negli
anni Ottanta, già suo amico prima degli Zeppelin), Martin Barre e Dave Pegg dei Jethro Tull, più
Glenn Hughes (in seguito nei Deep Purple). Quest’ultimo, nonostante Robert
Plant all’epoca non fosse ancora nessuno, lo ricorda con un atteggiamento già da
rockstar, sfacciato e sicuro di sé, certo del proprio luminoso futuro, con un
grande carisma e sempre in compagnia di belle ragazze: quando Jimmy Page gli
offrì il posto di cantante della sua nuova band, Robert non disse subito di si,
tutto preso da un suo nuovo gruppo dal nome impronunciabile. Ebbe modo di
parlarne con John Osbourne (detto “Ozzy”, di lì a poco vocalist dei Black
Sabbath), e quest’ultimo non riusciva a capacitarsi del fatto che Plant potesse
nutrire dei dubbi nell’accettare quella proposta: nell’ambiente Jimmy era una
celebrità, soprattutto perché nel frattempo era diventato il chitarrista degli
Yardbirds: una band di successo, che suonava regolarmente anche in America e
aveva singoli in classifica. Incredibilmente questo gruppo avrebbe visto
succedersi tra le proprie fila prima Eric Clapton, poi Jeff Beck, quindi Jimmy
Page: vale a dire tre fra i più grandi chitarristi del Regno Unito. La band
aveva anche partecipato al Festival di Sanremo il 27 e 28 gennaio 1966:
nell’occasione la line-up vedeva Keith Relf alla voce, Jim McCarthy alla
batteria, Chris Dreja alla seconda chitarra (prima era al basso), Jeff Beck
alla “lead guitar” e Paul Samuel-Smith nel ruolo di bassista. Page sarebbe
entrato negli Yardbirds al posto di quest’ultimo. Esistono belle foto a colori
di Jimmy al basso, con il suo consueto atteggiamento sul palco e i capelli già
piuttosto lunghi. Jeff e Jimmy erano amici fin dall’adolescenza, suonavano e
ascoltavano il blues insieme; fu la sorella di Beck a riferirgli che a scuola
c’era un tizio che suonava come lui. Così, quando si liberò un posto come
bassista, Beck introdusse Page nella band. Naturalmente quest’ultimo, da anni
un gran virtuoso della chitarra elettrica, al basso era decisamente sprecato. Eppure accettò
l’offerta, pur di lasciare il monotono lavoro di turnista da studio. Dopo
qualche tempo gli Yardbirds, provvedendo diversamente per il ruolo di bassista,
poterono permettersi di sfoggiare per circa sei mesi entrambi i formidabili
chitarristi. Per inciso proprio questa formazione, con Beck e Page insieme,
appare nel film Blow Up di
Michelangelo Antonioni, ambientato nella “Swinging London” della fine degli
anni Sessanta, con Jeff Beck che sfascia la sua chitarra contro l’amplificatore
(in effetti Antonioni avrebbe voluto gli Who, che davvero distruggevano i loro
strumenti alla fine dei concerti, mentre gli Yardbirds non erano soliti indulgere
in questo tipo di bizzarre attività). Il brano che eseguono nel film è Train Kept A Rollin: proprio il pezzo
(una cover) che gli Zeppelin avrebbero suonato durante la loro prima prova il
12 agosto del 1968, e che avrebbero utilizzato come apertura dei primi
concerti. E anche degli ultimi, oltre dieci anni dopo, nel 1980, quasi a
chiusura di un cerchio. Ad ogni modo, Beck decise di piantare la band nel bel
mezzo di un tour negli USA. E così Jimmy divenne l’unico chitarrista del
gruppo, sostenendo benissimo il nuovo ruolo, girando il mondo e incidendo LITTLE GAMES, l’album del 1967
che conteneva l’orientaleggiante White
Summer. Sul disco era presente in veste di musicista aggiunto anche John
Paul Jones. Con gli Yardbirds Page si esibiva già con l’archetto nel brano Dazed And Confused e, seduto da solo sul
palco, anche nella citata White Summer.
Entrambi i pezzi (il secondo con l’aggiunta di Black Mountain Side) sarebbero entrati nella setlist degli
Zeppelin. Lo strumentale speziato di oriente, sempre eseguito con la chitarra
Danelectro, sarebbe stato anche documentato nel famoso film alla Royal Albert
Hall del 1970, per essere rimesso in scaletta anche in occasione dei due
concerti di Knebworth ’79 e nell’ultimo tour della band (“Led Zeppelin Over
Europe”) l’anno seguente. Anche Tangerine
era un brano degli Yardbirds lasciato in eredità ai Led Zeppelin. Esiste un
videoclip a colori della Tv francese che vede Jimmy suonare Dazed and Confused dal vivo proprio con
gli Yardbirds: il brano è di fatto uguale a quello che avrebbero poi
interpretato gli Zeppelin e, oltre all’archetto, Page utilizza già la
Telecaster dipinta a colori psichedelici. Fatto singolare, la chitarra
elettrica con l’archetto veniva suonata nel 1967 dal chitarrista del gruppo
italiano chiamato I Jagguars nel pezzo Oggi
Si, sigla del programma televisivo Lei
Non Si Preoccupi. Beck invece formò il suo Jeff Beck Group, con Rod Stewart
alla voce. Questa band fu anche invitata ad esibirsi al leggendario festival di
Woodstock nell’agosto del 1969, ma si era sciolta poco prima. Anche Led
Zeppelin e Jethro Tull furono invitati, ma non vi parteciparono. Un vero
peccato! Del resto, nessuno avrebbe potuto immaginare il successo che avrebbe
avuto quel festival, anche per merito del film, uscito l’anno dopo. Se avessero
partecipato a Woodstock, sarebbe stata una fantastica occasione poter vedere
questi due gruppi inglesi su pellicola, con ottima qualità audio e video, e
proprio nel momento della loro esplosione oltre Atlantico. Dei Jethro Tull il
bassista Glenn Cornick si sarebbe sempre rammaricato per l’occasione perduta.
Ian Anderson, invece, si disse felice di non essere andato al festival,
ritenendo che i partecipanti avrebbero per sempre legato il loro nome a
quell’unico evento. Cosa avvenuta per Joe Cocker, con la sua strepitosa
interpretazione di With A Little Help
From My Friends: forse l’unico caso di una cover migliore dell’originale
(un’innocua marcetta dei Beatles cantata da Ringo Starr). Per inciso, la
chitarra della versione di Cocker su disco (1968) era proprio di Jimmy Page.
Quest’ultimo prese invece a prestito il Beck’s
Bolero del suo vecchio amico per inserirlo all’interno di How Many More Times, il brano che
avrebbe chiuso l’album d’esordio dei Led Zeppelin, registrato nell’ottobre del
1968 agli Olympic Studios di Londra per una spesa irrisoria. Jimmy Page e il
manager degli Yardbirds Peter Grant avevano in un primo momento chiesto al
cantante Terry Reid se fosse disposto a
far parte del nuovo gruppo, ma questi rifiutò. E, incredibilmente, avrebbe
rinunciato anche all’offerta di diventare il vocalist dei Deep Purple! Si
recarono dunque ad ascoltare Robert Plant in un piccolo club di Birmingham il
20 luglio del 1968, rimanendone molto colpiti. Al punto che Page si domandò se
un adone dalla voce portentosa come quella non dovesse avere qualche problema:
come poteva un personaggio del genere essere totalmente sconosciuto?
Inizialmente, vedendo quel giovane dai bicipiti scolpiti portare sul palco la
strumentazione, pensò si trattasse di uno dei roadies, e non certo del
cantante. Poco tempo dopo Robert Plant si recò presso la sua casa galleggiante
di Pangbourne: quella eccentrica abitazione conteneva un enorme acquario di
pesci tropicali, pezzi d’antiquariato del Seicento e soprattutto una bella
collezione di dischi: fu così che Plant e Page scoprirono di condividere
l’amore per il blues degli albori. Come accennato, la prima prova di Jimmy,
Robert, John e Jones fu tenuta il 12 agosto del 1968 in una cantina di Gerrard
Street, a Londra: la stanza era ricoperta di amplificatori lungo tutti i muri,
con appena lo spazio sufficiente per aprire la porta. Non sapevano cosa
suonare; decisero di lanciarsi in una jam di
Train Kept a Rollin e la stanza esplose. Con il nome di New Yardbirds nel
settembre di quello stesso anno il gruppo intraprese un tour in Scandinavia,
che si rivelò utilissimo per mettere a punto i brani del disco d’esordio sotto
la nuova denominazione. La prima data, relativa al concerto danese del 7 settembre in un club di
Gladsaske, è documentata da diverse foto che mostrano Jimmy vestito di bianco
con la Telecaster dipinta, Robert sempre urlante, Bonham sudatissimo e Jones
più elegante e compassato. Nell’occasione eseguirono cover blues, eccetto Dazed and Confused, che lasciò
sbalorditi i ragazzini presenti per via dell’utilizzo dell’archetto da violino.
Degli Yardbirds rimanevano non solo Jimmy Page, ma anche il manager Peter Grant
e il tour manager Richard Cole, che ai tempi delle tournèe con la vecchia band
divideva la stanza con lo stesso Page. Nel film The Song Remains The Same del 1976 Cole, tra l’altro, è il primo
volto che compare, interpretando il gangster barbuto che viene fuori da una
casa, seguito dalla mole immensa di Peter Grant e da un altro tizio, tutti
armati di mitra a tamburo. Jimmy pagò di tasca propria la registrazione del
primo album degli Zeppelin, avvenuta in sole trenta ore e con pochissime
sovraincisioni: il disco venne pubblicato a gennaio negli USA e a marzo nel
Regno Unito. I potentissimi stacchi dell’iniziale Good Times, Bad Times esplosero come un colpo al cuore per quanti
misero per la prima volta quel disco sul piatto dell’impianto stereo. Communication Breakdown, preceduta senza
soluzione di continuità dall’orientaleggiante White Summer, era un brano breve quanto devastante, antesignano
dell’heavy metal. In via eccezionale venne promossa anche con un videoclip in
bianco e nero che vedeva la band esibirsi in playback. Dazed and Confused permetteva a Jimmy Page l’utilizzo dell’archetto
da violino, lasciando che gli ascoltatori venissero immersi in un’atmosfera
tanto ipnotica quanto inquietante. Il pezzo, già lungo dieci minuti sul disco,
sarebbe stato dilatato a dismisura nel corso delle esecuzioni dal vivo.
Bellissima l’introduzione all’organo da parte di John Paul Jones per Your Time is Gonna Come, che vede Jimmy
impegnato sia alla chitarra acustica che alla steel guitar. Anche Babe I’m Gonna Leave You è
prevalentemente acustica: già cantata da Joan Baez, concede un momento di
relativa tranquillità, contrappuntata da arrangiamenti vagamente
spagnoleggianti da parte di Jimmy Page. Questi utilizza l’archetto anche sulla
conclusiva How Many More Times, pezzo
durante il quale, dal vivo, Robert Plant presentava i componenti della band. La
front cover mostrava il dirigibile tedesco Zeppelin schiantarsi al suolo tra le
fiamme nel 1937, mentre tentava di attraccare ad un pilone d’ormeggio nel New
Jersey. Le foto dei membri del gruppo sul retro dell’album furono realizzate
dall’ex bassista degli Yardbirds Chris Dreja. A Robert Plant non sembrava
neanche vero di trovarsi in uno studio di registrazione, e quando ascoltò la
musica in cuffia andò letteralmente in estasi. John Paul Jones e Jimmy Page,
invece, incidevano già da anni, e fu Page a guidare tutte le operazioni,
sapendo perfettamente cosa voleva ottenere, e come ottenerlo. Si occupò in
prima persona anche del fenomenale suono della batteria che sarebbe venuto
fuori dal disco (benché in buona parte creato dalla stessa potenza di John
Bonham), tenendo i microfoni a distanza per “generare profondità”, come era
solito asserire. Peter Grant adorava e rispettava Jimmy. Soltanto una volta
John Bonham ebbe a polemizzare con Page durante le registrazioni. E Grant
intimò a Bonzo di fare quello che diceva Jimmy Page, perché, in caso contrario,
l’avrebbe sbattuto fuori dal gruppo (e probabilmente anche dalla finestra). Per
inciso, nessun altro si sarebbe potuto permettere di contraddire il gigantesco
Peter Grant senza rischiare di farsi male sul serio! Ma Bonham fece buon viso a
cattivo gioco, perché aveva capito che quello era il gruppo giusto per
combinare qualcosa di veramente importante. E per questo aveva rinunciato a
possibili lavori con gente del calibro di Chris Farlowe e Joe Cocker. Lo stesso
John Paul Jones l’aveva intuito, e disse che di lì a poco avrebbe fatto un
sacco di soldi: e infatti, in poco tempo guadagnò due milioni di sterline! Gli
Zeppelin, dopo la Scandinavia, fecero qualche data inglese (anche al Marquee di
Londra) come New Yardbirds. Quindi esordirono con il nuovo nome Led Zeppelin,
in un primo tempo scritto “Lead Zeppelin”, da un’idea di Keith Moon, il
batterista degli Who, che intendeva formare un super-gruppo con membri degli
stessi Who e dei futuri Zeppelin. Di solito la scritta “ex Yardbirds” era più
grande del nome Led Zeppelin sull’insegna del locale dove si sarebbero esibiti.
Ma la mente di Grant e Page era già rivolta agli States, e, ottenuto un
vantaggiosissimo contratto con l’Atlantic Records di Ahmet Ertegun nel 1968,
proprio nei giorni di Natale volarono in America, accolti all’aeroporto da
Richard Cole. Quella fu anche l’unica volta in cui Peter Grant non partì con
loro, con suo successivo grande rammarico: non sarebbe successo mai più. Quello
con gli USA fu amore a prima vista: all’inizio il nome del gruppo compariva
anche storpiato all’esterno dei club dove si sarebbero esibiti. Ma poco dopo i
ragazzi americani impazzirono sia per il disco appena uscito, che per le
esibizioni dal vivo. Gli Zeppelin rubarono la scena anche ai Doors, dei quali
furono gruppo spalla. Jones si rese conto dell’effetto che avevano sul pubblico
quando notò che c’erano giovani che battevano addirittura la testa contro il
palco, mentre loro ci davano dentro. Steve Tyler, in seguito cantante degli
Aerosmith, racconta di aver pianto dopo aver visto gli Zeppelin in azione per
la prima volta. E di aver pianto di nuovo quando vide la sua ragazza uscire
dalla stanza di Jimmy Page! Mentre a Plant e a Bonham non sembrava vero di
essere in America, Jimmy camminava impettito, sicuro di sé, già ben nota star
degli Yardbirds anche a quelle latitudini. Ma il gruppo stava comunque bene
insieme: era sempre unito, non solo sul palco, ma anche nei locali dove andava
a mangiare e a bere. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, le due coppie
interne alla band non erano Page e Plant
da un lato e la sezione ritmica dall’altro, bensì i ragazzi delle Midlands da
una parte (Plant e Bonham), e i più esperti “meridionali” di Londra (Page e
Jones) dall’altra, con conseguenti (affettuose) prese in giro reciproche.
Robert e Bonzo litigavano spesso, ma solo per stupidaggini, proprio come
fratelli. E si intendevano a meraviglia, anche senza parlare: cosa che non
sarebbero stati capaci di fare con gli altri della band. L’intesa perfetta tra
tutti e quattro era in ogni caso soprattutto quella che si accendeva sul palco:
un’alchimia magica, che li portava ad andare tutti nella stessa direzione e a
suonare le stesse cose, anche senza averle mai provate prima. Fu così che le
versioni live dei brani assunsero una vita propria, con versioni diverse
rispetto a quelle incise sui dischi. Il medley di classici del rock’n’roll
venne inserito dal vivo in un primo tempo all’interno di How Many More Times, e solo successivamente su Whole Lotta Love. Durante l’assolo di Moby Dick John Bonham era in grado di suonare a mani nude con una
potenza spaventosa. Fu Peter Grant il primo manager in grado di costringere i
promoter a tenere per sé solo il 10 % degli incassi derivanti dai concerti,
lasciando il 90 % al gruppo. Nel corso del 1969 Jimmy passò dalla Fender
Telecaster alla Gibson Les Paul: Joe Walsh, futuro chitarrista degli Eagles,
volle fargli dono di questa magnifica Les Paul di fine anni Cinquanta. Page
rispose di trovarsi bene con la sua Telecaster dipinta a colori psichedelici,
utilizzata con gli Yardbirds e sul primo disco degli Zeppelin, oltre che in
concerto. Ma cambiò idea quando provò la nuova chitarra. Il secondo LP, uscito
nel 1969 e intitolato LED ZEPPELIN II (solo con HOUSES OF THE HOLY si sarebbero decisi a pubblicare un
disco con un vero titolo) fu praticamente registrato in vari studi sparsi qua e
là, mentre erano in tour negli USA. Hearthbreaker,
addirittura, venne messa su nastro in una sala, mentre l’assolo di Page,
contenuto nello stesso brano, fu registrato altrove: e infatti il suono è
diverso. Lo stesso avvenne per il “drum solo” di Moby Dick, costruito mettendo insieme registrazioni effettuate in
vari studi separatamente. Il suono dei Led Zeppelin acquisisce comunque
un’identità più definita: l’album d’esordio era infatti stato registrato dopo
solo due settimane di concerti tra Danimarca, Svezia e Norvegia, dal 7 al 24
settembre 1968, mentre il secondo disco, pubblicato nell’ottobre del 1969,
nacque durante sei mesi in tournée, con i brani scritti in camere d’albergo,
portandosi sempre dietro i nastri master. What
is and What Should Never Be si avvalse della stereofonia per far rimbalzare
chitarra e voce da un canale all’altro sulla sezione conclusiva, mentre anche Living Loving Maid (She’s Just a Woman), il pezzo che a Page piaceva meno, risulta
essere un brano rock di ottima qualità. La copertina mostrava di nuovo un
dirigibile e i membri del suo equipaggio, tra i quali comparivano i volti degli
stessi componenti della band. Plant compose
uno dei suoi primi pezzi, Thank
You, una canzone folk guidata dalla chitarra a 12 corde di Page e
dall’organo di Jones, dedicandolo alla moglie; The Lemon Song era una loro versione di Killing Floor di Howlin’ Wolf, registrata dal vivo in studio (e
“Down on this killing floor” era proprio il verso con il quale Robert chiudeva
il pezzo). Ramble On, caratterizzata
da chitarre acustiche sostenute da percussioni, conteneva un refrain e un
finale più aggressivo. Anche se a farla da padrone sarebbe stato il micidiale
riff di apertura dell’album: quello di
Whole Lotta Love, divenuto ben presto uno dei brani più famosi della storia
del rock: Jimmy Page l’avrebbe suonato anche in occasione della cerimonia di
chiusura dei giochi olimpici di Pechino 2008, con il passaggio di testimone per
quelli di Londra del 2012, a rappresentare lo stesso Regno Unito. Quel riff
l’aveva tirato fuori durante una delle loro esecuzioni lunghe 15 minuti di As Long As I Have You di Elvis.
L’apocalittica sezione centrale, caratterizzata dalle convulse percussioni di
Bonham, vedeva anche la chitarra slide di Page mixata al contrario insieme ai suoni spaziali del suo Theremin,
unitamente alle urla e ai gemiti di Plant. Jimmy e il fonico Eddie Kramer
missarono il tutto a New York, saltando come pazzi da una parte all’altra del
mixer Altec a 12 canali degli A & R Studios, e muovendo cursori e manopole
varie in modo da ottenere quel caos di suoni immerso nell’effetto riverbero,
prima che il pezzo tornasse al tema iniziale. Il tour manager Richard Cole
ricorda un Jimmy Page esausto, dal volto tirato e con profonde occhiaie. Fatica
che sarebbe stata ripagata: LED ZEPPELIN II vendette tre milioni di copie
in sei mesi, superando ABBEY
ROAD dei Beatles al 1° posto in
classifica: nel giro di un anno la band si vide passare dai viaggi in mezzo
alla neve per i concerti inglesi, al ritrovarsi seduti in prima fila allo
spettacolo di Elvis Presley a Las Vegas. Se è vero che gran parte dei brani
contenuti nei primi due dischi erano cover di bluesmen di colore americani, le
versioni dei Led Zeppelin erano talmente diverse che la maggior parte di
costoro si sentì in dovere di ringraziarli per aver consentito alla loro musica
di essere conosciuta in tutto il mondo. Solamente Willie Dixon ottenne che il
suo nome comparisse tra i credits quale autore di parte dei testi di Whole Lotta Love. Anche Dazed and Confused conteneva il
medesimo tema del brano I’m Confused
di Jake Holmes. La stessa celeberrima Stairway
To Heaven ha costretto in tempi più recenti Jimmy e Robert ad andare sotto
processo, in quanto l’arpeggio iniziale del brano era assai simile a quello di Taurus degli Spirit, risalente a due
anni prima. Gli ex Zeppelin avrebbero però vinto la causa. In occasione del
terzo disco (LED ZEPPELIN III)
la band decise di cambiare registro: nel 1970 si trasferì con famiglie, tecnici
e strumenti a Bron-Yr-Aur, una tranquilla dimora del Settecento in una zona sperduta del Galles, senza
corrente elettrica né acqua corrente, e con le chitarre acustiche cominciò a
comporre brani più tranquilli, di matrice decisamente folk. Pezzi di questo
tipo si potevano in realtà ascoltare anche sugli album precedenti: solo che
questa volta occupavano una buona metà del lavoro! Ciò nonostante, il disco si
apriva con Immigrant Song, uno dei
brani più devastanti della discografia Zeppelin, utilizzato anche come inizio
dei concerti del periodo ’71-’72. Tra parentesi, nei loro dodici anni di
carriera il gruppo non tenne alcun concerto negli anni 1974, 1976 e 1978. E
solo quattro show nel 1979. Su quel terzo disco erano presenti anche altri
brani elettrici quali Celebration Day
e Out On The Tiles (il cui inizio si
rivelò poi utile come apertura delle versioni live di Black Dog). Al brano d’apertura seguiva l’orientaleggiante Friends. E c’era anche quel lento,
straziante, epico blues bianco intitolato Since
I’ve Been Loving You: catturato praticamente dal vivo, non si preoccupava
di nascondere qualche pecca (una nota dei bass pedals di Jones sbagliata, la
cinghia della cassa di Bonham che si sente fin troppo distintamente), in favore
di una spontaneità e di un’enfasi fuori dal comune: la voce di Plant comincia
sulle tonalità basse, per lanciarsi verso la fine in acuti vertiginosi;
l’organo di John Paul Jones è straordinario; ogni colpo di cassa o rullante di
Bonzo suona come una sentenza, possente e implacabile. Page alterna arpeggi e
contrappunti delicatissimi ad un assolo sfrenato, a velocità forsennata, eppure
emozionante in ogni sua nota: il semplice controllo delle dinamiche da parte di
tutta la band per ottenere un risultato strepitoso. Il pezzo era stato
presentato in anteprima durante il tour britannico del gennaio 1970: lo stesso
del concerto filmato alla Royal Albert Hall. Anche Bron-Yr Aur Stomp era nato come brano elettrico, per essere poi
trasformato in un incalzante “stomp” (appunto) acustico, utile anche per i
concerti. Così pure That’s The Way
(durante la registrazione della quale pare che Jimmy abbia concepito la sua
prima figlia) e Tangerine erano
contraddistinti dalle chitarre acustiche. Lo stesso può dirsi riguardo
all’ultimo brano (chitarra con il bottleneck e voce con effetto tremolo),
dedicato già nel titolo al cantautore Roy Harper. Quest’ultimo si era esibito
ad Hyde Park con i Jethro Tull e i Pink Floyd il 29 giugno del 1968 (lo stesso
giorno in cui usciva il secondo Lp di questi ultimi, A Saucerful Of Secrets). Roy avrebbe anche cantato Have A Cigar su WISH YOU WERE HERE dei Floyd nel 1975, per poi
suonare con Page nel 1984, sia su disco che dal vivo. Esiste un documentario
inglese che mostra Jimmy e Harper suonare due brani di quest’ultimo con le
chitarre acustiche, all’aperto, tra valli verdeggianti: Page, in pieno periodo
Firm, compare con gli stivali e la sciarpa, rispondendo alle domande
dell’intervistatore, tranquillo e sorridente, parlando anche di Bonzo e di Paul
Rodgers. La copertina di LED
ZEPPELIN III era una delle più colorate della band, nonché la più
complessa: rappresentava i volti dei componenti del gruppo sparsi tra una
miriade di immagini che sembravano quasi ricordare un fumetto. Era stata
realizzata dal grafico Richard Drew, già compagno di Page al collage: ma Jimmy
non rimase soddisfatto della prima versione del lavoro, e per questo il disco
sarebbe uscito in ritardo. Inizialmente il terzo Lp venne dunque distribuito
con una copertina provvisoria, che era
di fatto il retro dell’album, con i volti in bianco e nero di Plant, Page,
Jones e Bonham. Il fonico questa volta era Andy Jones. Al festival di Bath del
28 giugno 1970 Jimmy si presentò in scena con cappotto, barba e cappello
floscio. Nel novembre del 1971 al Wembley Empire Pool indossò invece un
maglioncino con la grande scritta “Zoso”in bella evidenza. Con riferimento ai
costumi di scena veri e propri, lo stesso Page ne avrebbe sfoggiato uno nero
tra il 1972 e il 1973, sostituendolo con uno bianco per il tour del 1977. Dal
canto suo, Peter Grant non permetteva che gli Zeppelin pubblicassero singoli,
né che andassero in televisione. E così i filmati professionali che li
riguardano sono davvero pochi: qualche pezzo ripreso dalla Tv danese, poco
altro dalla trasmissione francese Tous en
Scéne e un brano per il film Supershow:
tutto materiale dei primi mesi del 1969. Poi, su pellicola, la Royal Albert
Hall del 1970 e il Madison Square Garden del 1973 (quest’ultimo per il film The Song Remains The Same). Più qualche
frammento di Sidney ’72. Per fortuna esistono le riprese effettuate per i
maxischermi durante i concerti di Earls Court ’75, Seattle ’77 e Knebworth ’79:
altrimenti avremmo ben poco a documentare la band in azione sul palco. In ogni
caso, filmati a parte, la vera pietra miliare della discografia Zeppelin
sarebbe venuta fuori nel 1971 sul quarto album, di fatto senza titolo: piazzata
spesso al primo posto nei sondaggi riguardanti le canzoni più belle di tutti i
tempi, Stairway To Heaven si staglia
imperiosa tra gli altri brani del disco: anche qui, un grande lavoro di
dinamiche, dall’inizio quieto e vagamente celtico, con il delicato ed evocativo
arpeggio di Page, il mellotron di Jones a simulare i flauti, più la voce
morbida di Plant, fino all’esplosione dell’assolo di chitarra (una Fender
Telecaster sul disco, la mitica doppio manico rossa dal vivo), seguita dalla
sezione finale, con la voce di Plant che diventa acutissima, per tornare
morbida solo sull’ultimissima frase, che suggella il brano proprio con quello
che è il suo titolo: “And she’s buying a stairway to heaven”. Jimmy Page si
fece costruire la chitarra double neck appositamente per le esibizioni live di
questo pezzo, potendo così spostare le dita tra il manico inferiore (a sei corde)
e quello superiore (a dodici corde). Stairway
to Heaven divenne anche l’ossessione di tutti gli aspiranti chitarristi, al
punto che molti negozi di strumenti musicali dovettero esporre un cartello che
vietava di suonarla mentre si provavano le chitarre. Il pezzo Rock and Roll si rivelò invece utile per
l’apertura dei concerti del 1973 e del 1975: venne registrato durante una jam
session insieme al pianista dei Rolling
Stones Ian “Stu” Stewart (e infatti l’altro brano si intitolava Boogie with Stu, recuperato poi su PHISICAL GRAFFITI). Questo
quarto album venne inciso presso Headley Grange, un’antica dimora rurale
inglese utilizzata anche da Genesis e Bad Company. Per il brano When the Leeve Breaks la batteria venne
registrata nell’atrio sotto una rampa di scale, in uno spazio dalla risonanza
magnifica, semplicemente facendo pendere i microfoni dall’alto. Questo brano
era la cover di un blues risalente al 1929. Il disco si apriva con la sola voce
di Robert Plant che introduceva l’esplosiva Black
Dog. Tutto l’album è un perfetto caleidoscopio di generi musicali
mirabilmente assemblati, dal rock più trascinante al folk con influenze
celtiche, quali quelle che possiamo ritrovare su Going To California e sulla magica The Battle of Evermore, con il duetto tra la voce maschile di Plant
e quella femminile di Sandy Denny dei Fairport Convention. La copertina
mostrava un anziano contadino con una pesante fascina di rami sulle spalle: si
trattava di un autentico dipinto ad olio acquistato poco tempo prima da Robert
in un negozio di antiquariato a Reading. All’interno era invece riportato il
testo di Stairway To Heaven accanto
all’immagine del vecchio eremita incappucciato con la lanterna in mano (la luce
della verità). E’ su questo disco che compaiono per la prima volta i simboli
runici attribuiti a ciascun componente del gruppo. Un album senza né titolo né
nome del gruppo sulla front cover poteva apparire un autentico suicidio
commerciale: ma le cose sarebbero andate diversamente. Il successivo album, HOUSES OF THE HOLY, fu messo su nastro nella primavera del
1972 a Stargroves, una tenuta della campagna inglese proprietà di Mick Jagger,
con l’ausilio dello studio mobile dei Rolling Stones. E procurò agli Zeppelin
altri classici da eseguire dal vivo nel corso degli anni: la brillante The Song Remains the Same (con la quale
avrebbero aperto i concerti del 1977 e del 1979), Over the Hills and Far Away, No
Quarter e The Rain Song.
Quest’ultima era una dolcissima mini-sinfonia, che Page compose in risposta ad
un appunto che George Harrison dei Beatles, loro grande fan, aveva mosso dopo
averli visti suonare a Los Angeles: quello, cioè, di non mettere mai nei dischi
ballate quiete. E, infatti, i primi due accordi di The Rain Song sono i medesimi della splendida Something dello stesso Harrison. Le sognanti orchestrazioni del
brano erano opera del mellotron di John Paul Jones. Back Country Woman (finita sul disco seguente) fu registrata
all’aperto, e si decise di lasciare anche il rumore di un aeroplano di
passaggio. Il fonico Eddie Kramer ricorda gli Zeppelin felici procedere carponi
uno dietro l’altro sul prato durante l’ascolto dell’allegra Dancing Days. Il funky contaminò The Crunge, ispirata da James Brown, con il sintetizzatore VCS3 a
simulare la sezione fiati. Jimmy suonò una Fender Stratocaster proprio per
ottenere un suono alla James Brown, inserendo un riff che aveva in mente fin
dal 1970. D’Yer Ma’ker vedeva invece
il sound degli Zeppelin virare verso il reggae, con una melodia pop che
consentì loro di entrare per l’ultima volta con un singolo in classifica. Il
pezzo veniva introdotto dal suono formidabile della sola batteria, ottenuto
posizionando tre microfoni a distanza per produrre un riverbero molto naturale.
Venne registrata alle cinque di mattina, subito dopo la magniloquente The Song Remains the Same, quando la
band aveva bisogno di dedicarsi a qualcosa di più leggero. La conclusiva The Ocean (titolo riferito al vasto
pubblico presente ai loro spettacoli) era preceduta da una frase di Bonzo, e
sarebbe stata utilizzata spesso come bis finale dei concerti del 1973: un
roadie avvicinava il microfono a John Bonham per consentirgli di pronunciare le
parole di cui sopra, utili a lanciare l’inizio esplosivo del brano. The Song Remains the Same e The Rain Song venivano suonate spesso
unite insieme anche dal vivo, con l’utilizzo da parte di Page della famosa SG
doppio manico accordata in maniera non convenzionale. Il primo di questi due
brani, che apriva il disco, era stato presentato per la prima volta durante il
tour giapponese dell’ottobre 1972 con il titolo di The Overture. Parti di Over
the Hills and Far Away erano state già composte da Jimmy e Robert nel 1970
a Bron-Yr-Aur: la chitarra acustica apriva e chiudeva il pezzo, ma la parte
centrale deflagrava in una lunga sezione rock, con la voce di Plant dalle
tonalità acutissime. Il cantante fu in grado di interpretarla nella versione
originale solo tra il 1972 e il 1973. In seguito fu costretto ad abbassarla di
tonalità, modificandone anche la linea melodica. Il brano fu comunque eseguito
abitualmente fino al festival di Knebworth del 1979. No Quarter, il capolavoro di John Paul Jones, si contrapponeva alla
solarità dell’album con la sua atmosfera cupa, ipnotica e rarefatta: il titolo
faceva riferimento alla pratica militare di non concedere pietà all’avversario
sconfitto. Il brano era caratterizzato dal suono di un piano elettrico con
effetto phaser e un grandioso assolo di pianoforte acustico nella sezione
centrale. Jimmy Page offriva il suo
contributo con un bel tema di chitarra filtrata attraverso il pedale wha-wha,
qualche guizzo spaziale al Theremin e un fantastico assolo. Dal vivo, in
conclusione di No Quarter, Robert
Plant si rivolgeva sempre al pubblico con il suo: «John Paul Jones on piano!».
HOUSES OF THE HOLY fu il
primo lavoro degli Zeppelin composto da brani interamente originali. Il pezzo
che dava il titolo all’album venne
scartato all’ultimo momento, in quanto ritenuto troppo simile a Dancing Days. Il disco venne completato
presso gli Electric Lady di New York e gli Olympic Studios di Londra. La
copertina della Hipgnosis mostrava una moltitudine di bambini nudi arrampicarsi
verso una meta sconosciuta. Fu proprio la difficoltosa realizzazione di questa
front cover a provocare il ritardo nell’uscita dell’album. Venne infatti
rigettata la proposta di Storm Thorgerson, il famoso grafico dei Pink Floyd, e
accettata quella di Aubrey Powell, entrambi della Hipgnosis. Quest’ultimo
fotografò solo due bambini nudi, fratello e sorella, entrambi dai lunghi
capelli biondi, mentre si arrampicavano sul sito dell’Irlanda del Nord
denominato Giant’s Causeway (il Selciato del Gigante), caratterizzato da rocce
di basalto di varia altezza. I bimbi, Samantha e Stefan Gates, vennero
fotografati separatamente, e poi moltiplicati in studio per il fronte e il
retro del lavoro. Le immagini, originariamente in bianco e nero, vennero
successivamente dipinte con mistiche tonalità oro e argento, mentre un cielo
dall’onirico e luminoso color arancione fu creato per lo sfondo. A causa di errori
di stampa, l’artwork finale però veniva fuori virato in viola. E quando l’opera
fu finalmente realizzata nel modo corretto, ci si mise di mezzo anche la
censura, proprio a causa dei bambini nudi. Si rimediò coprendo gli stessi con
un packaging che riportava il titolo del disco e varie altre informazioni
concernenti l’album. Solo rompendo questo rivestimento l’acquirente si sarebbe
trovato di fronte la vera copertina, priva di qualsiasi scritta. Sempre nel
1972 Page e Plant si recarono in viaggio in India e registrarono versioni
alternative di Four Sticks e Friends accompagnati da musicisti
locali. I brani erano tratti rispettivamente dal quarto e dal terzo album, e
già nelle versioni originali erano contaminati da suggestioni orientaleggianti.
Al gruppo venne invece vietato di suonare a Singapore per via dei capelli
troppo lunghi, mentre la signora Von Zeppelin proibì loro di utilizzare il nome
della sua famiglia durante il tour in Germania, costringendoli ad esibirsi con
il nome di The Nobs. In compenso la tournée del 1973 fu spettacolare: dopo
alcune date in locali più piccoli (molto bella la registrazione effettuata dal
mixer a Southampton il 27 gennaio), la band si trasferì negli USA, potendo
disporre di un aereo privato per spostarsi da una città all’altra: diversi
sedili di quel Boeing vennero rimossi per lasciare spazio a comodità quali un
divano e un televisore giganti, un finto camino, una suite di lusso con
materasso ad acqua, più un organo con il quale Jones poteva intrattenere gli
ospiti. L’enorme scritta “Led Zeppelin” era riportata sulla fusoliera del
velivolo, che consentiva loro di rientrare in albergo a Los Angeles dopo ogni
concerto. In realtà tra il 1972 e gli inizi del 1973 la band si spostava
utilizzando un piccolo Jet Falcon: ma al ritorno dallo show tenuto presso il
Kesar Stadium di San Francisco, il velivolo fu soggetto a pericolose turbolenze
che indussero Peter Grant ad affittare lo Starship. John Bonham, che era
legatissimo alla moglie e ai figli, quando era in tournée soffriva per la
lontananza dalla famiglia, beveva e diventava violento, guadagnandosi il poco
lusinghiero soprannome di “The beast”. Nel 1974 il gruppo comunque non andò in
tour, perché Plant dovette subire una operazione alle corde vocali, ma fondò la
propria etichetta discografica Swan Song,
con la quale avrebbe pubblicato tutti i
dischi successivi (quelli precedenti erano usciti per l’Atlantic Records). Il
14 febbraio Jimmy Page e John Bonham parteciparono all’evento denominato “Roy
Harper and Friends” al Raimbow Theater di Londra, insieme a Keith Moon e Ronnie
Lane, per promuovere il nuovo disco del cantautore loro amico. Nel corso di
quell’anno furono inoltre effettuate riprese integrative per il film The Song Remains the Same, girato in
conclusione del menzionato tour americano del 1973, nel corso delle ultime tre
date al Madison Square Garden di New York alla fine di luglio. I nastri avevano
infatti rivelato dei “buchi” senza immagini, cui si rimediò con la band che
faceva finta di suonare in concerto, trovandosi invece su un set
cinematografico allestito per l’occasione. Furono inoltre aggiunte le immagini
fantasy quali quelle di Robert Plant nelle vesti di un cavaliere che salva la
sua dama prigioniera in un castello, Page che si inerpica sulla montagna per incontrare
l’eremita incappucciato, e Jones che
cavalca mascherato tra paesaggi misteriosi. Quest’ultimo non accettò di
indossare identici costumi di scena nel corso delle tre serate al Madison
Square Garden, in modo da non far notare il montaggio fra le scene tratte dai
tre diversi show, ma inserite nel medesimo brano. E così, soprattutto su Dazed and Confused, il bassista appare vestito diversamente nel corso di immagini che
si susseguono senza soluzione di continuità. Al contrario, Robert Plant si
mostra sempre con pantaloni blu aderenti, torso nudo, un giubbino con spalline
e una cascata di riccioli biondi sulle spalle. Il 1974 fu anche l’anno in cui i
Led Zeppelin registrarono i brani per il nuovo album: il doppio PHISICAL GRAFFITI, uscito nel
1975, cui aggiunsero alcuni pezzi rimasti fuori dai lavori precedenti. Tra
questi, come detto, anche Houses of the
Holy, che aveva dato il titolo al disco omonimo. Furono comunque solo i
brani nuovi ad entrare nelle scalette dei concerti: Sick Again, Kashmir, In My Time of Dying, Ten Years Gone e Trampled Under Foot. Quest’ultima era caratterizzata da un clavinet
che ricordava Superstition di Stevie
Wonder, ed era la nuova versione di un blues di Robert Johnson che parlava
della sua Ford Terraplane. The Wanton
Song venne utilizzata solamente all’inizio del tour del 1975, per poi
ricomparire come apertura dei concerti di Page & Plant del 1995-1996 e del
1998. Anche la potente The Rover era
una traccia che non aveva trovato posto su HOUSES OF THE HOLY. La maestosa e orientaleggiante Kashmir sarebbe stata definita da Plant
“Il vero orgoglio dei Led Zeppelin”. Il cantante aveva adesso una voce meno
limpida e con estensione inferiore rispetto a due anni prima: eppure quella del
1975 sarebbe stata ricordata come la tournée migliore della band. La copertina
del disco mostrava un edificio esistente anche nella realtà a New York: dalle
finestre potevano leggersi le lettere che componevano il titolo dell’album,
oltre ai brani in esso contenuti. Gli
spettacoli del tour di PHISICAL
GRAFFITI cominciavano con Rock and Roll, seguita da un frammento
di The Rover e da Sick Again. Il tour si svolse quasi
interamente negli States, con Jimmy Page dai capelli più ricci e lunghi, con un
diadema verde appeso al collo, e spesso in costume nero, Robert Plant con una
sorta di tunica colorata aperta sul petto, mentre John Bonham compariva vestito
come i protagonisti del film Arancia
Meccanica, in tuta bianca e bombetta nera. Non così a Earls Court, dove le
tre date previste per il mese di maggio, a causa delle numerose richieste di
biglietti, divennero cinque. Il set acustico, che vedeva Jimmy, Robert e Jones
seduti, era costituito da Going To
California, That’s The Way e Bon-Yr-Aur Stomp. Quest’ultimo brano
era stato composto nell’omonimo cottage nel 1970, ed era stato dedicato da
Plant al suo cane Strider: spesso, quando l’esecuzione del pezzo giungeva alla
sua conclusione, Robert si alzava in piedi ed esclamava proprio: «Strider!».
Durante una delle date a Earls Court, invece, prima di esibirsi in questa
canzone, il vocalist canticchiò Old Man di
Neil Young. Su That’s The Way Jones
si serviva del mandolino e dei bass pedals, mentre nel corso di Bron-Yr-Aur Stomp, al contrario degli
altri, suonava in piedi un sottile contrabbasso elettrico. Qui Bonzo era
perfetto nel controcanto, e utilizzava anche le nacchere. In occasione dei
cinque concerti londinesi venne eseguita una versione di Tangerine con Jimmy impegnato alla famosa chitarra elettrica double
neck invece che a quella acustica. Fantastica l’esecuzione di In My Time of Dying, che vedeva Page
scatenarsi con la chitarra Danelectro utilizzando il bottleneck, nel suo
costume nero avvolto da spirali colorate. Inoltre, durante Trampled Under Foot, i faretti prendevano a pulsare trasformando il
palco in una discoteca, mentre Plant cantava anche un breve verso di Gallows Pole. Nel corso della tenebrosa No Quarter il palco veniva invaso da un
fumo denso e colorato che affascinava gli spettatori. Ogni show del 1975 si
chiudeva con l’enorme scritta luminosa “Led Zeppelin” che appariva in alto,
dietro al palco, quando finiva Stairway
To Heaven e la band salutava il pubblico; il bis prevedeva invece Whole Lotta Love, con Jimmy Page
impegnato al Theremin senza chitarra a tracolla (al contrario dei concerti del
1973), seguita da Black Dog. Durante
il tour americano John Bonham decise di suonare la batteria nella sua stanza
d’albergo con la musica a tutto volume, tenendo svegli gli altri clienti per
tutta la notte. I primi mesi di quella tournèe videro Jimmy indossare spesso una bella camicia
ricamata d’argento. Ogni componente della band aveva il suo soprannome: Pagey,
Percy, Bonzo e Jonesy. E avevano anche le loro ragazze: le mogli lo sapevano,
ma si rendevano conto che i rispettivi consorti non avrebbero potuto rimanere
privi di compagnia femminile durante i lunghi mesi trascorsi in tour. La
ragazza di Jimmy era la giovanissima Lori Maddox, che finì per sostituire
Pamela Des Barress. Il 1975 fu anche l’anno che vide i Led Zeppelin concedersi
alla stampa: le riviste musicali dell’epoca avevano infatti osteggiato la band,
ignorando i loro primi dischi e limitandosi a brevi recensioni ben poco
elogiative. Durante il tour di PHISICAL
GRAFFITI venne invece rilasciato qualche pass a giornalisti selezionati
per seguirli anche sullo Starship o per rilasciare qualche intervista. Fu così
che Stephen Davis potè scrivere Il Martello
degli dei, cinque anni dopo lo scioglimento del gruppo, ottenendo un
successo clamoroso e, molti anni dopo, il libro LZ-’75. La copertina della seconda edizione del bestseller del 1985
sarebbe stata utilizzata per la raccolta MOTHERSHIP. A sua volta Cameron Crowe, che era stato scelto dal gruppo per
essere il loro intervistatore da parte della rivista «Rolling Stone»,
sarebbe divenuto il regista del film Almoust
Famous (“Quasi Famosi”), che citava più volte episodi realmente accaduti
agli Zeppelin, compresa una frase pronunciata scherzosamente da Robert Plant
(“Sono un dio dorato!”). Nel film possono ascoltarsi anche diversi brani dei
Led Zeppelin, i cui componenti di solito non concedono il diritto di utilizzare
la loro musica. L’hotel di Los Angeles presso il quale risiedevano, chiamato
Continetal Hyatt House, venne soprannominato Riot House (la casa della rivolta)
a causa dei “sommovimenti” che avvenivano al suo interno, con ragazze sdraiate
nei corridoi del sesto piano nella speranza che qualcuno del gruppo aprisse
loro la porta e televisori lanciati dalle finestre. In un’occasione Peter Grant
chiese al direttore dell’albergo se non avesse avuto voglia di scaraventarne
fuori uno anche lui. Il tizio rispose che sognava da tempo di farlo: Grant pagò
quanto dovuto, e un altro televisore volò dall’alto di una finestra per
schiantarsi al suolo in mille pezzi. A Monaco venne registrato l’album PRESENCE, cui non poté far
seguito il relativo tour, dal momento che Robert si era rotto una gamba e
fratturato il bacino a causa del grave incidente stradale avvenuto il 4 agosto
1975 sull’isola di Rodi, dove era andato vacanza con la moglie Maureen, che
rimase a sua volta ferita, essendo alla guida dell’auto. Miracolosamente illesi
rimasero invece i loro due figli e quella di Jimmy Page, Scarlet (futura
fotografa), che erano a bordo sui sedili posteriori. Fu Richard Cole ad
organizzare il rientro a casa, mentre il tour di quell’anno dovette essere
interrotto. Robert Plant si fece forza per la riabilitazione, in California. Fu
costretto alla sedia a rotelle, ma l’ultimo giorno dell’anno riuscì a camminare
con una stampella nella cucina di casa sua. Considerate le condizioni del
cantante, PRESENCE,
inciso mentre era ancora il 1975 presso i Musicland Studios di Monaco, vide la luce l’anno seguente soprattutto
grazie al gran lavoro che Jimmy Page si sobbarcò in studio, sovraincidendo
numerose tracce di chitarra elettrica, e nessuna di chitarra acustica. Aveva
solo un paio di settimane a disposizione, dal momento che i Rolling Stones
avevano prenotato quegli stessi studi di registrazione, e spesso gli capitò di
addormentarsi sfinito sul mixer. In un’occasione Plant, preso dall’entusiasmo,
compì un balzo che lo fece ricadere sulla caviglia rotta, facendolo svenire. Ed
il pur gracile Page riuscì a prenderlo di peso per poi chiamare un’ambulanza.
Il disco era tagliente, contaminato dal funky e, sebbene sottovalutato dalla
critica, raggiunse il 1° posto negli Stati Uniti. La foto di copertina,
rappresentante un monolito nero (chiamato “The Object”) al centro di un gruppo
di persone, fu scattata in Sardegna. Il brano conclusivo, un lentissimo blues
intitolato Tea for One, ricordava in
qualche modo Since I’ve Been Loving You.
Solo due pezzi di quel disco (Achilles
Last Stand e Nobody’s Fault But Mine)
sarebbero stati eseguiti durante il tour del 1977, svoltosi solamente negli
USA, e che si rivelò, a detta di tutti, meno divertente dei precedenti. Ognuno di quei concerti, tra l’altro, durava
oltre tre ore, compresi gli infiniti assolo di Bonham prima, e di Page subito
dopo: una scelta poco felice che impediva al pubblico la possibilità di vedere
tutta la band sul palco per un tempo lunghissimo. Durante la performance
solista di John venivano utilizzati suoni elettronici in stereofonia sui
timpani. Il set acustico prevedeva anche la partecipazione dello stesso Bonzo
alle percussioni, e per la prima ed
unica volta venne eseguita The Battle of
Evermore, con la voce di John Paul Jones a sostituire quella di Sandy Denny
(non esattamente con i medesimi risultati, come si può immaginare). Nonostante
questo, l’inizio di ognuno di quei concerti era entusiasmante, con Jimmy Page
che irrompeva sul palco con la chitarra a doppio manico rossa per The Song Remains the Same, nel suo
costume bianco avvolto da spirali colorate raffiguranti draghi, mentre
arringava il pubblico inginocchiandosi sul palco. In qualche occasione comparve
invece con un abito che ricordava un’uniforme nazista, suscitando inevitabili
polemiche. Come già nel 1975, anche la tournèe di due anni dopo lo vedeva
incedere sulla scena con un paio di mocassini bianchi e neri. Achilles Last Stand sembrava aver preso
ispirazione dal tema dell’inno hippy San
Francisco, che era incluso nelle lunghe versioni live di Dazed and Confused. Ogni show si
chiudeva con l’inizio di Whole Lotta Love,
subito seguito dall’esecuzione integrale di Rock
and Roll. Se il tour del 1975 era
stato interrotto dall’incidente occorso a Robert Plant, quello del 1977 lo fu
addirittura a seguito della morte del figlio di quest’ultimo, Karac. E i Led
Zeppelin non sarebbero più riusciti a tenere una tournèe negli States dopo i
due show del 23 e 24 luglio all’Oakland Coliseum. In quella occasione gli
Zeppelin suonarono di giorno, con una grande scenografia che riproduceva le
gigantesche pietre di Stonehenge. Jimmy si presentò alla folla che gremiva gli
spalti con il costume nero al posto di
quello bianco solitamente utilizzato durante quel tour, mentre Plant apparve
con una maglietta recante la scritta “Nurses Do It Better!”. Dietro le quinte,
però, si verificò una brutta rissa che coinvolse John Bonham e Peter Grant, con
conseguenti strascichi legali. Il successivo concerto di New Orleans non
avrebbe mai avuto luogo, dal momento che in albergo Robert Plant ricevette
dalla moglie prima la notizia che il figlio Karac stava male, e poco dopo che
era deceduto a causa di un’infezione gastrica. Il bambino si può vedere insieme
alla sorellina Carmen durante il film The
Song Remains the Same. Naturalmente Robert Plant si isolò a lungo, fin
quando non comunicò al gruppo che era pronto ad iniziare le prove per il nuovo
disco, che sarebbe stato registrato tra il novembre e il dicembre del 1978
presso gli studi svedesi degli Abba, per essere pubblicato l’anno dopo. Questa
volta i principali autori delle musiche furono Plant e Jones, e le tastiere
presero il sopravvento sulla chitarra. Il ritorno in grande stile dei Led
Zeppelin, dopo varie voci di scioglimento, avvenne durante il festival di
Knebworth, in Inghilterra, con i due concerti tenuti per due sabati
consecutivi, il 4 e l’11 agosto del 1979, davanti ad un pubblico immenso.
Nell’occasione il gruppo, che presentava IN THROUGH THE OUT DOOR, comparve su un palco
gigantesco, con tanto di maxischermo, vestendosi in maniera identica per
entrambe le serate: eseguirono brani tratti da tutti i loro dischi e Robert
Plant, di nuovo in buona forma, intrattenne con sicurezza la vasta platea che
affollava il prato scherzando tra un pezzo e l’altro, mentre Jimmy si dimenava
in camicia azzurra e scarpe dello stesso colore, unitamente a pantaloni
bianchi. Entrambi portavano i capelli meno lunghi rispetto ai vecchi tempi,
anche se i boccoli di Robert ricadevano ancora sulla sua camicia scura aperta
sul petto. John Paul Jones utilizzava un nuovo basso a otto corde, un piano
elettrico e un pianoforte bianco sul quale poteva vedersi un assurdo telefono.
La scaletta, aperta da The Song Remains
the Same unita a Celebration Day,
fu quasi identica per le due serate. Ten
Years Gone venne eseguita solo il 4 agosto, per problemi tecnici relativi
alla chitarra a più manici utilizzata da John Paul Jones, mentre il bis finale
fu in un’occasione Communication
Breakdown e nell’altra Heartbreaker.
Gli unici due brani tratti dal disco nuovo (non ancora uscito) furono Hot Dog e In the Evening. Quest’ultima era anche la sola canzone della
setlist a vedere Page impegnato alla Fender Stratocaster azzurra con la leva.
Le esecuzioni di Kashmir e Achilles Last Stand furono strepitose,
mentre No Quarter e Since I’ve Been loving You risultarono
forse troppo lunghe, come già durante il tour del 1977. Su Achilles Last Stand Jimmy Page riuscì a sostenere benissimo il
brano con la sola Les Paul, nonostante la versione sul disco vedesse la
sovraincisione di numerose chitarre. Quando si giunse quasi alla conclusione
del pezzo “Jimey”, rispondendo ad uno sguardo di Plant, sorrise stringendosi
nelle spalle: lo stesso atteggiamento che avrebbe assunto per un attimo quasi
30 anni dopo, in occasione della reunion alla O2 di Londra. Proprio sulle
ultime note di una delle due esecuzioni di Over
the Hills and Far Away si ruppe una corda della Gibson: la successiva Misty Mountain Hop vide dunque
l’utilizzo di una chitarra dalla forma stranissima. Whole Lotta Love, uno dei bis finali, venne presentata in una
nuova versione: la stessa che avrebbero suonato nel 1988 in occasione della
festa per i 40 anni dell’Atlantic Records. Prima di eseguirla a Knebworth
Robert Plant si unì al pubblico cantando You’ll
Never Walk Alone (canzone di Jerry and the Pacemakers del 1963, adottata
dai tifosi del Liverpool). E alla fine dello stesso brano Plant, visibilmente
emozionato, parlò al microfono
pronunciando poche parole: «Non
so cosa dire, grazie per questi undici anni».
La copertina di IN THROUGH THE
OUT DOOR mostrava un uomo con cappello bianco seduto al bancone di un
bar, e ogni copia si trovava all’interno di una busta chiusa. L’immagine veniva
ripresa da diverse angolazioni, ma la busta impediva agli acquirenti di sapere
quale versione sarebbe loro toccata. Dopo Knebworth i Led Zeppelin tornarono in
scena per il tour del 1980 denominato “Led Zeppelin Over Europe”, replicando
una scaletta simile a quella del festival inglese, con Robert Plant in jeans e
maglietta verde e Jimmy Page non sempre in grande forma. Per la prima e ultima
volta venne eseguita la ballata All My
Love, dedicata allo sfortunato figlio di Plant. L’ultimo concerto della
band si svolse il 7 luglio a Berlino. L’ album che chiuse la discografia del
gruppo uscì postumo nel 1982: si intitolava CODA, e conteneva brani inediti dal 1970 al 1978.
L’apertura era affidata ad una travolgente We’re
Gonna Groove, con sovraincisioni effettuate da Page presso il suo studio.
Il brano, così come I Can’t Quit You Babe, proveniva in realtà dal concerto tenuto alla
Royal Albert Hall il 9 gennaio 1970, dal
quale era stato estromesso il rumore del pubblico. Diversi pezzi erano out
takes delle registrazioni effettuate alla fine del 1978 presso gli svedesi
Polar Studios per l’album IN
THROUGH THE OUT DOOR: Ozone Baby, Wearing and Tearing e la scoppiettante Darlene; Poor Tom risaliva alle session per il terzo album, mentre Walter’s Walk era tratta da quelle del
1972 per HOUSES OF THE HOLY:
la voce di Plant parrebbe comunque sovraincisa nel 1982. Infine Bonzo’s Montreux era un assolo di
batteria registrato ai Mountain Studios della omonima città svizzera nel
settembre del 1976, sul quale Jimmy aveva sovrapposto vari effetti elettronici,
uno dei quali sembrava evocare il refrain di Whole Lotta Love. La copertina riportava solo il titolo dell’album
a caratteri cubitali, con le prime due lettere separate dalle altre due da una
riga verticale, mentre l’interno mostrava un collage di foto della band nel
corso degli anni. Wearing and Tearing sarebbe
stata suonata dal vivo soltanto in occasione del festival di Knebworth del
1990, quando Robert Plant, durante il suo set, ospitò Jimmy per qualche brano.
La band era solita mantenere sui solchi dei dischi anche frammenti che altri
avrebbero estromesso: così, come accennato, prima dell’inizio di Black Country Woman, registrata
all’aperto, possiamo udire il rumore di un aereo in volo, il fonico che dice: «Poi lo tagliamo» e Plant rispondere: «No,
lascialo»; Tangerine è invece preceduta da qualche
accordo di Page che prova la parte centrale del pezzo; dopo la fine di In My Time of Dying si sentono note
scherzose di Jimmy e alcuni colpi di tosse da parte di John Bonham, che poi
esclama: «Questa è quella buona!», mentre l’ingegnere del suono invita il
gruppo in sala regia con un: «Dai, ragazzi, venite ad ascoltare». I Led
Zeppelin si esibirono una sola volta in Italia, il 5 luglio del 1971. Ma solo
per 26 minuti! Al velodromo Vigorelli di Milano era prevista infatti una delle
tappe del cosiddetto Cantagiro, con gruppi e cantanti che attraversavano il Bel
Paese al posto dei ciclisti del Giro d’Italia. Alla “tappa” di Milano il
celebre gruppo inglese, dopo una conferenza stampa, si sarebbe esibito in
qualità di ospite della serata. Quando però Page e compagni cominciarono il
loro show, i ragazzi ancora fuori dal velodromo cominciarono a pressare per
riversarsi all’interno della struttura. La polizia reagì sparando i gas
lacrimogeni. Plant dovette interrompere il concerto e, ignaro di quanto stesse
accadendo, sollecitò il pubblico a “smettere di accendere fuochi”. Quel giorno
gli Zeppelin, tra parentesi, portavano tutti la barba, Robert sfoggiava una
tunica colorata e Page dei vistosi pantaloni a quadri. In qualche modo riuscirono a suonare Immigrant Song, Heartbreaker, Since I’ve Been
Loving You, Black Dog, Dazed and Confused e Whole Lotta Love. Sarebbe stato
un bellissimo spettacolo, ma la gente, ancora prima degli incidenti, era già
ammassata non solo sotto il palco, ma anche attorno e dietro, come testimoniano
le foto di quella sera. Quando il fumo dei lacrimogeni costrinse tutta quella
folla di giovani ammassata nel velodromo a cercare scampo in direzione del
palco, la strumentazione finì per essere travolta, con i roadies che tentavano
disperatamente di salvare il salvabile. Gli Zeppelin provarono una sola volta a
riprendere lo show, ma la situazione era ormai fuori controllo, e dovettero
cercare rifugio nei camerini. In quell’occasione si erano esibiti anche i New
Trolls e i Pooh, e anche questi ultimi dovettero rinchiudersi nei camerini,
senza per questo riuscire a sfuggire alle esalazioni dei gas. Robert Plant andò
via in lacrime, più per la rabbia che per i lacrimogeni, giurando: «Mai più in Italia» (come avrebbe titolato anche qualche
giornale, dopo quegli sciagurati eventi). E purtroppo così fu. Io stesso avrei
visto Page e Plant, sempre a Milano, solo il 10 giugno 1995 al festival di
Sonoria: ma non erano più i Led Zeppelin, appunto. Anche se suonarono quasi tutti
brani del vecchio dirigibile (con qualche sorpresa, come Dancing Days e una brillante The
Song Remains The Same con tanto di chitarra double neck rossa). Purtroppo
pioggia, fango e ressa guastarono in parte quel concerto. I Led Zeppelin avrebbero potuto
andare avanti dopo la morte di John Bonham, avvenuta il 25 settembre del 1980
durante le prove per il tour americano del 1981, che sarebbe stato subito
cancellato. Ma decisero di non farlo, semplicemente perché ritennero che Bonzo
non fosse sostituibile. Il batterista era stato trovato a letto privo di vita,
soffocato dagli effetti di uno smodato ingerimento di vodka. A dicembre venne
comunicato lo scioglimento della band. E’ comunque innegabile che il loro
talento, unitamente alla inspiegabile aura magica che permea i loro brani,
rende la loro musica attuale ancora oggi. Phil Collins, uno dei nomi
inutilmente tirati in ballo come
possibile sostituto di John Bonham nel 1980, suonò con loro al Live Aid e sui primi dischi del Plant
solista, oltre a seguire quest’ultimo in tour negli USA durante il 1983.
Barriemore Barlow, batterista dei Jethro Tull dal 1971 al 1980, si ritrovò
invece dietro ai tamburi sui lavori solisti sia di Page che di Plant. Dal 1994
al 1998 questi ultimi unirono di nuovo
le loro forze, mettendo da parte le reciproche incomprensioni e pubblicando due
dischi: NO QUARTER
del 1994 riproponeva versioni speziate d’oriente di alcuni brani dei Led
Zeppelin eseguiti dal vivo per Mtv di fronte ad un pubblico selezionato.
WALKING INTO THE CLARKSDALE
del 1998 era invece composto da materiale del tutto nuovo, prodotto da Steve
Albini e trainato dal singolo Most High,
con relativo videoclip. Il fantastico video-concerto intitolato No Quarter Unledded conteneva gli stessi
brani relativi al primo dei Cd sopramenzionati, più alcuni altri, e si apriva
con una nuova versione di No Quarter eseguita
da Robert e Jimmy tra boschi verdeggianti. L’inedita Wonderful One veniva proposta con delicatezza ancora dai soli
Plant e Page, che utilizzava una bella chitarra acustica nera a doppio manico.
Mandolino per lui, invece, su The Battle
of Evermore, con la cantante indiana Najma Akhtar a duettare con Plant al
posto di Sandy Denny. Il tutto si svolgeva in una splendida sala con drappeggi
azzurri e blu, con il supporto di un’orchestra inglese e di una egiziana
denominata “The Egyptian Pharaons”. Faceva parte della band anche Porl
Thompson, che era il chitarrista dei Cure. Il giovane Ed Shearmur, oltre ad
occuparsi degli arrangiamenti, suonava l’organo Hammond e dirigeva l’orchestra,
mentre Nigel Eaton era all’Hurdy Gurdy: entrambi avrebbero preso parte alla
successiva tournée. Alcune riprese vennero effettuate in Marocco, insieme a
musicisti locali. Splendide le versioni di Since’ve
Been Loving You e The Rain Song,
entrambe accompagnate dall’orchestra britannica, con Jimmy Page in camicia
azzurra e dai capelli di nuovo ricci, lunghi e neri. L’orchestra egiziana
interveniva sugli ultimi brani: Four
Sticks, Friends e Kashmir, che nel finale includeva anche
un frammento di Black Dog. Rispetto
alla versione uscita su Vhs, quella pubblicata in seguito nel formato Dvd (con
foto di copertina in bianco e nero invece che a colori) offriva un novo mix e
degli extra, compreso un video della stessa Black
Dog in una nuova versione, con Robert in giubba militare nera e Jimmy
scatenato con una giacca dello stesso colore: il brano era sostenuto dalla nota
continua del lungo strumento australiano denominato “didgeridoo”, ed era stato
filmato il 30 gennaio del 1995 per gli American Music Awards. I Can’t Quit You Babe venne presentata
in Tv il 17 aprile del 1994 alla Buxton Opera House, ma non sarebbe stata
inserita nella scaletta dei concerti. Page e Plant presero a girare il mondo
tra il 1995 e il 1996 con due orchestre al seguito: quella egiziana li seguiva
in tour, mentre l’altra veniva assoldata nelle varie città presso le quali si
sarebbero esibiti. La prima, con i suoi violini e le percussioni, era la
medesima già presente sul Cd e il Dvd, e interveniva nella parte finale di ogni
concerto per le strabilianti versioni di Four
Sticks, Friends, In The Evening e Kashmir. Questi ultimi due brani
rappresentavano spesso il bis di ciascuno show. Venne confermata la sezione
ritmica che era con Robert Plant già dal 1993, mentre Page lavorava con David
Coverdale: e cioè Michael Lee alla batteria e Charlie Jones al basso, anch’essi
presenti su Cd e Dvd. Il primo sarebbe purtroppo scomparso ancora giovane nel
1999, mentre il secondo divenne genero di Plant. Questo rinnovato connubio tra
Jimmy e Robert non includeva John Paul Jones, ma fu qualcosa di molto simile ad
una reunion degli Zeppelin già prima di quella vera e propria del 2007: durante
il tour 1995-1996, nonostante si presentassero sotto il nome di Page &
Plant, infatti, la setlist comprendeva quasi interamente brani del vecchio
repertorio, a partire dalla devastante introduzione di Immigrant Song, per concludersi con l’epica Kashmir. Four Sticks
doveva il suo titolo al fatto che veniva suonata da John Bonham utilizzando
quattro bacchette, due per ciascuna mano. Lo stesso avrebbe fatto Michael Lee.
Vennero eseguiti brani inattesi, quali Achilles
Last Stand, When the Leeve Breaks
e Hey Hey, What Can I Do (il lato B
del singolo Immigrant Song del 1970):
quest’ultimo pezzo, in teoria meno conosciuto, vedeva invece numerose ragazze
cantarlo sugli spalti delle arene. In qualche occasione, considerata la
presenza di Porl Thompson, comparve in scaletta Lullaby dei Cure, e Plant cantò Shake
my Tree, il brano che apriva il disco di Coverdale e Page, con echi di Nobody’s Fault But Mine. Dopo l’accenno
a Dazed and Confused veniva suonato
anche un frammento di Break on Through
dei Doors. Tra i primi pezzi veniva proposta un’esuberante versione di Heartbreaker, che vedeva in ogni città
il pubblico saltare a braccia levate sotto il palco come un ondeggiante oceano
in tempesta. In scaletta era sempre presente Bring it on Home, che si concludeva con quello che era il finale di
What is and What Should Never Be. Non
mancava una lunga versione di Whole Lotta
Love, compresi gli stregoneschi giochi spaziali di Page al Theremin. Fu
invece rigorosamente esclusa Stairway To
Heaven, probabilmente per volontà di Robert, che ebbe con quel brano un
rapporto sempre controverso: veniva solamente accennata in sostituzione della
chiusura di Babe I’m Gonna Leave You,
lasciando così intendere agli spettatori che non sarebbe stata eseguita per
intero durante il concerto. Gli show cominciavano sempre con Jimmy Page che
dava le spalle al pubblico durante le prime, implacabili battute di Immigrant Song, per poi voltarsi di
scatto quando il brano passava in Mi maggiore, per collegarsi subito a The Wanton Song. Grandiosa la
performance di Since I’ve Been Loving You
eseguita il 25 giugno al festival di Glastonbury, con Jimmy in camicia
arancione. Alcuni brani vedevano quest’ultimo seduto imbracciando la chitarra
acustica nera a doppio manico, mentre Charlie Jones era più volte impegnato
anche al contrabbasso. La sezione quieta di In
The Evening veniva sostituita da un frammento di Carouselambra, pezzo tratto dal medesimo disco. Peccato che il
tour del 1995 non sia stato documentato con la pubblicazione ufficiale del
magnifico concerto californiano ottimamente ripreso dalle telecamere ad Irvine
il 3 ottobre. Altri spettacoli filmati in maniera professionale furono quelli
di Milwaukee (1° maggio) e Albuquerque (29 settembre). All’inizio del 1996 il
tour si spostò in Sudamerica, mandando in delirio i fan che all’epoca non
avevano mai potuto vedere gli Zeppelin: spettacolari le immagini relative al
concerto del 27 gennaio a Rio de Janeiro, con un Jimmy Page scatenato e una
marea umana in estasi. A febbraio erano già in Giappone, dove tirarono fuori
anche brani quali Tea For One, Custard Pie e The Rain Song, con Robert e Jimmy in forma davvero smagliante. Tra
parentesi, i pezzi Tea For One e Custard Pie non erano mai stati eseguiti
dai Led Zeppelin ancora in attività. Sempre In Giappone la stessa Custard Pie (prima traccia di
PHISICAL GRAFFITI)
venne utilizzata anche come apertura degli spettacoli, mentre Ten Years Gone con l’accompagnamento
orchestrale risultò davvero splendida. In un’occasione, all’inizio di Tea For One, la band andò fuori tempo:
Jimmy fece interrompere il brano, e sorridendo al pubblico lo fece cominciare
da capo. In questi ultimi show il bis era spesso costituito da Black Dog e Rock and Roll, durante le quali Jimmy ricompariva sulla scena non
più in camicia lucida, ma con una semplice maglietta. Nel 1998, a supporto del
nuovo disco WALKING INTO THE CLARKSDALE, si esibirono solo in quattro (Page, Plant, Lee e Jones),
tutti vestiti di nero, con l’aggiunta di Philip Andrews alle tastiere: in
scaletta comparvero How Many More Times
e No Quarter nella versione originale.
Gli spettacoli, dopo il consueto brano orientaleggiante registrato,
cominciavano ancora con The Wanton Song,
priva però dell’introduzione di Immigrant
Song. I pezzi del disco nuovo utilizzati in concerto furono di solito la
title track, Most High, Shining in the Light, la sofferta Heart in Your Hand e When the World Was Young. A chiudere quegli show era sempre la
vecchia Rock and Roll. La citata Most High venne presentata anche al
Festival di Sanremo il 27 febbraio 1998. Un buon documento video non ufficiale
di questa tournèe è quello relativo al Bizarre Festival, tenuto il 23 agosto
sotto la pioggia a Colonia, in occasione del Rockpalast. Charlie Jones, che
portava capelli lunghi sciolti o legati in un voluminoso codino, li aveva
adesso rasati a zero, utilizzando un basso trasparente. Altre riprese di buona
qualità sono quelle relative al breve set tenuto il 10 dicembre 1998 a Parigi
per Amnesty International: nell’occasione vennero presentate When the World Was Young, Babe I’m Gonna
Leave You e Rock and Roll. Con
quest’anno si chiuse il sodalizio tra i due ex Zeppelin, anche a causa delle
scarse vendite del nuovo lavoro. La lunga maglietta scura del sempre
carismatico Jimmy Page non nascondeva una accentuata pancetta. Il 10 ottobre
1999 quest’ultimo si esibì al Giants Stadium di New York in occasione del
NetAid, eseguendo una versione ridotta di Dazed
and Confused, la nuova Domino, In My Time of Dying e Whole Lotta Love. Si presentò sul palco
con lo stesso look dell’anno precedente (abiti neri e capelli corti),
utilizzando la sua storica Les Paul sul primo brano, una inedita doppio manico
bianca sul secondo, la Danelectro sul terzo e la Gibson dorata sull’ultimo. In
tutti i pezzi la sezione ritmica era composta da Michael Lee e Guy Pratt (Pink
Floyd, David Gilmour). Lee si divertì a suonare i brani che non aveva potuto
eseguire durante i precedenti tour con Page & Plant (Dazed and Confused e In My
Time of Dying) e si scatenò come un pazzo scuotendo i lunghissimi capelli,
per poi gettare in aria le bacchette alla fine dello show. Su Whole Lotta Love Page non mancò di
giocare con il Theremin, spostando su e giù la mano per ottenere ululati
spaziali di diversa altezza dall’antenna appositamente predisposta, mentre
enormi maxischermi offrivano al vasto pubblico dello stadio le immagini di
quanto avveniva sulla scena. Gli ultimi due pezzi videro l’apporto di alcuni
componenti dei Black Crowes: e dunque, mentre Dazed and Confused e Domino
erano stati presentati in versione esclusivamente strumentale, gli ultimi due
poterono giovarsi della voce di Chris Robinson. Il 2000 vide la pubblicazione
di LIVE AT GREEK,
con Jimmy Page insieme ai Black Crowes al completo: il doppio Cd (che io
acquistai quello stesso anno a New York mentre mi trovavo negli USA con i Malibran)
vedeva in scaletta quasi tutti pezzi dei Led Zeppelin che Page non suonava da
tempo in concerto (o che eseguiva per la prima volta), quali Celebration Day, Sick Again, In My Time of
Dying, Your Time is Gonna Come, The Lemon Song, You Shook Me e Out on the
Tiles. Nel 2003 un doppio Dvd apribile e senza titolo, con le montagne
rocciose in copertina, raccolse finalmente immagini in alta definizione (e con
audio stereo) del materiale che i fan avevano visto per decenni in qualità
mediocre: il primo dischetto conteneva lo show alla Royal Albert Hall del 9
gennaio 1970, mentre il secondo raccoglieva ampi estratti dei concerti al
Madison Square Garden ’73, Earls Court ’75 e Knebworth ’79, oltre al montaggio
tra un filmato in Super 8 a Sidney ’72, sincronizzato all’audio di Immigrant Song eseguita in California
quello stesso anno. Numerosi erano inoltre gli extra del 1969: il videoclip in
playback di Communication Breakdown;
l’apparizione alla Tv danese (Communication
Breakdown, Dazed and Confused, Babe I’m Gonna Leave You e How Many More
Times); l’esecuzione di Dazed and
Confused nel corso del film Supershow,
con Robert in camicia gialla e Jimmy in giubbotto di pelle; Communication Breakdown più uno spezzone di Dazed and Confused al programma televisivo francese Tous en Scene. Ancora, una conferenza
stampa del 1970 a New York, che vedeva protagonisti Page e Plant (in quel periodo barbuti) e
l’esecuzione di Rock and Roll a
Sidney ’72 (lo stesso concerto di cui sopra, ma ripreso da una telecamera
dall’alto), seguita da interviste a Robert Plant, John Bonham e John Paul
Jones. Ancora, un’intervista a Robert Plant del 1975, durante il noto programma
inglese The Old Grey Whistle Test condotto
da Bob Harris, più i videoclip di Over the Hills and Far Away e Travelling
Riverside Blues, realizzati nel 1990 per promuovere l’uscita della raccolta
intitolata Remasters (caratterizzata
dalla copertina rappresentante i misteriosi “cerchi nel grano”). In realtà le
versioni di Communication Breakdown a Tous en Scene erano due: una veniva
eseguita durante le prove, e se ne utilizzarono alcuni frammenti per riempire i vuoti nei quali non si
vedevano gli Zeppelin suonare (e infatti la maglietta di Bonzo in quei momenti
è diversa). I quattro sopracitati brani ripresi in bianco e nero dalla Tv
danese a Copenhagen il 17 marzo 1969 venivano eseguiti dal vivo di fronte ad un
pubblico seduto per terra attorno alla band: Jones utilizzava un basso Fender
con la cinghia “a cartucciera”, mentre Page sfoggiava un lungo indumento chiaro
con foulard. E’ questa l’unica occasione che ci permette di vedere la band
eseguire Babe I’m Gonna Leave You.
Come sempre, all’inizio della conclusiva How
Many More Times, il giovanissimo Robert Plant presentava il gruppo,
compreso sé stesso. Le riprese televisive effettuate presso lo Showground di
Sidney nel marzo 1972 contenevano anche estratti di Whole Lotta Love e Let’s
Have a Party, non inserite nel Dvd: queste ultime erano in bianco e nero e
girate dall’alto, mentre il filmato in Super 8 era a colori, e lasciava
intravedere Peter Grant in camicia gialla su un lato del palco. Nel doppio Dvd
è presente anche un filmino amatoriale di The
Song Remains the Same eseguita durante il tour del 1977 mentre,
stranamente, non venne utilizzato neanche un pezzo delle immagini professionali
tratte dal concerto del Kingdome di Seattle relative al 17 luglio di quello
stesso anno. Gli estratti dagli spettacoli di Earls Court ’75 e Knebworth ’79
durano circa 50 minuti ciascuno, ma non presentano i brani nell’ordine in cui
vennero eseguiti realmente: così lo show al festival di Knebworth nel Dvd si
apre con Rock and Roll, che era in
effetti uno dei bis finali. Durante l’assolo di chitarra eseguito da Page su Stairway To Heaven a Earls Court si
spezza una corda della doppio manico: ma Jimmy prosegue come se nulla fosse
accaduto. I filmati di Supershow e Tous en Scene sono a colori. Solo in
quest’ultimo caso la Fender Telecaster di Jimmy Page cede il posto alla Gibson
Les Paul. Spettacolare il Dvd interamente dedicato al concerto tenuto presso la Royal Albert Hall di Londra
il 9 gennaio 1970: si trattava di una sorta di “rientro a casa” dopo i lunghi
tour americani, e lo spettacolo era stato immortalato con l’intenzione di
trarne un film ufficiale. Ma le riprese risultarono troppo scure, e il progetto
venne accantonato, fino al restauro del 2003. Lo show si apre con una esplosiva We’re Gonna Groove, seguita da I Can’t Quit You Babe. Avvincente la
lunghissima esecuzione di How Many More
Times. Plant sfoggia una casacca blu decorata, Jones una camicia
variopinta; Bonham si scatena in canottiera rossa, mentre Jimmy indossa un
gilet di lana a rombi sopra la camicia bianca, con capelli lunghi anche sul
viso. Per il bis tira fuori una Gibson Les Paul Custom nera, successivamente rubata.
Il suono stereo è magnifico. Mentre Jimmy Page rovistava tra i vecchi nastri al
fine di raccogliere quanto poteva essere utile per questa pubblicazione,
ritrovò per caso due fantastiche registrazioni audio del 25 giugno 1972 al Los
Angeles Forum e di due giorni dopo alla Long
Beach Arena, che mise insieme per farle uscire come triplo Cd con il
titolo di HOW THE WEST WAS WON. La devastante versione di Immigrant Song che apriva questo
strepitoso live, pubblicato sempre nel 2003, era la stessa poi utilizzata per
la sincronizzazione del filmato a colori di Sidney ’72. Anche il film The Song Remains the Same é uscito in
una nuova versione nel 2007, con i missaggi di Kevin Shirley e l’aggiunta dei
brani Over the Hills and Far Away, Celebration Day, Misty Mountain Hop e il bis finale The Ocean, sempre filmati al Madison Square Garden, più
un’intervista del 1976 a Robert Plant e Peter Grant a bordo di un’imbarcazione.
In ultimo, il notiziario Tv che parlava della loro esibizione al Tampa Stadium
del 5 maggio 1973, con il record di afflusso di pubblico che superò quello dei
Beatles allo Shea Stadium di New York risalente al 1966: le immagini di questo
stesso notiziario sarebbero state utilizzate in apertura della reunion dei Led
Zeppelin alla O2 di Londra il 10 dicembre 2007 (evento pubblicato in Dvd e
doppio Cd con il titolo di CELEBRATION DAY nel 2012). Una più recente
versione del film The Song Remains the
Same è del 2018. La setlist originale prevedeva Misty Mountain Hop precedere Since
I’ve Been Loving You senza soluzione di continuità. Nel 1997 era già uscito
il doppio Cd intitolato BBC SESSIONS: il primo dischetto raccoglieva
brani provenienti da tre diverse registrazioni del 1969, con audio quasi sempre
mono, ma con inediti; il secondo presentava invece l’intero concerto tenuto il
1° aprile 1971 presso il Paris Theater di Londra, con audio stereo. Questo show
era stato eseguito in occasione del programma radiofonico di John Peel
intitolato In Concert per la BBC
Radio One, davanti ad un pubblico di 400 persone. La raccolta venne nuovamente
pubblicata nel 2016 con il titolo THE COMPLETE BBC
SESSIONS. Del 2007
è invece MOTHERSHIP,
compilation che raccoglie brani rimasterizzati tratti da tutti i dischi,
unitamente ad un Dvd comprendente una selezione dei pezzi già inclusi nel
doppio del 2003. Led Zeppelin by Led
Zeppelin esce nel 2018, in occasione del 50° anniversario della band, ed è
il primo e unico libro realizzato con il contributo di membri del gruppo. Dal
2014 cominciano ad essere pubblicati tutti i dischi della band rimasterizzati
(compreso il postumo CODA), raccolti infine in uno
straordinario box-set denominato DE LUXE EDITION: ciascun album è presente in
vinile o Cd, con annesse bonus tracks. Queste ultime presentano versioni
alternative, mix diversi, curiosità, brani inediti o ancora in fase embrionale:
sono dunque presenti pezzi mai ascoltati prima, quale l’ottima St. Tristan’s Sword, una versione di Thank You ancora senza traccia vocale e
un’altra di Moby Dick priva
dell’assolo di batteria; ancora, Stairway
To Heaven nel missaggio che era stato effettuato a Los Angeles, In the Light in tre diverse versioni
provvisorie (il titolo del brano era inizialmente In the Morning) del tutto diverse tra loro, una bella take di Since I’ve Been Loving You, le citate
registrazioni di Four Sticks e Friends effettuate da Page e Plant in
India con musicisti locali, e tanto altro ancora. Il materiale aggiuntivo
sarebbe sufficiente a riempire quattro interi Cd. La carriera dei Led Zeppelin
non fu però tutta rose e fiori. E qualcuno sostiene che ciò fu causato
dall’interesse di Page per l’occultismo e per l’attrazione mai celata nei
confronti dell’esoterista Aleister Crowley, ritenuto fonte di ispirazione per
il satanismo: nel 1920 quest’ultimo si era stabilito a Cefalù, in Sicilia, ove
aveva costituito la comune dell’Abbazia di Thelema, che Page andò a visitare
nel 1975, con l’intenzione di acquistarla. Non vi riuscì, ma divenne comunque
proprietario dell’abitazione di quel sinistro personaggio, denominata Boleskine
House, sulle rive del lago di Loch Ness. Per inciso la figura di Crowley
compare anche sulla copertina dell’album dei Beatles SGT.
PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND,
e il suo nome dà il titolo ad una nota canzone di Ozzy Osbourne. Fatto sta che,
come detto, il tour del 1975 (l’ultimo in cui eseguirono Dazed and Confused) fu interrotto a causa dall’incidente stradale
che avrebbe costretto Plant alla sedia a rotelle prima, e alle stampelle poi;
il tour del 1977 venne guastato dalla citata rissa avvenuta dietro il palco ad
Oakland, in California, che vide coinvolti sia Bonham che Grant, con il famoso
promoter Bill Graham che promise agli Zeppelin che non avrebbero mai più messo
piede negli USA. E fu definitivamente cancellato poco prima della data
successiva, quando Robert Plant apprese della morte improvvisa del figlio
Karac. Infine, il tour americano previsto per il 1981 non si svolse mai a causa
della prematura scomparsa di Bonzo, un batterista che era stato in grado di
lasciare a bocca aperta lo stesso Jimi Hendrix. Eppure, un uomo dal sorriso
aperto come Jimmy Page non può avere nulla a che spartire con il satanismo:
durante il documentario del 2008 intitolato It
Might Get Loud Jimmy, facendo ascoltare i suoi vecchi vinili rock’n’roll,
si diverte come un bambino che sogna di diventare una rockstar, mimando con le
mani i passaggi di chitarra che ancora lo entusiasmano. Un personaggio del
genere può anche essersi interessato all’esoterismo, ma nulla di più. Gli
Zeppelin tornarono sul palco in qualche rara occasione, ma solo per suonare
pochi brani: soprattutto al Live Aid
del 13 luglio 1985, e per la celebrazione dei
40 anni dell’Atlantic il 14 maggio del 1988. Io ebbi modo di assistere
ad entrambi gli eventi in diretta televisiva, e fu davvero una grande emozione.
In particolare per il Live Aid, dal
momento che, fino a quel momento, non avevo avuto modo di vedere i Led Zeppelin
in azione. Nel pomeriggio avevo seguito l’incredibile esibizione dei Queen al
Wembley Stadium, e venni a sapere che in serata si sarebbe forse svolto questo
evento. Intorno alle due di notte successe davvero. In quell’occasione Jimmy,
che era in tour negli States con i Firm insieme a Paul Rodgers, portava una
maglietta a righe e una lunghissima sciarpa bianca, mentre Robert Plant
indossava una camicia azzurra. Erano tutti allo stadio JFK di Philadelphia, e
Phil Collins li presentò dopo essersi esibito in prima persona, per poi unirsi
a loro. Robert chiese scherzosamente al pubblico se avesse qualche richiesta,
mentre Jimey si aggirava per il palco accordando la Les Paul. Purtroppo Jones
non venne quasi mai inquadrato, e Collins non conosceva bene i pezzi (Rock and Roll, Whole Lotta Love e Stairway
to Heaven). Inoltre il suono non era dei migliori. Secondo l’opinione di
Phil, quello show si rivelò un autentico disastro, dal momento che Robert Plant
gli apparve subito giù di voce, mentre Jimmy sembrava eccessivamente nervoso e
non troppo felice di averlo alla batteria: Collins fu addirittura tentato di
abbandonare tutto e andarsene mentre suonavano, sentendosi anche fuori posto in
quella che si stava rivelando una reunion dei Led Zeppelin, seppur non
presentata come tale. Ad ogni modo si può facilmente notare che Phil non
conosceva gli stacchi prima del “reprise” finale di Whole Lotta Love, mentre Jimny ritenne che aver provato solo
un’ora prima di salire sul palco era stato un vero azzardo. La richiesta di non
inserire la performance nel Dvd relativo al Live
Aid venne accolta. Contarono di rifarsi per la celebrazione dei 40 anni
dell’Atlantic Records a New York tre anni dopo, ma andò anche peggio.
Nonostante, infatti, sia Page che Plant nel 1988 fossero in tournèe per
promuovere i rispettivi album solisti (OUTRIDER fu il primo e l’ultimo per Jimmy) e le prove
fossero andate bene, lo show, che si apriva con Kashmir, si rivelò decisamente non all’altezza, complice anche una
pessima qualità del suono che arrivava attraverso gli schermi televisivi.
Questa volta Jimmy indossava una giacca a righe, della quale si sarebbe poi
liberato per rimanere in camicia bianca. Ma le sue dita sembravano incollate
alla tastiera della chitarra, specie durante l’assolo di Heartbreaker. Whole Lotta
Love venne eseguita nella nuova versione già proposta a Knebworth, mentre
Robert Plant cantò controvoglia Stairway
To Heaven. La sola Misty Mountain Hop
risultò accettabile. Jason Bonham, in tour con Jimmy quello stesso anno, era
alla batteria. Proprio la tournèe di OUTRIDER permise a Page di eseguire vari
brani degli Zeppelin: lo show registrato
dal mixer a Cleveland il 19 ottobre del 1988 ci offre l’occasione di
ascoltare Over the Hills and Far Away, In
My Time of Dying, Custard Pie (con frammenti di Black Dog e The Ocean) e
la conclusiva Stairway To Heaven in
versione strumentale. Midnight Moonlight includeva inoltre White Summer unita
a Black Mountain Side; nè mancava la
vecchia Train Kept a Rollin. Due anni dopo, il 30 giugno
1990, Robert Plant partecipò di nuovo al festival di Knebworth: le riviste
inglesi diedero per certa una reunion degli Zeppelin, che in realtà non
avvenne. Ad ogni modo Plant cantò Immigrant
Song e Going To California,
accennando altri brani del vecchio gruppo all’interno delle sue canzoni, per
poi eseguire insieme a Jimmy Page Wearing
and Tearing, Misty Mountain Hop e Rock and Roll. Il suo bassista era già
Charlie Jones. Jimmy comparve con la Les Paul rossa, arringando il pubblico con
i suoi consueti atteggiamenti, nonostante qualche ciocca di capelli bianchi
cominciasse ad intravedersi. Un forte vento tirava all’indietro la folta chioma
di Plant, che chiuse l’ultimo brano con un acuto degno dei vecchi tempi. Già durante il tour giapponese con David Coverdale del 1993 Jimmy non
aveva perso l’occasione per mettere in scaletta brani del vecchio dirigibile,
quali Rock and Roll, Kashmir, In My Time
of Dying, White Summer / Black Mountain Side, Out On The Tiles / Black Dog, The
Ocean / The Wanton Song. Il
successivo 12 gennaio 1995, alla Rock and Roll of Fame, gli ex Zeppelin
suonarono una indiavolata Bring It on
Home insieme a Steven Tyler e Joe Perry degli Aerosmith, per poi unirsi a
Neil Young in una lunga versione di When
The Levee Breaks. Durante l’introduzione iniziale Joe Perry chiese
scherzosamente a Page come accidenti si suonasse The Rain Song. L’unica vera reunion per un concerto intero ben
riuscito sarebbe stata dunque quella del 2007 alla O2 di Londra, pubblicata
cinque anni dopo con Page, Plant e Jones impegnati nella promozione del
relativo Celebration Day (box-set in
una scatola gialla), che li avrebbe visti presenti anche al noto David Letterman Show. Nonostante le
offerte milionarie seguite all’evento londinese e alle insistenti richieste di
Jimmy Page, Robert Plant non avrebbe mai accettato di riformare i Led Zeppelin.
L'indimenticabile reunion alla O2 Arena di Londra ebbe luogo il 10
dicembre 2007 in onore di Ahmet Ertegun, il boss dell’Atlantic scomparso
cadendo dalle scale nel backstage di uno show dei Rolling Stones: io avevo
visto Robert Plant pochi mesi prima al Teatro Antico di Taormina, e sapevo che
era in forma. Nell’occasione aveva anche cantato sei pezzi degli Zeppelin, ma
con nuovi arrangiamenti, e senza Jimmy Page al suo fianco. Ricordo che la
reunion era prevista per novembre, ma che venne rinviata a causa di un
incidente che aveva compromesso l’utilizzo di una delle dita dello stesso Page.
Subito dopo il concerto, ci si affrettò a cercarne documenti su YouTube
(riprese di videocamere o telefonini), di più o meno modesta qualità, ma molto
emozionanti. Non mi aspettavo Jimmy Page con i capelli bianchi: l'avevo visto
dal vivo a Milano nel 1995 con Plant, e in vari filmati e foto fino al 2000
insieme ai Black Crowes, e i suoi capelli erano ancora neri. Magari tinti, non
importa. Fino al tour ’95-‘96 erano ricci e lunghi, come ai vecchi tempi. Corti
solo dal 1997. Dopo cinque anni di attesa, nel novembre 2012 il concerto uscì
nei cinema. Ma non potei andare, perché ero appena uscito dall'ospedale, e non
riuscivo a resistere neanche cinque minuti sulla sedia a rotelle. Eppure ci
volle molto per convincermi a desistere. Sapevo comunque che il mese successivo
lo spettacolo sarebbe uscito in Dvd. Dopo cinque anni di attesa,
accontentandomi di guardare un video dello show ripreso da un tizio presente
tra il pubblico (perché diavolo non sollevava mai la videocamera per inquadrare
il maxischermo?), finalmente potevo seguire l'intero concerto a casa, filmato
benissimo, su un Tv Color sufficientemente grande collegato alle casse
dell’impianto stereo. Una performance spettacolare, dopo le esibizioni non
all'altezza delle reunion precedenti, che presentavano comunque pochi brani.
Questo era invece uno spettacolo intero, e riuscito alla grande. Jason Bonham è
una forza della natura: guidato forse dallo spirito del padre, trascina
addirittura gli altri. Lo show era stato preceduto da alcune settimane di
prove, e si sente. Kashmir è
pazzesca, potentissima e perfetta nell’esecuzione. Jimmy Page con i capelli
bianchi ancora lunghetti adesso mi piace. E ha lo stesso modo di suonare che
conosciamo da sempre, gli stessi atteggiamenti, le stesse smorfie e lo stesso
sorriso. Non esiste una Gibson Les Paul bella quanto una a tracolla di James
Patrick Page. Il gruppo si diverte e procede sicuro, come se non si fosse mai
sciolto dal 1980. Non importa se Robert Plant non ha più l'estensione vocale di
un tempo: il suo timbro e la sua presenza scenica sono sempre meravigliosi.
Page era più "veloce" ai tempi degli Zeppelin? Dipende. Esistono registrazioni
della band relative a concerti meno riusciti del 1977 e del 1980 nei quali
Jimmy non è affatto meglio di quello del 2007. Anche perché, all'epoca, faceva
uso di sostanze che di certo non lo aiutavano. 20 milioni di prenotazioni per i
20 mila posti della 02 Arena: mai vista una cosa del genere. E per l'unica
volta nella loro carriera gli Zeppelin, oltre ai classici, ci regalano una For Your Life (da PRESENCE) mai suonata prima dal vivo, che
viene fuori alla perfezione. Solo un errore nella parte finale di Dazed and Confused: Page, al contrario
di quanto si può ascoltare nella registrazione di una prova prima dello
spettacolo, non si intende con Jason, e manda per un attimo tutti fuori tempo.
L'editing del Dvd rimedia a questo infortunio, ma solo in parte. In ogni caso,
l'unico errore in un concerto "secco" (non la raccolta dei brani
venuti meglio, tratti da vari spettacoli). Bella l'idea di iniziare con Good Times, Bad Times, vale a dire con
lo stesso brano che apriva il disco d'esordio dei Led Zeppelin. La chiusura di
un cerchio. La copertina di quell’album
compariva anche sulla cassa della batteria. Ancora la scritta “Zoso”
sull'amplificatore di Jimmy. Impeccabile il lavoro di John Paul Jones, al
basso, alle tastiere e ai bass pedals (infaticabile, in questo caso, su Trampled Under Foot). Perfetta la seconda voce di Jason su Good Times, Bad Times e Misty Mountain Hop. Splendida In My Time of Dying, che vede come
sempre Page utilizzare il bottleneck, questa volta con un chitarrone giallo.
Bis con Whole Lotta Love e poi Rock and Roll, mentre l’enorme
scritta luminosa “Led Zeppelin” compare dietro al palco, come alla fine dei
concerti del 1975. E il tutto con la qualità audio e video dei tempi più
recenti. Peter Gabriel, Steve Hackett, Tony Banks e Mike Rutherford erano tra
il pubblico: e Gabriel disse che se mai ci fosse stata una reunion dei Genesis,
avrebbe dovuto essere di quel livello. Si, avevo aspettato cinque anni per
vedere questo concerto. E continuo a guardarlo. Nessuna tribute band, per
quanto perfetta, potrà mai rendere onore ad un gruppo stratosferico del calibro
degli Zeppelin quanto hanno saputo fare loro stessi quella sera. Per
coincidenza, in quel 2007 erano tornati insieme anche i Genesis (senza Gabriel
e Hackett) e i Police per intere tournée. Ma niente è paragonabile alla botta
strepitosa di questo unico show dei Led Zeppelin. L’anno seguente Jimmy Page e
John Paul Jones si sarebbero uniti ai Foo Fighters al Wembley Stadium per Rock and Roll e Ramble On, inducendo David Grohl (ex Nirvana) ad urlare al
pubblico: «Benvenuti alla più bella serata della mia vita!». Il 2 dicembre 2012
il presidente Barack Obama consegnò ai Led Zeppelin il Kennedy Award per il
loro contributo alla cultura americana, ricevendoli alla Casa Bianca.
Nell’occasione diversi artisti omaggiarono Jimmy Page, John Paul Jones e Robert
Plant, seduti in tribuna d’onore, eseguendo alcuni dei loro brani: durante una
suggestiva versione gospel della leggendaria Stairway to Heaven Jason era alla batteria con tanto di bombetta in
testa, a ricordare i concerti del padre nel 1975, mentre la scritta “Zoso”
compariva dietro il coro. Gli ex Zeppelin presero a guardarsi l’un l’altro:
Jimmy apparve felice e stupito, così come lo stesso Jones, mentre Obama seguiva
coinvolto lo show. Robert Plant non riuscì a trattenere le lacrime. Qualcuno ha
voluto asserire che Jimmy Page non sia stato quel grande chitarrista di cui si
è sempre parlato. La migliore risposta è arrivata da lui stesso: «Non è mai una
questione di tecnica, io mi occupo di emozioni».
BLACK SABBATH
Il già citato Ozzy Osbourne non
ricorda affatto come il suo vero nome, John, avesse potuto trasformarsi in
“Ozzy”. Ad ogni modo, si tolse lo sfizio di tatuarsi quelle quattro lettere
sulle nocche di una mano, quando era ancora adolescente. Disegnò pure una
faccina sorridente sopra una delle sue ginocchia, perché lo aiutasse a tirarlo
un po’ su mentre se ne stava comodamente seduto sulla tazza del water. Abitava
ad Aston (come tutti gli altri membri dei futuri Black Sabbath) insieme alla
famiglia, in una casetta incastrata tra tante altre, tutte in fila lungo una
via che all’epoca gli sembrava lunghissima, ma che non lo era affatto. Con i
suoi amici andava a giocare in una casa bombardata dai tedeschi, ed era
convinto che fosse tutto diroccato apposta per permettere ai ragazzini di
giocarci dentro. A scuola faceva lo scemo, e fu in questa veste che lo conobbe
Tony Iommi, intimo amico di John Bonham. Osbourne inoltre era un po’
dislessico, veniva trattato male dai professori e preso in giro dai compagni.
Il suo senso di autostima era decisamente basso. Se ne andava in giro senza
scarpe e con un rubinetto appeso al collo, perché non avrebbe potuto
permettersi una collana. Non gli riuscì bene neanche la carriera di ladro,
visto che venne subito “beccato” mentre cercava di rubare un televisore, e a 17
anni era già in prigione: l’esperienza si rivelò talmente traumatica che decise
di non ricaderci mai più. Lavorò in una fabbrica che provava clacson per
automobili e poi in una mattatoio, ma riuscì sempre a farsi licenziare. La sua
fortuna fu quella di appendere un manifestino in un negozio di Birmingham,
frequentato da tutti i musicisti della zona: con questo foglietto Ozzy
annunciava di essere un cantante in cerca di una band. E, soprattutto, di avere
un’amplificazione propria (quella appena compratagli dal padre). Una frase
magica da quelle parti, in grado di catturare l’attenzione di molti. E infatti
tutti i futuri Black Sabbath finirono per bussare presto alla porta di casa
sua: prima “Geezer” Butler, il bassista (che allora suonava la chitarra),
quindi Bill Ward, il batterista, che comparve insieme a Tony Iommi. Il tutto in
una successione quasi surreale, perché, dalla
finestra di casa sua, John Osbourne vedeva quella processione di
personaggi che sembravano tutti uguali: baffi e capelli lunghi, abiti
trasandati. Tony però lo riconobbe subito come lo scemo della scuola e disse a
Bill Ward di lasciarlo perdere, senza neppure metterlo alla prova. Iommi era
già un chitarrista molto stimato nella zona, ed era anche un po’ più grande.
Bill però insistette perché ad Ozzy fosse concessa almeno una possibilità e,
sorpresa, alla prima prova cantò bene: era intonato e sapeva trovare linee
vocali interessanti e azzeccate. “Geeser” passò al basso, si unirono altri
musicisti, si cambiarono un po’ di nomi per la band (compreso Polka Tulk, una
marca di borotalco!) e si cominciò ad andare in giro a suonare. Quando infine
decisero di rimanere in quattro, alla fine degli anni Sessanta, il nome del
gruppo divenne Earth, ma suonavano ancora cover di Jimi Hendrix, Cream e
Beatles. In seguito videro il manifesto di un film in bella vista davanti alla
loro sala prove: era un horror di Mario Bava intitolato Black Sabbath. Così Tony Iommi, notando che la gente faceva la fila
e pagava per essere spaventata, pensò che quello sarebbe diventato il nome
definitivo del gruppo, e che la loro musica avrebbe virato verso atmosfere più
tenebrose e inquietanti. Molto utile si rivelò in tal senso la passione di
Butler per i romanzi di magia nera: fu così che il bassista sarebbe diventato
l’autore dei testi. Già in una lettera spedita alla madre mentre rientravano da
Amburgo, Ozzy annunciava entusiasta che al ritorno a casa si sarebbero chiamati
Black Sabbath. Proprio ad Amburgo si erano sentiti quasi arrivati perché
suonavano allo Star Club, lo stesso locale che aveva visto abituali
protagonisti i primi Beatles, il quartetto di Liverpool che aveva cambiato la vita di Osbourne,
quando alla radio aveva ascoltato per la prima volta She Love You: fu allora che capì di voler far parte di quel mondo.
Purtroppo, dopo tanti anni quel locale era diventato ormai un postaccio. E loro
si ritrovarono pure a derubare le gentili fanciulle con le quali si
intrattenevano dopo i concerti pur di “arrotondare”: mentre uno della band si
appartava con qualche tipa, l’altro entrava di soppiatto nella stanza e frugava
nella borsetta della malcapitata. Non sarebbero andati fieri di tutto questo,
ma, come avrebbe detto in seguito Ozzy, dovevano pur mangiare. Si spostavano da
una città all’altra con un furgone scassato: pioveva, nevicava, e i
tergicristalli non funzionavano. Così uno di loro si affacciava da un
finestrino, l’altro da quello opposto, e tiravano i tergicristalli con le mani,
ora in un verso, ora nell’altro, per permettere a chi guidava di vedere
qualcosa attraverso il parabrezza. Un escamotage che utilizzavano pur di
suonare era tanto bizzarro, quanto logorante: si piazzavano con il furgone
carico della strumentazione davanti ai locali nei quali era previsto il
concerto di un gruppo già affermato, e, nel caso la band in questione non
avesse potuto esibirsi, si sarebbero proposti loro. Incredibilmente, intorno
alla fine del 1968, l’espediente riuscì: i Jethro Tull, infatti, non furono in
grado di raggiungere il locale davanti al quale si erano appostati gli Earth, e
Ozzy e compagni riuscirono a suonare al loro posto. Ian Anderson riuscì ad
arrivare e a mescolarsi tra il pubblico, mandando in estasi il giovane Osbourne
perché, mentre questi cantava, poteva intravedere Anderson (già famoso in
Inghilterra) muovere la testa a tempo con la musica. In effetti il sound dello
sconosciuto gruppo di Aston era ancora più pervaso dal blues che dai suoni
funerei che li avrebbero caratterizzati di lì a poco. E c’era molto blues anche
nel primo disco dei Jethro Tull (THIS WAS, l’unico che avevano pubblicato fino a quel momento). Ma
ad attrarre l’attenzione di Ian Anderson era stata soprattutto la performance
di Tony Iommi: Ian doveva trovare un sostituto di Mick Abrahams, il chitarrista
dei Tull, e Iommi sembrava essere l’uomo giusto. Del resto, se si ascoltano
certi pezzi dei primi lavori dei Black Sabbath, quando Tony Iommi suona da
solo, con la stessa Gibson SG rossa che utilizzava Abrahams, sembra
assomigliargli molto. In qualche caso, quando la chitarra ha un sound più blues
e carico di riverbero, accompagnata solo da un rutilante sottofondo di basso e
batteria, sembra proprio di ascoltare Cat’s
Squirrel, dal disco d’esordio dei Jethro Tull. Soprattutto sul brano Warning, presente sul primo album dei
Sabbath. Tony ricevette la proposta di entrare nella band da parte di Anderson,
e con la morte nel cuore, dovette comunicare ai compagni che avrebbe dovuto
lasciarli. Ozzy e gli altri sentirono in quel preciso momento i loro sogni di
gloria andare in pezzi: non sarebbero potuti andare da nessuna parte senza il
talento di Tony Iommi. Sarebbero dovuti tornare a lavorare in fabbrica, o agli altri i lavori frustranti che facevano
prima. E questo proprio quando le cose sembrava cominciassero a funzionare.
Eppure, in una maniera che può anche essere ritenuta commovente, trattennero le
lacrime e si congratularono con il loro amico, felici per lui. Di lì a poco,
tanto per cominciare, Tony avrebbe partecipato con i Jethro Tull al programma
televisivo The Rolling Stones Rock And
Roll Circus insieme a gente del calibro di John Lennon, The Who, Mitch
Mitchell (il batterista di Jimi Hendrix) e naturalmente gli stessi Stones
(ancora con Brian Jones, poi ritrovato morto nella piscina di Mick Jagger
nell’estate del 1969). Tony Iommi, lavorando in fabbrica, qualche tempo prima
si era visto tranciare di netto la parte superiore di due dita della mano
destra da un macchinario che non sapeva ancora usare bene. E dal momento che
era mancino, si trattava proprio delle dita che avrebbero dovuto scorrere sulla
tastiera della chitarra. La sua carriera di musicista sembrava finita. E invece
si fabbricò da solo delle protesi simili a ditali che gli permisero di
riprendere a suonare. E adesso, con quel nuovo ingaggio, aveva l’occasione di
passare, in pochi anni, dalla triste certezza di aver chiuso per sempre con la
musica alla concreta possibilità di diventare il chitarrista di un gruppo
importante. Le cose sarebbero in effetti andate così, ma non nel modo che
sembrava aver prefigurato il destino. Iommi, infatti, partecipò alle riprese
del “Circus” con i Jethro Tull nel dicembre del 1968, ma lasciò quel gruppo
subito dopo, preferendo tornare con i suoi vecchi compagni: troppo strette
erano risultate per lui la disciplina,
la professionalità e la serietà che Ian Anderson imponeva alla band, e ben
presto avrebbe preso il sopravvento la nostalgia per il divertimento, le follie
e le risate con Ozzy e gli altri. Il suo posto nei Tull sarebbe stato infine
preso da Martin Barre, che non lo avrebbe mollato per 43 anni. Durante un
concerto degli Earth il DJ di un club mandò in diffusione una musica mai
ascoltata prima, annunciando che si trattava del primo disco dei Led Zeppelin:
Ozzy riconobbe la voce di Plant e la chitarra di Page, e ritenne che dovesse
trattarsi degli Yardbirds, ma dovette arrendersi all’evidenza quando gli venne
mostrata la copertina del disco. Alla fine dello show, nel furgone, chiese a
Tony Iommi: «Hai sentito quanto
erano potenti i Led Zeppelin?».
E il chitarrista si limitò a rispondere: «Noi
lo saremo di più». Gli Earth, divenuti
nel frattempo Black Sabbath, avrebbero sfondato al primo colpo con l’omonimo
disco d’esordio, uscito nel 1970 e registrato praticamente dal vivo in 12 ore,
prima di tenere un concerto a Zurigo. Quando poi lo ascoltarono, quasi svennero
per la felicità: il suono era pazzesco, erano state aggiunte campane e pioggia
all’inizio del lavoro, e la copertina (alla quale non avevano in alcun modo
preso parte) era strepitosa, con una inquietante figura femminile immersa in un
paesaggio surreale. A quel tempo tutti e quattro portavano. Nell’album era
compresa Evil Woman, una canzone che
avevano già pubblicato come singolo, con un suono di sax a doppiare la chitarra
distorta di Tony Iommi. La Bbc annunciò l’orario in cui l’avrebbe trasmessa,
una mattina presto, e John “Ozzy” Osbourne si ritrovò a correre per casa a
cantarla come un pazzo, svegliando i suoi genitori. Gli altri brani erano a dir
poco stratosferici. Qualcosa di mai udito prima: la stessa Black Sabbath in apertura, Behind
the Wall of Sleep, N.I.B., Wicked World. The Wizard permetteva anche ad
Ozzy di dimostrarsi capace di suonare l’armonica. A quel punto fecero
addirittura il bis, ottenendo ancora più successo con il successivo album PARANOID: questo secondo
disco, uscito lo stesso anno, avrebbe dovuto in realtà chiamarsi WAR PIGS, come uno dei brani contenuti nel disco (e
come voleva suggerire la copertina). Ma la casa discografica aveva preferito
evitare problemi con quella che sarebbe stata facilmente interpretata come
un’aperta denuncia contro la guerra in Vietnam, all’epoca in corso, e preferì
attribuire al disco il titolo di un brano che la band aveva registrato
all’ultimo momento, giusto perché c’era ancora spazio per un’altra traccia: il
pezzo era appunto Paranoid, che
sarebbe diventata la loro hit più famosa in assoluto, e avrebbe addirittura
gettato le basi per quello che sarebbe diventato il genere heavy metal. Ozzy
Osbourne si esaltò quando ebbe modo di ascoltare il brano per la prima volta
mentre erano in macchina. Gli altri titoli non erano da meno: Iron Man, Electric Funeral, Hand of Doom,
Fairies Wear Boats. Se anche i Black Sabbath si fossero sciolti subito dopo
quei primi due dischi, avrebbero comunque marchiato con indelebili lettere di
fuoco il libro della storia del rock. A documentare la tipica performance del
gruppo nella sua prima fase rimane il filmato relativo al concerto tenuto
presso il teatro Olympia di Parigi il 20 dicembre 1970: all’inizio possiamo
vedere il giovane Osbourne scherzare davanti alla cinepresa, fingendo di
pulirsi la bocca con le setole di una scopa, come se si trattasse di un
gigantesco spazzolino da denti. Quindi, durante lo show, dimenarsi come un
ossesso scuotendo la lunga chioma durante l’esecuzione dei brani, tratti dai
primi due dischi, in jeans e camicia fuori dai pantaloni. Non mancano i futuri
classici della band, come Paranoid in
apertura, seguita da altri quali Iron Man,
Black Sabbath, N.I.B. e War Pigs.
Eccezionale la conclusiva Fairies Wear
Boots, con i suoi continui cambi di tempo. I dischi successivi furono MASTER OF REALITY (1971), BLACK SABBATH, VOL.4 (1972), SABBATH BLOODY SABBATH (1973)
e SABOTAGE (1975).
Spettacolare rimase l’esibizione diurna della band al festival “California Jam”
del 1974, più noto per lo show dei Deep Purple: i tre brani filmati mostrano un
Ozzy Osbourne vestito di giallo con frange viola, completamente esaltato, che,
durante il bis finale si strappa di dosso la giubba, per poi incitare il
pubblico ad alzare le braccia a tempo, con il suo consueto gesto delle mani
sollevate ad indicare il segno della
vittoria, mentre Toni Iommy compare senza baffi, “Geezer” in costume orientale
e Bill Ward con una fascia intorno ai capelli lunghi (solo in seguito si
sarebbe presentato in scena con trecce da vichingo). La scaletta completa di
quel giorno era la seguente: Tomorrow’s
Dream, Sweet Leaf, Killing Yourself To Live, War Pigs, Snowblind, Sabbra
Cadabra (incl. guitar solo, Sometimes
I’m Happy, drum solo, Supernaut, Iron
Man, Orchid), Paranoid e Children of the Grave. Ad ogni modo,
dopo il trasferimento in una lussuosa villa californiana, tutto il gruppo perse
il controllo, facendosi consegnare a domicilio cocaina in quantità industriale.
Ciò nonostante il livello medio dei loro dischi rimase buono, grazie
soprattutto ai riff che Iommi riusciva a tirare fuori a getto continuo,
mandando al tappeto i suoi stessi compagni al primo ascolto. SABBATH BLOODY SABBATH,
provato in un castello e pubblicato nel 1973, fu anche impreziosito dalla
collaborazione di Rick Wakeman, che aveva fatto amicizia con Osbourne al bar
degli studi di registrazione dove Yes e Black Sabbath si erano ritrovati a
lavorare sui rispettivi Lp. Atmosfere progressive trapelarono così nei brani Who Are You e Spiral Architect. Belle anche A
National Acrobat e Looking For Today,
mentre la citata Killing Yourself To Live
riportava la band alle consuete sonorità hard rock. La title track rimane
magnifica, e venne promossa da uno strambo videoclip: al riff potente iniziale
e finale si contrapponeva un refrain più melodico, con belle chitarre acustiche
che ricordavano addirittura le ballate degli America. Robert Plant andava spesso
a casa di Osbourne per giocare a carte, battendolo regolarmente e lasciandolo
nel dubbio che barasse. I componenti della band di Ozzy non credevano affatto
nel satanismo, avendo scelto questa strada solo per attrarre più pubblico. E in
un’occasione lo stesso cantante andò a sedersi in mezzo ad un gruppo di veri
“adepti di Satana” appositamente per prenderli in giro, rischiando anche la
propria incolumità. Al contrario, gli stessi elementi del gruppo si
spaventavano facilmente, e per questo si facevano l’un l’altro scherzi per
atterrirsi a vicenda: mentre si trovavano a dimorare presso il castello
sopracitato, ad uno di loro che rientrava venne mostrato un fantoccio che
precipitava giù dalle mura, facendo finta che si trattasse di una persona in
carne ed ossa. In un altro caso Bill Ward, mentre si svegliava, vide il
riflesso del proprio volto ingigantito davanti ai propri occhi, dal momento che
gli altri gli avevano appoggiato uno specchio quasi in faccia: lo stesso
Osbourne ricorda di non aver mai udito prima un urlo simile a quello del povero
Ward. Ozzy avrebbe stretto con quest’ultimo una amicizia più profonda rispetto
a quella che lo legava agli altri suoi compagni, mentre nutrì sempre una sorta
di timore reverenziale nei confronti di Tony Iommi. Il che non gli impedì di
rispettarlo infinitamente per il fatto che, nonostante l’incidente in fabbrica,
questi si fosse fatto forza andando avanti con l’idea delle protesi sulle
falangi delle due dita tranciate dal macchinario. Per inciso il tutto era avvenuto
proprio durante l’ultimo giorno di lavoro di Tony, quando questi, avendo deciso
di licenziarsi, si era ritrovato ad usare una macchina mai provata prima per
sostituire un collega assente. Il coraggio di continuare gli era anche derivato
dal grande chitarrista jazz Django Reinhardt, costretto a suonare con solo tre
dita dopo essere rimasto gravemente ustionato in un incendio quando
aveva 18 anni. Iommi abbassò anche l’accordatura del suo strumento per poter
suonare con maggior facilità su corde meno tese: il che contribuì non poco a
rendere più tenebrose le atmosfere dei loro brani. Il genere proposto dal
gruppo cominciò a cambiare con la pubblicazione di TECHNICAL EXTASY del 1976, che vedeva Bill Ward alla
voce sulla ballata pop intitolata It’s
Alright, oltre ad un massiccio uso di tastiere che allontanarono la musica
proposta da quella dei primi album. In ogni caso, pezzi quali You Won’t Change Me, Gypsy e Dirty Women
(molto utilizzata dal vivo) risultarono decisamente efficaci. Bella la
registrazione dal mixer relativa al concerto tenuto l’8 dicembre di quell’anno
presso la Civic Arena di Pittsburgh. Il 1978 vide la pubblicazione dell’album NEVER SAY DIE!, che fu anche l’ultimo album degli anni
Settanta con Ozzy Osbourne alla voce: la title track venne promossa in Tv a
Top of the Pops, e un video-concerto avente lo stesso titolo del disco
nuovo, filmato durante quel tour, venne pubblicato in Dvd nel 2003. I brani inclusi erano Sympthom of the Universe, War Pigs, Snowblind,
Never Say Die, Black Sabbath, Dirty Women, Rock and Roll Doctor, Electric
Funeral, Children of the Grave e Paranoid. Ozzy aveva in effetti già
lasciato la band nel 1977, ma era rientrato nel gruppo, per poi esserne
estromesso nel 1979 a causa della sua dipendenza da alcool e droghe. I Sabbath
provarono come nuovo cantante gli ex Deep Purple Ian Gillan e Glenn Hughes, ma
le cose funzionarono solo con Ronnie James Dio, voce straordinaria purtroppo
spentasi per sempre nel 2010. Ciò nonostante i primi dischi solisti di Ozzy
Osbourne, risalenti agli inizi degli anni Ottanta, vendettero più di quelli dei
Black Sabbath senza di lui. Il noto aneddoto di Osbourne che morde sul palco un
pipistrello lanciatogli dal pubblico è autentico, ma frutto di un equivoco, dal
momento che Ozzy era convinto di trovarsi tra le mani un animale di gomma. E’
vero invece che ebbe l’ardire di staccare con un morso la testa di una povera
colomba durante la riunione della sua casa discografica, facendo svenire una
delle signore presenti. Nel 1982, ubriaco e vestito da donna, pensò bene di
urinare sulle mura di Alamo, la missione fortificata che nel 1836 aveva
resistito agli assalti delle preponderanti forze messicane del generale Santa
Anna, contribuendo a far divenire il Texas uno Stato indipendente: quello era
un luogo sacro per i texani, e Ozzy finì in carcere. Singolarmente Phil Collins
è oggi uno dei più appassionati conoscitori e collezionisti della battaglia di
Alamo, avendo ricevuto per questo motivo prestigiosi riconoscimenti da parte
delle autorità del Texas. I Black Sabbath fecero la loro prima reunion nella
formazione originale il 13 luglio 1985 in occasione del Live Aid, presentando in pieno giorno, al JFK Stadium di
Philadelhia, Children of the Grave, Iron Man e Paranoid. Ozzy, con i capelli tinti di biondo e piuttosto
ingrassato, era la vera star del momento, mentre Tony Iommi si presentò con un
paio di occhiali da sole. La sera stessa quel palco avrebbe visto tornare
insieme anche i Led Zeppelin. L’evento benefico organizzato da Bob Geldof si
divise tra il Wembley Stadium di Londra e il menzionato JFK Stadium di
Philadelphia: l’unico artista che riuscì ad esibirsi su entrambi i palchi nello
stesso giorno fu proprio Phil Collins, che volò dall’Inghilterra agli Stati
Uniti a bordo di un Concorde. La successiva reunion di Osbourne, Ward, Butler e
Iommi sarebbe avvenuta solo nel 1998, questa volta per un vero tour documentato
su Dvd e Cd, con due brani inediti in più. Curiosamente la copertina del Dvd
sembrava riprendere l’idea di un disco del nostro Banco del Mutuo Soccorso: i
componenti dei Sabbath, come quelli del Banco, venivano infatti mostrati tra
gli apostoli del noto affresco Il
Cenacolo di Leonardo da Vinci, che rappresentava l’ultima cena: il titolo
del Dvd del gruppo di Aston era The Last
Supper, mentre la versione inglese del lavoro del Banco era As In A Last Supper (Come in un’ultima Cena, 1976). Solo tra
il 2016 e il 2017 si sarebbero rivisti i primi Black Sabbath di nuovo insieme
(escluso Bill Ward) per una tournée d’addio, a parte il disco inedito intitolato
13, precedente di quattro anni, che fu il primo cantato in studio da Ozzy dopo NEVER SAY DIE! del 1978. Album
che peraltro il cantante detestava. Il doppio Cd THE END: LIVE IN BIRMINGHAM documenta proprio l’ultimo
concerto dei Black Sabbath, tenuto il 4 febbraio 2017. Esistono anche le
riprese filmate di questo evento. Correttamente, lo spettacolo si tenne nella
città che aveva visto la nascita del gruppo, e iniziò con il brano che apriva
il loro album d’esordio. Dietro le quinte Iommi e Butler ammisero di sentirsi
emozionati, tristi e increduli all’idea di dover suonare quei pezzi per
l’ultima volta. Ma erano anche decisi a regalare ai fan lo show più bello della
loro carriera. Alla batteria non sedeva Bill Ward, ma un musicista più giovane
dai capelli lunghissimi. Sulle due casse era riportato il caratteristico logo
della band, che era anche sui plettri di Tony. La voce di Ozzy era quella di
sempre, e i suoi compagni suonarono davvero bene. Il pubblico era in delirio e
molti piangevano. La setlist, stampata su un foglio di carta poggiato sul
mixer, era composta dai vecchi classici. Considerata l’eccezionalità
dell’evento, vale la pena di riportarla: Black
Sabbath, Fairies Wear Boats, Under The Sun, After Forever, Into The Void,
Snowblind, War Pigs, Wall of Sleep, un medley costituito da Supernaut, Sabbath Bloody Sabbath e Megalomania, quindi Rad Salad seguita dal drum solo, Iron Man, Dirty Women, Children of the Grave e infine Paranoid come bis conclusivo. Fuochi
pirotecnici chiusero degnamente la performance. In verità già nel gennaio del
2012 era stato diagnosticato un linfoma a Tony Iommi: ma il chitarrista
continuò ad andare in tour con la band, predisponendo le date in modo da poter
rientrare in Inghilterra una volta ogni
sei settimane per potersi sottoporre al relativo trattamento. Gli aneddoti
riguardanti le follie di Osbourne nel corso della sua vita, per quanto in
qualche modo “arginate” dalla moglie Sharon (figlia del primo manager del
gruppo) furono innumerevoli: in un caso decise di sterminare con un fucile i
polli che teneva in casa, per poi inseguirne uno brandendo uno spadone
giapponese: un’anziana signora che abitava nelle vicinanze, alla vista di
quella belva inferocita sporca di sangue che sollevava l’arma sopra di sé, si
limitò a domandargli: «Va
tutto bene, Mr. Osbourne? ».
Un dottore che lo visitò, dopo aver concluso tutti i suoi accertamenti, con
voce altrettanto serafica gli chiese: «Signor
Osbourne, perché lei è ancora vivo?».
DEEP PURPLE
La triade classica dell’hard rock
con radici blues rimane quella rappresentata da Led Zeppelin, Black Sabbath e
Deep Purple. Nel 1969, dopo un loro concerto, a questi ultimi si era presentato
un giovane commesso chiamato David Coverdale, che chiese a Jon Lord di essere
preso in considerazione come vocalist del gruppo. Gli fu gentilmente risposto
che i Purple stavano provando Ian Gillan, il nuovo cantante, ma che, nel caso
non avesse funzionato, si sarebbero ricordati di lui. Invece Gillan andò alla
grande, fin quando, per puro caso, Coverdale diventò davvero la voce dei Deep
Purple quando Gillan lasciò il gruppo nel 1973. Ad ogni modo, durante quel
primo incontro, la band britannica aveva già sfornato tre dischi di buona
qualità, ma infarciti di cover, compresa Help
dei Beatles, con relativo videoclip: SHADES OF DEEP PURPLE, THE BOOK OF TALYESIN
(entrambi del 1968) e DEEP
PURPLE (1969), compreso il singolo Hush,
di grande successo negli USA. In tutti questi lavori erano in formazione Rod
Evans alla voce e Nick Simper al basso. Un filmato a colori del 1968 ci
consente di vedere questa prima line-up eseguire la sopracitata Hush dal vivo in Tv, tra un pubblico che
balla allegramente, subito dopo l’intervista del presentatore a Jon Lord.
Questi, insieme ai suoi compagni, non era però soddisfatto dal corso intrapreso
dal gruppo, e decise di sostituire Rod e Nick con due componenti degli Episode
Six: Ian Gillan, appunto, e Roger Glover. Oltre a Lord alle tastiere i Purple
avevano Ian Paice alla batteria e il talentuoso Ritchie Blackmore alla
chitarra. Quest’ultimo, per un breve periodo componente del gruppo progressive
anglo-italiano The Trip, comunicò a Simper che, come bassista, Glover non era
in realtà più bravo di lui, ma che la decisione era ormai presa. E Simper non
la prese tanto bene, come si può immaginare. Qualche anno dopo,
paradossalmente, lo stesso Blackmore pose come condizione che Roger Glover
venisse a sua volta sostituito, altrimenti avrebbe abbandonato egli stesso i
Deep Purple. Ancora prima di Coverdale, nel 1973 arrivò così Glenn Hughes, già
cantante e bassista dei Trapeze: Ritchie e gli altri andarono a vederlo mentre
si esibiva, e gli proposero di unirsi alla band. A Roger Glover cadde il mondo
addosso nel momento in cui venne a sapere della sua estromissione, proprio
mentre i Deep Purple raggiungevano il massimo della loro popolarità,
soprattutto a seguito di Made in Japan.
Per inciso Blackmore, che non aveva nulla di personale contro Roger, non ebbe
il coraggio di comunicargli la sua esclusione, e fu uno dei due manager dei
Purple ad assumersi quest’onere. Glover
dovette anche sopportare la premiazione della band per l’album WHO DO WE THINK WE ARE (1973)
con il nuovo bassista, nonostante fosse stato lui a partecipare a quelle
registrazioni (svoltesi a Roma e comprendenti la hit Woman from Tokyo). Glenn Hughes, che come Roger Glover utilizzava
un basso Rickenbacker, aveva anche una voce strepitosa, in grado di raggiungere
acuti impressionanti: avrebbe dunque potuto essere lui la nuova voce della band.
Si preferì comunque un cantante che, come Gillan, avesse una bella immagine e
nessuno strumento appeso al collo: Ritchie avrebbe voluto Paul Rodgers, ma
questi, dopo lo scioglimento dei Free, si era ormai impegnato con i Bad
Company, e dunque la scelta cadde sul ventunenne David Coverdale, che aveva un
timbro vocale blues in qualche modo simile. David, che era da tempo un grande
fan dei Deep Purple, lesse l’annuncio con il quale un gruppo, che non precisava
il proprio nome, cercava un cantante. E quando capì che si trattava dei Purple,
per l’ansia si presentò ubriaco all’audizione. Nonostante ciò ottenne il posto,
anche se gli venne chiesto di mettersi in linea per meglio figurare sulla
scena. Alla fine, con questa nuova line-up (denominata Mark III), finirono per
alternarsi alla voce (o ad unirsi nei cori) sia Glenn che David, dal vivo come
sui dischi del periodo 1974-1975: BURN, STORMBRINGER
e COME TASTE THE BAND.
Se l’essenza più funky è documentata soprattutto sul live MADE IN EUROPE, quella della
precedente line-up con Gillan e Glover (la classica formazione Mark II) è
invece immortalata sul leggendario MADE IN JAPAN, uno dei dischi dal vivo più celebri della storia
del rock. Incredibilmente, i Deep Purple non si resero subito conto del
potenziale straordinario di quest’album, e quasi se ne disinteressarono:
concessero che venisse pubblicato solo in Giappone, e a patto che fosse
utilizzato il loro fonico Martin Birch, che li registrò dallo studio
mobile senza poterli neppure vedere
mentre suonavano. Inoltre, il disco non sarebbe uscito affatto se a loro non
fosse piaciuto. Solo qualcuno della band si degnò di partecipare ai missaggi.
Le registrazioni erano state effettuate durante tre spettacoli, tra Tokyo e
Osaka, nell’estate del 1972, e catturavano i Deep Purple al massimo del loro
splendore: non appena MADE IN
JAPAN venne importato negli USA, all’inizio del 1973, la fama del gruppo
esplose. Si trattava quasi di un’esecuzione live del nuovo disco, MACHINE HEAD, ma con una potenza e una personalità quasi
sfacciata, che sembrava sbattere in faccia al mondo un perentorio: «I più grandi siamo noi!». La versione dal vivo di Smoke on the Water tratta dal live
divenne ancor più celebre di quella in studio. E questo brano è passato alla
storia come il pezzo rock più famoso di sempre, conosciuto praticamente da
tutti, e sorta di passaggio obbligato per ogni aspirante chitarrista. Il testo
racconta la storia di quel che successe effettivamente ai Deep Purple: la band
si era recata a Montreaux, in Svizzera, per registrare quello che sarebbe
divenuto MACHINE HEAD
con uno studio mobile all’interno del Casino di Montecarlo: il 4 dicembre del
1971 andarono a vedere Frank Zappa and The Mothers esibirsi in quello stesso
luogo, che era anche una sala da concerto.
Ad un certo punto a qualcuno del pubblico venne la bella idea di
lanciare un razzo segnaletico verso il soffitto, e l’intero locale andò a
fuoco, con conseguente interruzione dello show e un generale “si salvi chi
può”. Lo stesso Frank Zappa si mise al sicuro rompendo una vetrata, mentre il
proprietario Claude Nobs aiutava gli spettatori a fuggire: lo stesso
organizzatore del Montreux Jazz festival sarebbe stato citato nel testo della
canzone con l’appellativo di “Funky Claude”. Adesso i Deep Purple non sapevano
più un posto dove registrare il nuovo disco: dalla finestra dell’albergo Ian
Gillan si ritrovò ad osservare mestamente il fumo (Smoke) del Casino andato in
cenere alzarsi sopra (On) le acque (Water) del lago di Ginevra. Il gruppo non
si perse d’animo e incise comunque il nuovo materiale utilizzando lo stesso
albergo nel quale era alloggiato: i cavi dello studio mobile posteggiato
all’esterno percorrevano i corridoi, e nelle varie camere dell’hotel si
piazzarono Lord, Paice, Gillan, Glover e Blackmore, che portarono alla fine la
registrazione del lavoro. Se il primo album con Ian Gillan alla voce (il
concerto per gruppo e orchestra, registrato e filmato presso la prestigiosa
Royal Albert Hall di Londra nel settembre del 1969) non aveva permesso al
cantante di esprimersi in tutta la sua potenza,
con i successivi IN ROCK (1970), FIREBALL (1971) e MACHINE HEAD (1972) i Deep Purple definirono il nuovo
concetto di hard rock, estremo, eppure impreziosito da momenti di grande
classe, venato di blues, contaminato da influenze di musica classica e
caratterizzato da grandiosi momenti di pura improvvisazione, con lo
spettacolare e continuo incrociarsi tra la chitarra elettrica di Ritchie
Blackmore e l’organo Hammond di Jon Lord. Notevole successo ebbero anche i due
singoli Black Night e Strange Kind of Woman, non inseriti
negli album. Nel caso di MACHINE
HEAD i Deep Purple, sbagliando
clamorosamente, ritennero che il singolo avrebbe dovuto essere Never Before: per loro fortuna i loro
due manager (John Coletta e Tony Edwards) li convinsero che il 45 giri tratto
dal disco sarebbe stato Smoke on the
Water. L’unico filmato che documenta l’esecuzione di questo brano con Ian
Gillan alla voce negli anni Settanta è relativo ad uno show che riprende a
colori la band a New York il 29 maggio del 1973, mentre il pezzo non è presente
nel concerto della Tv danese dell’anno prima, che precedeva di pochi mesi la
famosa trasferta in Giappone: lo spettacolo americano vedeva la band ripresa
dalle telecamere durante le esecuzioni di Strange
Kind of Woman, Smoke on the Water
e Space Truckin’, tutte editate in
versione ridotta. Gillan si presentava in camicia azzurra, barbetta corta e
chioma meno fluente; lo show di Copenhagen del 1°marzo 1972 è invece molto più
lungo, ma in bianco e nero. Inoltre Ritchie Blackmore viene inquadrato assai
raramente. Nel corso dell’iniziale
Highway Star Ian Gillan smette per un momento di cantare, rimproverando
qualcuno tra il pubblico che trattiene il cavo del suo microfono. Entrambi gli
spettacoli sarebbero stati pubblicati in Dvd nel 2005 con il titolo di Live In Concert 72/73. La magica alchimia si ruppe quando i
rapporti personali tra Ritchie e Gillan si guastarono: già alla fine del 1972
il vocalist inviò una lettera ai due manager nella quale manifestava la sua
intenzione di lasciare i Deep Purple. Concluse comunque il tour in corso, e il
29 giugno del 1973, un mese esatto dopo il sopracitato show di New York,
annunciò al pubblico giapponese di Osaka che quello che si era appena concluso
era il suo ultimo concerto con la band. Ma i Purple non potevano sciogliersi
proprio mentre, specie dopo il successo di MADE IN JAPAN, erano in classifica con vari dischi e
numerosi singoli contemporaneamente. Jon Lord ammise comunque che Gillan e
Blackmore non potevano più stare insieme non solo nello stesso gruppo, ma
neppure nella stessa città. A documentare i Deep Purple nella formazione
denominata “Mark II” sarebbero rimasti diversi filmati: tra questi, Wring That Neck al Bilzen Jazz Festival
del 1969, il mini-concerto alla Granada
Tv del 1970, lo stesso brano più Mandrake
Root eseguiti al Pop Deux Paris Concert di quello stesso anno, e le due
take di No No No durante le prove
presso gli studi del Rockpalast nel 1971. Interessanti si rivelano queste due
ultime esibizioni, con ottima qualità video su sfondo azzurro, prima della
definitiva messa in onda guastata da filmati di fantasia: la prima take viene
interrotta quando Ritchie Blackmore, con lungo cappello nero, va fuori tempo
insieme a Ian Paice durante un passaggio particolarmente difficile. La seconda
take verrà fuori alla perfezione. Su questo brano, come anche su Highway Star (ancora in fase
embrionale) Ian Gillan lascia cadere la sua lunga chioma su un completo bianco,
mentre Roger Glover porta come sempre il cappello, suonando il basso
Rickenbacker rosso. La sopramenzionata esibizione alla Granada Tv, svoltasi a
Manchester il 21 agosto del 1970 di fronte ad un vero pubblico, comprendeva Speed King, Child in Time, Wring That
Neck e Mandrake Root, la cui
travolgente seconda parte sarebbe stata in seguito inserita come appendice di Space Truckin’. Il programma si
intitolava Doing Their Thing, e
vedeva Jon Lord in gilet di lana scatenato all’organo Hammond, Ian Gillan con
un foulard al collo (impressionante sugli acuti di Child in Time), mentre Ian Paice e Ritchie Blackmore comparivano
entrambi vestiti di nero, con il chitarrista impegnato ad alternarsi tra la
Fender Stratocaster e la più ingombrante chitarra rossa. Roger Glover indossava
invece un vistoso camicione color fucsia. Messo alla porta il bassista, e con
Ian Gillan dimissionario, i Deep Purple si reinventarono con David Coverdale e
Glenn Hughes, sfornando l’ottimo
BURN: l’unica testimonianza filmata di un concerto con questa nuova
line-up rimane l’incredibile partecipazione della band al gigantesco festival
americano denominato “California Jam”, svoltosi il 6 aprile 1974, con il nuovo
disco uscito da poche settimane. I Deep Purple arrivarono sulla pista
d’atterraggio a bordo del loro Starship, il Boeing 720 che avevano utilizzato
per il tour americano di quell’anno. La scenografia sul palco dell’Ontario
Speedway, nei pressi di Los Angeles, mostrava un grande arcobaleno, e la torre
sulla quale era posizionato il mixer si innalzava in mezzo ad una marea umana.
In realtà il pubblico avrebbe preferito vedere sul palco Ian Gillan, e non lo
sconosciuto David Coverdale, ma lo show fu strepitoso ugualmente. Il
chitarrista comparve sul palco con una giacca nera e a petto scoperto; il nuovo
cantante in maglietta bianca decorata mentre salutava i presenti incitandoli
con un braccio levato; Jon Lord con camicia azzurra fuori dai jeans; Glenn
Hughes in giacca e pantaloni entrambi bianchi e Ian Paice alla batteria su un
palchetto verde. Ritchie Blackmore era però con i nervi tesi perché non avrebbe
voluto esibirsi prima del calar del sole. Né sopportava le telecamere sul
palco, quando queste si avvicinavano troppo a lui: dopo il magnifico inizio con Burn e ottimi brani nuovi quali Might Just Take Your Life e You Fool No One, alla fine di Space Truckin’ ne prese una a colpi di
chitarra, causandole danni considerevoli, mentre una eccessiva carica di
esplosivo concludeva la loro pirotecnica esibizione incendiando mezzo palco con
una deflagrazione assordante. La band scappò via con lo sceriffo della Contea
alle calcagna, e fu in grado di ripagare i danni provocati solo con i proventi
che ricevette per la concessione dei diritti Tv. Smoke on the Water veniva eseguita con il riff iniziale abbassato
di tonalità, per passare poi a quella originale quando alla chitarra si univa
l’organo Hammond: a Glenn era riservato uno spazio all’interno del brano nel
quale poteva esibirsi nei suoi vocalizzi soul, mentre l’assolo di batteria era
adesso collocato all’interno della travolgente You Fool No One: negli anni precedenti era inserito all’interno di The Mule, solo accennata in questo
show. Da brividi Mistreated, suonata
mentre calava il sole e il dirigibile dell’emittente televisiva attraversava il
cielo: all’inizio riservato alla sola chitarra di Blackmore seguiva
l’interpretazione vocale roca e sofferta di Coverdale, abbinata a quella dagli
acuti impressionanti di Hughes. Il concerto, ripreso dalla ABC-TV, sarebbe
stato infine reso pubblico nel 2005 con l’uscita del Dvd LIVE IN CALIFORNIA 74. Esiste
anche un documentario francese che immortala questo periodo offrendoci un’altra
versione di Burn, con la voce di
Glenn che all’inizio non si sente. Un disco dal vivo con questa line-up è LIVE IN LONDON, registrato il
22 maggio 1974 al Gaumont State di Kilbourn (un’area a nord-ovest di Londra)
per un programma radiofonico della Bbc, ma pubblicato solo nel 1982: la qualità
audio non è eccezionale. MADE
IN EUROPE, messo su nastro il 3, 5 e 7 aprile del 1975 tra Austria,
Germania e Francia avrebbe documentato gli ultimi concerti di Ritchie Blackmore
con i Deep Purple degli anni Settanta, prima della sua decisione di lasciare i
suoi compagni per formare i Raimbow insieme a Ronnie James Dio (il cantante
degli Elf, gruppo spalla di quell’ultimo tour). Il suo show finale insieme ai
Deep Purple fu proprio quello del 7 aprile a Parigi, successivamente pubblicato
nella sua interezza su doppio Cd. Durante questi spettacoli il brano Space Truckin’ veniva aperto da Jon Lord
con una sua versione di Così parlò
Zarathustra, il poema sinfonico di Richard Strauss noto per essere stato
parte della colonna sonora del film 2001:
Odissea nello Spazio. Oggi, anche riascoltando MADE IN EUROPE o LIVE IN PARIS, sembra impossibile credere che un
musicista possa aver deciso di abbandonare un gruppo di quella levatura per
lanciarsi in un possibile salto nel buio: ma Blackmore era un’artista, e lo
stile che la band stava abbracciando collimava sempre meno con i suoi gusti:
Ritchie non amava il funky, e questa componente stava prendendo sempre più
spazio tra le pieghe della musica dei Purple: caratteristica che si sarebbe
accentuata ancora di più con l’arrivo del nuovo chitarrista Tommy Bolin (già
con Billy Cobham sul fantastico album SPECTRUM del 1973), nel quale Hughes e Coverdale trovarono un ottimo
alleato per il nuovo corso del gruppo. COME TASTE THE BAND, pur eccelso nella sua miscela di
hard rock, soul e funky, ai vecchi fan non sembrò neanche un disco dei Deep
Purple. Né le cose vennero facilitate dal fatto che Bolin dovesse spesso
sentire qualcuno del pubblico urlare che voleva Ritchie Blackmore sul palco, e
non lui. Ancora meno di aiuto si rivelò il problema che Tommy Bolin fosse
purtroppo tossicodipendente, particolare del quale gli altri del gruppo, pur
buoni bevitori, non erano affatto a conoscenza. Iniziò male e finì peggio: il
disco non sfondò, il tour in Australia, Nuova Zelanda e Giappone vide un Tommy Bolin spesso in cattive
condizioni, e in un caso addirittura a rischio della vita. A novembre un
documentario della Tv neozelandese mise insieme interviste alla band alternate
a pochi frammenti dal vivo. Il concerto tenuto al Budokan di Tokyo il 15
dicembre del 1975 venne registrato per intero e filmato in una minima parte,
contenente i brani Burn, Love Child,
Smoke on the Water, You Keep on Moving e Highway Star: David Coverdale
compariva in maglietta nera e barba, con Glenn Hughes ingrassato stretto in una
sorta di tuta bianca. Dal canto loro Jon Lord e Ian Paice sembravano tenere
insieme una band che era sul punto di implodere, nonostante la buona qualità di
diversi pezzi. La versione solo audio di quello show uscì nel marzo del 1977 in
versione ridotta con il titolo di LAST CONCERT IN JAPAN, per
essere successivamente pubblicata nella sua interezza come THIS TIME AROUND: LIVE IN TOKYO
nel 2001. Tommy Bolin cantava Wild Dogs,
un estratto del suo album solista TEASER di quello stesso anno. Il filmato originale Rises over Japan del regista Tony
Clinger aveva spostato Smoke on the Water
all’inizio, ed era una sorta di bootleg
giapponese in Vhs diffuso solo tra i fan: ma la successiva edizione in
Dvd, intitolata LIVE AT THE
BUDOKAN, avrebbe rimesso i brani al loro posto, finalmente con una buona
qualità stereo dal mixer. L’edizione in Blu-ray del 2011 si sarebbe infine
intitolata PHOENIX RISING,
con l’aggiunta di un documentario sulla tournée del 1975/1976. Ad ogni modo sia
Hughes che Bolin nel film non sembravano più in sé, e la bravura di
quest’ultimo, vanificata dalle sostanze che assumeva, appariva ormai svilita da
una chitarra troppo carica di effetti e da assoli che lo vedevano insistere
anche su una sola nota. Nel febbraio del 1976, durante il tour americano, i
Purple riuscirono a tornare a livelli accettabili, come documentato dal doppio
Cd ON THE WINGS OF A RUSSIAN
FOXBAT. Ma poco dopo, in Inghilterra, i loro ultimi concerti finirono
tra i fischi, e a Liverpool David Coverdale lasciò il palco in lacrime. I Deep
Purple si sciolsero e Tommy Bolin morì a causa di una overdose alla fine di
quello stesso anno: era il 4 dicembre, e il chitarrista aveva solo 25 anni.
Ancora una volta, un talento che si buttava via, un po’ come Paul Kossoff dei
Free, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin e tanti altri. Ad ogni modo
Blackmore vinse la sua scommessa con i Raimbow, mentre Coverdale resuscitò alla
grande con gli Whitesnake (fra i quali, tra l’altro, avrebbero militato i
vecchi amici Jon Lord e Ian Paice). Sia Ian Gillan (nel 1983) che Glenn Hughes
(un paio d’anni dopo) rivestirono con poca fortuna il ruolo di cantanti dei
Black Sabbath. Ma nel 1984, i tempi erano maturi per un ritorno del gruppo
nella formazione Mark II (proprio quella di MADE IN JAPAN), con il sorprendente disco PERFECT STRANGERS, che avrebbe
procurato alla band nuovi classici per i concerti dal vivo, compresa l’epica
title trak. Blackmore non era solito tessere le lodi dei suoi colleghi, ma
rispettava Jimmy Page, e nel brano sono rintracciabili tracce di Kashmir. Il sottoscritto ha avuto modo
di vedere questi Deep Purple a Cava dei Tirreni il 10 settembre del 1988. A
parte una temporanea estromissione di Ian Gillan nel 1990 (sostituito dall’ex
Raimbow Joe Lynn Turner) è stato poi Ritchie Blackmore ad abbandonare di nuovo
il gruppo nel bel mezzo del “The Battle Rages On Tour” del 1993, costringendo i
suoi compagni ad ingaggiare provvisoriamente Joe Satriani, e, dal 1996 in
avanti, Steve Morse, che esordì su PERPENDICULAR, disco molto
apprezzato da pubblico e critica grazie anche alla ballata Sometimes I Feel Like Screamin’. Uno degli ultimi concerti di
Ritchie con i Deep Purple venne immortalato sul video intitolato Come Hell Or High Water: qui il
chitarrista fece il suo ingresso in scena non subito, ma soltanto al momento
del suo fulminante assolo durante
l’iniziale Highway Star. E un po’
come a “California Jam”, infastidito da una telecamera ritenuta troppo vicina,
non si preoccupò di guastare le proprie evoluzioni pur di lanciare un bicchiere
d’acqua contro il cameraman. In seguito si sarebbe dato a musica dalle
atmosfere medievali insieme alla moglie Candice con i Blackmore’s Night, prima
di riformare i Raimbow. Nel 1999 il celebre concerto dei Deep Purple con
l’orchestra alla Royal Albert Hall, in occasione del suo 30° anniversario, fu
riproposto con Ronnie James Dio tra gli ospiti e Ian Gillan dai capelli corti
bianchi e tunica dello stesso colore. Il disco originale vedeva il cantante
intervenire solo nel secondo dei tre movimenti eseguiti dalla Royal Philarmonic
Orchestra diretta da Malcom Arnold. All’epoca Gillan aveva già una bellissima
voce, avendo anche partecipato al musical teatrale Jesus Christ Superstar. Nell’occasione, nonostante fossero stati
esclusi dal disco, alcuni brani dei Deep Purple erano stati eseguiti, compresa
l’allora inedita Child in Time. Lo
spettacolo sarebbe stato pubblicato nuovamente su Dvd in tempi più recenti, con
un fenomenale suono stereo rimasterizzato. Il 24 settembre del 1969 la band si
era esibita in un piccolo spazio in mezzo agli orchestrali, indossando abiti
più o meno hippy, e Blackmore impegnato ad alternarsi tra la sua classica
Fender Stratocaster nera e la ingombrante chitarra semiacustica rossa che
utilizzava in quel periodo. Incredibilmente le partiture originali di Jon Lord,
scritte per tutti gli strumenti e ormai andate perdute, vennero “ricostruite”
da un musicista fan della band, consentendo così la replica della performance.
Lo stesso Jon Lord dovette lasciare i Deep Purple nel 2002 in quanto bloccato
dai postumi di un intervento al ginocchio. E successivamente tutti noi, dieci anni
dopo, a causa di un tumore al pancreas. Don Airey (già con Raimbow, Ozzy
Osbourne, Whitesnake, Black Sabbath e Jethro Tull) prese il suo posto,
affiancando Steve Morse. Dei vecchi componenti rimanevano Ian Gillan, Roger
Glover e Ian Paice. Una storia apparentemente senza fine, con dischi nuovi,
Dvd, concerti in tutto il mondo e la riproposizione degli immortali “cavalli di
battaglia”, con il cantante che, pur non avendo più l’incredibile estensione
vocale di un tempo, conservava ancora un bel timbro. Nel 2005 parteciparono al Live Eight organizzato da Bob Geldof in
vari Paesi, rivelandosi uno dei gruppi più applauditi dalle 35 mila persone
presenti davanti al palco canadese di Barrie. Ebbero anche modo di affiancare
Luciano Pavarotti e di esibirsi nuovamente con un’orchestra sinfonica all’Arena
di Verona. Il 4 aprile 2014 venne tenuto un concerto in memoria di Jon Lord
presso la Royal Albert Hall: oltre ai componenti del gruppo presero parte
all’evento ospiti quali Bruce Dickinson, Rick Wakeman e Paul Weller. Glenn Hughes cantò You Keep on Moving, Burn e This Time Around. Nell’aprile
del 2016 la band è stata introdotta nella prestigiosa Rock and Roll Hall of
Fame. Dopo il tour d’addio dell’anno successivo i Deep Purple hanno comunque
deciso di sciogliersi definitivamente. Nel 2015 David Coverdale, con i suoi
Whitesnake, aveva tributato il suo sentito omaggio ai compagni di un tempo
dando alle stampe THE PURPLE
ALBUM, contenente esclusivamente nuove versioni dei brani della band
relativi al periodo che lo aveva visto come loro vocalist. E nel 2018 un Glenn
Hughes ringiovanito, di nuovo dalla lunga chioma, basso potente e voce sicura, ha intrapreso un
tour mondiale suonando solo brani dei Deep Purple. Da parte sua Coverdale non
ha mai avuto motivo di rinnegare i suoi trascorsi con quella leggendaria band,
che gli aveva permesso di diventare famoso quando aveva solo 21 anni, e aveva
sempre interpretato con gli Whitesnake brani quali Burn, Mistreated e Stormbringer. Ha dichiarato inoltre di
ritenere Ian Paice il miglior batterista della storia del rock insieme a John
Bonham e Keith Moon, aggiungendo che nessun artista come Jon Lord era mai
riuscito a fondere insieme musica classica e hard rock. La scomparsa dello
stesso Lord ha permesso poi a David di risentire Ritchie Blackmore e di tornare
in buoni rapporti con lui. Il sopracitato Don Airey poté diventare il nuovo
tastierista dei Deep Purple solo perché si salvò da una brutta (quanto assurda)
avventura agli inizi degli anni Ottanta: era in tour con Ozzy Osbourne, e il
bus sul quale in quei giorni viaggiava la band negli USA fece una sosta in un
prato. L’autista conosceva un tizio che possedeva un piccolo aeroplano: era in
grado di pilotarlo, e propose a vari componenti della band e dell’entourage di
fare un giro con lui. Don Airey partì con il primo gruppo, e atterrò poco dopo
sano e salvo. Ma nessuno sapeva che quell’autista era in realtà un alcolizzato
privo anche del patentino di pilota. E al secondo gruppetto non andò
altrettanto bene. Dopo qualche evoluzione il piccolo aereo si abbassò e
squarciò il tetto del tour bus, per andarsi a schiantare un po’ più lontano in
una nuvola di fuoco. Tutti gli occupanti, compreso Randy Rhoads (il chitarrista
di Ozzy) persero la vita. Lo stesso Osbourne, che stava dormendo nel bus con la
moglie Sharon, fu svegliato di soprassalto da quella botta sul tetto del bus e,
tra le fiamme, si gettò fuori, portando con sé la sua signora (che tale è
ancora oggi), certo che si fosse trattato di un incidente stradale: non sapeva
che il bus era fermo in un campo, e rimase sorpreso dal fatto di non essersi
ritrovato sull’asfalto della strada. Fece comunque in tempo a vedere
l’aeroplano esplodere, senza capire e senza credere ai propri occhi. Ancora più
difficile fu accettare la perdita di Randy: Ozzy aveva trovato in lui il
partner ideale, ed era rimasto senza parole quando aveva assistito alla sua
audizione, quando era alla ricerca di un chitarrista. Inoltre Randy Rhoads era
un bravo ragazzo e non, per ammissione dello stesso Osbourne, uno di quei tipi
“fuori di testa” (a cominciare da Ozzy stesso!) che erano soliti gravitare
nell’orbita dell’ heavy metal. Giusto la sera prima lo stesso Randy aveva
comunicato all’ex Sabbath che avrebbe lasciato la band (insieme ai lauti
guadagni) per dedicarsi allo studio e all’insegnamento della chitarra. Era
legatissimo alla madre, e a lei aveva dedicato un brano molto toccante. John
“Ozzy” Osbourne si era molto affezionato a lui, e non riusciva a capire perché
quella fine fosse dovuta capitare proprio a Randy. Da allora non smise mai,
ogni anno, di mandare fiori sul luogo del suo ultimo riposo.
GENESIS
Nel settembre del 1970 Phil
Collins riuscì a entrare nei Genesis: Peter Gabriel capì che Phil era bravo non
appena vide come si sedette sul seggiolino della batteria. Phil leggeva di
continuo che questi Genesis, nonostante avessero pubblicato due dischi dalle
vendite piuttosto modeste (FROM GENESIS TO REVELATION e TRESPASS) suonavano da tutte le parti. Cosa che non riusciva alla
sua band, i Flaming Youth. Dunque teneva
molto ad entrare in quel gruppo, e si recò a casa dei genitori di Peter
Gabriel, dove si tenevano le audizioni per tutti gli aspiranti batteristi
insieme al suo amico Ronnie Caryl, che sperava di essere preso come
chitarrista, dal momento che Anthony Phillips aveva lasciato i Genesis qualche
mese prima. Mentre aspettava il suo turno, gli venne offerto di fare un bagno
in piscina: e così, sguazzando in acqua, Phil Collins, a 19 anni, in
quell’estate del 1970 ebbe modo di ascoltare gli altri batteristi, capendo al
volo cosa volevano i Genesis, quello che avrebbe dovuto fare, e soprattutto
quello che avrebbe dovuto evitare. Tornando verso casa il suo amico Ronnie,
chitarrista dei Flaming Youth, si disse
convinto di aver ottenuto lui il posto. E invece le cose andarono esattamente
al contrario. E quando i Genesis telefonarono a casa Collins per comunicargli
di aver scelto lui, fu felice al punto da abbracciare sua madre. Phil aveva già
un passato di attore ai tempi della sua adolescenza. Ed era riuscito anche ad entrare in contatto
con il mondo dei Beatles: una prima volta quando, appena tredicenne, aveva
partecipato come comparsa al film A Hard
Day’s Night; in seguito, quando suonò le percussioni in un brano di George
Harrison contenuto nel disco ALL
THINGS MUST PASS. I Genesis aveva già avuto tre batteristi prima di lui:
Chris Stewart sul singolo The Silent Sun,
John Silver nel disco d’esordio (registrato durante le vacanze estive del 1968,
quando andavano ancora tutti a scuola) e John Mayhew su TRESPASS. I
Genesis erano nati dalla fusione di due gruppi scolastici, gli Anon e i Garden Wall. Ma le severe regole
della Charterhouse, riservata ai figli delle famiglie più facoltose, li aveva
resi ragazzi piuttosto chiusi e infelici. Solo la musica era in grado di dar
loro entusiasmo e di salvarli da un ambiente tanto austero: quella scuola del
Surrey somigliava ad una cattedrale gotica, e i familiari erano sempre lontani.
Inoltre suonare la chitarra elettrica veniva considerato più o meno un atto
rivoluzionario. I giovanissimi Peter Gabriel e Tony Banks riuscivano a
raggiungere di nascosto il pianoforte della scuola e a condividere la propria
passione per la musica. Ma immaginavano di comporre per altri artisti, e non di
esibirsi in prima persona. Il primo produttore della band, cui si deve l’idea
del nome Genesis, fu Jonathan King, un ex allievo della Charterhouse per
accontentare il quale la band aveva realizzato The Silent Sun in stile Bee Gees anni Sessanta. King aveva avuto
successo con un singolo ed era diventato produttore artistico per la Decca: nel
1967 i ragazzi del gruppo, ancora diciassettenni, gli fecero pervenire alcuni
demo tramite un amico, e riuscirono a realizzare due 45 giri: The Silent Sun / That’s Me e A Winter’s Tale
/ One Eyed-Hound, entrambi registrati presso i Regent Studios di Londra e
pubblicati l’anno dopo. Uscì una recensione, e il giovane Peter Gabriel la
ritagliò per incollarla, molto orgoglioso, sul suo diario scolastico. Nel brano
The Silent Sun la batteria era
suonata da Chris Stewart, ma sul disco d’esordio il suo nome non è accreditato,
comparendo solo quello di John Silver. Il gruppo decise di fare a meno delle
modeste qualità tecniche di Stewart, in seguito scrittore di successo,
congedandolo senza risentimenti con una cospicua somma di denaro. Silver invece
si trasferì negli States per motivi di studio, ma in cuor suo sperò sempre di
essere richiamato nel gruppo. Come detto, i Genesis registrarono il primo album
durante le vacanze estive del 1968 presso i Regent Studios, quando erano appena
diciottenni, e nell’ottobre di quello stesso anno vennero filmati durante un
corso per cameramen mentre eseguivano il brano In Hiding. Queste riprese sono andate perdute, e di
quell’esecuzione in playback dell’estratto di FROM GENESIS TO REVELATION sono rimaste solo sei
fotografie, con un orsacchiotto di peluche sopra il piano di Tony Banks. Qui
Peter indossa il maglioncino che era solito portare in quei giorni, mentre non
compare John Silver. Quest’ultimo, sempre con gli occhiali, è invece presente
tra gli scatti che vedono la giovane band suonare in cerchio nel bel mezzo di
un prato, con Gabriel in maglietta a righe impegnato al flauto traverso e
Anthony Phillips con un casco coloniale in testa. Silver è visibile anche nelle
numerose foto che documentano le sedute di registrazione del primo disco.
Un’altra immagine ci mostra il gruppo, sempre seduto in cerchio sull’erba, con
Ant, Mike e Tony alle chitarre acustiche, Peter al flauto e John alle
percussioni. Qui Banks compare scalzo. In una foto Gabriel è ritratto di nuovo
al flauto, da solo in mezzo alla strada, con i capelli non ancora molto lunghi.
Un ulteriore scatto ci mostra invece il gruppo provare sul terrazzo di casa
della famiglia dell’amico David Thomas nell’estate del 1968: Tony è alla
chitarra acustica sulla sinistra, Anthony alla 12 corde al centro, mentre Peter
e Mike sono appoggiati alle tegole del tetto. Qui Rutherford suona il basso e
porta i capelli ancora corti. Affascinanti anche le foto che ritraggono la band
intenta a caricare la strumentazione su un rimorchio per cavalli, e tutta
intorno alla macchina di Gabriel (un taxi nero dismesso) con John Silver sulla
destra. FROM GENESIS TO
REVELATION uscì per la Decca e
vendette appena 600 copie, anche perché, a causa del titolo e della copertina
nera con scritte in caratteri gotici, finì relegato dai negozianti tra i dischi
di genere religioso. Ad ogni modo era un lavoro assai diverso da quello dei
Genesis successivi, piuttosto immaturo e in bilico tra pop ed ambizioni non
ancora alla portata di quella giovane band. Tra l’altro gli arrangiamenti
orchestrali sovrapposti in un secondo tempo non piacquero ad Anthony Phillips, che uscì dalla sala regia
sbattendo la porta, ritenendo che avessero tolto forza ai brani. La voce di
Peter era comunque già molto bella. Il primo pezzo scritto insieme da Gabriel e
Banks, intitolato She’s Beautiful,
finì su quell’album con il titolo di The
Serpent. Naturalmente il disco, dopo che il gruppo ebbe successo, moltiplicò
in maniera esponenziale le sue vendite. Nonostante Peter compaia nei credits
anche impegnato al flauto, non vi è traccia di questo strumento su FROM GENESIS TO REVELATION. Vision of Angels era stata esclusa da
quel lavoro, per poi ricomparire in una nuova versione su TRESPASS: il testo era una
canzone d’amore che Anthony aveva scritto per Jill, la futura moglie di Peter:
secondo il parere di quest’ultimo fu anche questa rivalità sentimentale a
contribuire alla decisione del chitarrista di lasciare la band. Nel 1969 i Genesis registrarono due demo
stereo: Going Out To Get You e Dusk: il primo brano, eseguito spesso
dal vivo anche negli anni successivi, non venne mai inciso in studio, mentre il
secondo, messo su nastro in una versione diversa, sarebbe finito su TRESPASS. L’esordio dei Genesis per un concerto a pagamento fu tenuto in
occasione di una festa privata a casa Balms, il 28 ottobre del 1969: si
trattava di amici della famiglia di Peter, e il gruppo guadagnò 25 sterline. Il
successivo 1° novembre tennero finalmente la loro prima esibizione di fronte ad
un pubblico pagante presso la Brunel University di Uxbridge. Durante i primi
tempi il gruppo si ritrovò a suonare in locali talmente piccoli che a Mike
Rutherford, impegnato al violoncello, capitò di sollevare involontariamente con
l’archetto la gonna di una ragazza diretta verso il bagno, mentre la stampa
inglese continuava ad ignorarli. Molto prolifici si rivelarono invece i sei
mesi trascorsi a provare in completa solitudine nel cottage dell’amico, nonché
primo manager ed ex cantante degli Anon Richard McPail, tra il novembre del
1969 e l’aprile del 1970, con John Mayhew alla batteria. In quel periodo
smettevano di suonare solo per concedersi qualche passeggiata, o per ascoltare
l’album d’esordio dei King Crimson: ne appesero la copertina su una delle
pareti del cottage. Fu lì che nacquero tutti i brani di TRESPASS, e anche altro materiale rivelatosi
poi utile per gli album successivi. Molti frammenti sviluppati in seguito erano
compresi in un lunghissimo brano intitolato The
Movement. Il padre di Richard McPail procurò loro un furgone per il pane,
così da consentirgli di potersi spostare con tutta la strumentazione, mentre
John Mayhew, ex falegname, fabbricò un divano per la parte posteriore del
mezzo. Lo stesso Mayhew, che aveva partecipato anche ai demo sopracitati, era
rimasto attratto da un annuncio del «Melody
Maker» e venne atteso dal
gruppo chiuso in macchina mentre scendeva dal treno con il suo set di batteria
in custodie professionali, suscitando subito una buona impressione. Non si
sarebbe però mai sentito del tutto accettato dai suoi compagni per il fatto di
provenire da una classe sociale meno abbiente. Alcune fotografie in bianco e
nero ritraggono la band con John Mayhew
tra il 1969 e il 1970. Proprio nel corso di quest’anno lo sconosciuto
Peter Gabriel suonò il flauto nel brano Katmandu
di Cat Stevens per l’album
MONA BONE JAKON, con un bidone della spazzatura in copertina. I Genesis
cominciarono a conquistarsi un discreto numero di fan durante i concerti dal
vivo: sempre più persone rimanevano affascinate da una musica così diversa da
quella degli altri gruppi, dall’aura magica che pervadeva i loro show e dalle
storie raccontate da Gabriel tra un brano e l’altro, mentre i suoi compagni accordavano
i propri strumenti. Nel marzo del 1970 vennero scritturati dal Ronnie Scott’s
Jazz Club grazie al loro agente Markus Bicknell. Fu qui che vennero notati dal
produttore della Charisma Records John Anthony, che convinse il suo capo Tony
Stratton-Smith ad andare a vederli: quest’ultimo si innamorò della loro musica
e li scritturò per la Charisma, consentendo loro di registrare TRESPASS. Il logo della label
era caratterizzato dall’immagine del Cappellaio Matto di Alice nel Paese delle Meraviglie: e questa figura sarebbe apparsa
sui loro dischi successivi. John Anthony si sarebbe rammaricato di essere
riuscito solo in parte a catturare l’atmosfera magica che permeava i loro
spettacoli sui solchi di
TRESPASS. La copertina mostrava un’immagine idilliaca, con un re e la
sua signora affacciati ad una finestra intenti ad osservare un paesaggio
fatato. L’illustrazione era però tagliata da un solco, che sul retro mostrava
essere stato provocato da un pugnale: una dichiarazione d’intenti riguardo alla
musica proposta, bucolica e quieta, ma in grado di venire spezzata da momenti
più aggressivi e meno rassicuranti (The
Knife, il coltello, appunto). La sola voce di Peter Gabriel apriva il
lavoro, con una esclamazione che era già il titolo della prima traccia:
“Looking for Someone!”. Quei pochi secondi erano sufficienti a sancire una
cesura netta rispetto all’album precedente, con quella vocalità densa e
pastosa. I veri Genesis erano arrivati. La successiva White Mountain si manteneva su atmosfere rarefatte, chiusa da un
coro malinconico che ripeteva il tema cantato. Per il gruppo il brano più
importante era comunque Stagnation.
Durante le registrazioni del secondo disco John Mayhew non fece un cattivo
lavoro, guidato da Peter, che era un ex batterista. Ma la band aveva bisogno di
un drummer migliore: Phil Collins si rivelò l’uomo giusto, e portò quella
ventata di allegria e spensieratezza che erano necessarie, oltre ad un drumming
molto più preciso e professionale, che trasformò completamente il loro sound.
Ascoltò più volte il nuovo album in cuffia per imparare i pezzi, e cominciò ad
apprezzarli. Così fu con lui che i Genesis, dopo aver provato presso un vecchio
mulino in disuso, iniziarono il tour di TRESPASS il 2 ottobre 1970, nonostante non avessero
ancora trovato qualcuno che sostituisse Anthony Phillips alla chitarra.
Quest’ultimo era un elemento importantissimo per la band, al punto che si pensò
seriamente allo scioglimento quando, subito dopo la registrazione di TRESPASS, annunciò che avrebbe lasciato il gruppo. Era lui, alla 12 corde,
l’elegante tessitore delle delicate trame chitarristiche dei primi Genesis e il
loro motore trainante. Soprannominato “Ant”, affiancava inoltre la sua voce a
quella di Gabriel, e poteva scatenarsi con l’elettrica in un brano come The Knife, che chiudeva sia TRESPASS che i concerti dal
vivo. Nonostante non avrebbe poi partecipato alla registrazione del successivo NURSERY CRYME, anche
l’immortale The Musical Box era in
buona parte farina del suo sacco. Paradossalmente Phillips, che lasciò la band
perché veniva colto da crisi di panico ogni volta che doveva esibirsi, pur
vivendo ancora oggi di musica, non si è mai più esibito in pubblico: ricorda
Peter Gabriel come un tipo timido e tranquillo, che però poteva all’improvviso
saltare su un tavolo per mettersi a cantare. L’ultimo show del chitarrista con
la band fu quello tenuto il 18 luglio presso la Sussex Hall di Haiwards Heath,
tre mesi prima che TRESPASS
uscisse. John Mayhew, il batterista di quel
disco, fece perdere per decenni le proprie tracce: alla fine si scoprì che si
era trasferito in Australia, senza sapere niente del successo ottenuto dalla
sua vecchia band. Suonò fino al 1974, e smise quando una sera, stanco di
ricaricare la batteria in macchina, si chiese chi glielo facesse fare. Fu così
che tornò alla sua attività di falegname. Solo in anni più recenti era tornato
in Inghilterra per fare visita alla madre. Proprio mentre lavorava come
falegname a casa di un fan del suo vecchio gruppo, prese a tamburellare con le
dita su una scala: l’altro gli chiese se non fosse stato per caso anche un
batterista, e John rispose: «Ah,
si, ho suonato con un gruppo chiamato Genesis».
Il padrone di casa quasi svenne sul pavimento, e fu così che la notizia divenne
di dominio pubblico. Mayhew riuscì a suonare The Knife ad una Convention londinese nel 2006 e a rilasciare
un’intervista a Mario Giammetti per la rivista «Dusk». Anthony Phillips, secondo quanto
comunicatomi da Armando Gallo, si adoperò affinchè gli venissero corrisposte
dal management le royalties ammontanti alla cifra di 78 mila sterline per le
vendite di TRESPASS.
John non le aveva mai pretese. Sarebbe mancato poco tempo dopo in un letto
d’ospedale, a seguito di problemi cardiaci, quando era il 26 marzo del 2009.
Aveva 62 anni. Della sua vecchia band solo Ant partecipò ai funerali. Nel 1977
quest’ultimo sorprese tutti con il bellissimo THE GEESE AND THE GHOST, che ospitava anche Phil e
Mike. Insieme a loro registrò pure il singolo intitolato Silver Song nel 1973, con
Only Your Love come lato B. Il brano principale era stato scritto nel 1969
e dedicato a John Silver (da qui il titolo), il batterista che aveva appena
lasciato la band. Phil cantava entrambi i brani. Per motivi mai chiariti quel
45 giri non venne pubblicato. Silver Song,
canzone deliziosa, sarebbe uscita ufficialmente su una ristampa di quel primo
disco di Phillips. Pur essendo stata incisa durante il tour di SELLING ENGLAND BY THE POUND,
il suono delle chitarre di Anthony è ancora quello di TRESPASS, con gli stessi arpeggi acustici e il
medesimo suono ovattato nelle rifiniture di chitarra elettrica. Phillips e
Collins non avevano fatto in tempo a registrare insieme con i Genesis, ed è
davvero affascinante poter ascoltare le tipiche atmosfere pastorali del primo
insieme alla voce del secondo, che avrebbe già potuto iniziare su questi solchi
la propria carriera solista. Alla fine del 1970 la band decise di proseguire in quartetto: Peter
Gabriel, Tony Banks, Mike Rutherford e Phil Collins. Tony simulava le parti di
chitarra applicando un distorsore alle tastiere. L’amico di Phil, Ronnie Caryl,
riuscì a fare con loro qualche concerto. E per un paio di mesi il loro
chitarrista fu Mick Barnard, che comparve anche in Tv durante l’esecuzione di The Knife. Ma tutti sapevano che quella
era una soluzione provvisoria, e a seguito di un annuncio di Steve Hackett,
ancora sul «Melody Maker», andarono ad ascoltare il nuovo
aspirante chitarrista a casa sua, mentre proponeva loro stili diversi,
accompagnato dal fratello John al flauto. Capirono subito che quello era il
musicista che faceva al caso loro: abile sia nelle parti bucoliche con la
chitarra classica, come pure in quelle più aggressive alla chitarra elettrica,
strumento dal quale riusciva a tirare fuori suoni particolarissimi, utilizzando
con gusto vari effetti a pedale, senza cercare mai di stupire con assolo alla
velocità della luce (cosa che loro non avrebbero gradito affatto). Così, quando
Steve andò a vedere i Genesis al Lyceum di Londra il 28 dicembre del 1970 con
Mick Barnard impegnato alla sua chitarra rossa, sapeva già che sarebbe stato lui il loro nuovo
chitarrista. Folgorato da un’esibizione dei King Crimson al Marquee Club, anche
Steve, come Robert Fripp, avrebbe suonato sempre seduto durante i suoi primi
anni insieme alla band, con una Gibson Les Paul Custom nera e una serie di
pedali da premere al momento opportuno.
Solo per il finale di The Return
of the Giant Hogweed e durante l’intera The
Knife si sarebbe alzato in piedi di fronte al pubblico. Nel corso del suo
primo show con i Genesis alla City
University di Londra suonò terrorizzato, perché aveva dovuto usare un
distorsore diverso dal suo; e quando il concerto ebbe termine dovettero
portarlo via, dal momento che era rimasto sul palco domandandosi se avesse
indovinato tutti gli accordi. Per l’assolo di The Musical Box Hackett utilizzò anche qualche idea di Mick
Barnard. E inventò la tecnica del tapping sulla chitarra diversi anni prima di
Eddie Van Halen. All’inizio del 1971 i Genesis partirono con la nuova
formazione (poi divenuta quella classica) per il “Six Bob Tour” insieme ai Van
Der Graaf Generator e agli Audience, tutti facenti parte dell’etichetta
Charisma. Il nome attribuito alla tournée era dovuto al fatto che il biglietto
per assistere ad ognuno di quei concerti costava solo sei scellini:
un’ingegnosa trovata che consentì all’etichetta discografica di ottenere il
tutto esaurito per ognuna delle nove date, tenutesi in Gran Bretagna tra il 24 gennaio
e il 13 febbraio. Sul tour bus, come amava rammentare scherzando Peter Hammill,
leader dei Van Der Graaf Generator, ai primi posti erano seduti i Genesis coi
loro cestini da pic-nic, al centro gli Audience con le birre, e in fondo gli
stessi VdGG con le droghe. In quel momento erano proprio i Van Der Graaf il
gruppo di maggior richiamo. Fino a quando, concerto dopo concerto, i Genesis
riuscirono a conquistarsi il titolo di attrazione principale, semplicemente
perché era diventato impossibile fare meglio di loro, come avrebbe ammesso lo
stesso Hammill. Per il nuovo album NURSERY CRYME (1971) ai
due nuovi arrivati, Phil e Steve, fu concesso di inserire un loro brano,
intitolato For Absent Friends. Quello
fu anche il primo pezzo cantato da Phil Collins invece che da Peter Gabriel. Un
altro sarebbe stato More Fool Me su SELLING ENGLAND BY THE POUND (1973),
che avrebbe visto Collins in piedi di fronte al microfono anche durante il
relativo tour. Sulla stessa Harlequin,
un delicato cameo acustico cantato in coro, era la voce di Phil quella che si
sentiva più distintamente. Si trattava comunque di canzoni molto brevi e quiete: nulla avrebbe
lasciato presagire che un giorno Phil Collins sarebbe diventato il cantante dei
Genesis, dopo che anche Peter Gabriel avrebbe lasciato la band alla fine del
tour di THE LAMB LIES DOWN ON
BROADWAY. Il gruppo suonò per la prima volta all’estero in occasione del
concerto del 7 marzo 1971 a Bruxelles: presso il locale La Ferme eseguì anche
un brano intitolato The Light, che
consisteva in una versione embrionale di Lilywhite
Lilith, compreso uno spunto di The
Colony of Slippermen (titoli poi comparsi su THE LAMB LIES DOWN ON BROADWAY). Il maggio dello
stesso anno vide la pubblicazione di The
Knife su singolo: il pezzo venne diviso in due parti, tra lato A e lato B,
e vedeva in copertina la band con Steve Hackett e Phil Collins, nonostante in
realtà la registrazione fosse stata effettuata con Anthony Phillips e John
Mayhew. I concerti dei loro primi anni cominciavano sempre con tranquilli brani
acustici, seguiti da un “crescendo” che trovava il suo culmine nell’inattesa
deflagrazione di The Knife: era il 19
giugno del 1971 quando Peter Gabriel, preso dall’entusiasmo, si gettò tra il
pubblico del Friars di Aylesbury proprio durante questa canzone, rompendosi una
gamba e vedendosi costretto a presentarsi in scena per i successivi spettacoli
con una scopa capovolta utilizzata come stampella. Nel gennaio del 1972
suonarono di nuovo a Bruxelles, dal momento che TRESPASS era arrivato al 1° posto in Belgio: una foto
li ritrae insieme a Richard McPail mentre viaggiano a bordo di un ferry-boat
diretti verso quel Paese, indossando per scherzo i giubbotti salvagente. Due
mesi dopo, nel marzo di quello stesso anno, vennero filmati per mezz’ora
proprio dalla Tv belga al fine di promuovere NURSERY CRYME: si tratta del documento (peraltro di
ottima qualità, e a colori) più datato che sia possibile reperire. I brani,
eseguiti dal vivo ma senza pubblico, sono The
Fountain of Salmacis, Twilight Alehouse, The Musical Box e The Return of the Giant Hogweed. Una
scheggia del secondo pezzo era già presente sul primo disco, mentre l’intero
brano, registrato durante le session di NURSERY CRYME, sarebbe stato pubblicato come lato B del
singolo I Know What I Like. Le
riprese televisive ci mostrano un Peter Gabriel scatenato, capelli lunghi e
stretto abito nero dalle ampie maniche. Ancora niente costumi per lui. Mike
Rutherford è l’unico altro componente della band a rimanere (almeno in alcuni
momenti) in piedi, con il suo basso Rickenbacker rosso, mentre la cinepresa si
muove tra i musicisti spostando l’inquadratura dalle mani di Tony sull’organo
alle spettacolari evoluzioni di Phil alla batteria nel corso della conclusiva The Return of the Giant Hogweed, alla
fine della quale Peter sbatte per terra l’asta del microfono. Pochi mesi dopo i
Genesis , avendo appreso che NURSERY
CRYME era arrivato al quarto posto della classifica italiana, vennero in tour nel nostro Paese sia nell’aprile
che nell’agosto del 1972: non potevano credere che, dopo aver tanto sudato per
ottenere successo in Inghilterra, stavano ricevendo i primi riscontri positivi
lontano da casa. Il testo di Watcher of
the Skies venne ideato da Banks e Rutherford durante il secondo tour,
mentre si trovavano sulla terrazza di un albergo a Napoli. Il brano era in
scaletta non ancora come inizio degli spettacoli, e veniva dunque annunciato al
microfono da Peter Gabriel: cosa che non si sarebbe più ripetuta. La prima volta
arrivarono in Italia con un semplice furgone bianco e Richard McPail al mixer;
in seguito con una strumentazione più ingombrante, mentre in sala stavano
registrando FOXTROT, il
disco che permise loro di cominciare a vendere e ad essere considerati a livello
internazionale. Già durante il tour italiano di aprile Gabriel si era rasato
sulla fronte una porzione dei suoi lunghi capelli neri, come documentato dal
breve spezzone ripreso al Piper di Roma. In Italia poterono finalmente trovare
un pubblico che ascoltava con attenzione i loro brani, rimanendo seduto, per
poi applaudire spontaneamente anche dopo un assolo. Qualche foto documenta la
loro esibizione del 20 agosto al Piper 2000 di Viareggio, con Mike in maglia
gialla in piedi con il basso Rickenbacker, e Steve seduto vestito d’azzurro,
mentre il pubblico era a ridosso del palco. Fu in questa occasione che Lino
Vairetti degli Osanna fotografò Peter e la moglie in spiaggia. Due giorni dopo,
al teatro Alcione di Genova, eseguirono per l’unica volta dal vivo Seven Stones, in seguito su FOXTROT. Nel corso dello
stesso mese suonarono in più occasioni proprio con gli Osanna, e forse i
costumi di scena e i volti truccati del gruppo partenopeo ispirarono Gabriel
per i suoi successivi travestimenti. Indimenticabili sarebbero rimasti quelli
utilizzati per Watcher of the Skies
(ali da pipistrello sul capo e mantello lunghissimo), Supper’s Ready (la maschera del fiore), Dancing with the Moonlit Knight (il costume di Britannia, con elmo,
scudo e lancia), The Battle of Epping
Forest (il teppista in calzamaglia scura), The Colony of Slippermen (il mostro coperto di bubboni) e tanti
altri. Era musica che diventava teatro. Il tutto era iniziato al concerto di
Dublino del 28 settembre 1972 quando Gabriel, dopo la sezione strumentale che
chiudeva The Musical Box, era
ricomparso in scena alla fine del brano indossando l’abito rosso di sua moglie
Jill e la testa di volpe, simulando la figura presente sulla copertina di FOXTROT: a rimanere allibiti
rimasero sia il pubblico che la band, dal momento che Peter non aveva rivelato
loro nulla, ben sapendo che si sarebbe sentito rispondere di no. L’immagine di
Gabriel con quel travestimento finì comunque sulla prima pagina del settimanale
«Sounds»,
e il resto del gruppo non ebbe più nulla da eccepire. Le altre maschere vennero
utilizzate da Peter per la prima volta il 9 febbraio 1973 al Raimbow Theater:
le ali da pipistrello, il fiore, il vecchio e la scatola rossa. I costumi di
scena si riferivano ai testi dei brani, e dunque il volto da “Old Man” prese il
posto della testa di volpe, essendo più pertinente alle liriche di The Musical Box. I Genesis tornarono in
Italia in occasione del “Charisma Festival” al Palasport di Reggio Emilia il 20
gennaio 1973 e a quello di Roma due giorni dopo: 8 mila persone presenti nel
primo caso e 18 mila nel secondo; ancora per il tour di SELLING ENGLAND BY THE POUND dal 3 al 6
febbraio 1974 per le date di Torino, Reggio Emilia, Roma e Napoli; quindi per
quello di THE LAMB con
l’unica data torinese del 24 marzo 1975. In occasione del concerto di Torino
’74 la Rai trasmise un breve resoconto
dell’evento: una voce fuori campo parlò di
SELLING ENGLAND BY THE POUND mentre venivano mostrati alcuni
spezzoni del concerto (solo pochi secondi in bianco e nero) e un’intervista ai
Genesis nei camerini: è qui che Peter Gabriel, divertendo Phil,
all’intervistatore che domandava da dove traessero l’ispirazione per i loro
brani, si toglieva una scarpa portandosela all’orecchio, rispondendo che questa
proveniva dall’anima, entrando da un orecchio ed uscendo dall’altro (!). Le
riviste italiane dell’epoca diedero molto risalto al breve tour del 1974,
recensendo in maniera entusiastica il nuovo spettacolo e la presenza scenica di
Peter Gabriel, pubblicando bellissime foto e interviste alla band. Giornalisti
e platea rimasero ammaliati dall’inizio degli show con Watcher of the Skies, che vedeva gli occhi del vocalist fosforescenti nel buio, così come dal
successivo costume di Britannia per Dancing
with the Moonlit Knight. Il brano I
Know What I Like si apriva con il cantante intento a percorrere il palco
avanti e indietro fingendo di utilizzare una falciatrice immaginaria. Magnifica
risultò la sezione strumentale di The
Cinema Show, suonata dai soli Tony, Phil e Mike. Supper’s Ready consentì per la prima volta alle migliaia di fan
italiani di vedere la maschera del fiore e quella della scatola rossa a forma
di rombo, mentre la conclusione dello stesso pezzo mostrava Peter in costume
bianco aperto fino al basso ventre intento a brandire un tubo luminoso. The Musical Box e The Knife vennero accolte con un boato nei Palasport, mentre a Reggio Emilia, evento raro, venne eseguita
anche Harold The Barrell. Stupore
suscitò la nuova Firth of Fifth, così
come More Fool Me cantata da Phil.
Gabriel all’inizio sapeva pronunciare solo poche parole in italiano, ma impiegò
poco tempo per imparare parolacce e gesti osceni. Anche se non si riuscì a
spiegargli che non doveva rispondere «Grazie» quando dalla platea qualcuno gli
urlava «Frocio». Nei camerini si truccava e cambiava
gli abiti di scena all’interno di una grande scatola di cartone. Portava adesso i capelli lunghi rasati non
solo sulla fronte, ma anche su ampie porzioni delle tempie. A Steve era stata
rubata la chitarra in Svizzera: per la data di Torino si riuscì a far aprire un
negozio e a procurargli una Les Paul De Luxe. Hackett la provò per mezz’ora,
avendo timore che i modelli in Italia fossero diversi, ma si tranquillizzò,
dicendo che lo strumento andava bene. Se lo portò via accarezzandolo: il
promoter David Zard si commosse e glielo regalò. In quei giorni lo stesso Steve
si dimostrò interessato alle ragazze, e raccomandò agli intervistatori di far
sapere che adesso aveva un aspetto più piacevole, non portando più occhiali e
barba. Tony Banks era il meno loquace, e aveva sempre con sé libri e
audiocassette di Schubert, Beethoven e Debussy. Sua moglie Margaret era invece
molto divertente. Il manager Tony Smith sembrava il papà di tutti, mentre Phil Collins non riusciva mai a
rimanere serio. A Napoli improvvisò un assolo di batteria per riempire il vuoto
causato da problemi all’impianto elettrico: Peter lo presentò, aggiungendo che
al pubblico era consentito lanciargli addosso degli oggetti. I roadies erano
soliti fare scherzi: a Reggio Emilia raddoppiarono la carica per l’esplosione
alla fine di Supper’s Ready,
intontendo i componenti della band. Questi ultimi, dopo i concerti, scappavano
in albergo mentre il pubblico chiedeva ancora il bis. Quindi si strappavano di
dosso gli abiti di scena e se ne andavano a passeggiare. Capitava spesso che
incrociassero diversi fan intenti a parlare di loro rientrando a casa, senza
immaginare che quel gruppo di ragazzi che quasi li sfioravano erano proprio i
Genesis. Fu possibile rivederli nel nostro Paese (naturalmente senza Gabriel)
solo nel 1982 (tour in cui tornò in scaletta Supper’s Ready, per festeggiare i 10 anni della leggendaria suite
contenuta in FOXTROT ) e nel 1987 (anno nel quale io vidi
Peter Gabriel a Roma). Saltò invece la data del 1992 a Torino, spostata a
Nizza, dove ebbi modo di vederli per l’unica volta: ricordo che prima del
concerto la folla aveva accolto con un gran boato un video del Gabriel solista,
e ho sentito un giovane chiedere alla sua ragazza il perché di quella reazione
entusiastica: il tipo in questione non sapeva che Peter Gabriel era stato il
cantante dei Genesis! E probabilmente sono ancora in tanti a non saperlo. Gli show dei primi
mesi del 1972 iniziavano con Happy the
Man, traccia esclusa da NURSERY
CRYME, che vedeva Peter e Phil duettare in piedi davanti al microfono
(così al Piper di Roma e al Lincoln festival). La prima trasferta dei Genesis
negli Stati Uniti avvenne nel dicembre di quello stesso anno, con un Peter
Gabriel incredulo nel vedersi trasferito dalla metropolitana di Londra a New
York. Le copertine dei dischi del periodo “magico” (TRESPASS, NURSERY CRYME
e FOXTROT) furono opera di Paul Whitehead, che
realizzò dipinti perfettamente in assonanza con la musica di quei solchi. SELLING ENGLAND BY THE POUND vide il loro stile cambiare in favore di una
padronanza tecnica sbalorditiva, a
partire da brani quali Dancing with the
Moonlit Knight, Firth of Fifth e The Cinema Show. Uno scatto mostra Phil
e Peter in studio durante le prove per questo disco: entrambi sembrano assorti
nell’ascoltare qualche traccia appena incisa, ciascuno con una tazza in mano.
Il barbuto Collins è seduto sulla cassa di batteria che Peter teneva avanti a
sé durante i concerti, appoggiandosi con un gomito al sostegno per il flauto.
Oltre a quelle della Tv belga del 20 e 21 marzo 1972, altre riprese
professionali dei Genesis con Peter Gabriel sarebbero rimaste solamente quelle
relative al Bataclan di Parigi del 10 gennaio 1973, più il filmato realizzato presso
gli Shepperton Studios il 30 ottobre dello stesso anno: in questo caso non si
trattava di una vera data del tour di SELLING ENGLAND BY THE POUND, bensì di un’esibizione ridotta ad
alcuni brani, completa della scenografia e con un pubblico composto da roadies
e amici invitati per l’occasione. In più, l’apparizione allo show televisivo americano Midnight Special del 20 dicembre 1973 e la versione dal vivo di I Know What I Like e Supper’s Ready al programma francese Melody del 12 febbraio 1974, con
immagini di fantasia proiettate su uno schermo dietro la band: una bella foto
di Steve sul fondale ancora azzurro ci permette di osservare nei dettagli la
sua pedaliera. Esistono in realtà altri due brani ripresi in occasione del
celebre “Atomic Sunrise Festival”, tenuto alla Roundhouse di Londra nel marzo
del 1970, con Phillips e Mayhew ancora in formazione: ma è un filmato muto, con
l’audio dei pezzi (Looking for Someone
e The Knife) sovrapposto in un
secondo tempo, e non derivante da quell’evento, al quale partecipava anche
David Bowie. Il sonoro di Looking for
Someone proveniva dalle registrazioni radiofoniche di Nightride, mentre quello di The
Knife era tratto dalla versione originale di TRESPASS. Nell’occasione suonarono anche Twilight Alehouse. Possiamo aggiungere
le brevi riprese in bianco e nero della Tv italiana in occasione del concerto
al Piper Club di Roma, risalenti al 18 aprile 1972: qui si vede un brevissimo
estratto dello spettacolo (Happy the Man
e Stagnation), con il pubblico
accomodato per terra che segue attentamente la band e con una intervista al
gruppo nei camerini: parlano sia Phil che Mike, il quale sottolinea come la
band preferisca appunto un pubblico seduto intento ad ascoltare la musica.
Qualche battuta anche per Peter, impegnato a truccarsi gli occhi e con la
porzione dei capelli lunghi rasata sulla
fronte da poco tempo; Steve si vede, con
la Les Paul nera appesa al collo anche dietro le quinte, ma non viene
interpellato, così come Tony Banks. Le riprese del Bataclan ’73 sono invece a
colori, con una sola cinepresa sul palco che ci mostra Phil Collins con indosso
una maglietta nera recante la scritta “Genesis”. I brani sono incompleti e
intercalati anche qui da interviste ai componenti della band nei camerini. The Musical Box vede Peter con l’abito
femminile rosso e la testa di volpe; Supper’s
Ready unisce l’inizio del brano con il finale, durante il quale Gabriel ha
un calo di voce: qui la chiusura della suite non è ancora quella in
dissolvenza, ma ci offre un’appendice studiata appositamente per i concerti.
Nel bis Peter compare ancora con gli abiti, il volto e i capelli bianchi che
aveva in conclusione della precedente Supper’s
Ready, mentre annuncia il brano che stanno per eseguire con voce quieta: «This is called…» per poi urlare: «The
Return of the Giant Hogweed!».
Anche l’editing di questo pezzo unisce la prima parte con quella finale. La
successiva The Knife, pur presente
solo nella sua seconda sezione, ci offre l’unica possibilità per vedere questo
brano eseguito dai Genesis con Peter Gabriel: dopo il suo quieto motivo al
flauto, lui e Phil cominciano a cantare all’unisono; quindi il vocalist si
scatena sulla parte conclusiva, dopo l’assolo di Steve Hackett, brandendo
l’asta del microfono come se fosse un fucile con la baionetta innestata, quasi
aggredendo il pubblico e facendo innescare il suono catturato dallo stesso
microfono con i monitor presenti sul palco. Alla fine sbatte l’asta per terra,
come già alla Tv belga, mentre il gruppo abbandona la scena salutando la platea
osannante. Questo concerto francese è del gennaio 1973, e dunque dello stesso
periodo che immortala la band sul disco GENESIS LIVE. E come su quell’album, si può anche
ascoltare Phil suonare il fischietto alla fine di The Knife. Solo 10 giorni dopo lo show filmato al Bataclan la band
sarebbe arrivata in Italia per i sopracitati concerti relativi al “Charisma
Festival”. Altri documenti (solo audio) dei Genesis riemersi dall’oblio dopo
decenni sono i “Jackson Tapes”, più le registrazioni effettuate alla
sopracitata trasmissione radiofonica Nightride,
rispettivamente del gennaio e del febbraio 1970, entrambi realizzati per la
Bbc. I primi risalgono più precisamente al 9 gennaio: cioè alla stessa sera che
vedeva i Led Zeppelin filmati in concerto alla Royal Albert Hall, da un’altra
parte di Londra, il giorno del ventiseiesimo compleanno di Jimmy Page, che
dietro le quinte avrebbe conosciuto la sua futura moglie. Quelle incisioni dei
Genesis, recuperate miracolosamente in tempi più recenti, risultano
interessantissime, per quanto brevi: si può ascoltare infatti il gruppo, ancora
con Ant e Mayhew, suonare non solo spezzoni di Looking for Someone (poi su TRESPASS, 1970), ma anche di The Fountain Of Salmacis, The
Musical Box (entrambe su NURSERY
CRYME, 1971) e addirittura di Anyway
(in seguito su THE LAMB LIES
DOWN ON BROADWAY, 1974). I brani si presentano con i titoli di Provocation, Frustration, Manipulation e
Resignation. La produzione é di Paul Samwell-Smith, proprio l’ex bassista
degli Yardbirds che aveva lasciato il suo posto al sopracitato Jimmy Page. I
pezzi vennero incisi presso gli studi televisivi della Bbc a Sheperd’s Bush per
un documentario (poi mai realizzato) sul pittore inglese Mick Jackson: da qui
il titolo di “Jackson Tapes”. Un prezioso documento risultano essere anche le
menzionate registrazioni relative al programma intitolato Nightride del 22 febbraio 1970 a Maida Vale: qui i Genesis, molti
mesi prima della pubblicazione del loro secondo disco, ne eseguono due brani, Looking for Someone e Stagnation,
in una versione non ancora definitiva: il primo pezzo presenta infatti
differenze nel testo, mentre il secondo ci offre un reprise del tema iniziale
che non sarà riproposto su TRESPASS.
Sono inoltre presenti tre affascinanti canzoni che rimarranno escluse dal
disco: The Sheperd (contenente un
suggestivo tema melodico con flauto e piano all’unisono, più una splendida
prestazione vocale di Gabriel), Let Us
Now Make Love (che vede come cantante solista anche Ant) e Pacidy: questi pezzi, rimasti a lungo
inediti, sembrano rivelare i Genesis in sospeso tra i primi due album, e
venivano spesso suonati dal vivo in quel periodo. Viceversa queste incisioni di
Nightride non sembrano eseguite
interamente live, dal momento che può sentirsi Peter cantare e suonare il
flauto contemporaneamente. Altre registrazioni per la Bbc sono quelle del 10
maggio 1971 al programma Sound of the
Seventies, questa volta con Phil Collins alla batteria e audio stereo: Stagnation e The Musical Box, in una versione un po’
diversa da quella poi finita su
NURSERY CRYME. Ancora per Sound of
the Seventies le incisioni del 9 gennaio 1972, che comprendevano anche le
rare esecuzioni di Harlequin e Harold the Barrell, di nuovo in
stereofonia. Del 2 marzo 1972, invece (stesso mese dei Genesis alla Tv belga)
il mini-concerto al Paris Theatre di Londra, con il pubblico in sala, la voce
di Andy Dunkley a presentare il gruppo e Peter impegnato anche a raccontare la
storia di Cynthia ed Henry prima di The
Musical Box, preceduta da The
Fountain of Salmacis e seguita da The
Return of the Giant Hogweed. Relativa al periodo di FOXTROT,
infine, la partecipazione della band a Top
Gear del 25 settembre 1972, con ottime esecuzioni di Watcher of the Skies e Get’em
Out by Friday. La sopracitata storiella raccontata da Peter Gabriel al
pubblico prima dell’esecuzione di The
Musical Box trattava proprio il tema di quella mini-opera rock: mentre
Cynthia e il suo amichetto Henry, due bambini apparentemente innocenti, giocavano a croquet, la prima colpiva il
secondo con una delle mazze utilizzate in questo gioco, decapitandolo. Pochi
giorni dopo la bambina sarebbe entrata nella stanza di Henry, scoprendo il suo
carillon (in inglese “musical box”) dal quale, una volta aperto, cominciarono a
udirsi le note della dolce filastrocca Old
King Cole. Improvvisamente però compariva lo spirito di Henry che
invecchiava rapidamente, trasformandosi in un vecchio smanioso delle pulsioni
sessuali represse in una vita, supplicando Cynthia di toccarlo («Why don’t you touch me?»): la sua tata, udendo i rumori
provenienti dalla stanza, sarebbe accorsa gettando il carillon contro il
vecchio lascivo, “distruggendoli entrambi”. Da qui il titolo e la copertina del
disco NURSERY CRYME, con
il dipinto che illustrava in stile vagamente vittoriano la piccola Cynthia
brandente la mazza da croquet in un verde campo da gioco disseminato di teste
mozzate. La stessa immagine si sarebbe intravista anche sullo sfondo del
successivo album F0XTROT,
che presentava in primo piano la figura in abiti femminili rossi con la testa
di volpe (“fox”) su una lastra di ghiaccio in mezzo al mare. I testi e gli
stessi titoli dei dischi erano sempre ricchi di doppi sensi e giochi di parole.
Watcher of the Skies divenne il
classico inizio dei concerti dei Genesis durante i tour di FOXTROT e SELLING ENGLAND BY THE POUND:
Steve Hackett si rese conto della potenza di quell’inizio al mellotron da parte
di Tony Banks mentre si trovava nei bagni al piano inferiore del Palasport di
Reggio Emilia, durante le prove del suono. Era il 12 aprile 1972. Quel pezzo
avrebbe visto il suo esordio come brano d’apertura al festival di Lincoln del
successivo 28 maggio: nel luogo e al momento sbagliato, dal momento che il
pubblico, in pieno giorno, intirizzito
dal freddo e con i piedi nel fango, avrebbe voluto ascoltare solo musica
ballabile per scaldarsi. Watcher of the
Skies sarebbe stata in seguito utilizzata come bis finale dei concerti
relativi al tour di THE LAMB
LIES DOWN ON BROADWAY e, in versione ridotta, ancora in conclusione
degli show del 1976 che promuovevano A TRICK OF THE TAIL. Questa
stessa versione, che univa l’inizio alla fine del brano, sorprese il pubblico
anche durante i concerti del 1982. Il sopracitato show della band al Lincoln
festival venne documentato da alcune splendide fotografie di Armando Gallo,
presente all’evento: Peter appariva vestito tutto di nero, con un’ampia
collana, bracciali e occhi bistrati, oltre alla cassa da batteria che teneva
sempre innanzi a sé, e ad una sorta di trespolo per reggere flauto e tamburello
al suo fianco. Un altro scatto mostra tutto il gruppo sul palco, sicuramente
durante l’inizio di The Musical Box:
infatti, oltre a Mike e Steve seduti e impegnati alle chitarre, si può anche
intravedere Tony Banks alla 12 corde. Un bel fondale rosso lasciava spiccare le
figure dei musicisti. La prima foto scattata da Armando ai Genesis vedeva
questi ultimi impegnati a provare in una piccola sala, con Peter in giacca nera
e Phil seduto alla sua batteria Gretsch gialla nel marzo del 1972.
Successivamente li fotografò durante lo show alla Fairfield Hall di Croydon nel
novembre di quello stesso anno, e sui tetti di New York quando era l’aprile del
1973. Le sue numerosissime foto sono tra le più belle a ritrarre il gruppo
attraverso gli anni: suoi anche gli scatti per la copertina di SECONDS OUT e per il retro di GENESIS LIVE e SELLING ENGLAND BY THE POUND.
A lui si devono inoltre le traduzioni in italiano dei testi contenuti negli
album pubblicati nel nostro Paese. Non a caso, quando Armando Gallo venne
riconosciuto nel 2007 sul palco prima dell’esibizione dei Genesis al Circo
Massimo, venne accolto da un’ovazione da parte del pubblico, come se fosse
stato un componente del gruppo. Io gli parlai al telefono per richiedergli il
suo fenomenale libro I Know What I Like
autografato, che ricevetti nel maggio del 1989. FOXTROT venne registrato presso gli Island Studios di
Londra tra l’agosto e il settembre del 1972: dopo aver ascoltato tutta Supper’s Ready Tony Stratton-Smith si
commosse, rendendosi conto che i suoi ragazzi stavano per farcela. Il relativo
tour vide Peter Gabriel utilizzare più costumi, compresa la maschera del fiore.
Un’immagine di quel periodo lo ritrae in abito nero e con le ali di Watcher of the Skies sul capo, ma ancora
senza mantello. Questo disco fu il primo a essere pubblicato negli Stati Uniti,
dalla Buddah Records: fu per questo che i Genesis fecero il loro esordio dal
vivo negli States per i due concerti di New York e Boston alla fine del 1972.
Una seconda tournée, più lunga e meglio organizzata, attraversò il Nord America
tra il marzo e l’aprile dell’anno successivo. Qualche crepa nel rapporto fra
Peter e il resto della band cominciò a manifestarsi quando William Friedkin, il regista del film L’esorcista, affascinato dalla storia di
Gabriel riportata sul retro di
GENESIS LIVE, pubblicato nel 1973, durante l’estate dell’anno seguente
l’aveva invitato a collaborare ad una nuova sceneggiatura: Gabriel, di fronte
alle rimostranze dei suoi compagni che gli imponevano di scegliere tra il
gruppo e questa nuova esperienza, aveva accettato, volando a Los Angeles per
incontrare Friedkin e lasciando inaspettatamente i Genesis, per poi rientrare
nella band quando la proposta del regista non si dimostrò sufficientemente
concreta. Il lavoro avrebbe dovuto
essere in realtà un doppio album, contenente anche Supper’s Ready: ma alla fine si optò per un Lp singolo, registrato
il 24 febbraio 1973 presso la Free Trade Hall di Manchester e la sera dopo alla
De Montfort di Leicester. Quelle incisioni, inizialmente destinate alla
trasmissione radiofonica King Biscuit
Flower Hour, vennero acquisite dalla Charisma per ricavarne GENESIS LIVE, che avrebbe
superato le vendite di FOXTROT.
La front cover mostrava la band mentre
suonava l’ultima parte di Supper’s Ready, non inclusa nel disco,
con Peter nelle vesti di Magog, mantello e scatola rossa in testa.
Paradossalmente il retro di quello stesso album, che vedeva i Genesis tributare
un saluto a Richard McPail, indusse molti a credere che quest’ultimo fosse
morto: invece, il gruppo intendeva solo ringraziarlo per la sua attività di
manager, nel momento in cui si affidava a Tony Smith! Richard compariva anche
all’interno della copertina di
FOXTROT come se fosse un componente della band, in uno scatto del 1972
che lo mostrava in cilindro durante il matrimonio di Tony Banks. La sopracitata
Supper’s Ready, contenuta in questo
disco e lunga 20 minuti, era nata da un semplice arpeggio che suonava proprio
Tony Banks alla 12 corde, catturando l’attenzione di Mike Rutherford: sarebbe
divenuto quello della parte introduttiva del brano (Lover’s Leap), cantato a due voci da Peter Gabriel, sia nella
tonalità bassa che in quella alta: dal vivo quest’ultima sarebbe stata affidata
a Phil Collins. La canzoncina intitolata Willow
Farm, uno dei sette sotto-titoli della suite, era stata composta qualche
tempo prima da Gabriel. Durante le esibizioni live sarebbe divenuta uno dei
momenti “iconici” dei Genesis in concerto, poiché era questo il momento in cui
Peter avrebbe utilizzato la famosa maschera del fiore: nascondendosi pur
rimanendo sul palco egli, infatti, dopo aver indossato intorno alla testa
quella corolla di enormi petali, si sarebbe alzato domandando: «A flower?», per poi sgambettare attraverso il palco sollevando in
alto le gambe e cantando quella sorta di scanzonata marcetta. Il secondo
sotto-titolo, intitolato The Guaranteed
Eternal Sanctuary Man, avrebbe visto esplodere il brano, e sarebbe stato
ripreso alla fine del pezzo con il titolo di As Sure is Eggs are Eggs in versione epica, chiudendo la suite in
dissolvenza. Il precedente tema, denominato Apocalipse
in 9/8, vedeva il gruppo esibirsi in uno dei frammenti strumentali più
entusiasmanti della loro carriera: sorretto da un articolato tempo dispari in
9/8, appunto, consentiva a Tony Banks di lanciarsi in uno strepitoso assolo con
la mano destra, cambiando gli accordi con la sinistra. Quell’assolo sarebbe
stato eseguito sempre in maniera identica, nota per nota, dal momento che i
Genesis non improvvisavano mai, come se leggessero partiture di musica
classica. La suite venne eseguita anche durante il Reading Festival del 26
agosto 1973, quando la band presentò la seguente setlist: Watcher of the Skies, The Musical Box, Supper’s Ready, The Return of
the Giant Hogweed e The Knife. Il successivo tour di SELLING ENGLAND BY THE POUND
venne documentato ufficialmente dall’ottima registrazione stereo del
sopracitato concerto tenuto al Raimbow Theater di Londra il 20 ottobre 1973.
Nel corso di quella tournée tutti i monitor e l’attrezzatura sul palco erano
nascosti da ampi veli, mentre la scenografia riproduceva forme di clessidre.
Persino il supporto utilizzato da Gabriel per sostenere flauto e tamburello
aveva assunto quella forma. Sullo sfondo venivano proiettate alcune immagini,
compresa l’illustrazione della front cover di SELLING ENGLAND BY THE POUND, opera della pittrice
Betty Swanwick, che raffigurava il personaggio sdraiato sulla panchina con
accanto la falciatrice (entrambi riferimenti al brano I Know What I Like). All’iniziale Watcher of the Skies seguivano
Dancing with the Moonlit Knight e The Cinema Show. Dopo l’epico
finale di The Musical Box veniva
proposto un brano più tranquillo, che poteva essere More Fool Me (cantata da Phil accompagnato dalla chitarra di Mike)
oppure Horizons, che vedeva sul palco
solamente Steve Hackett. The Battle of
Epping Forest precedeva la chiusura dello show con Supper’s Ready e la sua metafora della vittoria del bene contro il
male, mentre Peter, sostituendo il costume nero con uno bianco, sollevava il
tubo luminescente. A volte veniva concesso il bis con l’esecuzione di The Knife. All’inizio del tour Firth of Fifth includeva l’introduzione
di Tony Banks, ma dopo una sera in cui questi commise un errore, si decise di
far partire il brano direttamente dalla parte cantata. Anche perché il suono
del piano elettrico di Tony in concerto non era certo quello del pianoforte
vero registrato in studio. Successivamente il tour si spostò tra Canada e Stati
Uniti, ottenendo una risposta trionfale in occasione delle tre date al Roxy di
Los Angeles, a dicembre. Qui Peter si travestì anche da Babbo Natale. Il giorno
20 di quello stesso mese si recarono presso gli NBC Studios di Burbank, sempre
in California, per partecipare allo show televisivo Midnight Special, presentando
Watcher of the Skies e una versione ridotta di The Musical Box: alla fine di quest’ultimo brano, come negli spettacoli
in pubblico, Peter Gabriel, nelle vesti del vecchio stretto nel costume nero,
dopo il suo reiterato urlo: «Touch
me now, now, now, now, now!»
si avvinghiava all’asta del microfono e si lasciava scivolare esanime sul
palco. Nel corso degli spettacoli del 1974, quando Supper’s Ready giungeva alla sua conclusione, vestito di bianco
Peter “volava in cielo”, tirato in alto da una sorta di carrucola. E in
un’occasione rischiò di rimanere impiccato! La scenografia, che in un primo
tempo era bianca, successivamente divenne nera. Una registrazione molto diffusa
tratta da quel tour, seppur non ufficiale, è quella relativa alla data canadese
di Montreal del 21 aprile 1974, durante la quale Gabriel si rivolge al pubblico
parlando in francese. Alla fine della tournée, quando si recarono a Headley
Grange per provare il nuovo disco, Peter aveva ancora i capelli lunghi con
ampie porzioni rasate sulla fronte e sulle tempie. Poco dopo lo si sarebbe
rivisto con capelli corti e pizzetto, mentre con la band lavorava su THE LAMB. Esistono
interessanti registrazioni dei Genesis che provano sia SELLING ENGLAND che il lavoro successivo. Come
già avvenuto nel caso di Ian Gillan con i Deep Purple, anche Peter Gabriel
annunciò con largo anticipo che avrebbe lasciato la band alla fine del tour in
corso: in questo caso si trattava dei concerti che promuovevano proprio il
disco THE LAMB LIES DOWN ON
BROADWAY. Dal vivo il doppio album veniva presentato nella sua
interezza, come una sorta di musical rock multimediale: una storia unica con le
diapositive proiettate sui tre maxischermi dietro la band, i costumi di Peter e
la scenografia tutta dipinta di nero. Il protagonista era Rael, naturalmente
interpretato dallo stesso Gabriel: un teppista portoricano in giubbotto di
pelle, il quale, uscito dalla metropolitana di New York, a Broadway, notava un
agnello sdraiato (da qui il titolo del lavoro), per poi vedersi risucchiato in
un inquietante mondo sotterraneo da un enorme schermo (un po’ come Alice che
attraversava lo specchio per ritrovarsi “nel Paese delle Meraviglie”). Qui
avrebbe vissuto una serie di stranianti avventure, fin quando non si sarebbe
lanciato nelle acque di un fiume per salvare il fratello John, che stava per
affogare, scoprendo infine che il volto del fratello non era altro che il suo.
Il disco uscì però in ritardo e, soprattutto negli States, il pubblico non
riusciva a raccapezzarsi con quella musica mai sentita prima e quella storia
claustrofobica e incomprensibile. Soltanto in seguito si sarebbe capito che si
trattava di un autentico capolavoro. Ma all’epoca la gente avrebbe preferito
ascoltare i pezzi dei vecchi album, e veniva accontentata soltanto durante il
bis finale, con The Musical Box e Watcher of the Skies (in poche occasioni
anche con The Knife, come avvenne il 2
maggio 1975 al Birmingham Hippodrome). Alla fine di ogni concerto tutti
andavano dietro le quinte a complimentarsi con Peter Gabriel per la sua grande
performance, ignorando il resto della band. E lasciando Phil Collins a
rimuginare cose del tipo: «Ehi,
ma che succede? Siamo un gruppo, abbiamo suonato bene, io ho dato il massimo, e
ora vanno tutti da Peter?».
In qualche modo la carriera solista di quest’ultimo era già cominciata, e nella
band qualcosa si ruppe. La tensione era nell’aria. Purtroppo nessuno dei circa
cento concerti del tour di THE
LAMB LIES DOWN ON BROADWAY venne filmato professionalmente. All’inizio
dello show compariva il solo Peter Gabriel, impegnato a spiegare la prima parte
della storia, per poi raccontarne la seconda quando stava per cominciare Back in N.Y.C., brano durante il quale
lanciava una bomba molotov dietro il palco, producendo una finta esplosione.
Cantava sdraiato Cuckoo Cocoon, e
avvolto da un cono di veli azzurri The
Lamia. Durante la sezione quieta della title track saliva su per una scala
rimanendo rivolto al pubblico, mentre nel corso di The Colony of Slippermen indossava l’incredibile costume verde del
mostro bitorzoluto, con testicoli gonfiabili attraverso una pompetta nascosta.
Fu soprattutto l’utilizzo di questo ingombrante “abito da scena” a provocare
l’irritazione di Phil Collins, dal momento che questi, sentendosi soprattutto
un musicista, si vedeva costretto ad assistere alla prestazione di un Peter
Gabriel che a stento riusciva a cantare. Anche per questo, durante tutte le
rappresentazioni di THE LAMB,
la voce dello stesso Gabriel veniva doppiata da quella di Phil. I cinque
componenti dei Genesis suonavano su palchetti rialzati, con Peter sempre meno
impegnato al flauto. Ma le diapositive funzionarono solo in poche occasioni. In
compenso le performance di Phil Collins
alla batteria furono spettacolari. L’unico di quegli show ad essere volutamente
registrato dalla band su mixer multitraccia fu quello del 24 gennaio 1975 allo
Shrine Auditorium di Los Angeles, in seguito pubblicato ufficialmente su GENESIS ARCHIVE 1967-1975.
Anche se, per qualche motivo, il fonico non riuscì a mettere su nastro l’ultimo
brano (It) e il bis (The Musical Box e Watcher of the Skies). Durante il suddetto “encore” Peter tirava
di nuovo fuori prima la maschera da “Old Man” e poi le ali da pipistrello,
anche se i suoi capelli adesso erano corti. Per inciso il tour di THE LAMB fu il primo a vedere
Steve del tutto sbarbato. Esistono comunque altre registrazioni dal mixer di
quella tournée, tutte del 1975, quali quelle di West Palm Beach (10 gennaio) e
del Wembley Empire Pool (15 aprile). The
Waiting Room, il brano strumentale caratterizzato da suoni surreali e
inquietanti, uscì anche come lato B del singolo The Carpet Crawlers, registrato dal vivo con il titolo di Evil Jam: era forse l’unico caso in cui
i Genesis si lasciavano andare ad improvvisazioni, e almeno in un’occasione
Steve accennò al suo interno il tema iniziale di Dancing with the Moonlit Knight. Il tour di THE LAMB partì in ritardo, negli ultimi mesi
del 1974, a seguito di uno strano incidente occorso a Steve Hackett: questi,
durante un party, udì qualcuno dire che il tale gruppo non sarebbe valso nulla
senza il suo leader. Nella mente di Steve fu come sentir dire che i Genesis non
sarebbero stati nessuno senza Peter Gabriel. Il suo pugno si chiuse di scatto
sul bicchiere che teneva in mano, in un impulso rabbioso, e il chitarrista si
ritrovò in ospedale. Fra l’altro, al parto difficile di quel disco si
sovrappose quello (non in senso figurato) della moglie di Gabriel: la loro
figlia neonata rischiava di non sopravvivere, ed era finita in un’incubatrice.
Peter mise al primo posto la famiglia rispetto al gruppo, e non trovò la
comprensione che si sarebbe aspettato da parte degli altri. Doveva guidare per
molti chilometri tra l’ospedale e lo studio di registrazione, in Galles, per
portare a termine il nuovo disco. E si sobbarcò la stesura di quasi tutti i
testi, dal momento che l’idea dell’intero progetto era sua. Il tour iniziò il
18 novembre 1974 a Cleveland, attraversando gli States fino alla data del 4
febbraio 1975 a Chicago. La tranche europea partì da Oslo il successivo giorno
19, proseguendo per i successivi mesi di marzo, aprile e maggio. Esistono
bellissime foto di Robert Ellis scattate nel corso dei concerti portoghesi di
marzo a Cascais. Durante la data conclusiva, il 27 maggio del 1975 al Palais
Des Sports di St. Etienne, i Genesis sapevano che quella era l’ultima volta con
Peter. Essendo Phil Collins divenuto il nuovo vocalist della band già dalla
metà di quello stesso anno, si rese
necessaria la presenza di un secondo batterista: venne scelto Bill
Bruford (ex Yes e King Crimson) per la tournèe di A TRICK OF THE TAIL del 1976. Questo tour di 50 date
fu l’unico a non vedere mai cambiata la scaletta, e a includere l’esecuzione di White Mountain ed Entangled. I concerti partirono da Canada e Stati Uniti dal 26
marzo al 27 maggio, per proseguire in Europa dal 9 giugno all’11 luglio. Il
film A band in Concert documentò
estratti delle date finali, filmate a Glasgow il 9 luglio e il giorno dopo a
Stafford: i brani dal vivo (non sempre integrali, come nel caso di The Cinema Show e Supper’s Ready) mostravano immagini del gruppo sul palco alternate
ad altre di vario genere, mentre Phil sovraincise i cori in studio. I pezzi non
venivano presentati nell’ordine che avevano nella realtà: e così I Know What I Like, che era il bis prima
di Los Endos e dell’encore finale,
qui apre il film, con immagini dei roadies che montano la strumentazione e del
gruppo che sale sul palco. Nel corso di questo brano si poteva vedere Collins,
con ancora indosso il camicione bianco utilizzato alla fine della precedente Supper’s Ready, scherzare mettendo dei
cappelli in testa ai compagni, per poi esibirsi nella tarantella che lo vedeva
saltellare sul palco battendosi il tamburello contro gomiti e ginocchia.
L’ultimo refrain di I Know What I Like
mostrava Phil divertirsi battendo più volte il tamburello sulla testa di Mike,
che lo affiancava al microfono per i cori. I titoli presenti nel film erano comunque i seguenti: I Know What I Like, Fly on a Windshield, una
versione strumentale di Broadway Melody
of 1974, The Carpet Crawlers, The
Cinema Show, Entangled, Supper’s Ready e
Los Endos. Quest’ultimo brano risulta spettacolare, con la linea
melodica suonata in contemporanea da Tony e Steve su due canali separati, mentre Phil e Mike si scatenano in una sezione
ritmica tumultuosa, assecondati da Bill Bruford alle percussioni. Durante i concerti di quel tour, che
iniziavano con Dance on a Volcano,
venivano suonati in sequenza anche alcuni brani tratti dal precedente THE LAMB LIES DOWN ON BROADWAY,
presentati scherzosamente da Phil come “cotoletta d’agnello”. E, per la prima e
ultima volta, anche Mike e Steve ebbero l’occasione di presentare al microfono
un pezzo a testa (White Mountain il
primo ed Entangled il secondo). Ogni
spettacolo si chiudeva con Los Endos:
qui, dopo il “crescendo” che riprendeva il tema di Dance on a Volcano, la conclusione (un reprise strumentale di Squonk) non vedeva una esplosione di
luci sul palco, come ci si sarebbe potuti aspettare, bensì il buio completo ,
mentre i riflettori tornavano ad accendersi solo sulle ultime note del brano.
Il secondo bis era costituito dall’intera esecuzione di It (l’ultima canzone di THE LAMB) unita ad una versione ridotta di Watcher of the Skies. La chitarra Gibson Les Paul di Hackett,
specie sull’assolo di Firth of Fifth,
aveva un suono migliore rispetto a quello poi immortalato su SECONDS OUT, eccessivamente
“zanzaroso”. Bill Bruford all’epoca
espresse pareri non del tutto positivi nei confronti della band, per poi
scusarsi molti anni dopo, essendosi reso conto di aver avuto il privilegio di
suonare con uno dei gruppi più importanti della storia del rock. Per il doppio
dal vivo SECONDS OUT la
sola The Cinema Show venne tratta
dalla tournée del 1976 con Bill Bruford alla batteria: per il resto si preferì
selezionare brani che vedevano come drummer il suo sostituto, Chester Thompson,
che provò con la band durante gli ultimi mesi di quello stesso anno, rimanendo
dietro i tamburi dal 1977 in avanti, con l’esordio del 1° gennaio al Raimbow
Theater di Londra per l’inizio del “Wind & Wuthering Tour”. Riguardo al
“problema cantante”, quando Peter lasciò, mentre le riviste musicali decretavano
la fine dei Genesis, vennero provati molti possibili sostituti, che dovevano
seguire la guida vocale cantata da Phil. Ma, alla fine, ci si rese conto che
nessuna di quelle voci era migliore di quella dello stesso Collins e così,
nonostante la sua iniziale riluttanza, divenne lui il nuovo vocalist dei
Genesis. Secondo l’opinione di Phil Collins, benchè la sua voce fosse sempre
presente sia sui dischi che dal vivo, era il batterista il componente più
rispettato di una band, e furono la moglie e Bill Bruford (suo collega nella
formazione jazz-rock Brand X) a convincerlo. Così la doppia batteria divenne la
nuova caratteristica dei Genesis e, insieme ad un impianto luci sempre più
spettacolare e alla innata capacità comunicativa di Phil, si riuscì a sopperire
all’istrionica presenza di Peter Gabriel e ai suoi costumi. Collins era
emozionatissimo dietro le quinte del suo primo show come cantante, il 26 marzo
1976 a London, in Canada. La data conclusiva del tour di A TRICK OF THE TAIL fu quella
inglese del’’11 luglio a Luton. Quell’anno fu il primo a vedere Steve sempre in
piedi sul palco e l’ultimo con Mike senza barba: come sempre Rutherford
utilizzava anche uno strumento a doppio manico (chitarra a 12 corde sopra e
basso sotto), avvalendosi anche dei bass pedals Moog Taurus. Tony Banks a sua volta poteva sfoggiare il suo
gusto e la tecnica sopraffina durante gli assoli al sintetizzatore ARP Pro
Soloist. Mike, Tony e Steve utilizzavano ancora le chitarre acustiche e a 12
corde. A TRICK OF THE TAIL
venne promosso con i primi videoclip realizzati dalla band: la title track, Ripples e Robbery, Assault & Battery. Il successivo “Wind & Wuthering
Tour” venne documentato dalle riprese che vedevano la band esibirsi a Dallas il
2 marzo 1977: i brani estratti da questo concerto erano Firth of Fifth, Dance on a Volcano, Drum Duet, Los Endos e il bis
costituito da The Lamb Lies Down on
Broadway unita alla closing section di The
Musical Box. Quello stesso anno il gruppo partecipò anche ad una
trasmissione televisiva americana, promuovendo una versione ridotta di Your Own Special Way e Afterglow: tra i due brani il
presentatore intervistò Phil Collins, mentre Chester Thompson, dal momento che
si esibivano in playback, fingeva di suonare la batteria registrata in realtà dallo
stesso Phil. Quest’ultimo comparve per gran parte della tournèe con chioma
fluente e barba folta, finchè una sera
non sorprese tutti salendo sul palco con capelli corti e barba rifinita. Quei
concerti cominciavano con la possente
Squonk. L’incidere ritmico lento e maestoso di questo brano era stato
ispirato da Kasmhir dei Led Zeppelin, che Collins aveva ascoltato
in macchina. Il doppio live SECONDS
OUT venne registrato da David Hentschel durante le quattro date al
Palais des Sports di Parigi del giugno 1977, per essere pubblicato nel
successivo mese di ottobre. Rimasero
escluse One for the Vine, Inside and Out,
All in a Mouse Night, Your Own Special Way, In That Quiet Earth e Eleventh Earl
of Mar. Come detto, l’unico brano tratto dal tour precedente con
Bill Bruford alla batteria era The Cinema
Show, registrata il 23 giugno 1976 al Pavillon, sempre a Parigi. Il titolo
del del lavoro, “Fuori i secondi” derivava dall’espressione con la quale gli
arbitri degli incontri di boxe invitano i membri dello staff di ciascun pugile
ad uscire dal ring per poter dare il via al round successivo. Afterglow era il solo brano del disco
nuovo presente sul live, mentre anche qui
Firth of Fifth è priva dell’introduzione pianistica, a causa della
insufficiente dinamica dell’RMI Electra Piano utilizzato in concerto da Tony
Banks. La parte finale di I Know What I
Like conteneva il tema della vecchia
Stagnation. Phil Collins aveva introdotto Chester Thompson nei Genesis
perché aveva apprezzato molto il suo lavoro con Frank Zappa, il quale si
esibiva con due batteristi. In particolare, una figurazione ritmica che Chester
suonava duettando con Ralph Humprey sul pezzo More Trouble Everyday venne ripresa tale e quale sulla coda di Afterglow. Nonostante avesse dichiarato
con entusiasmo che il nuovo album dal vivo avrebbe surclassato il precedente,
Steve Hackett lasciò a sua volta il gruppo proprio durante i missaggi
dell’album SECONDS OUT
nel 1977: un ennesimo ascolto dell’intera
Supper’s Ready gli sarebbe risultato insopportabile. In realtà era stanco
di vedere il proprio materiale rifiutato dal resto del gruppo. Soprattutto per WIND & WUTHERING, il disco
di quello stesso anno, e il suo ultimo con i Genesis. Please don’t Touch venne provata ma messa da parte, per divenire
poi la title track del suo album solista pubblicato l’anno dopo. L’ultimo
contributo di Hackett con la band fu documentato sull’Ep SPOT THE PIGEONS, contenente
tre brani: questi ultimi erano stati registrati in verità già alla fine del
1976, durante le sedute di registrazione per WIND & WUTHERING, ma vennero dati alle stampe
solo dopo l’uscita di SECONDS
OUT, quando era ancora il 1977. Hackett rimase ulteriormente deluso dal
fatto che la sua Inside and Out, che
riteneva degna di comparire sull’album, fosse stata invece relegata all’interno
di quell’Ep. Un giorno Steve, che camminava a piedi nei giorni dei missaggi per
SECONDS OUT, disse di no
ad un passaggio che gli aveva offerto Phil Collins: forse, secondo il parere di
quest’ultimo, perché proprio Phil, il “nuovo arrivato” insieme a lui nella
band, avrebbe potuto essere l’unico in grado di convincerlo a rimanere.
Paradossalmente, 40 anni dopo il suo abbandono sarebbe rimasto il solo Steve Hackett
a portare ancora in tour i brani dei Genesis. Alla chitarra (ma anche al basso)
il suo sostituto divenne Daryl Stuermer , americano come Thompson, che esordì
in occasione del tour di AND
THEN THERE WERE THREE (“E poi rimasero in tre”) del 1978. La presenza
dell’orecchiabile brano Follow You,
Follow Me, presente su quell’album, procurò ai Genesis l’interessamento del
grande pubblico femminile, che poco o nulla sapeva della band fino a quel
momento. Gli show di quell’anno furono caratterizzati da una scenografia che
comprendeva enormi specchi disposti sopra il gruppo e l’introduzione in
scaletta della bellissima Ripples,
mai eseguita dal vivo insieme a Steve Hackett: in un’occasione i genitori di
Daryl Stuermer assistettero allo show e rimasero stupiti di fronte alla marea
di accendini accesi che accompagnavano l’esecuzione del brano. I concerti si
aprivano sempre con Eleventh Earl of Mar,
con il suono della chitarra dello stesso Stuermer che passava inizialmente da
un canale all’altro. Il secondo pezzo prevedeva il ritorno di In the Cage, non ancora seguita dal
medley degli anni successivi. In qualche occasione venne proposta quasi tutta Dancing with the Moonlit Knight unita
alla seconda parte di The Musical Box,
come documentato dal concerto all’Uptown Theatre di Chicago del 13 ottobre.
Un’altra registrazione non ufficiale di uno show di quel tour, migliore per qualità audio, è quella del
giorno 22 dello stesso mese all’Hoffheintz Pavillion di Houston. Il documentario
della Bbc intitolato Three Days with
Genesis ebbe ad oggetto proprio la tournée del 1978, seguendo la band
attraverso l’Europa, incluse anche interviste agli autisti degli enormi tir che
trasportavano la strumentazione, e concludendosi con l’esecuzione integrale di The Lady Lies a Knebworth. Phil si
presentava adesso con i capelli corti e sbarbato. Per la prima volta il gruppo
andò a suonare in Giappone, mentre l’unica data inglese coincise appunto con
l’annuale festival di Knebworth. Mike e Daryl da quel tour in avanti si
sarebbero alternati alla chitarra e al basso, utilizzando entrambi anche i bass
pedals. Con questo quintetto i Genesis si esibirono dal vivo fino al 1992, pur
registrando i dischi solo con il trio formato da Phil, Mike e Tony. I concerti
delle loro tournée cominciavano di solito con l’esecuzione di un brano tratto
dal disco precedente. Nel 1979 l’attività del gruppo aveva però subito uno
stop, a causa della crisi matrimoniale di Phil: questi annunciò alla band che
si sarebbe recato a Montreal nel tentativo di riportare a casa la moglie, che
era andata via con un altro uomo, stanca delle continue assenza del marito. Se
fosse riuscito nel suo intento, i Genesis si sarebbero sciolti. Ma la moglie
non tornò, Phil cominciò a comporre brani suoi, Mike e Tony pubblicarono i loro
primi dischi solisti e la band registrò DUKE. Dal successivo ABACAB in poi la qualità artistica dei loro lavori
avrebbe virato sempre più verso il pop, seppur di ottima fattura, consentendo
loro di piazzare al primo posto in classifica ogni nuovo album. Almeno fino al
biennio 1997-1998 quando, con il nuovo cantante Ray Wilson (presente solo sul
disco CALLING ALL STATION)
, furono costretti a cancellare il previsto tour americano a causa delle scarse
prevendite di biglietti, con conseguente scioglimento del gruppo. Proprio il
1998 vide quasi tutti i Genesis riuniti per una nostalgica photo-session, che
ritraeva insieme Peter Gabriel, Tony Banks, Phil Collins, Steve Hackett, Mike
Rutherford, Anthony Phillips e addirittura John Silver. Il 1979 aveva anche
visto Phil Collins, con folta barba e capelli lunghi, unirsi alla band di Peter
Gabriel al Friars di Aleysbury per cantare insieme a lui The Lamb Lies Down on Broadway: nell’occasione entrambi indossavano
il giubbotto di Rael, mentre l’ex VdGG David Jackson partecipava al sax, non
mancando di esibire il consueto berretto di pelle. Al tour di ABACAB del 1981 era seguito il cosiddetto “Encore Tour” del 1982, il
“Mama Tour” del 1983-1984, quello di INVISIBLE TOUCH del
1986-1987, l’apparizione diurna al festival di Knebworth del 1990 e la tournée
di I CAN’T DANCE del 1992. A parte i brani nuovi dei relativi
dischi, ormai lontani dal progressive rock, queste tournée presentavano in
realtà molti pezzi dei vecchi tempi: The
Lamb Lies Down on Broadway, The Carpet Crawlers, Firth of Fifth, il medley di In
the Cage, Dance on a Volcano, Los Endos e I Know What I Like nel 1981;
tanti pezzi nel 1982; un variabile “Old Medley” nel 1983-1984 (sempre con Eleventh Earl of Mar in apertura) più il
medley di In the Cage e Los Endos; In the Cage e In That Quiet Earth unite alla parte finale di Supper’s Ready nel 1986; ancora il medley di In the Cage più Los Endos nel
1987, e un diverso “Old Medley” nel 1992. Gli spettatori presenti allo show
tenuto al Palazzo dello Sport di Roma il 7 settembre 1982 rimasero a bocca
aperta di fronte a una setlist che, a parte alcuni brani nuovi, vedeva Dance on a Volcano in apertura, e poi
ancora l’intera Supper’s Ready, In the
Cage / The Cinema Show / The Colony of Slippermen / Afterglow, Los Endos, The
Lamb Lies Down on Broadway / Watcher of the Skies e I Know What I Like.
Anche la scaletta del “Duke Tour” era molto bella, e si chiudeva con la
versione corta di The Knife già
eseguita come bis finale in alcuni degli show del 1977: i concerti del 1980 iniziavano
infatti con Back in N.Y.C.,
successivamente sostituita da Deep in the
Motherlode, mentre l’estratto di THE LAMB venne utilizzato come uno dei bis finali nel corso della
tranche americana di quella stessa tournée (così al Madison Square Garden il 29
giugno). Le riprese dello show svoltosi al Lyceum di Londra nel maggio del 1980
documentano bene gli spettacoli di quel periodo, con un Phil Collins barbuto e
dalla camicia hawayana fuori dai pantaloni particolarmente istrionico con il
pubblico: i brani iniziali e finali del disco DUKE venivano uniti insieme, costituendo una sorta di
nuova suite. La prima parte di Dancing
with the Moonlit Knight era collegata a The
Carpet Crawlers, mentre Squonk
deflagrava con un suono portentoso. Daryl si esibiva in maglietta gialla con le
bretelle, mentre Mike era vestito tutto di bianco. Per il bis Collins si
ripresentava sul palco con un asciugamano intorno al collo, cantando
rabbiosamente Dance on a Volcano,
prima di passare alla batteria per Los
Endos. Infine chiudeva lo spettacolo a torso nudo per la fulminante
versione corta di The Knife. Durante
la frase parlata di I Know What I Like
che precedeva l’assolo di Tony Banks, il pubblico assecondava Phil,
accompagnandolo in coro urlando sempre più forte: «When the sun beats down and I lie on the bench, I can
always hear them talk. Me? I’m
just a lawnmore, you can tell me by the way I walk!» (“Mentre il sole cala e sono
sdraiato sulla panchina, sento sempre loro che parlano. Io? Sono solo una
falciatrice. Puoi vederlo dal modo in cui cammino!”). Spettacolari le
evoluzioni chitarristiche di Daryl Stuermer alla fine di The Lady Lies: purtroppo lo stesso Daryl non sarebbe mai riuscito a
non far rimpiangere Steve Hackett durante l’assolo di Firth of Fifth (non presente nella setlist del 1980) con uno
sfoggio di inutile tecnica al posto delle emozioni che sapeva suscitare il suo
predecessore, suonando poche note nel modo giusto, per uno degli assolo più
ricchi di pathos della storia del rock.
Armando Gallo ha voluto comunicarmi in tempi recenti di condividere
questa mia opinione. Il doppio album dal vivo THREE SIDES LIVE del 1981 con il suo titolo intendeva
riferirsi al fatto che tre delle quattro facciate dell’originale versione in
vinile erano registrate dal vivo, dal momento che la quarta conteneva brani
rari o inediti incisi in studio. Alcuni di questi risalivano al 1979, mentre Paperlate era un singolo uscito nel
1981: il titolo di questo pezzo era nato in maniera curiosa: durante le prove
Phil stava cantando Dancing with the
Moonlit Knight, e dal verso “Paperlate! Cried a voice in the crowd” trasse
appunto il titolo per la nuova canzone. La versione inglese di THREE SIDES LIVE includeva
però anche la quarta facciata con brani catturati dal vivo durante gli anni
precedenti (One for the Vine del 1980, The
Fountain of Salmacis del 1978 e It / Watcher of the Skies del 1976): le
successive ristampe su doppio Cd avrebbero optato per quest’ultima versione,
mentre il titolo del lavoro, pur rimanendo identico, avrebbe perso di significato.
Molti altri pezzi dal vivo vennero poi pubblicati sul box-set ufficiale
intitolato GENESIS ARCHIVE
1976-1992: soprattutto sul secondo dischetto, che raccoglieva
registrazioni non in ordine cronologico, con belle versioni di Ripples (1980), Your Own Special Way con una intera orchestra (1986) e Duke’s Travels / Duke’s End (1980).
Anche Burning Rope (1978) venne
pubblicata ufficialmente in versione live per la prima volta, e proveniva dal
sopracitato concerto di Houston. Per assurdo, l’unico pezzo del 1976, che
avrebbe potuto documentare la presenza di Bill Bruford alla batteria, era Entangled, brano nel quale quest’ultimo
di fatto non suonava. Sul terzo Cd era presente anche una dinamica versione di The Lady Lies, registrata sempre al
Lyceum di Londra nel 1980. I video dal vivo pubblicati ufficialmente furono
quelli relativi alla tournée del 1981 (con i filmati del 28 e 29 novembre al
Savoy Theater di New York) e al successivo “Mama Tour” (ripreso durante le date
finali al National Exhibition Center di Birmingham tra il 25 e il 29 febbraio
del 1984); le riprese del Wembley Stadium ’87 vennero effettuate durante i
concerti tenuti tra i giorni 1 e 4 luglio, ma rimase escluso il medley di In The Cage. In compenso, tra tanto pop
all’altezza delle classifiche, ma non della qualità artistica del passato,
venne incluso il Drum Duet seguito da
Los Endos. Tutto sommato appezzabili
anche le nuove Domino, Tonight Tonight
Tonight e The Brazilian, con un
Phil Collins che poteva esibire per l’ultima volta capelli di nuovo lunghetti.
Il gruppo riuscì a fare il “sold out” per quattro sere consecutive nello
storico stadio di Londra, ma le riprese vennero effettuate solo durante le
prime tre date: lo show iniziava con Mama,
quando non era ancora buio, con Phil in camicia bianca e giacca nera, della
quale si sarebbe liberato dopo i primi pezzi. Molto avvincente risultò la seconda
parte (solo strumentale) di Abacab,
con lo stesso Collins scatenato alla batteria. I maxischermi consentivano di
vedere la band anche a quanti si trovavano lontani dal palco. Il tour di I CAN’T DANCE venne invece
documentato in audio su THE WAY
WE WALK, e in video con le riprese effettuate all’Earls Court di Londra
nel novembre del 1992: come accennato il sottoscritto ebbe occasione di vedere
i Genesis proprio durante questa tournée, il 19 luglio allo stadio di Nizza. Ai
pezzi vecchi venne concesso solo il cosiddetto “Old Medley”, eseguito durante
la parte iniziale dello show, e costituito da spezzoni di Dance on a Volcano, The Lamb Lies Down on Broadway, la closing
section di The Musical Box, Firth of Fifth e I Know What I Like. Ma era come
se i Genesis volessero togliersi il pensiero di accontentare i fan del loro
periodo anni Settanta, per poi riversare sul pubblico la musica pop degli anni
successivi. Faceva eccezione la sola Fading
Lights, lungo brano tratto dal disco più recente, ma che includeva una
sezione strumentale degna dei vecchi tempi. Così come avveniva anche sulla
seconda parte di Home by the Sea, dal
disco intitolato GENESIS
del 1983. Mama, il principale
estratto di quello stesso album, mantenne a sua volta una buona carica emotiva,
da un “crescendo” carico di suspense, che vedeva la voce di Phil passare dalle
tonalità basse dell’inizio a quelle più alte in coincidenza con l’ingresso
della batteria, fino al “Don’t Go!” urlato più volte nel finale. Il brano venne
utilizzato come apertura dello show dei Genesis al festival di Knebworth del
1990, mentre era ancora giorno. Il sopracitato medley di In the Cage, non presente nella scaletta del 1992, subì diverse
variazioni nel corso degli anni: nel 1980 comprendeva infatti In the Cage, un frammento di The Colony of Slippermen e Afterglow; nel 1981 In the
Cage, The Cinema Show, estratti
da The Colony of Slippermen e Riding the Scree più Afterglow; nel 1984 In the Cage, The Cinema Show,
uno spezzone di In That Quiet Earth e
The Colony of Slippermen, più la
consueta Afterglow; un cambiamento
nel 1986, con In The Cage seguita
dall’intera In That Quiet Earth e
dalla parte finale di Supper’s Ready
(da Apocalipse in 9/8 in poi); nel
1987 In The Cage, tutta In That Quiet Earth e il ritorno di Afterglow; qualche variazione per
il “Tourn It on Again Tour” del 2007,
con In The Cage, cui facevano seguito
i frammenti da The Cinema Show e Riding the Scree, un estratto da Duke’s Travels e Afterglow. Durante il “Mama Tour” del 1983-1984, nel corso di In the Cage (brano sempre presentato
per intero) Phil indossava anche il giubbotto di Rael. La sezione strumentale
di The Cinema Show utilizzata in questo medley veniva già suonata
ai tempi di Peter Gabriel dai soli Phil, Mike e Tony, come in un presagio di
quanto sarebbe avvenuto in futuro. Durante il finale di Afterglow il palco veniva sempre invaso da nuvole di fumo rosa.
Dopo 15 anni di “stop” dal 1992, i Genesis tornarono in pista appunto nel 2007
con la formazione che rivedeva insieme sul palco Collins, Rutherford, Banks,
Stuermer e Thompson per una serie di concerti in Europa e negli Stati Uniti.
Ogni show si apriva con il cosiddetto “Duke’s Intro”, che univa in realtà
l’inizio di Behind the Lines a Duke’s End, seguita da Turn it on Again. La scenografia sopra
il palco rappresentava una sorta di chiocciola dalle proporzioni gigantesche, e
i componenti del gruppo quasi scomparivano all’interno di essa, mentre le
immagini dell’immenso maxischermo venivano sincronizzate con precisione alla
musica. La diretta televisiva in occasione del Live Earth del 7 luglio 2007 permise di vedere una sorta di sintesi
del nuovo show quando al Wembley Stadium di Londra era ancora giorno, prima che
il gruppo andasse ad esibirsi quella sera stessa a Manchester. Una delle
caratteristiche di questi concerti fu il duetto tra Collins e Thompson che
picchiavano all’unisono le bacchette su due sgabelli, prima di passare alle
rispettive batterie per il Drum Duet
vero e proprio. Apprezzabile fu anche il
ritorno in scaletta di Ripples, che
non veniva più eseguita dal lontano 1980. Il Dvd When In Rome, relativo
al concerto gratuito al Circo Massimo, di fronte a mezzo milione di persone,
avrebbe documentato questa reunion: si trattava dello show del 14 luglio 2007 che chiudeva il tour
europeo. Solo su Follow You, Follow Me
Phil cantava rimanendo seduto alla batteria. Proprio durante l’esecuzione della
successiva Firth of Fifth la band
andò clamorosamente fuori tempo, ma l’editing del Dvd rimediò in maniera
impeccabile all’errore. Nel corso di I
Know What I Like, poi, sul maxischermo scorrevano le nostalgiche immagini
dei Genesis ai tempi di Peter e Steve, ma anche anteriori, con Anthony Phillips
e John Silver ancora in formazione. Sullo stesso brano il consueto frammento di Stagnation venne cantato in coro da
tutto il pubblico, che si meritò un bacio da parte di Phil Collins. L’intero
tour venne immortalato sul doppio Cd LIVE OVER EUROPE,
pubblicato quello stesso anno all’interno
di una scatola nera, con i brani della scaletta tratti dalle esecuzioni
in diverse città. Si era in effetti parlato di un ritorno “on stage” con Peter
Gabriel e Steve Hackett, ma la cosa non andò in porto a causa delle perplessità
manifestate dall’ex cantante del gruppo. Un vero peccato che Peter non abbia
pensato di tornare con i suoi vecchi compagni almeno per il bis finale di Roma:
proprio in quei giorni era in Italia, e il pezzo sarebbe stato The Carpet Crawlers: sentirgliela
cantare (anche sul relativo Dvd) con i Genesis sarebbe stato molto emozionante.
Invece, a conti fatti, l’unica volta di Peter Gabriel di nuovo insieme alla sua
band di un tempo, per un concerto intero (e con Steve Hackett nel bis), sarebbe
rimasta soltanto quella del 2 ottobre 1982 a Milton Keynes, in Inghilterra,
sotto la pioggia, per l’evento denominato “Six of the Best”. Mike Rutherford,
che quella sera compiva 32 anni, si disse contento del fatto che lo spettacolo
non fosse stato registrato, dal momento che non aveva avvertito la magia che si
sarebbe atteso: in realtà un bootleg molto diffuso tra i fan ci restituisce
l’intero concerto, con il grande entusiasmo degli spettatori, nonostante
l’iniziale difficoltà di Gabriel a raggiungere le note più alte in Back in N.Y.C., che apriva lo show.
Riascoltando la scaletta di quella sera, si potrebbe pensare che i Genesis
avessero dovuto riprovare dopo tanti anni tutti quei vecchi brani: in effetti
non è del tutto vero, perché molto del materiale dell’era Gabriel veniva ancora
portato in tour nel corso dei primi anni Ottanta: solo che veniva omesso in
occasione delle pubblicazioni ufficiali (quali THREE SIDES LIVE), per lasciare posto al nuovo corso
intrapreso dalla band. Così, in occasione di quella reunion, Back in N.Y.C. più il medley tra Dancing With The Moonlit Knight e The Carpet Crawlers come sappiamo
venivano suonate ancora nel 1980; Firth
Of Fifth nel 1981, così come The Lamb
Lies Down On Broadway. Anche la versione ridotta di The Knife chiudeva i concerti del 1980, mentre l’intera Supper’s Ready veniva eseguita proprio
durante la tournèe di quello stesso 1982. Per non parlare di In The Cage, quasi sempre presente in
scaletta dal 1978 in avanti. Così, alla fine, i brani che vennero davvero
“riesumati” dopo tanto tempo furono la versione integrale di The Musical Box e qualcosa da THE LAMB.
Ma il bello, naturalmente, era la possibilità di ascoltare di nuovo Peter alla
voce e Phil alla batteria su tutto questo materiale. Steve Hackett, che si
trovava in Brasile, fece in tempo a raggiungere i suoi vecchi compagni solo per
il bis, costituito da I Know What I Like e The Knife. Peter Gabriel in realtà non
avrebbe avuto voglia di tornare con i Genesis, ma rimase commosso dalla loro
offerta di una reunion per raccogliere il denaro necessario a ripianare i
debiti che aveva contratto dopo il flop finanziario seguito alla prima edizione
del suo Womad Festival. La registrazione dal mixer di una prova precedente
questa reunion rivela un Gabriel un po’ impacciato, che dimentica anche alcuni
testi. Ed è qui che si può sentire Phil Collins “suggerire” da dietro la
batteria: proprio come a scuola! A Milton Keynes Gabriel tirò di nuovo fuori i
costumi e il vecchio flauto traverso, mai utilizzato durante la sua carriera
solista, che aveva avuto inizio nel 1977. Quella di Steve Hackett nel 1975,
mentre era ancora nella band. Quella di Mike e Tony nel 1979. Quella di Phil
Collins nel 1981, con l’inaspettato successo planetario di FACE VALUE e della hit In the Air Tonight, che sorprese i suoi
stessi colleghi. Peter avrebbe concesso al suo nuovo pubblico le sole The Lamb Lies Down on Broadway e Back in N.Y.C. durante i suoi
primissimi tour, per poi lasciare nel cassetto dei ricordi la musica della sua
vecchia band, divenendo una star internazionale. Nel 1999 avrebbe però
partecipato con loro ad una nuova versione di The Carpet Crawlers, e per GENESIS ARCHIVE 1967-1975 incise nuovamente parti
vocali per i live del 1973 al Raimbow Theater di Londra e del 1975 allo Shrine
Auditorium di Los Angeles, tornando “virtualmente” ad esibirsi con i suoi
vecchi compagni, ascoltandoli in cuffia. A sorpresa, duettando con Sting nel
2016, avrebbe cantato l’inizio di Dancing
with the Moonlit Knight, accompagnandosi al piano: proprio come faceva
nelle registrazioni relative alle prove preliminari all’ormai leggendario e
indimenticabile SELLING ENGLAND
BY THE POUND.
KING CRIMSON
Nel cottage adibito a sala prove,
come detto, i Genesis tenevano appesa
alla parete la copertina di IN
THE COURT OF THE CRIMSON KING, lo strabiliante disco d’esordio (ottobre
1969) dei King Crimson di Robert Fripp, oggi considerato da tutti il vero Lp
precursore del rock progressivo: al suo interno erano presenti infatti tutte le
componenti (e la strumentazione) caratterizzanti questo genere musicale: brani
complessi alternati a ballate romantiche, grande tecnica, suoni mai uditi
prima, contaminazioni varie, flauto traverso e mellotron, grafica di grande
impatto, testi ora allucinati ora fiabeschi. Lo stesso Steve Hackett, come
scritto sopra, dopo aver visto i King Crimson al Marquee Club di Londra ne
rimase folgorato e, una
volta entrato nei Genesis, prese a suonare seduto con una Gibson Les Paul nera,
proprio come Robert Fripp. Con lui al Marquee c’era anche il fratello John, il
quale, incantato a sua volta dal flauto di Ian McDonald (principale autore dei
brani), si innamorò di questo strumento, suonandolo anche sui dischi e durante
i concerti di Steve in veste di solista. E anche nei Genesis fece la sua
comparsa il mellotron, strumento in grado di simulare sonorità orchestrali
(archi e ottoni), che sarebbe divenuto, insieme al Moog, lo strumento tipico di
quella nuova musica dall’approccio sinfonico. I King Crimson provarono per la
prima volta il 13 gennaio 1969 in uno scantinato londinese, ed esordirono dal
vivo il mese successivo con sette serate consecutive a Newcastle, per poi
esibirsi allo Speakeasy e in altri locali di Londra e dintorni, tra aprile e
giugno. Il 5 luglio ebbero l’occasione di stupire un pubblico di vastissime
proporzioni durante il festival gratuito di Hyde Park (dal quale i Rolling
Stones avrebbero tratto il film The
Stones in the Park), lasciando senza fiato le 650 mila persone presenti
all’evento. Alcuni scatti mostrano la band sdraiata sul prato del parco, ed
esiste anche un breve filmato in bianco e nero che documenta la performance del
gruppo. I brevi appunti del diario di Fripp rivelano come egli stesso si fosse
reso conto di quanto quel singolo show avrebbe potuto segnare una svolta nella
carriera del gruppo, nonostante il loro primo disco non fosse neanche uscito. E
così fu. Il lavoro venne pubblicato nel mese di ottobre e meravigliò tutti, con
l’impatto devastante dell’iniziale 21st
Century Schizoid Man, la raffinatezza della quieta I Talk To The Wind, la bellezza eterea e allo stesso tempo epica
della title track, oltre allo struggimento evocato dalla splendida Epitaph. Pete Thownshend degli Who lo
definì “un capolavoro assoluto”. Anche la copertina era impressionante:
rappresentava un volto sconvolto e terrorizzato, dalla bocca spalancata, ed era
opera del giovane Barry Godber, che sarebbe scomparso solo l’anno successivo a
causa di un arresto cardiaco. Eppure, incredibilmente, subito dopo il tour
americano del dicembre 1969, i King Crimson si erano già sciolti. Per lo meno,
quelli della prima formazione: Robert Fripp alla chitarra elettrica, Greg Lake
alla voce, al basso e alla chitarra acustica,
Michael Giles alla batteria e Ian McDonald al flauto e al sax, oltre che
al mellotron. Peter Sinfield, autore dei testi, veniva considerato un
componente aggiunto del gruppo, in quanto era anche il fonico, nonché colui che
si occupava dell’impianto luci. Il tour americano di cui sopra venne
documentato dalla registrazioni degli ultimi show tenuti presso il Fillmore
West di New York il 15 e 16 dicembre, grazie al mixer che venne prestato loro
da Joe Cocker. Questi concerti, che iniziavano con In the Court of the Crimson King, contenevano anche inediti quali Drop In (in seguito divenuta The Letters), A Man, a City (prima versione di Pictures of a City), Travel
Weary Capricorn, Mantra, Travel Bleary Capricorn e Mars (una citazione di Gustav Holts che
ritroveremo sul lavoro successivo). Ma, al rientro in Inghilterra, come detto,
la band si disgregò, anche se Greg Lake accettò di cantare e suonare la
chitarra acustica sul secondo disco (IN THE WAKE OF POSEIDON, 1970), prima di passare tra le fila degli
gli ELP di Keith Emerson, che fecero il loro esordio all’Isola di Wight
nell’agosto dello stesso anno. Il secondo Lp dei King Crimson fu in qualche
modo speculare al primo, con un brano d’impatto all’inizio (Pictures of a City), seguito da una soave
ballata acustica (Cadence and Cascade).
Molto bella la title track, insieme all’aggressiva Cat’s Food. Rimase fuori dal disco il brano Groon, pubblicato su singolo e in seguito proposto dal vivo con
assolo di batteria al suo interno. Al basso troviamo ora Peter Giles: si
ricostituisce così la sezione ritmica dei due fratelli Giles già presente nel
gruppo pre-Crimson denominato Giles, Giles and Fripp, che aveva dato alle
stampe un surreale album quando era ancora il 1968. Mel Collins esordisce ai
fiati, mentre Keith Tippet, musicista di estrazione jazz, è impegnato al
pianoforte. Come detto Greg Lake limita il suo contributo a voce e chitarra
acustica, lasciando che a cantare la sopracitata Cadence and Cascade sia Gordon Haskell. Con questa formazione la band
fece una apparizione alla nota trasmissione televisiva Top of the Pops, eseguendo in playback Cat Food. La nuova line-up ebbe vita breve, ma Fripp non si perse
d’animo, reclutando altri musicisti per il successivo album LIZARD (con la partecipazione
di Jon Anderson degli Yes sul brano omonimo) quando era ancora il 1970. Il
lavoro è aperto da Cirkus, brano
ricco di strani suoni e da una voce alterata dagli effetti creati in studio da
Pete Sinfield. Così come Happy Family,
che ci parla ironicamente dei Beatles. La ballata tranquilla è questa volta la
suggestiva Lady of the Dancing Water.
La formazione vede affiancare a Fripp, Collins e Haskell (questa volta alla
voce sull’intero album) il batterista Andy McCulloch, oltre al consueto apporto
esterno di Sinfield. La band torna a suonare dal vivo solo nel 1971, anno in
cui dà alle stampe l’ottimo ISLANDS:
qui l’iniziale Formentera Lady è
contrappuntata dalla voce di una cantante soprano, mentre The Letters, come accennato, risulta essere una nuova versione del
brano Drop in, già in scaletta per i
concerti del 1969, ma non incluso nell’album d’esordio. Ladies of the Road contiene un inciso che ci ricorda i Beatles,
mentre Prelude: Song of the Gulls è
suonata da un’intera orchestra sinfonica: alla fine del disco, dopo alcuni
secondi di silenzio, è possibile ascoltare gli orchestrali accordare gli
strumenti subito prima che il brano abbia inizio, con la voce di Fripp che
conta il suo “One, two, three, four”. Un tour vero e proprio partì solo nel
1972, con la formazione di ISLANDS:
Robert Fripp insieme a Mel Collins (fiati e mellotron), Ian Wallace (batteria)
e Boz Burrell: a quest’ultimo, divenuto il nuovo cantante, Fripp insegnò a
suonare il basso. E con questa line-up venne pubblicato il disco dal vivo
intitolato EARTHBOUND
(1972), suonato male e registrato peggio: scelta davvero incomprensibile, dal
momento che molti anni dopo sarebbero saltate fuori ottime registrazioni di
quel periodo: in particolare il mini-concerto intitolato LIVE AT SUMMIT STUDIOS, inciso
dal vivo a Denver il 12 marzo 1972 per una trasmissione radiofonica di fronte
ad uno sparuto pubblico, con la voce quieta del presentatore e dello stesso
Fripp, che presenta i componenti della formazione. Buone anche le registrazioni
stereo del 1971 relative ai concerti di Detroit (13 dicembre) e al Plymouth
Guildhall (11 maggio), con ottime esecuzioni di brani quali Pictures of a City, The Letters, Formentera
Lady, Cadence and Cascade, The Sailor’s Tale e Groon. La line-up successiva si rivelò però la migliore,
soprattutto in concerto: con John Wetton (ex Family) al basso e alla voce,
David Cross al violino e Bill Bruford (che dovette pagare una penale per
lasciare gli Yes) alla batteria. Dal vivo Robert Fripp suonava anche un
mellotron bianco alla destra del palco, mentre un altro dello stesso colore
veniva utilizzato da David Cross sul lato sinistro. Questa ultima incarnazione
dei King Crimson degli anni Settanta, attiva dagli ultimi mesi del 1972 al 1974
(inizialmente con l’apporto dell’eccentrico percussionista Jamie Muir) si
rivelò una vera macchina da guerra, tanto precisa quanto in grado di divagare
in fantastiche improvvisazioni strumentali, che finirono in parte anche sui
dischi in studio (LARKS’ TONGUES
IN ASPIC e STARLESS AND
BIBLE BLACK). RED
(1974) fu l’ultimo lavoro ufficiale, se non si considera il disco live (USA) con sovraincisioni del violinista Eddie Jobson,
pubblicato nel 1975, quando la band si era ormai sciolta. Con questa formazione
l’anno prima i King Crimson apparvero anche alla trasmissione televisiva
francese Melody, suonando dal vivo,
ma senza pubblico. I brani eseguiti in questa occasione (22 marzo 1974) furono Larks’ Tongues in Aspic Part II, The Night
Watch, Lament e Starless. Altri pezzi eseguiti spesso erano Easy Money, Book of Saturday, Fracture e The Talking Drum. I concerti di
questo periodo vennero documentati sul cofanetto intitolato THE GREAT DECEIVER, pubblicato
nel 1992. La scelta di scrivere la parola “fine” a quell’esperienza fu dello
stesso Fripp, che lasciò totalmente sconcertati i suoi compagni, che mai
avrebbero pensato di smettere proprio in quel momento. L’ultimo concerto dei
King Crimson si tenne a New York il 1° luglio del 1974 al Central Park di New
York. All’album RED parteciparono in qualità di ospiti diversi ex Crimson, come
per un saluto finale. E Starless, il
brano che chiude quel lavoro, rimane a parere di chi scrive uno dei pezzi più
belli del rock progressivo di sempre. Bill Bruford si unì ai Genesis per il
tour del 1976 mentre Boz, Il bassista del biennio 1971-1972, passò ai Bad
Company degli ex Free Paul Rodgers e Simon Kirke: vale a dire, come detto
sopra, l’unica band di successo dell’etichetta dei Led Zeppelin Swan Song. I
King Crimson tornarono comunque in attività nel 1981 con l’album DISCIPLINE, ancora con Fripp e
Bruford, ai quali si aggiunsero Tony Levin al basso e Adrian Belew alla voce e
alla chitarra: dunque, questa volta, niente più bassista-cantante, un inedito
(e magistrale) intreccio fra due chitarre, divenute ormai una sorta di
“generatori di suoni”. Il tutto in favore di una musica totalmente nuova, ma
ancora una volta in grado di sorprendere e di affrontare gli anni a venire con
un passo più avanti rispetto agli altri. Per inciso “Discipline” era in origine
il nome ideato per la nuova band, prima della decisione di utilizzare il vecchio nome King Crimson. Il successivo
album BEAT (1982) trovò
appunto ispirazione dagli scrittori della “Beat Generation”: i brani più
eseguiti dal vivo, tratti da questo lavoro, furono Waiting Man, Earthbeat e
Sartori in Tangier. Nel 1984 uscì l’ottimo THREE OF A PERFECT PAIR: il concerto tenuto a Tokyo il
28 aprile di quello stesso anno venne pubblicato in video con il titolo Three of a Perfect Pair – Live in Japan. Proposto su vari supporti nel corso degli
anni, e caratterizzato da una copertina interamente gialla, lo show conteneva
bei pezzi nuovi quali Frame by Frame,
Matte Kudasay, Man With an Open Heart e l’adrenalinica Elephant Talk. Con questa formazione i pezzi vecchi che venivano
riproposti erano solo Larks’ Tongues in
Aspic Part II, Red e 21st Century
Schizoid Man. In qualche occasione anche Heroes di David Bowie, alla quale Fripp aveva partecipato nel 1977.
Three of a Perfect Pair rimane
comunque un brano magnifico. Stupefacente poi la qualità del suono di EYES WIDE OPEN, il Dvd filmato
di nuovo a Tokyo in occasione del “Power To Believe Tour” del 2003. Dopo vari
cambi di formazione, i King Crimson sono attivi ancora oggi, con il solo Robert
Fripp quale componente della formazione originale. Sia Ian Wallace che Boz
Burrell ci hanno purtroppo lasciati. Il batterista Pat Mastellotto è stato più
volte parte del gruppo, che si é presentato sul palco anche in una nuova
formazione a sei elementi, con tre batteristi davanti e due chitarristi più
Tony Levin dietro. I due chitarristi sono Robert Fripp e Jakko Jakszyk, già
cantante della 21st Century Schizoid Band (formata da ex componenti del Re
Cremisi, escluso Fripp). Jakko si è inoltre occupato dei missaggi relativi ai
concerti dei Jethro Tull riemersi dagli archivi negli ultimi anni (Parigi 1975,
Landover 1977 e Berna 1978). Splendida l’esecuzione della vecchia Starless da parte di questa più recente
line-up. La band è in tour anche nel 2019, per festeggiare il proprio 50°
anniversario.
MALIBRAN
Ecco qualche aneddoto piacevole o
divertente riguardante i Malibran: una volta il nostro Jerry Litrico, in
trasferta dalla Sicilia, stava provando una chitarra in un negozio di strumenti
musicali in Veneto, accennando qualche pezzo nostro: un cliente del posto, fan
dei Malibran, gli chiede come facesse a conoscere quei pezzi, non
riconoscendolo come un componente del gruppo: un po’ come se (senza fare
paragoni!) un fan degli Zeppelin sentisse un tizio suonare Stairway To Heaven in un negozio, per poi scoprire che il tipo che
suona é Jimmy Page. Una persona dal Brasile mi ha scritto di aver comprato per
sette volte il nostro primo disco, perché, essendo questo in vinile, rovinava tutte le copie a
furia di ascoltarlo. Un altro fan dal Messico, a proposito del nostro live IN CONCERTO , mi ha comunicato
che per lui noi siamo come i Genesis, i King Crimson, o altri gruppi prog di
questo livello (davvero un’esagerazione!). Un altro, dagli Stati Uniti, non si
aspettava che il sottoscritto rispondesse personalmente ad una sua e-mail, e
solo per questo, mi ha confessato di essere andato in giro tutto il giorno con
un gran sorriso stampato in faccia. Un giapponese mi comunica di aver appena
visto il nostro disco d’esordio in un negozio di Tokyo: lui comunque l’aveva
già. Ad un mio amico, in vacanza in Messico, un tipo che vendeva dischi ha
proposto il nostro primo album, parlando di un’ottima prog band italiana, non
immaginando certo che lui ci conoscesse di persona. E’ del 1990 un’intervista
di Mario Giammetti al sottoscritto su un numero del leggendario «Ciao 2001»
a proposito del nostro primo disco, con foto dei Malibran a Roma quello stesso
anno: nell’occasione, immaginando che anche il nostro secondo lavoro sarebbe
uscito in vinile, parlo della suite Le
Porte del Silenzio come brano che avrebbe trovato posto su lato B. Nel 1991
eravamo nel negozio Black Widow di Genova (oggi anche etichetta discografica)
pieno di nostri estimatori che ci chiedevano di autografare il nostro primo
disco in vinile, che era anche in vetrina: un ragazzo aveva già la sua copia a
casa, ma pur di averne una autografata, ne acquistò un’altra sul posto; un
tizio aveva il personaggio di quella copertina (THE WOOD OF TALES) tatuato sul braccio. Mentre
suonavamo ad un festival negli USA, tutti i Cd nostri che ci eravamo portati
dietro sono stati venduti in pochi minuti. E quando ci siamo esibiti alla Festa
dell’Unità di Catania, nel settembre del 1991, Carmen Consoli, non ancora
famosa, a fine concerto è salita sul palco per abbracciarci, urlando: «ma dove (bip) la prendete tutta questa
grinta?». Era con me già
durante il soundceck, e ci eravamo conosciuti pochi mesi prima, alla fine di un
nostro show, quando si era avvicinata al sottoscritto per complimentarsi
riguardo al mio modo di suonare la chitarra, ritenendo che desse al gruppo
un’impronta più rock, facendo “accendere i motori” al nostro sound. Veniva
spesso a vederci, le piaceva la nostra suite Le Porte del Silenzio, e le regalai l’omonimo Cd mentre mi trovavo
a casa sua. Durante una di queste mie visite cantammo insieme una parte di quel
brano, mentre mi accompagnavo con una sua chitarra acustica. Era sotto al palco
anche durante uno spettacolo dei Malibran del 1994, e proprio la suite, tratta
da quello show, avrebbe chiuso il nostro LIVE ANTHOLOGY del 2018. Alcuni fan dalla Germania e
dal Nord Italia, pur avendo già tutti i nostri lavori, mi hanno richiesto “in
blocco” anche i 50 (!) concerti inediti che avevo messo su Cd. Arturo Stalteri
dei Pierrot Lunaire (gruppo prog italiano anni Settanta ben noto ai cultori del
genere) ha voluto comunicarmi: «Mi
piacciono i Malibran»
e ha parlato del mio libro Jethro Tull
1968-1978 su Rai Radio 3. Ha scritto inoltre di considerarlo “notevole”. Oggi
conduce programmi di musica classica, ha collaborato con Rino Gaetano, ma non
ha affatto rinnegato il progressive e ama gli Stones. Nel 1988 avevo registrato
un suo speciale radiofonico in tre puntate dedicato proprio ai Jethro Tull,
sempre sulla Rai. Un nostro fan siciliano residente a Dublino scrive:
“Malibran, orgoglio della nostra terra”. Mentre suonavamo prima del Banco del
Mutuo Soccorso, nel 1999, vedevo Vittorio Nocenzi godere muovendo la testa
dietro di noi, durante l’incalzante parte finale della nostra On The Lightwaves: sulla mia macchina ha
poi avuto bellissime parole nei nostri confronti. Qualche ora prima sulla mia
vecchia Panda avevo con me Francesco Di Giacomo, in cerca di dolci da portare
alla famiglia: come, per un fan degli U2, andare in giro con Bono e The Edge,
per poi andare a cena insieme a loro! Un libro di Donato Zoppo sulla PFM ci
paragona alla “Premiata” riguardo alla spettacolarità sul palco: La PFM per gli
anni Settanta e i Malibran per gli anni Novanta. Ian Anderson ha rivolto parole
di elogio nei confronti del Cd italiano di tributo ai suoi Jethro Tull: come
pezzo di apertura era stata scelta la nostra versione di Bourèe, che è dunque il primo brano che ha ascoltato. Martin Barre è ritratto sorridente in
una foto del 2018 accanto al mio libro sugli stessi Jethro Tull. Qualcuno ha
letto il volume tre volte di seguito! Un
nostro estimatore romano ci ha visti suonare vicino Roma nel 1989: aveva 12
anni, e quello era il primo concerto della sua vita. Due anni dopo è venuto a
vederci anche all’Alpheus (oggi Planet Club), sempre nella Capitale, e continua
a seguirci. Un fan dal Costarica,
poi, pur avendo tutti i nostri dischi, mi ha chiesto anche un bel po’ di
materiale inedito. Qualcuno scrive di aver visto copie del nostro THE WOOD OF TALES in un negozio finlandese, e si augura che
anche gli altri nostri dischi vengano ristampati in vinile. Loris Furlan dell’etichetta Lizard mi ha comunicato di essere in
possesso di una copia di questo nostro lavoro nella versione in vinile rosso,
autografata da tutta la band. Durante il festival di Altomonte, con Malibran e
Osanna tra i gruppi partecipanti, ho avuto una bella conversazione con Lino
Vairetti, che, in qualità di leader degli Osanna, aveva diviso il palco con i
Genesis nel 1972, scattando anche qualche foto a Peter Gabriel e consorte a
Genova e sulla spiaggia di Viareggio. Negli ultimi giorni del 2018 lo stesso
Lino mi ha inviato un gradito “tag” sul profilo Facebook: un cartello rosso con
scritta bianca riportante le seguenti parole: “Caro Giuseppe, grazie a nome di
tutti per quello che posti sul progressive rock. Sei unico”! Dello stesso
periodo sono i ringraziamenti di Armando Gallo relativi a quanto da me scritto
a proposito de Le Orme. “Sei magico”, mi scrive inoltre, con riferimento ad
altri miei post riguardanti i Genesis. “Ti ammiro e ti voglio bene”. Franz Di
Cioccio, a sua volta, mi ha inviato una e-mail di congratulazioni per la nostra
prevista partecipazione ad un festival in Francia. E con il suo caratteristico
slang “anglo-lombardo” si diceva "very gasato", perché stava partendo
per Tokyo con la PFM (ne avrebbero tratto LIVE IN JAPAN 2002), preannunciandomi che avrebbe di nuovo
indossato il kimono, come negli anni Settanta. Il nostro brano Trasparenze ha vinto il Progcontest
quale miglior pezzo di rock progressivo italiano del 2008, raggiungendo anche
la finale dei Progawards dell’anno seguente. Un fan dal Belgio paragona la nostra suite Le Porte del Silenzio a Supper’s Ready dei Genesis (questa
poi!). E il nostro disco dallo stesso titolo, uscito nel 1993, è stato inserito
tra i dieci lavori più belli del progressive italiano degli anni Novanta sulla
rivista «Prog Italia». Livin’Alone, il brano che apriva quel
disco, su YouTube conta migliaia di ascolti, e uno dei commenti è il seguente:
“Fantastico! Strabiliante! Uno dei migliori pezzi di prog italiano che abbia
mai sentito!”. In tempi recenti ho avuto modo di conversare con Pino Ballarini
(cantante del Rovescio della Medaglia) e Marcello Todaro (chitarrista sui primi
tre dischi del Banco del Mutuo Soccorso). Nel 2006, durante il festival di
Andria, abbiamo diviso il palco con il leggendario Balletto di Bronzo, suonando
prima di loro e conoscendo l’eclettico Gianni Leone durante il soundcheck
pomeridiano e dopo lo show. Quello stesso anno mi ritrovo insieme a Glenn
Cornick e Dave Pegg. Oggi i Malibran sono ancora attivi, seppur ridotti da sei
a tre elementi, tutti facenti parte della formazione originale: Jerry alla
chitarra elettrica, mio fratello Alessio alla batteria e il sottoscritto non
più alla chitarra e al flauto traverso, bensì al basso (oltre che alla voce,
come sempre). Per festeggiare i nostri 30 anni di carriera, nel 2018 ho fatto
pubblicare alla Ma. Ra. Cash Records il decimo disco del gruppo. Dopo i
concerti tutti ci ripetono che il nostro sound, nonostante la sopravvenuta
mancanza di tastiere, fiati e seconda chitarra, è rimasto sempre quello di
sempre.
JETHRO TULL
Tornando di nuovo
indietro nel tempo, nei pensieri di Ian Anderson, agli inizi della
carriera dei Jethro Tull, c’era la
presenza piuttosto ingombrante di Mick Abrahams. Quest’ultimo nel 1968 era già
un eccellente chitarrista, ma anche un cantante e un’autentica “prima donna”,
che avrebbe voluto guidare la band e lasciare Anderson sullo sfondo durante i
concerti, giusto per qualche intervento al flauto o all’armonica. Ma sarebbe
stato Ian a divenire presto la figura di
riferimento della band: un po’ per il suo carisma, e un po’ per quella sua bizzarra idea di inserire il flauto traverso
(strumento utilizzato solitamente in contesti jazz o di musica classica) in un
gruppo rock. Ian Anderson aveva in realtà cominciato con la chitarra, ma, dopo
aver visto Eric Clapton, si era reso conto che non sarebbe mai riuscito a fare
di meglio. Così rivolse la sua attenzione a quello strano strumento argentato,
esposto in un negozio, che non aveva mai visto prima. Imparò subito Serenade To A Cuckoo (un brano
strumentale di Roland Kirk) e migliorò tantissimo nel giro di pochi mesi,
utilizzando l’aggressiva tecnica di “cantare” con la voce dentro le note che
suonava, agitandosi davanti all’asta del microfono e reggendosi su una gamba
sola, tenendo l’altra sospesa a mezz’aria: uno spettacolo nello spettacolo, che
avrebbe contribuito non poco alla fortuna sua e del gruppo. Il primo nucleo
della band va rintracciato nei Blades, compagni di scuola presso la Graham
School di Blackpool, che nel 1963 vedeva insieme i giovani Ian Anderson, John
Evan, Barrie Barlow e Jeffrey Hammond: vale a dire, con la successiva aggiunta di
Martin Barre, quelli che sarebbero diventati i Jethro Tull del fantastico
periodo 1971-1975. Quel gruppo cambiò nome e divenne la John Evan Band: Jeffrey
abbandonò i suoi compagni per andare a studiare pittura e venne sostituito da
Glenn Cornick nel marzo del 1967. Paradossalmente le parti si sarebbero
invertite quando Hammond avrebbe
rimpiazzato Glenn alla fine del 1970. Con questa nuova formazione la John Evan
Band si esibì alla Granada Tv di Manchester il 3 maggio del 1967: ma il filmato
è andato perduto, e ci rimane solo una foto del gruppo all’esterno di quegli
studi televisivi. Quello stesso anno Ian Anderson e compagni, compresa una
sezione fiati, si trasferirono a Luton, nella zona di Londra, riuscendo a
suonare più volte al Marquee Club. Mick Abrahams si unì alla John Evan Band
sostituendo il chitarrista Neil Smith, ma il gruppo contava ormai sette
elementi ed era divenuto impossibile guadagnare qualcosa. Affittarono un
appartamento, ma poco tempo dopo John Evan, Barrie Barlow e i sassofonisti preferirono
tornarsene a Blackpool, mentre Ian e Glenn divisero il gelido attico, fin
quando anche Cornick non decise di raggiungere la madre a Londra. Ian Anderson
rimase da solo, coprendosi la notte con il lungo cappotto verde che avrebbe in
seguito utilizzato anche sulla scena. Quello era un regalo del padre, che
l’aveva lasciato andare via di casa (considerandolo un perdigiorno) senza dire
altro che quell’indumento avrebbe potuto fargli comodo per l’inverno che era
alle porte. Ad ogni modo Mick Abrahams, che era proprio di Luton, propose a Ian
il suo amico Clive Bunker come batterista, e i quattro futuri Jethro Tull
presero a suonare in vari locali dalla fine del 1967, cambiando di continuo
nome al gruppo. Fu proprio il proprietario del noto Marquee Club di Londra,
John Gee, ad invitarli a suonare per una seconda volta nel suo locale quando
era il gennaio del 1968: e così il nome Jethro Tull (quello di un agronomo che
nel 1701 aveva inventato una macchina seminatrice), utilizzato quella sera,
divenne quello definitivo. La data ufficiale del loro primo show al Marquee con
il nuovo nome fu quella del 2 febbraio; e in quella location avrebbero tenuto
23 concerti, fino al 20 dicembre di quell’anno. Il quartetto esordì
discograficamente con un 45 giri accreditato erroneamente ai “Jethro Toe”: nel
brano Sunshine Day, registrato tra il
6 e il 7 gennaio ad Abbey Road, possiamo ascoltare per la prima volta la
formazione originale della band, mentre Aeroplane
era in realtà un pezzo della John Evan Band inciso il 22 ottobre del 1967, dal
quale era stata estromessa la sezione fiati. Fin dall’inizio del 1968 il
quartetto cominciò a farsi le ossa come band live, suonando in giro per i
locali e i club dell’Inghilterra. Soprattutto allo stesso Marquee di Londra,
fino a quando non riuscì a conquistarsi
lo “status” di attrazione principale delle serate: per questo i Jethro
Tull dedicarono un pezzo, in bilico tra jazz e swing, al proprietario del
locale (One For John Gee, lato B del
singolo A Song for Jeffrey), che si
prodigò molto per aiutarli, al tempo dei loro primi passi. Durante l’estate di
quello stesso anno registrarono THIS
WAS , il loro album d’esordio (nonché l’unico con Mick Abrahams alla
chitarra): registrato presso gli studi Sound Techniques di Londra tra il 13
giugno e il 23 agosto, era un lavoro piacevolissimo, intriso di blues e di
venature vagamente jazz, con Ian e Mick a scambiarsi i ruoli di cantanti e di
solisti, ciascuno al proprio strumento. Il disco si apre con la scoppiettante My Sunday Feeling, seguita dal blues
lento Someday the Sun Won’t Shine for You,
nel quale possiamo ascoltare la voce e l’armonica di Ian sul canale sinistro, e
la voce e la chitarra di Mick su quello destro. Un altro brano a vedere
impegnati i soli due musicisti era anche So
Much Trouble, rimasto fuori dall’album, ma suonato spesso dal vivo: una
foto scattata al Marquee Club ci mostra Anderson e Abrahams eseguire questo
pezzo, con il primo all’armonica e il secondo alla chitarra acustica con il
bottleneck. Qui Ian compare con la gamba alzata: era in effetti quando suonava
l’armonica che assumeva questa bizzarra postura. Un giornalista, avendoli visti
al Marquee, fece confusione e riportò che Anderson sollevava una gamba mentre
era impegnato al flauto. Letta questa recensione, il futuro leader dei Jethro
Tull decise di tenere davvero sospesa una gamba a mezz’aria quando sbuffava nel
flauto. Fu dunque per caso che nacque quell’immagine divenuta presto il
“marchio di fabbrica” della band. Dharma
for One era invece caratterizzata da un assolo di batteria al suo interno e
dall’utilizzo del glaghorn, uno strumento a fiato ottenuto unendo un flauto di
legno all’ancia di un sassofono. E’ di Anderson la voce su My Sunday Feeling, Beggar’s Farm, It’s Breaking Me Up e A Song for Jeffrey, caratterizzata da
una sorta di effetto megafono. Questo è l’unico album della intera discografia
del gruppo a contenere due pezzi nei quali Ian Anderson non compare: Move On Alone, cantata da Mick, e Cat’s Squirrel, che lascia spazio alla
chitarra distorta dello stesso Abrahams, con il solo supporto di Glenn Cornick
al basso e Clive Bunker alla batteria: in questo pezzo i Jethro Tull si
trasformano in una sorta di “power trio”, come già i Cream, la Jimi Hendrix
Experience o i Taste di Rory Gallagher.
Il lavoro del chitarrista di Luton è comunque pregevole e raffinato su
tutto THIS WAS, tra
assolo ricchi di gusto ed eleganti e sofisticati accordi jazz-blues. Non era
questa però la strada che la band avrebbe continuato a percorrere. Abrahams
aveva ottenuto il suo spazio e Cat’s
Squirrel era la sua passerella personale per i concerti dal vivo; ma il
gruppo stava per cambiare direzione, affidandosi completamente alla guida (e al
flauto) di Ian Anderson. L’ultima incisione di Mick con la band è del novembre
del 1968 con il brano Love Story: un
singolo che, dall’altro lato (A Christmas
Song) vedeva Ian Anderson impegnato a voce, flauto e mandolino (strumento
mai utilizzato su THIS WAS),
accompagnato dai soli Clive e Glenn, oltre che da un bell’arrangiamento d’archi
di David Palmer (che si era occupato anche dei fiati per Move on Alone). Lo stesso titolo del disco d’esordio, con i quattro
componenti della band truccati da vecchietti in copertina, lasciava intendere
che quella era la testimonianza della musica suonata dal gruppo fino a quel momento, ma che stava per
cambiare direzione. E infatti durante l’estate del 1968, mentre registrava con
la band THIS WAS, Ian
Anderson aveva già composto metà del successivo album STAND UP all’ultimo piano dell’edificio londinese
in cui risiedeva, in Kentish Town. I Jethro Tull si esibirono per la prima
volta al Marquee come attrazione principale
il 3 maggio: l’evento è documentato da alcune belle foto che vedono Ian
in giubbotto di pelle, Glenn con cappellino in testa e capelli ancora corti,
Mick con barbetta e chioma folta e riccioluta, più Clive in maglietta
bianca e con la scritta “Jethro Tull”
sulla cassa della batteria. Come sempre il chitarrista compare con la sua
Gibson SG rossa (anche se gli scatti sono in bianco e nero), davanti a due
casse Marshall sovrapposte. Con abiti identici si esibirono il 29 giugno al
primo festival gratuito di Hyde Park, che rappresentò per loro una svolta,
portandoli dallo status di semplice band da club a quello di rivelazione a
livello nazionale. Il che fu dovuto al semplice fatto che tutti gli estimatori
che avevano raccolto in giro per l’Inghilterra si ritrovarono a quel festival:
e quando un roadie poggiò sul palco la borsa a tutti nota per essere quella che
conteneva i vari strumenti di Ian Anderson, il pubblico esplose in un’ovazione,
avendo capito che stavano per esibirsi i Jethro Tull. Esiste una foto di
quell’evento, con la band che si esibisce su un piccolo palco attorniato da
migliaia di persone, con le automobili dei musicisti sullo sfondo. E non manca
un brevissimo filmato in bianco e nero senza sonoro, con Ian impegnato al
flauto e all’armonica. Per inciso in occasione di quel festival i Pink Floyd
presentarono A SAUCERFUL OF
SECRETS, pubblicato quello stesso giorno, salendo sul palco con David
Gilmour al posto di Syd Barrett: nel breve filmato di cui sopra si intravedono
anche loro. Gli altri due artisti in cartellone erano Roy Harper e i
Tyrannosaurus Rex di Mark Bolan. La prima occasione che permise ai Jethro Tull di suonare davanti
al pubblico più numeroso che si fossero trovati di fronte fino a quel momento
(50 mila persone) fu invece il Sanbury Jazz & Blues Festival del successivo
mese di agosto: questa volta il quartetto comparve sul palco vestito come sulla
copertina di THIS WAS,
compresi Ian in cappotto verde e Glenn con bombetta rossa e gilet giallo.
Martin Barre e David Palmer erano tra il pubblico. Il singolo A Song for Jeffrey sarebbe uscito solo a
settembre, e THIS WAS a
ottobre: all’interno della copertina apribile era presente una foto dei Tull
scattata da Brian Ward proprio durante il Sanbury Jazz & Blues Festival. Le
uniche date all’estero di Mick Abrahams con la band furono quelle danesi del 5
e 6 ottobre al Pop Club e allo Star Club: e fu proprio in quell’occasione che
Ian Anderson, attendendo il ferry-boat per tornare a casa, acquistò il
mandolino poi utilizzato per il brano Fat
Man, presente su STAND UP,
ma che veniva già suonato con Abrahams ancora nel gruppo. Il suo ultimo
concerto con i Jethro Tull fu quello tenuto il 30 novembre alla London School
of Economics. La decisione di abbandonare la band fu sua (avrebbe formato i
Blodwin Pig l’anno dopo), ma il manager Terry Ellis l’aveva comunque già
licenziato, soprattutto perché non intendeva partire per il tour americano
previsto per il gennaio del 1969. Come suo sostituto la band provò David
O’List, che aveva appena lasciato i Nice (la band di Keith Emerson prima che
questi formasse gli ELP). Quindi Ian Anderson propose un’audizione a Tony Iommi
degli Earth (i futuri Black Sabbath), che rimase con i Jethro Tull per un paio
di settimane, senza divenirne mai un componente a tutti gli effetti. Nonostante
Iommi avesse la possibilità di far decollare la propria carriera con un gruppo
già noto, non si trovò a proprio agio con il nuovo corso musicale intrapreso da
Ian Anderson e con le sue severe regole in fatto di puntualità alle prove e
tutto il resto. Decise dunque di tornare a divertirsi con Ozzy Osbourne e
compagni, ma accolse la richiesta del leader dei Jethro Tull di rimanere nella
band per partecipare almeno al programma televisivo denominato The Rolling Stones Rock and Roll Circus,
dal momento che non avrebbe fatto in tempo a trovare un sostituto. Lo
spettacolo venne ripreso il 12 dicembre del 1968, con i Jethro Tull, presentati
da Mick Jagger, collocati proprio in apertura, mentre eseguivano in playback A Song for Jeffrey, seguiti dagli Who e
da altri musicisti famosi (compresi John Lennon, Eric Clapton e gli stessi
Stones), alternati a spettacoli circensi. Anche in questa occasione Ian
Anderson comparve con il lungo cappotto
verde, i capelli biondi sulle spalle e la barba arruffata, mentre Glenn Cornick
si esibiva con gilet giallo, bombetta rossa e basso dipinto a colori
psichedelici. Egli fingeva inoltre di suonare l’armonica di Anderson, dal
momento che, sul brano registrato, questo strumento seguiva il flauto senza
soluzione di continuità: qualcosa che era stato possibile realizzare in studio,
ma che non avrebbe consentito a Ian di passare da uno strumento all’altro di
fronte alle telecamere. Iommi indossava invece una lunga giacca con le frange,
e quasi si nascondeva sotto un cappello bianco, mentre anche Clive Bunker
indossava gli abiti della copertina di THIS WAS. Versioni diverse di molti brani di questo
disco erano state registrate il 20 luglio e il 5 novembre del 1968 per il
programma radiofonico della Bbc condotto da John Peel e intitolato Top Gear: sarebbero riemerse in
occasione della ristampa con nuovi missaggi di quell’album in occasione del suo
30° e 50° anniversario, rispettivamente nel 2008 e nel 2018. La citata So Much Trouble e la raffinata Stormy Monday Blues, qui presenti, non
facevano parte del primo Lp, ma venivano spesso suonate dal vivo. Rimasti senza
chitarrista Ian, Glenn e Clive provarono tra gli altri Martin Barre: questi
fallì al suo primo tentativo, dal momento che suonò con una Gibson 330
semi-acustica che fischiava in continuazione. Ma, dopo che i Tull avevano già
provato David O’List e Tony Iommi, Martin telefonò a Ian Anderson, vedendosi
concessa una seconda possibilità. Questa volta si portò dietro la sua nuova
Gibson Special arancione del 1959, ma dovette farsi ascoltare da Ian Anderson
senza amplificatore, dal momento che quest’ultimo, come detto, abitava
all’ultimo piano di un edificio londinese. Ciò nonostante, suonando anche Nothing is Easy e la sua Martin’s Tune, ottenne il posto e provò
per la prima volta con i Jethro Tull il giorno di Natale del 1968, per poi
esordire dal vivo al Winter’s Garden di Pensance il 30 dicembre. Sarebbe
rimasto nel gruppo per 43 anni. Alcuni scatti di Graham Page mostrano Martin
insieme ai Jethro Tull al Toby Jug di Tolworth l’8 gennaio del 1969, con Glenn
in giacca nera e bombetta, Ian con il lungo pastrano quasi a ridosso di un
pubblico di adolescenti, ma anche dietro gli amplificatori mentre fuma una
sigaretta accanto al basso, presumibilmente durante l’assolo di batteria.
Un’altra foto lo mostra mentre strimpella nei camerini la chitarra Gibson
Special di Martin. Quest’ultimo è ritratto anche al flauto. All’inizio la
scelta non sembrò rappresentare un gran passo avanti rispetto all’abilità e
alla sicurezza di Mick Abrahams: nella registrazione del doppio concerto
insieme a Jimi Hendrix a Stoccolma, il successivo 9 gennaio, il nuovo
chitarrista appare piuttosto impacciato, paffuto, ancora senza barba, con
cappello nero e giaccone militare settecentesco, non del tutto convincente nei
suoi assolo privi di linee melodiche precise. I brani To Be Sad is a Bad Way To Be e
Back To The Family vennero ripresi dalle telecamere, lasciandoci una
testimonianza dei Jethro Tull durante i primi giorni con Martin. Questi suonava
anche il flauto insieme a Ian durante Dharma
for One. La setlist dei due spettacoli presentava i medesimi brani in
ordine diverso, ma iniziava in entrambi i casi con My Sunday Feeling. Altra anticipazione del disco successivo, oltre Back To The Family, era Nothing is Easy. To Be Sad e Martin’s Tune,
eseguite quella sera, non vennero mai registrate in studio. Il doppio show come
gruppo spalla di Jimi Hendrix si sarebbe ripetuto anche il giorno dopo al
Falkoner Theater di Copenhagen. I Jethro Tull partirono finalmente per il loro
primo tour negli Stati Uniti, esordendo al Fillmore East di New York il 24
gennaio del 1969 come gruppo spalla dei Blood, Sweet and Tears, e girando da
una città all’altra fino all’11 aprile, di nuovo al Fillmore East. Martin Barre
era incredulo per il fatto stesso di trovarsi in America. Il famoso cappotto
verde di Ian scomparve dai camerini dopo lo show dell’8 febbraio a Chicago: e
così Ian si presentò ai concerti successivi con la giubba a grandi riquadri
multicolori. THIS WAS venne
pubblicato negli USA dalla Reprise Records solo il 3 febbraio del 1969: una
photo session realizzata presso gli uffici di questa label ci mostrano i Tull
promuovere il disco con Anderson che indossa la nuova giubba di cui sopra,
Clive e Glenn coperti da giacconi pesanti e Martin con il suo cappello nero.
Quest’ultimo non aveva però partecipato alle registrazioni di quel lavoro.
Anche Glenn Cornick porta un cappello in questi scatti, così come durante i suoi primi concerti americani; in seguito
si sarebbe fatto allungare i capelli, stringendoli con una bandana. Passarono
dai climi rigidi della costa orientale a quelli caldi della California,
esibendosi innanzitutto per quattro date consecutive al Fillmore West di San
Francisco, con due show al giorno insieme ai Credence Clearwater Revival. Poco
tempo dopo Clive Bunker si stupì nel ritrovarsi a camminare sulla famosa Sunset
Boulevard di Hollywood. Fu durante questo primo tour americano che vennero
registrate Living in the Past e Driving Song, rispettivamente il 3
marzo al Vantone Studio di West Orange, nel New Jersey, e al Western Recording
Studio di Los Angeles, il successivo 19 marzo: i due brani compariranno in un
singolo che scalerà le classifiche inglesi fino al 3° posto. Al rientro in
Inghilterra la band andò subito ad incidere il secondo album, STAND UP, tra il 17 aprile (A New Day
Yesterday) e il 1° maggio (We
Used To Know e For a Thousand Mothers)
presso i Morgan Studios di Londra, con Andy Jones al mixer. Questo lavoro vedrà
virare la musica dei Jethro Tull dal blues al folk-rock, con contaminazioni di
musica etnica e classica, oltre ad un maggior impiego di strumenti da parte di
Ian Anderson: chitarra acustica, balalaika, piano e organo Hammond, oltre al
consueto flauto e all’armonica (utilizzata solo sulla citata A New Day Yesterday). L’originalissima
grafica dell’album avrebbe visto i pupazzetti dei quattro componenti del gruppo
alzarsi in piedi (“Stand Up”) quando la copertina veniva aperta, mentre gli
stessi Ian, Clive, Martin e Glenn (divenuto un autentico hippy durante il
precedente tour americano) comparivano disegnati in maniera divertente sulla
front cover e sul retro: Ian Anderson indossava la sopracitata giacca a quadri
con la quale aveva fatto la sua prima apparizione a Minneapolis il 9 gennaio,
dopo il furto dell’iconico cappotto verde. L’idea di questo artwork e dello
stesso titolo del disco furono del manager Terry Ellis (come sarebbe avvenuto
anche per il successivo BENEFIT
del 1970). Reasons for Waiting
è l’unico brano dell’intera discografia dei Tull a vedere Ian Anderson e Martin
Barre suonare insieme il flauto. Ad ogni modo il successo del secondo Lp fu
dovuto soprattutto alla presenza di
Bourée: una versione tra swing e rock della Suite in Mi minore per liuto di
Johan Sebastian Bach, inserita nel 5° movimento, che Ian Anderson aveva
trasposto in Re minore, avendola ascoltata da un vicino di casa che la provava
di continuo alla chitarra classica nell’appartamento sotto il suo. Lo stesso
giorno delle sessioni finali del 1° maggio per For a Thousand Mothers e We
Used to Know vide negli studi la presenza delle telecamere della Tv
francese per il video di Living in the
Past, con Ian in maglietta bianca e Glenn, Clive e Martin separati dai
pannelli degli studi mentre suonavano in playback il brano. Proprio la quieta We Used To Know sarebbe passata alla
storia come possibile spunto per la successiva Hotel California degli Eagles (pubblicata solo nel 1976), mentre
la pirotecnica For a Thousand Mothers,
oltre a chiudere il disco, sarebbe stata utilizzata anche come finale dei
concerti del 1969 e del 1970. Durante gli spettacoli dal vivo la divertente Fat Man vedeva il gruppo, senza Glenn
Cornick, suonare seduto a bordo palco: Ian al mandolino e alla voce sulla
sinistra, Clive al centro con una piccola cassa da batteria recante la scritta “Jethro
Tull” in caratteri rossi a sostenere le percussioni, e Martin a destra
impegnato al flauto. Il secondo tour dei Jethro Tull in America si tenne in
estate, a partire dal 21 giugno, con la partecipazione della band a numerosi
festival e varie date tenute nel mese di agosto come gruppo spalla dei Led
Zeppelin: Ian trovò una buona sintonia con Jimmy Page e il manager Peter Grant,
mentre limitò il suo rapporto con John Bonham a qualche rapido saluto,
conoscendo la sua indole irascibile. Rimase stupito dall’estensione vocale di
Robert Plant e apprezzò la pacatezza di John Paul Jones. Esiste anche una bella
foto con i Jethro Tull che impazzano sul palco e John Bonham, seduto dietro di
loro, intento a seguire il lavoro di Clive Bunker alla batteria. Fu così che i
Jethro Tull ebbero l’opportunità di esibirsi in arene stracolme di spettatori.
Insieme agli Zeppelin si ritrovarono ad assistere al concerto di Elvis Presley
tenuto a Las Vegas la sera dell’11 agosto, seduti ad un tavolo con Terry Ellis,
tutti in abiti eleganti (nonostante i capelli lunghi) per festeggiare l’arrivo
di STAND UP al primo posto della classifica inglese. Fu
Joe Cocker, a sua volta in tour negli Stati Uniti, a comunicare loro questa
bella notizia raggiungendoli in una caffetteria di Manhattan. Dopo aver deciso
di non partecipare al festival di Woodstock, tra settembre e ottobre suonarono
in Inghilterra, Irlanda, Francia e Belgio: e proprio al National Stadium di
Dublino il 27 settembre la folla entusiasta strappò la parte inferiore sinistra
del cappotto a scacchi arancioni e neri che Ian Anderson aveva preso ad
utilizzare in quel periodo: l’indumento non sarebbe stato sostituito, dal
momento che adesso permetteva al leader dei Tull maggior libertà di movimento,
e avrebbe fatto la sua comparsa anche tre giorni dopo alla Tv francese e al
celebre festival dell’Isola di Wight. Il 6 novembre la band presentò Sweet Dream a Top of the Pops, esibendosi su un palco a strisce bianche e blu,
con Ian Anderson in stretti calzoni rossi dentro stivali di pelle e berretto di
lana in testa. La terza e ultima tournèe americana si svolse tra il 14 novembre
ed il 14 dicembre del 1969, con chiusura all’Aragon Ballroom di Chicago. Ad
immortalare i fenomenali Jethro Tull degli ultimi mesi di quell’anno rimane
soprattutto il documentario tedesco intitolato Swing In, che contiene stralci dei brani Nothing is Easy, Bourée (con Martin Barre al secondo flauto), Sweet Dream e For a Thousand Mothers,
eseguiti il 1° ottobre alla Royal Albert Hall di Londra, e il successivo giorno
20 presso la Guildhall di Southampton: questa volta Ian indossa il nuovo
cappotto verde con risvolti neri, mentre Glenn compare con la sua giubba
variopinta e Martin con il camicione bianco, capelli ormai lunghi, un po’ di
barba e la sua Gibson Special arancione (anche se il filmato è girato in bianco
e nero). Emozionante l’inizio dello spettacolo alla Royal Albert Hall, con la
cinepresa che inquadra Ian Anderson già dietro le quinte, affiancato da Terry
Ellis, seguendolo poi mentre fa il suo ingresso in scena, spegnendo la
sigaretta e salutando il pubblico con un giocoso inchino. Nello stesso momento
Glenn Cornick invita scherzosamente gli spettatori delle prime file ad
avvicinarsi, fecendo loro cenno con il dito e portandosi sul limite del palco,
per poi ritirarsi verso gli amplificatori fingendo di vergognarsi di fronte
alla cinepresa. Un roadie è accovacciato sotto Martin Barre all’inizio e alla
fine di Bourée, per farsi porgere il
flauto quando questi deve passare alla chitarra. Nel momento in cui comincia la
rabbiosa Sweet Dream Ian Anderson si
contorce come un forsennato accovacciandosi sotto l’asta del microfono,
scuotendo la folta capigliatura ad ogni stacco, per venire poi ripreso di
spalle quando inizia a cantare. Questo brano non è filmato per intero, e si
fonde direttamente a For a Thousand
Mothers, in conclusione della quale, come sempre, Glenn Cornick saluta il
pubblico osannante rimanendo in canottiera scura. Esistono inoltre diversi
video girati per la Tv francese: Bourée e Living in the Past al programma La Joconde del 30 settembre, e di nuovo Bourée filmata con la band al centro di
uno stadio di calcio da un’unica cinepresa che gira intorno ai musicisti mentre
tramonta il sole. Ancora, una A Song for
Jeffrey risalente al 15 aprile, che vede Martin mimare la chitarra suonata
in realtà da Mick Abrahams. Un breve filmato ci mostra inoltre i Jethro Tull
mentre vengono premiati il 17 settembre dal «Melody
Maker» al Wardof Hotel di
Londra: la band era stata votata dai lettori della rivista come una delle
migliori dell’anno, preceduta dai Beatles e seguita dai Rolling Stones. Tra la
fine del 1969 e l’inizio del 1970 il gruppo registrò il terzo disco, intitolato
BENEFIT, con l’apporto
in veste di ospite del vecchio amico John Evan, che infatti non compare nella
copertina, che mostra solo Ian, Martin, Clive e Glenn come sagome di cartone
ritagliate sulle assi di un palcoscenico. Nonostante ciò il contributo del
biondo pianista si rivelò decisivo nel rendere più elegante il sound del
gruppo, considerati i suoi precedenti studi di musica classica: già l’apertura con With You There To Help Me ci introduce in atmosfere più sofisticate
e rarefatte, con i singulti del flauto riverberato di Ian Anderson ben
sostenuti dagli arpeggi del pianoforte a coda di Evan: segue la parte cantata
di Ian con due voci sovrapposte. Dal vivo questo brano sarebbe stato sempre
unito ad un’appendice pianistica di John Evan con citazioni di Beethoven e
Debussy, poi intitolata By Kind
Permission Of. Al contrario, la travolgente Play in Time cambiava completamente registro: ma era stata in realtà già registrata il 1°
settembre del 1969. Martin Barre suonò una Gibson Les Paul Custom su tutto
l’album. Il fonico questa volta non era più Andy Jones (che quello stesso anno
lavorava al mixer per Led Zeppelin III), bensì Robin Black, che avrebbe
registrato tutti gli album dei Jethro Tull fino al 1982, eccetto AQUALUNG, che vide come ingegnere del suono il suo ex assistente John
Burns: quest’ultimo seguì la band anche durante il tour di BENEFIT in America,
esaltandosi nel vedere suonare, insieme ai Jethro Tull, anche artisti quali
Janis Joplin, gli Who, Joni Mitchell e Jimi Hendrix. Nel 1972 sarebbe stato lui
a registrare FOXTROT dei
Genesis. Tornando a BENEFIT,
il lavoro era impreziosito anche da brani quali Nothing To Say e Sossity;
You’re a Woman, il pezzo acustico che chiudeva il disco. Nel bellissimo
brano For Michael Collins, Jeffrey and Me
si faceva riferimento all’astronauta che non aveva potuto mettere piede sul
suolo lunare nel luglio del 1969, al contrario dei suoi compagni, mentre
Jeffrey Hammond veniva citato per la terza volta in un disco dei Jethro Tull
(dopo A Song for Jeffrey sul primo album e Jeffrey Goes To Leicester Square sul secondo). To Cry You a Song, altro pezzo molto eseguito dal vivo oltre a
quello che apriva il disco, era dedicato alla moglie di Ian Anderson, Jennie
Franks, segretaria della loro label Chrisalis Records. Il nome dell’etichetta
discografica proveniva dalla fusione dei nomi Chris Wright e Terry Ellis, i due
manager che l’avevano fondata. Il 1970 fu l’anno che vide più testimonianze
filmate dei Jethro Tull dei primi anni, grazie anche a diverse apparizioni
televisive in playback (comprese quelle al programma musicale inglese Top of the Pops e a quello tedesco Beat Club) per la promozione dei brani
inclusi nel singolo The Witch Promise /
Teacher, con un Ian Anderson sempre in giaccone a scacchi arancioni e neri
con occhi spiritati, barba e capelli lunghi scompigliati. I due pezzi erano
stati registrati alla fine del 1969 ancora con John Evan in veste di ospite, e
i sopracitati passaggi in Tv risalivano all’inizio dell’anno successivo. Il
gruppo suonò live With You There To Help
Me / By Kind Permission Of al Beat
Club di Brema il 23 giugno 1970: in questa occasione Ian si presentò con la
giacca a quadri di diversi colori. Altri documenti dal vivo sono quelli del
festival di Tanglewood (7 luglio) e dell’Isola di Wight (30 agosto), unitamente
alla registrazione solo audio del concerto alla Carnegie Hall del 4 novembre.
L’ultimo show dei Jethro Tull in quattro si era svolto a Francoforte il 21
febbraio 1970: dopo di che Ian Anderson aveva chiesto a John Evan di unirsi
come quinto elemento della band per i successivi concerti in Germania, e
soprattutto per il tour americano che sarebbe partito da Denver il 17 aprile:
John suonava indossando una sorta di ampia tunica bianca stretta in vita,
spostandosi dal pianoforte alla destra del palco all’organo Hammond, che era
posizionato sulla sinistra, a seconda del brano da eseguire. Molte date si
svolsero in California, toccando anche Honolulu. Il filmato di Tanglewood, mai
pubblicato ufficialmente, comprendeva
Nothing is Easy, My God, With You There To Help Me / By Kind Permission Of,
Dharma for One, We Used To Know e il
Guitar Solo di Martin Barre che veniva interrotto prima che iniziasse For a Thousand Mothers. All’inizio di
questo spettacolo Ian Anderson saluta il pubblico salendo su una sedia, per poi
dare un’occhiataccia a Glenn Cornick che commette un errore durante Nothing is Easy; nel corso di By Kind Permission Of la band si ritira
dietro le quinte, lasciando il solo John Evan sul palco, impegnato nelle sue
classicheggianti evoluzioni pianistiche, accompagnato in poche occasioni da
qualche delicato passaggio di flauto. Sono invece Clive Bunker e lo stesso Evan
a supportare il lungo Guitar Solo,
che per il resto vede Martin Barre in completa solitudine sul palco. Durante
gli ultimi brani dello show di Tanglewood Ian si libererà del giaccone a
scacchi, rimanendo in camicia bianca. L’audio di questo filmato è mono,
peggiore all’inizio di My God
(all’epoca ancora inedita) e con le riprese effettuate quasi sempre da lontano.
Decisamente migliori quelle relative all’Isola di Wight, con audio stereo e
immagini di qualità nettamente superiore. Peccato che i brani filmati siano
solamente quattro: My Sunday Feeling, My
God, Dharma for One e Nothing is Easy,
che era l’ultimo pezzo prima del bis. Il Dvd, pubblicato ufficialmente nel 2005
con il titolo Nothing is Easy: Live at the Isle of Wight 1970 offre
anche belle immagini delle prove diurne dei Jethro Tull, con Ian Anderson in
giaccone di pelle e maglietta viola, Martin Barre in giacca verde (la indosserà
anche durante l’esecuzione del primo brano, per poi rimanere con una casacca
bianca stretta in vita da una fascia variopinta) e John Evan seduto al
pianoforte in maglietta gialla. Nel corso dello show serale Ian si scatenerà
con il consueto giaccone a scacchi arancioni e neri strappato da un lato, e per
il resto tutto vestito di giallo: durante
Dharma for One, correndo su e giù per il palco, farà anche cadere un’asta
dei microfoni della batteria. E’ nel corso di questo brano che Martin, Clive e
John lasciano i rispettivi strumenti per radunarsi intorno ad un microfono e
ripetere in un coro sgangherato la parola “Dharma”, suonando piccole
percussioni, supportati dal basso di Cornick e dai vocalizzi di Anderson.
Quest’ultimo, prima dell’inizio di My
Sunday Feeling, il pezzo che apre il loro concerto all’Isola di Wight, fa
un riferimento ai tempi trascorsi con Mick Abrahams (il brano era lo stesso con
il quale cominciava THIS WAS),
per poi rassicurare i suoi compagni, davanti a quelle centinaia di migliaia di
persone, dicendo loro che sarebbe stato come suonare al Marquee Club; mentre
accorda la chitarra acustica per eseguire My
God si rivolge al pubblico smentendo quanto riferito dagli organizzatori,
riguardo al fatto che non avrebbero suonato se la gente non si fosse
allontanata dal palco durante il soundcheck. Anche Terry Ellis, capelli lunghi
biondi e maglietta viola, polemizza con gli organizzatori del festival,
visibilmente nel panico, invitandoli a smetterla di dire al pubblico che i
gruppi non si sarebbero esibiti se non fossero stati pagati in anticipo. Nel
corso dello show possiamo vedere Glenn dimenarsi facendo ondeggiare la lunga
chioma scura stretta dalla bandana, con maglietta verde, pantaloni decorati da
palmizi e basso Gibson Firebird con bandiera americana appiccicata sopra:
essendo questo il primo documento filmato in stereo per i Jethro Tull, il basso
si sente separato su due canali, con suono più distorto su quello sinistro.
Anche John Evan si scatena come un pazzo, soprattutto alla fine di Nothing is Easy, quando si alza dal
seggiolino suonando l’organo Hammond con una sola mano, per sottolineare i
ripetuti stacchi conclusivi con l’altro braccio levato in aria. Il Cd presenta
invece l’intero concerto, con una versione di Bourée che non veniva più eseguita tanto spesso (e senza il
frammento strumentale di Living in the
Past che era inserito all’interno delle esecuzioni live di quel brano nel
1969). Il concerto benefico alla prestigiosa Carnegie Hall di New York del 4
novembre 1970 era stato pubblicato in minima parte sull’antologia Living in the Past del 1972 (solo By Kind Permission Of e la nuova
versione di Dharma for One):
successivamente l’intero show sarebbe uscito all’interno del box-set che
celebrava il 25° anniversario del gruppo; e di nuovo nel 2010, con un missaggio
differente. Questo spettacolo, dopo l’introduzione del presentatore, cominciava
con Nothing is Easy e si concludeva
con il consueto bis comprendente We Used
To Know, il Guitar Solo e For a Thousand Mothers. Era inoltre
compresa in scaletta A Song for Jeffrey,
una scatenata To Cry You a Song e una
più quieta Sossity; You’re a Woman,
che includeva una sezione strumentale di Reasons
for Waiting. Questo concerto venne registrato durante l’ultimo tour
americano del 1970. Quando giunse il momento di tornare a casa, Terry Ellis
prese da parte Glenn Cornick e lo condusse nella caffetteria dell’aeroporto,
comunicandogli che Ian Anderson non lo voleva più nel gruppo: il povero Glenn
si vide anche costretto a fare rientro in Inghilterra non con i suoi compagni,
ma il giorno dopo con un altro volo. Possiamo immaginare con che stato d’animo
quello che era stato fino a quel momento il bassista dei Jethro Tull avrà fatto
quel viaggio di ritorno, da solo, dopo gli anni di gavetta trascorsi insieme
alla band, i concerti, gli hotel, i viaggi e le risate insieme. Secondo
l’opinione di Clive Bunker il bassista era più bravo in studio che dal vivo, ed
era comunque un musicista eccezionale. Ma Ian Anderson non amava la sua voglia
di divertirsi e di godere della vita da rockstar, e preferì sostituirlo con
l’amico Jeffrey Hammond già alla fine del 1970. Tra il 13 e il 20 dicembre, con
il nuovo bassista, la band registrò gran parte dei brani che avrebbero fatto
parte del nuovo album AQUALUNG,
ma che avrebbe inciso nuovamente a febbraio per il master definitivo, subito
dopo la data al Teatro Brancaccio di Roma. I Jethro Tull suonarono infatti per
la prima volta in Italia il 1° febbraio del 1971 al Teatro Smeraldo di Milano,
e il giorno dopo presso il sopramenzionato Brancaccio di Roma, presentando
molti brani del disco nuovo ancora inedito: a Roma Ian Anderson iniziò il
concerto con My God, voce e chitarra
acustica, quasi al buio, dicendo che i Jethro Tull si erano sciolti e che
avrebbe tenuto il concerto da solo. Frattanto gli altri componenti del gruppo
scivolavano ai loro posti, nascosti nell’oscurità: e quando il brano esplodeva,
si accendevano le luci, partiva la batteria insieme a tutti gli altri strumenti
mentre Ian Anderson con un piede gettava per aria la sedia sulla quale aveva
iniziato lo show, aggredendo il microfono con il flauto e lasciando di stucco
gli spettatori con un impatto devastante. Il primo concerto di Jeffrey Hammond
Hammond con la band (la ripetizione del cognome fu ideata per puro sfizio) era
stato quello del 6 gennaio al Club 17, in Danimarca. Il suo esordio in America
avvenne in occasione dello show tenuto a Minneapolis il 1° aprile del 1971. Ma
l’ultimo spettacolo di quella tournée, svoltosi il 5 maggio al Filmore East di
New York, fu anche l’ultimo con Clive Bunker alla batteria, che decise di
lasciare la band per sposarsi: dunque la formazione del disco più famoso dei
Jethro Tull (con Anderson, Barre, Evan, Hammond e Bunker) durò solo cinque
mesi. Durante i primi tempi con il gruppo Jeffrey si presentava sulla scena con
un cappotto e un berretto nero, piuttosto statico rispetto all’esuberante
presenza scenica di Glenn Cornick. Con questo aspetto comparve anche in Italia.
Ma in seguito il nuovo bassista, oltre a migliorare le proprie qualità sullo
strumento, cominciò a fare sempre più spettacolo sul palco, esibendo una giacca
a strisce verdi e nere e giganteschi occhiali di plastica colorata sul naso. In
effetti il suo predecessore aveva fatto in tempo ad incidere in studio due
brani poi inclusi su AQUALUNG:
una prima versione di My God
registrata nell’aprile del 1970, e quella originale di Wond’ring Aloud, messa su nastro a giugno. Ma, come detto, tutti i
brani del nuovo album furono registrati di nuovo con Jeffrey al basso presso
gli Island Studios tra il 5 e il 12 febbraio del 1971. I futuri classici dei
Jethro Tull, Aqualung, My God e
Locomotive Breath vennero incisi lo stesso giorno, il 12 di quel mese.
Durante l’assolo di Martin Barre su Aqualung
era presente Jimmy Page, dal momento che i Led Zeppelin stavano registrando il
loro quarto album in un’altra sala di quegli stessi studi. Il celebre riff di
sei note che apriva la title track era stato composto da Ian Anderson alla
chitarra acustica, con successiva raccomandazione a Martin di suonarlo con
quella elettrica a tutto volume. Per questo brano, come su tutto il disco,
Barre utilizza una Gibson Les Paul Junior del 1958 con distorsore Treble
Booster Horneby. L’album alterna mirabilmente pezzi rock ad altri più quieti,
con le sezioni folk e quelle d’impatto che si
fondono spesso all’interno della stessa canzone. Mother Goose vede Ian Anderson impegnato in una bella trama di
chitarra acustica che segue la stessa linea melodica della voce, con
l’accompagnamento di Jeffrey e Martin ai flauti dolci. Il primo si distingue
anche in un morbido controcanto, mentre il secondo rende più aggressivo il
brano quando fa il suo ingresso con la chitarra elettrica distorta. Questo è il
primo Lp dei Jethro Tull con la batteria registrata su più tracce. Il 19
febbraio, a una settimana dalla fine delle registrazioni, viene realizzata la
nota photo-session che vede la modella e attrice norvegese Julie Ege premiare
il gruppo con il disco d’oro per il disco precedente. La copertina di AQUALUNG mostrava il dipinto del barbone avvolto in un cappotto, dalle
fattezze non dissimili da quelle di Ian Anderson. Nel testo della title track
veniva descritto come un clochard sdraiato sulla panchina di un parco intento a
guardare le ragazzine “con cattive intenzioni”. Quell’immagine prendeva spunto
da una foto della moglie di Ian, Jennie Frank, il cui nome comparve anche nei
credits del brano in quanto autrice di parte dei testi. Il matrimonio tra lei e
Ian non durò comunque a lungo, al contrario di quello con Shona Learoyd, che è
dal 1976 ad oggi la signora Anderson. A sostituire Clive Bunker venne chiamato Barrie Barlow (divenuto
Barriemore Barlow, di nuovo per gioco), altro vecchio amico della John Evan
Band, che registrò subito i cinque brani per l’Ep LIFE IS A LONG SONG il 17 maggio del 1971. Il nuovo
batterista si trovò di colpo sbalzato dai piccoli club inglesi alle grandi
arene americane, esordendo con i Jethro Tull a Salt Lake City il 9 giugno dello
stesso anno. Proprio il videoclip di Life
is a Long Song è rimasto l’unico filmato professionale a documentare il
gruppo in quello che fu il suo anno di maggior successo. E’ a cominciare da
questo periodo che John Evan indossa il completo bianco con cravatta rossa a
pois e bretelle. Nel marzo del 1972 venne pubblicato THICK AS A BRICK, un unico brano lungo quanto
tutto il disco, che intendeva essere una beffarda presa in giro da parte di
Anderson rivolta a tutti i giornalisti che insistevano nel definire il
precedente AQUALUNG un concept album. Il leader dei Jethro
Tull li accontentò e, nonostante le sue irridenti intenzioni iniziali, il disco
sarebbe divenuto presto una delle pietre miliari del progressive rock. Al
successo del lavoro contribuì la stessa incredibile copertina, che si
presentava come un fittizio quotidiano sfogliabile, denominato St. Cleve
Cronicle, con il bambino prodigio Gerald Bostock nella foto grande in prima
pagina, più altre ricche di articoli, cruciverba e mille notizie ancora, tutte
totalmente inventate dai componenti della band: tra le pagine poteva trovarsi
anche l’annuncio della pubblicazione dello stesso album THICK AS A BRICK. Il pezzo, lungo quanto le due
facciate del disco, iniziava con un delicato arpeggio di chitarra acustica da
parte di Ian Anderson, che cantava: «Non
mi importa se questa la saltate»,
immaginando già che quell’inizio tranquillo sarebbe stato coperto dal vociare
delle platee americane. Seguivano poi momenti decisamente rock, con sezioni una
diversa dall’altra, ma ben amalgamate insieme, soprattutto sul lato A. Il lato
B era invece più un lavoro da studio, difficilmente riproducibile dal vivo. E
per questo, dopo le prime esecuzioni integrali dell’album, le versioni live
avrebbero ridotto il concept a una sezione di dieci minuti tratta
esclusivamente dalla facciata A del disco. Sull’album il flauto veniva spesso
filtrato attraverso vari effetti. Per la prima e ultima volta Ian Anderson
suonò anche il violino, e sul lavoro è rintracciabile qualche traccia del sax
che avrebbe caratterizzato i due album successivi. La prima tournée del 1972,
con i Gentle Giant come gruppo spalla, iniziò il 6 gennaio e si concluse il 6
marzo. I Jethro Tull arrivarono in Italia per la seconda volta quando il nuovo
lavoro era ancora inedito, e per coincidenza esordirono di nuovo il 1°
febbraio, come l’anno precedente. Ma questa volta al Palasport di Roma, con le
successive date a Bologna, Treviso, Varese e Novara. Proprio in Italia i Tull,
per quanto al vertice della loro popolarità, rischiarono di farsi rubare la
scena dai bravissimi Gentle Giant, ai quali veniva chiesto ripetutamente il
bis, mentre Anderson e compagni rimanevano in attesa dietro le quinte.
Nonostante per contratto avessero a disposizione solo 40 minuti, in qualche
occasione alla band dei fratelli Shulman (che promuoveva l’album THREE FRIENDS, non ancora
uscito, con Malcom Mortimer alla batteria) venne concesso di accontentare la
platea, tornando in scena per suonare ancora qualche brano dopo l’esibizione
dei Jethro Tull. Ian Anderson rivelò che, nonostante la perfezione della loro
musica sul palco, i Gentle Giant erano dei pazzi scatenati che facevano
disperare i direttori degli alberghi. Lo show romano cominciò con My God, proprio come l’anno precedente,
mentre il pubblico applaudiva Ian Anderson accomodato da solo sulla sedia
imbracciando la chitarra acustica. Seguiva l’esecuzione della prima parte di Thick as a Brick, che ancora nessuno
conosceva. Quindi Aqualung, To Cry You a Song, Cross-Eyed
Mary, A New Day Yesterday, Nothing is Easy, Wind Up, Locomotive Breath. Alla
fine di quest’ultima Ian rimpiazzava per qualche minuto John Evan all’organo,
come avrebbe continuato a fare negli anni successivi. Lo spettacolo si chiudeva
con il reprise di Wind Up. Questa
volta Jeffrey si presentò con capelli lunghi, pizzetto, papillon e giacca a
righe verdi e nere. Dopo le ovazioni seguite allo show dei Gentle Giant, ai
Jethro Tull non rimaneva altra scelta se non quella di superarsi. E ci
riuscirono, con una grinta e una spettacolarità mai viste prima al Palasport,
nonostante la sua nota cattiva acustica: il suono venne fuori preciso e
potente, mentre Martin Barre faceva urlare la sua Gibson Les Paul con
amplificatori Hiwatt indossando un completo zigrinato; Hammond correva da una
parte all’altra del palco come una belva in gabbia e Ian Anderson gettava in
aria il suo flauto, riprendendolo al volo mentre ricadeva; spesso si affiancava
al chitarrista, incitandolo a darci dentro. John Evan non era da meno, facendo
ruggire il suo organo Hammond con il portentoso supporto di Barrie alla batteria.
Il successivo tour americano sarebbe iniziato il 14 aprile al Forum di
Montreal, per concludersi un mese dopo ad Uniondale. Il 7 maggio ebbero i Wild
Turkey di Glenn Cornick come gruppo spalla. Ancora una tournée negli USA dal 2
giugno al 1° luglio, con gli Eagles nelle vesti di open act in diverse date
texane. Durante i concerti si vedeva anche un coniglio gigante saltellare
attraverso il palco. Per la prima volta i Jethro Tull volarono in Nuova
Zelanda, Australia e Giappone, dal 5 al 17 luglio. A settembre, ottenuta
tramite Claude Nobs la cittadinanza svizzera per evitare l’eccessiva tassazione
sui redditi più alti allora vigente in Inghilterra, andarono in Francia per
registrare un doppio album. Ma si trovarono malissimo in quegli studi, per quanto
rinomati, che si trovavano all’interno del Castello settecentesco denominato
Chateau D’Herouville, e incisero materiale incompleto utile per solo tre delle
quattro facciate previste, e in gran parte ancora prive delle tracce vocali e
di flauto. Solo qualche frammento di quel disco “abortito” sarebbe emerso sul
successivo A PASSION PLAY
del 1973, e due brani (Skating Away e Only Solitaire) su WARCHILD. Per inciso presso
quegli stessi studi i Pink Floyd avevano
registrato il loro OBSCURED BY
CLOUDS. Il famoso “disco perduto” dei Jethro Tull, dopo la pubblicazione
di tre tracce all’interno del box-set del 1988 per i 20 anni della band,
sarebbe infine riemerso sul primo dei due Cd di brani inediti chiamato NIGHTCUP del 1993, con un
flauto aggiunto appositamente da Ian Anderson; e infine nella sua versione
originale come dischetto allegato alla riedizione di A PASSION PLAY
del 2014, con i nuovi missaggi di Steven Wilson. Dal 13 ottobre (Memorial
Auditorium di Buffalo) all’8 dicembre (Madison Square Garden di New York)
chiusero l’anno di nuovo in tour negli Stati Uniti: alcune foto scattate da un
roadie al Garden di Boston il 2 novembre 1972 mostrano i Jethro Tull e i Gentle
Giant dietro le quinte: in una Martin Barre é insieme a Gary Green, mentre
un’altra ci mostra i Tull raggruppati a parlare tra loro prima di salire sul
palco, con Ian Anderson già con la chitarra acustica a tracolla e l’ultima
sigaretta tra le dita. Anche Martin e Jeffrey hanno chitarra e basso a
tracolla, e quest’ultimo compare con giacca elegante, papillon, baffi, pizzetto
e capelli corti. Ian aveva la chitarra acustica pronta perché quel concerto
sarebbe iniziato con Thick as a Brick,
seguita da Cross-Eyed Mary. I Gentle
Giant suonarono spesso come loro gruppo spalla durante quella tournée
americana. Nel marzo del 1973 i Jethro Tull sono per la terza e ultima volta
(per quanto riguarda gli anni Settanta) in Italia: il 15 a Vicenza, il 16 a
Roma, il 18 e 19 a Bologna e il 20 a Milano. Esistono riprese in bianco e nero
della Rai che ci mostrano Ian Anderson intervistato di giorno proprio in
occasione della data romana: il leader del gruppo appare in giubbotto di pelle,
con lunghi capelli al vento e un cane al guinzaglio. Alla fine si rivolge alla
telecamera e saluta in italiano con un «Ciao
a tutti!». I concerti
cominciano ancora con Thick as a Brick
e contengono tre dei brani tratti dalle registrazioni francesi del 1972, oltre
a quelli di AQUALUNG, con la consueta chiusura che vede la band
suonare l’inedito Hard Headed English
General (mai registrato in studio) e il reprise di Wind Up. Il nuovo album, A PASSION PLAY, viene inciso presso i familiari Morgan Studios,
ancora con Robin Black al mixer: come il precedente, questo è il secondo e
ultimo lavoro consistente in un’unica traccia lunga quanto tutto il disco: se
però Thick as a Brick conteneva
momenti brillanti e festosi, il disco del 1973 appare più oscuro, sia nelle
musiche che nei testi. La stessa copertina nera ci presenta una ballerina morta
su un palcoscenico, con la testa rovesciata rivolta all’osservatore, con un
rivolo di sangue che le cola lungo un angolo della bocca. Il protagonista della
finta opera teatrale, Ronnie Pilgrim, dopo aver perso la vita a seguito di un
incidente stradale, come un personaggio dantesco vive un’esperienza tra Inferno
e Paradiso, per poi tornare alla vita, così come la ballerina morta in
copertina risorge danzante sul retro dell’album. Il libretto allegato mostra i
componenti del gruppo nelle vesti di finti attori. La musica è articolata e
complessa, senza una parte che si ripeta due volte, salvo il tema iniziale e
finale, con una miriade di note e passaggi variegati, unitamente all’ingresso
di due nuovi strumenti: il sax di Ian Anderson e i sintetizzatori di John Evan.
A concedere un momento di distensione è solo The Hare Who Lost His Spectacles (“Il coniglio che perse i suoi
occhiali”): una surreale fiaba narrata da Jeffrey Hammond con un
accompagnamento orchestrale a metà del disco: un mini-film relativo a questo
intermezzo, realizzato a febbraio, veniva proiettato durante i concerti a metà
del concept, e vedeva Jeffrey aggirarsi per un prato raccontando la storia del
coniglio circondato da altri finti animali, nei cui costumi erano nascosti gli
altri suoi compagni della band. Gli show si aprivano con l’irruzione in scena
di Ian Anderson mentre suonava il sassofono soprano, con indosso un nuovo
giaccone a quadri del quale si sarebbe liberato per proseguire lo spettacolo in
camicia bianca, pantaloni attillati, stivali con i tacchi e sospensorio sotto
il cinturone. Barba e capelli foltissimi rilucevano di riflessi color arancio
sotto i riflettori. Gli altri elementi del gruppo lo assecondavano saltando
come pazzi su e giù per il palco: Jeffrey vestito di bianco e con un
cappellaccio a larghe tese, mentre Martin utilizzava ancora la Les Paul
indossando giacca e pantaloni a disegni floreali. La critica stroncò l’opera
sia nella sua versione su vinile che in quella dal vivo, non comprendendo né la
musica né i testi, e ritenendo che Ian Anderson si fosse spinto troppo oltre.
In realtà A PASSION PLAY
era
un capolavoro del progressive rock, che aveva solo bisogno di essere ascoltato
più volte per essere compreso appieno. Nonostante le perplessità suscitate
durante i due show inglesi del 22 e 23 giugno 1973 all’Empire Pool di Londra,
il tour americano tenuto dal 4 maggio al 29 settembre si rivelò un successo.
L’ultima data, relativa allo show di Boston, vide la band fotografata insieme a
tutta la troupe, compresi Terry Ellis, gli autisti e i grandi tir che
trasportavano la strumentazione. Quello stesso mese il nuovo album arrivò anche
al 1° posto della classifica italiana. Il successivo disco WARCHILD venne presentato a Montreaux, in
Svizzera, il giorno 11 gennaio 1974, con conferenza stampa e photo- session che
mostrava la band con un look del tutto rinnovato: Ian Anderson indossa un
giubbotto di pelle, esibendo un folto pizzo, basette e capelli lunghi tirati
all’indietro; John Evan fa sfoggio di una surreale giacca a strisce colorate;
Barrie Barlow porta baffi spioventi sotto un cappello scuro e chioma raccolta
in un codino; Jeffrey Hammond appare sbarbato, con capelli più corti e giacca
gialla, mentre Martin Barre ne indossa una azzurra con sotto una camicia dal
colletto smisurato. Il lavoro venne inciso tra il dicembre del 1973 e il
febbraio del 1974, riproponendo un album con brani separati tra loro che trovò
un’accoglienza positiva da parte delle riviste musicali. In quegli stessi mesi
vennero anche registrati brani orchestrali quali colonna sonora di un film, che
però non avrebbe mai visto la luce. Tra questi, The Beach Part II sarebbe stata utilizzata come introduzione su
nastro registrato per i concerti. Del disco nuovo, come detto, facevano parte
anche due pezzi provenienti dalle registrazioni francesi del settembre 1972 (Skating Away e Only Solitaire), più Two
Fingers, che era il rifacimento di un brano risalente al 1970 intitolato Lick Your Fingers Clean, rimasto nel
cassetto, per poi comparire nel box-set 20 YEARS OF JETHRO TULL. WARCHILD vede John Evan impegnato anche alla
fisarmonica e, per la seconda e ultima volta su volta su Lp, l’utilizzo del sax
da parte di Ian Anderson, che non abbandona comunque il flauto. Il sassofono
(soprano e sopranino) lo suonerà in concerto fino al 1975 e poi mai più, con
grande sollievo da parte di Barriemore Barlow. La copertina mostra Ian Anderson
in abiti cinquecenteschi sia sulla front cover che sul retro: qui possiamo
trovare gli stessi componenti della band agghindati nelle forme più stravaganti
(Terry Ellis e David Palmer compresi) insieme alla futura moglie di Ian
Anderson, la consorte di Barlow, la ragazza di Martin Barre e alcune modelle.
Le tracce nuove eseguite dal vivo durante il relativo tour saranno Queen and Country, la stessa WarChild, Ladies, Skating Away, Bungle in
the Jungle, SeaLion e Back-Door
Angels. Quest’ultima verrà eseguita fino al 1977, mentre Skating Away diverrà un nuovo classico
dei Jethro Tull per i decenni a venire. Molti brani registrati tra la fine del
1973 e il 1974, rimasti fuori dal disco, verranno pubblicati in seguito. Tra
questi, Paradise Steakhouse, Raimbow
Blues, Glory Row, Quartet e Pan Dance.
Per la seconda volta la band torna a esibirsi in Australia, Nuova Zelanda e
Giappone, tra il 25 luglio e il 28 agosto del 1974: ma questa è la prima occasione
in cui una tournée dei Tull prende inizio proprio a quelle latitudini. Da
ottobre a dicembre attraversano vari Paesi europei, Inghilterra compresa, per
proseguire il tour in America dal 17 gennaio al 13 marzo 1975, chiudendo questa
tournèe al Garden di Boston, come già avvenuto per la fine del tour di A PASSION PLAY. I Carmen sono
il loro gruppo spalla negli USA durante questi tre mesi, e il loro bassista
John Glascock diverrà il sostituto di Jeffrey Hammond dal novembre del 1975.
Sulla scena ora Ian Anderson si presenta con capelli ancora lunghi, ma tirati
all’indietro e con la fronte scoperta, mentre indossa un costume da principe
rinascimentale; Martin sostituisce la Gibson Les Paul con una SG rossa
“diavoletto” per gli show del periodo 1974-1975 (di fatto tutti facenti parte
del tour di WARCHILD);
Jeffrey Hammond con abiti e strumenti (basso e contrabbasso) a strisce bianche
e nere; Barriemore Barlow e John Evan rimangono invece fedeli ai propri abiti
di scena: canottiera, calzoncini e calzettoni rossi per il primo, completo
bianco con camicia gialla, bretelle e cravatta rossa a pois bianchi per il
secondo (così dal 1971 al 1978). Jeffrey e Barrie sfoggiano di nuovo una lunga
chioma, il primo con pizzetto nero e il secondo con barba folta. Le strisce
nere compaiono anche sulla doppia cassa della batteria. A partire dal 9
novembre 1974, in coincidenza con l’inizio del tour nel Regno Unito, e fino al
luglio del 1975 i Jethro Tull verranno accompagnati da un quartetto d’archi
tutto femminile, in lunghi abiti neri e parrucche platinate, che contribuirà a
rendere la loro musica più elegante e con un tocco di musica classica: specie
su Wond’ring Aloud e WarChild Suite, che riprende il tema
della title track del disco, unendola a una versione strumentale di Reasons for Waiting. Le quattro
musiciste (tre violini e un violoncello) seguiranno la band anche negli Stati
Uniti, e registreranno sul successivo album MINSTREL IN THE GALLERY. A metà novembre del 1974 le
quattro date al Raimbow Theater di Londra vedono esibirsi i Jethro Tull insieme
alle cinque danzatrici del gruppo denominato Pan’s People. Il 23 agosto 1975
Martin Barre conosce la sua futura moglie in occasione dello show al
Mississippi Coliseum. A Buffalo, il successivo 26 settembre, hanno Richie Havens
in apertura ed eseguono anche un breve estratto di Teacher. I concerti iniziano adesso con Ian Anderson che impazza su
un palco rialzato dietro la band indossando un lungo abito dalle spalline
enormi. Un ottimo documento audio di questo periodo è il concerto registrato
dal mixer al Palais Des Sportes di Parigi il 5 luglio 1975, finalmente
pubblicato (seppur non integralmente) all’interno del box-set che celebra i 40
anni del disco sopracitato. Quello show venne anche filmato per intero, ma
sarebbe venuta alla luce solo l’esecuzione della stessa Minstrel in the Gallery. Lo spettacolo si apriva con l’intermezzo
rock di Wind Up, seguito da Critique Oblique (un estratto di A PASSION PLAY proveniente
dalle registrazioni francesi del 1972), seguito da Thick as a Brick (non inclusa nel Cd per motivi di spazio) e dalla
più quieta Wond’ring Aloud, durante
la quale faceva il suo primo ingresso il quartetto d’archi, accolto dagli
applausi del pubblico. All‘interno di My
God, adesso priva dell’introduzione con la chitarra acustica, erano inclusi
spezzoni di altri brani, tra i quali
Bourée e Living in the Past.
Oltre ai pezzi tratti da WARCHILD e
AQUALUNG era inoltre presente un frammento di The Hare Who Lost His Spectacles,
interrotto da una telefonata. Il sopracitato disco MINSTREL IN THE GALLERY, pubblicato nel 1975, al
contrario del suono roboante del suo predecessore, era caratterizzato da una
vena più acustica e intimista, come se si fosse trattato di un lavoro solista
di Ian Anderson accompagnato dal quartetto d’archi (come sempre diretto da
David Palmer). Quando però facevano il loro ingresso batteria e basso, il sound
diventava poderoso (come nel corso della title track, di Cold Wind to Walallah e di Black
Satin Dancer). Dopo la mini-suite Backer
Suite Muse il disco si chiudeva con la brevissima Grace. Summerday Sands
avrebbe meritato di far parte del lavoro, ma uscì solo come lato B del 45 giri Minstrel in the Gallery. L’album venne
registrato in giro per l’Europa sul furgone rosso denominato Maison Rouge tra
il 15 maggio e il 7 giugno, sempre con Robin Black al mixer, e presentato
presso gli studi RTV di Radio Montecarlo. La copertina riportava il rifacimento
di un dipinto ad olio ottocentesco virato su tonalità marroni, mentre il retro
mostrava i cinque componenti del gruppo dietro una ringhiera di legno. Martin
Barre utilizzò una Gibson Les Paul Standard, il cui suono, collocato sul canale
destro, veniva ripetuto con un lieve ritardo su quello sinistro. Il chitarrista
si servì del bottleneck sia su Cold Wind
To Walallah che sulla citata
Summerday Sands, anch’essa accompagnata dagli archi arrangiati da David
Palmer. Quest’ultimo lavorò anche sul successivo TOO OLD TO ROCK’N’ ROLL: TOO YOUNG TO DIE! suonando
pure il sassofono tenore sulla title track e su From a Dead Beat To an Old Greaser. I pezzi del disco vennero
incisi con il nuovo bassista John Glascock tra Bruxelles (novembre 1975) e
Montecarlo (gennaio 1976). La cantante degli Steeleye Span Maddy Prior e quella
dei Carmen Angela Allen parteciparono alle registrazioni. L’album venne poi inciso da capo ad aprile
per lo special televisivo che andò in onda il 16 luglio, con la band che
suonava in playback cambiando i propri abiti di scena per ognuno dei brani
dell’album. La copertina gialla mostrava il disegno del protagonista della
storia, Ray Lomas, in giubbotto di pelle e di nuovo dall’aspetto simile a
quello di Ian Anderson, mentre rivolgeva un gestaccio all’osservatore. La
storia di Ray era raccontata in un fumetto all’interno dell’album, e alcune
delle vignette venivano intercalate anche durante il sopracitato special
televisivo. L’ultimo concerto di Jeffrey Hammond con la band era stato quello del 2 novembre a West Lafayette, negli
USA: nonostante le insistenze del resto del gruppo, decise di tornare alla sua
passione per la pittura, alla quale si è dedicato fino ai giorni nostri, senza
più toccare uno strumento. John Glascock lo rimpiazzò degnamente, poiché era un
bassista che suonava con dedizione il proprio strumento, ed era anche il grado
di affiancare Ian Anderson con una bella seconda voce. Inoltre legò subito con
i suoi nuovi compagni (che aveva comuque conosciuto durante il tour americano
di gennaio-marzo 1975 quale componente dei Carmen), e in particolare con
Barriemore Barlow. TOO OLD
non era un album eccezionale, ma John Glascock fece in tempo a suonare con un
Ian Anderson ancora in abiti cinquecenteschi (seppure con una barba adesso
cortissima) durante il primo tour tenuto tra il 1° maggio a Bruxelles e il 20
dello stesso mese a Madrid. Anche David Palmer fece la sua prima apparizione
sul palco durante quella breve tournée europea, nonostante non venisse ancora
considerato un elemento dei Jethro Tull a tutti gli effetti: con le sue
tastiere sostituì il quartetto d’archi e correva al microfono per suonare
l’assolo di sax durante la title track del nuovo album. Di quest’ultimo erano
presenti in scaletta diversi brani, che divennero sempre meno nel corso della
successiva tournée americana, partita il 15 luglio dal Civic Center di
Providence, per concludersi il 25 agosto allo Stampede Corral di Calgary. Come
documento di questo USA tour esiste il filmato non ufficiale del concerto
tenuto il 31 luglio 1976 al Tampa Stadium, in Florida, riemerso decenni dopo, e
consistente nelle immagini professionali che erano state girate per il
maxischermo (“Tullavision”) che era sul palco. La qualità video è dicreta e il
suono dal mixer, pur essendo mono, è stato rimasterizzato in una fittizia
stereofonia che risulta più che accettabile. Peccato che il concerto si fermi a
metà, venendo sfumato verso la fine della Nona Sinfonia di Beethoven, che il
gruppo suonava in quel periodo. E’ probabile che il resto del nastro (che
sarebbe cominciato con My God) sia
rovinato da quel punto fino alla fine dello show. Si tratta comunque di una
grande occasione per vedere i Jethro Tull così come apparivano e suonavano
durante quel tour statunitense dell’estate 1976: Ian Anderson ora con capelli
meno lunghi, in giubba e pantaloni azzurri, con rigonfiamenti gialli e rossi
sulle spalle, i gomiti e le ginocchia; Martin Barre con gilet e pantaloni a
strisce colorate, e con una fiammante Gibson Les Paul a tracolla; Barriemore
Barlow con maglietta a strisce bianche e nere più cappello floscio in testa;
John Glascock in camice leggero dalle ampie maniche; John Evan in completo
bianco più David Palmer con maglietta e basco. Dopo l’inizio di Quartet su nastro registrato la band
inizia il concerto con Thick as a Brick
nella versione di dieci minuti. Alla fine del pezzo tutti i Tull si sbracciano
percorrendo il palco in lungo e in largo per ringraziare il pubblico. La
successiva Wond’ring Aloud vede David
Palmer rimpiazzare il quartetto d’archi con le sue tastiere Elka. Per l’unica
volta possiamo qui vedere l’esecuzione dal vivo di Crazed Institutions. Bellissimo il ritorno in scaletta di To Cry You a Song. Ottimo anche lo
strumentale inedito, includente l’assolo di batteria, con un riff che ricorda i
Led Zeppelin di Black Dog, eseguito
senza Ian Anderson. Magnifica poi Minstrel
in the Gallery, che comprende ancora l’iniziale sezione rock, in seguito
rimossa. E’ tra il settembre e il novembre del 1976 che i Jethro Tull
registrano il sorprendente SONGS
FROM THE WOOD, che dà il via al loro periodo folk-rock: il disco è
contaminato da rimandi a miti celtici, all’antico folklore britannico e
all’amore per la natura, con una musica articolata eppure gioiosa, che ritrova
la band davvero unita: Martin Barre e
David Palmer sono coinvolti in prima persona nella composizione dei brani,
prima attribuiti al solo Ian Anderson. La copertina, in tema con i contenuti
dell’album, ci mostra lo stesso Anderson nelle vesti di un cacciatore che si
riscalda tra i boschi al fuoco che arde sotto una pentola, mentre il retro
illustra un tronco d’albero tagliato alla base, con i suoi cerchi concentrici
che si trasformano nei solchi di un Lp, con tanto di puntina poggiata sopra. La
nuova vena ispirativa di Ian era peraltro coincisa con il suo effettivo
trasferimento dalla vita di città a quella di campagna insieme alla moglie
Shona. Il relativo tour parte dagli Stati Uniti il 14 gennaio 1977 a Pasadena:
questo è anche il concerto d’esordio per David Palmer quale componente della
band a tutti gli effetti, oltre ad essere la prima delle tre tournée americane
di quell’anno. Adesso Ian Anderson si presenta con gilet e bombetta rossi e
barbetta ben curata: è così che appare anche durante il mini-concerto tenuto il
10 febbraio al Golders Green Hippodrome di Londra per il programma televisivo della
Bbc intitolato Sight & Sound, con
simultanea diretta radiofonica in audio stereo. I fan si sarebbero aspettati
una pubblicazione ufficiale di questo show all’interno del box-set pubblicato
nel 2017 per il 40° anniversario del disco. Qui è invece presente il concerto
(mai visto prima) tenuto al Capital Center di Landover, nel Maryland, il 21
novembre 1977: si tratta a conti fatti dell’unico show dei Jethro Tull anni
Settanta ad essere reso disponibile per intero. Filmato, come nel caso del
Tampa Stadium, per il maxischermo che era dietro la band, inizia con tre brani
tranquilli (Wond’ring Aloud, Skating Away
e Jack-in-the-Green), che vedono
Ian Anderson in giacca da cacciatore e Martin Barre avvolto in una comoda
quanto assurda veste da camera viola. Con la successiva Thick as a Brick Ian e Martin si liberano di questi indumenti,
rimanendo l’uno con i sopracitati gilet e bombetta rossi, e l’altro in gilet a
righe colorate e pantaloni neri, mentre il concerto esplode. Adesso Barre non
utilizza più amplificatori Hiwatt, avendoli sostituiti con potenti Marshall.
Nella setlist è ancora presente il medley To
Cry You a Song / A New Day Yesterday, contenente a sua volta l’assolo di
flauto e i vari frammenti strumentali, compresa Living in the Past. Come già nello show di Tampa ritroviamo anche
il brano inedito contenente l’assolo di batteria, mentre Minstrel in the Gallery non presenta più l’iniziale sezione rock.
Sulle nuove Velvet Green e Hunting Girl John Glascock è perfetto
alla seconda voce. Il primo di questi due brani vede Martin impegnato a
glockenspiel, nacchere e piattini, ma mai alla chitarra elettrica, mentre su Jack-in-the-Green suona il mandolino.
Per inciso, nella sua versione in studio, il pezzo era stato registrato dal
solo Ian Anderson. Quest’ultimo, durante Back-Door
Angels, si piazza dietro Martin Barre, assorto nelle sue evoluzioni
solistiche, alzando e abbassando le braccia a simulare il volo degli angeli
citati nel titolo. Dopo una prima pausa Barrie Barlow ricompare sul palco con
kilt, borsa, canottiera rossa e copricapo con campanellini che fa tintinnare al
microfono. L’ultimo bis è Locomotive
Breath, che vede John Evan tornare da solo sulla scena con il suo completo
bianco, tirando in avanti le bretelle e rivolgendo al pubblico un sorriso folle
con gli occhi sbarrati: quando il brano deflagra dopo l’inizio quieto,
chitarrista e bassista corrono verso la platea lasciando Ian Anderson più
indietro. Del 1978 è il secondo album folk-rock, intitolato HEAVY HORSES, che vede in
copertina il leader dei Jethro Tull, in abiti da lavoro, tirarsi dietro i
cavalli citati nel titolo del disco. Quasi tutti i brani fanno riferimento a
vari animali di campagna, compresi i gatti, che Ian ama molto. Il doppio album
dal vivo BURSTING OUT
documenta il tour europeo iniziato il 13 maggio a Den Haag e concluso il 2
giugno a Kiel, con la band in forma strepitosa. Per motivi di spazio dovette essere
esclusa proprio la title track del nuovo album; inoltre, alla fine dell’assolo
di flauto, vennero tagliate via le successive sezioni di Living in the Past e il reprise di A New Day Yesterday. Sul box-set pubblicato nel 2018 per il 40°
anniversario di HEAVY HORSES
è presente l’intero concerto del 28 maggio a Berna, tenuto durante la medesima
tournée: all’inizio dello stesso
BURSTING OUT si poteva ascoltare la presentazione di Claude Nobs
relativa proprio a questo show svizzero. John Glascock non poté partecipare
alla tranche americana del tour a causa dei suoi problemi al cuore, e venne
sostituito da Tony Williams, un amico del gruppo nativo di Blackpool. Per una
incredibile coincidenza quest’ultimo aveva fatto parte degli Executives, una
band che nel 1966 aveva tra le proprie fila anche Glenn Cornick. Il tour prese
inizio con la data del 1° ottobre al Coliseum di Hampton, per concludersi il 17
novembre a Long Beach. E grazie alla diretta televisiva transoceanica del
concerto al Madison Square Garden del 9 ottobre 1978 Williams, che fu parte dei
Jethro Tull solo per un mese e mezzo, poté essere visto da milioni di persone.
45 minuti di quello spettacolo vennero trasmessi, per poi trovare pubblicazione
con un fantastico audio stereo (e annesso Cd contenente l’intero show) nel
2009. Le riprese Tv cominciavano con Ian Anderson intento a presentare Thick as a Brick con basco azzurro e
mantello scozzese, dei quali si liberava per correre verso il pubblico
incitandolo e battendosi il tamburello sulla coscia quando il pezzo esplodeva
nella sua sezione più rock, per poi precipitarsi a sbuffare con il flauto al
microfono. Per il resto dello show compariva con gilet a quadri, con pantaloni
e camicia bianchi più stivali scuri; Martin Barre indossava invece giacca e pantaloni
decorati più un elegante papillon, utilizzando una bella chitarra Hamer nera.
Spettacolari le versioni della nuova No
Lullaby, Aqualung e Songs from the
Wood, con Ian impegnato anche ai piatti. Il 1979 vide la pubblicazione di STORMWATCH, ancora imperniato
su temi ambientalisti, ma più cupo fin dall’immagine di copertina, che vedeva
Ian Anderson incappucciato tra i ghiacci osservare con un binocolo l’arrivo di
una tempesta (con riferimento al titolo dell’album). John Glascock aveva fatto
in tempo a suonare il brano Dark Ages,
compreso in questo lavoro, durante il suo ultimo tour con la band in America
nell’aprile del 1979. E riuscì a registrare tre brani sul disco, sostituito
dallo stesso Ian Anderson in tutti gli altri. Ma i problemi al cuore ai quali
si è fatto riferimento portarono alla sua prematura scomparsa il 17 novembre di
quello stesso anno: i Jethro Tull vennero raggiunti dalla notizia prima di
esibirsi alla Sports Arena di San Diego, con il suo sostituto Dave Pegg al
basso: era infatti già in corso il tour di STORMWATCH negli Stati Uniti, e quella sera
Barriemore Barlow suonò piangendo dietro i tamburi. Fu la prima tournée dei
Jethro Tull a presentare quasi tutti i pezzi di un nuovo album durante la prima
parte dello spettacolo. Ian Anderson ora compariva in scena con una giubba
medievale, mentre il nuovo arrivato Dave Pegg portava un cappellino alla
Sherlock Holmes. Negli States il tour partì il 5 ottobre del 1979 dal Maple
Leaf Gardens di Toronto (primo show con il nuovo bassista) per concludersi al
Coliseum di Oakland il 18 novembre. Pegg fece in tempo a registrare con la
vecchia formazione un solo brano in studio:
King Henry’s Madrigal. Dopo qualche mese di pausa, la tournèe di STORMWATCH riprese in Europa
dalla città di Drammen (in Norvegia) il 3 marzo del 1980 per concludersi il
successivo 14 aprile all’Hammermith Odeon di Londra. Questo fu anche l’ultimo
concerto di John Evan, Barriemore Barlow e David Palmer con i Jethro Tull. Ian
Anderson aveva infatti deciso di realizzare il suo primo album solista,
chiamando Eddie Jobson alle tastiere e al violino, più Mark Craney alla
batteria, ai quali si aggiungevano Martin Barre alla chitarra e Dave Pegg al
basso. Ian aveva conosciuto Jobson per il fatto che gli UK (John Wetton, Terry
Bozzio e lo stesso Eddie Jobson) erano stati il gruppo spalla dei Jethro Tull
nel corso dei concerti americani del 1979. Il sound di questo lavoro era
completamente diverso sia da quanto ci si sarebbe potuti aspettare da un album
di Ian Anderson, che da uno dei Jethro Tull conosciuti fino a quel momento,
essendo pervaso dalle tastiere di Jobson, dal suo violino e da composizioni del
tutto inconsuete. Non mancavano comunque bei brani, quali Black Sunday e la conclusiva
And Further On, mentre Working John,
Working Joe era stata già registrata in una prima versione durante le
session per SONGS FROM THE WOOD. Ad ogni modo la casa
discografica insistette perché il disco uscisse a nome dei Jethro Tull: e fu
così che Evan, Barlow e Palmer appresero solo dai giornali di non fare più
parte del gruppo. Il titolo del nuovo album,
A, era dovuto al fatto che i nastri conservati negli studi riportavano la
lettera iniziale del nome Anderson, in quanto il lavoro, come detto, era stato
inizialmente concepito come un disco solista di quest’ultimo. La copertina
mostrava la nuova formazione dei Tull in tute spaziali: e così sarebbero
apparsi sui brani dal vivo inclusi nel video intitolato Slipstream, che conteneva anche pezzi più vecchi, eseguiti in
playback dalla nuova line-up. Martin Barre, secondo il cui parere STORMWATCH non sarebbe
neanche dovuto uscire, accolse come una ventata di freschezza sia il disco
nuovo che il relativo tour americano, che partì da Salisbury il 4 ottobre 1980
per concludersi il successivo 11 novembre alla Sports Arena di Los Angeles.
Seguirono le due date all’Hammersmith Odeon di Londra il 20 e il 21 dello
stesso mese: e fu probabilmente qui che vennero effettuate le riprese per i
brani in concerto compresi nel sopracitato Slipstream:
all’inizio del video si vede infatti Ian Anderson, nei panni cenciosi di
Aqualung, coprirsi con il giornale di THICK AS A BRICK, per poi trovarsi di fronte ad un edificio sul
quale si intravede per un attimo la scritta “Hammersmith Odeon”. A questo punto
comincia a udirsi un nastro nel quale sono
accennati vari brani del passato (Dark
Ages, Songs from the Wood, Thick as a Brick, Aqualung e altri). Quindi
comincia lo show vero e proprio con la nuova Black Sunday, mentre Ian Anderson compare da solo dall’oscurità in
tuta bianca, seguito poi da Barre con una rossa, Pegg con quella verde e Jobson
e Craney con tute di altro colore. Ian porta adesso capelli corti e barba,
mentre la lettera “A” è su tutte le tute, e a caratteri cubitali, in una
scritta luminosa rosata sul fondo del palco. Eddie Jobson utilizza un violino
trasparente. Gli altri brani live del video sono Songs from the Wood, Heavy Horses (con Dave Pegg impegnato anche al
mandolino e ai cori), Skating Away (che
vede Craney passare dalla batteria al basso), Aqualung e Locomotive Breath,
con un inizio e una conclusione diverse da quelle già conosciute, oltre al
consueto lancio finale di palloni giganti da parte di Ian verso il pubblico. Il
tour di A proseguirà anche durante
l’inizio dell’anno successivo, dalla data del 1° febbraio a Bruxelles a quella
del 24 dello stesso mese al Palais Des Sports di Lione. Questo è anche l’ultimo
concerto di Mark Craney con i Jethro Tull. I numerosi brani registrati nel 1981
da una line-up diversa non portano alla pubblicazione di un disco nuovo, e
verranno inseriti su 20 YEARS
OF JETHRO TULL e
NIGHTCUP. Nel 1982 esce invece BROADSWORD AND THE BEAST, con la stessa formazione dei pezzi
incisi l’anno prima, che vede Peter Vettese alle tastiere e Gerry Conway alla
batteria affiancare Ian, Martin e Dave. Il nuovo disco risente dell’influenza
compositiva di Vettese, mentre non vi è quasi più traccia del flauto. La
copertina ritrae una sorta di nave vichinga in un mare tempestoso, e contiene
bei brani quali Seal Driver e Fallen on Hard Times. Il nuovo lavoro
riscuote grande successo soprattutto in Germania, mentre il relativo tour
riporta dopo quasi dieci anni i Jethro Tull in Italia con le date di maggio: il
2 a Roma, il 3 a Bologna, il 4 a Genova
e il 5 a Padova. I concerti di questo periodo, che cominciano con la nuova Clasp, vengono documentati dalle
telecamere proprio in occasione della data romana (Teatro Tenda 7 Up) e di
quella tedesca del Westfalenhallen di Dortmund il successivo 28 maggio, con Ian
di nuovo in giubba medievale sopra una maglietta mimetica. Bello il medley
strumentale Pibroch / Black Satin Dancer.
Durante Broadsword Anderson solleva
in alto lo spadone del titolo, mentre nel corso di Beastie canta portando sulle spalle il pupazzo gigante che
raffigura il personaggio incappucciato ritratto sulla copertina del disco.
Quando la tournée si sposta negli Stati Uniti (dal 9 settembre al 24 ottobre)
il palco assume le sembianze di un vascello, Paul Burgess subentra alla
batteria, mentre tutta la band indossa abiti di scena diversi; cambia anche la
scaletta, che ora inizia con Something’s
on the Move (da STORMWATCH)
e vede il ritorno a sorpresa di A Song
for Jeffrey. Il tour del 1982 è l’ultimo a vedere Ian Anderson con voce
ancora piena e potente, e dai capelli lunghi e fluenti. Il successivo album UNDERWRAPS del 1984 piace
molto a Martin Barre, ma non alla gran parte dei fan dei Jethro Tull, essendo
infarcito di suoni elettronici tipicamente anni Ottanta, compresi quelli della
batteria. Un “vero” batterista arriverà solo a supporto della relativa tournée:
Doane Perry fa il suo debutto il 30 agosto a Dundee, in Inghilterra. Come
testimoniato dal Dvd relativo al concerto tenuto presso il Capital Centre di
Passaic (28 ottobre 1984) durante il tour americano, gli spettacoli live di UNDERWRAPS sono apprezzabili,
con l’inizio di Locomotive Breath in
versione strumentale seguita da Hunting
Girl, e i brani nuovi (bella Later
that Same Evening) che si alternano a quelli vecchi, compreso un medley che
comprende frammenti di Songs from the
Wood, Minstrel in the Gallery e My
Sunday Feeling. Entrano in scaletta le nuove versioni di Living in the Past e Serenade To a Cuckoo unite insieme. Ian Anderson si presenta in
camicia rossa, ampi pantaloni e bandana in testa, con sopra la scritta “Tull”
trasformata in un logo dalla forma cubica. Martin compare invece in camicia
azzurra con pantaloni e cravatta bianchi. Il Cd ufficiale LIVE AT HAMMERSMITH 84 viene
registrato a Londra l’8 settembre di quell’anno. E’ durante questa tournée che
Ian sforza eccessivamente la voce, perdendola progressivamente negli anni. Per
questo motivo nel 1985 il gruppo tiene un solo concerto (Berlino, 16 marzo,
International Congress Centrum) in occasione dei 300 anni dalla nascita di J.S.
Bach, con Eddie Jobson ospite al posto di Peter Vettese. E’ questa una rara
occasione per ascoltare e vedere (lo show viene ripreso dalle telecamere) i
Tull mentre suonano Elegy (il
malinconico brano strumentale di David Palmer che chiudeva STORMWATCH) e Martin Barre
esibirsi per l’ultima volta con la barba e la bella chitarra elettrica Hamer
nera che utilizzava dal 1978. Ian si presenta invece con giacca scura e
cappellino girato al contrario sulla testa, rimanendo in camicia bianca solo
sugli ultimi pezzi dello spettacolo. Questo show, considerata la presenza di
Jobson a tastiere e violino, si conclude con lo stesso brano inedito che
chiudeva i concerti durante il tour di A,
mentre Ian Anderson lancia verso il pubblico i palloni giganti. E’ sempre del
1985 il disco intitolato A
CLASSIC CASE, che, registrato l’anno prima, vede la band (Anderson,
Barre, Pegg, Vettese e Burgess) accompagnata dalla London Symphony Orchestra
diretta da David Palmer per una interpretazione strumentale dei brani storici
dei Jethro Tull (eccetto Fly By Night,
tratta dal primo album solista di Anderson). Singolarmente David Palmer avrebbe
in seguito deciso di cambiare sesso, divenendo Dee Palmer. Anche nel 1986 non
ci fu altro che un breve tour estivo (denominato infatti “Summer Raid”),
compresa una data diurna a Milton Keynes (proprio il luogo della reunion dei
Genesis con Peter Gabriel) prima dei Marillion, che all’epoca, dopo l’uscita di
MISPLACED CHILDHOOD,
erano davvero sulla cresta dell’onda. I Tull sembravano viceversa ormai sul
viale del tramonto: anche fisicamente Ian Anderson, pur non avendo ancora
compiuto 40 anni, appariva con barba imbiancata, cappellino, pantaloni rigonfi
e un grosso giubbotto di pelle senza maniche a renderlo ancora più appesantito.
Don Airey fu alle tastiere per il tour del 1987, ma non sul disco di
quell’anno, A CREST OF A KNAVE,
che segnò il ritorno dei Tull in grande stile, con brani accattivanti quali Budapest e Farm On The Freeway, nuovi classici per gli spettacoli dal vivo.
Il tour del 1988 festeggiò il ventennale del gruppo, partendo dagli Stati Uniti
con Maartin Allcock alle tastiere, dal 27 maggio a Los Angeles al 26 giugno
presso il Pier 84 di New York. Subito dopo i Tull arrivarono in Italia per le
date del 3 luglio a Roma (il sottoscritto era presente), il 4 a Firenze, il 5 a
Milano e il 6 a Correggio: questi spettacoli iniziavano con Ian Andeson che
faceva il suo ingresso in scena su una sedia a rotelle spinta da un paio di
infermiere, con cappotto e bombetta, sbuffando nel suo flauto l’entusiasmante
inizio di Cross-Eyed Mary, per poi
alzarsi in piedi e cantare con veemenza il brano. La fine dello show
sottolineava ancora con auto-ironia il fatto che i Jethro Tull fossero
diventati “troppo vecchi per il rock’n’roll”, vedendo la band portata via dal
palco chi sulla carrozzina, chi con le stampelle e chi in barella. Un grande
telone quadrato posto dietro il palco riportava la scritta: “Oh no, not another
20 years of Jethro Tull!”. Durante il soundcheck romano li ascoltai provare
anche Heavy Horses, nonostante il
brano non fosse in scaletta. Esistono le riprese televisive del sopracitato
concerto di Firenze e di quello del successivo 8 agosto a San Paolo del
Brasile. E’ in questa occasione che Ian introduce Aqualung suonando al flauto La
ragazza di Ipanema. Il 1989 vide la pubblicazione di ROCK ISLAND, con gli
spettacoli che iniziavano con Strange
Avenues e Steel Monkey cantate da
Ian Anderson in giacca nera e cappello. Durante quei concerti saltarono fuori
brani vecchi inaspettati, quali Requiem /
Black Satin Dancer, Cheap Day Return, Mother Goose, e addirittura SeaLion e The Third Hoorah (da WARCHILD). Quell’anno li vide anche sorprendentemente premiati
quali miglior band heavy metal per il precedente A CREST OF A KNAVE, con grande disappunto da parte dei
Metallica. Le date italiane del 1989 furono quelle del 15 ottobre al
Palatrussardi di Milano e del giorno dopo al Palasport di Torino. Il nuovo
tastierista, tra il 1988 e il 1991, fu il sopracitato Maartin Allcock: questi
era in realtà il chitarrista dei Fairport Convention, che imparò in breve tempo
a suonare le tastiere per unirsi alla band in tournée. La novità dei concerti
del 1990 fu l’introduzione in scaletta di Love
Story, l’ultimo brano registrato da Mick Abrahams con il gruppo: il
relativo tour partì il 4 maggio dal Capital Theatre di Aberdeen, in Inghilterra,
per concludersi il 15 settembre a San Paolo del Brasile. Il 22 dello stesso
mese Ian Anderson, Mick Abrahams, Clive Bunker e Maartin Allcock si ritrovarono
insieme ad una Convention inglese di fan della band per suonare Someday The Sun Won’t Shine for You, So
Much Trouble e Fat Man. Nel 1991 i Jethro Tull tornano in scena
incredibilmente ringiovaniti: Ian Anderson con un semplice gilet argentato sul
torso nudo, muscoloso e scattante, con pantaloni attillati come negli anni
Settanta; Martin Barre, che pochi anni prima appariva come un attempato
impiegato di banca, di nuovo con i capelli lunghi, dimagrito, agile e con un
bellissimo suono di chitarra. Questo periodo è ben documentato dalle riprese
effettuate il 13 luglio all’anfiteatro di Istanbul: Ian inizia il concerto in
giacca bianca, con una breve versione di Thick
as a Brick che si collega subito a
Farm On The Freeway. Al disco del 1991 intitolato CATFISH RISING, con più strumenti acustici e
piacevoli folate di blues, seguì il tour documentato dal Cd IN CONCERT, registrato
all’Hammersmith Odeon la sera dell’8 ottobre: il bellissimo inizio dello
spettacolo vedeva Ian Anderson seduto al tavolo di un finto
ristorante imbracciare la sua nuova chitarra acustica nera su un palchetto
rialzato per l’inizio di Minstrel in the
Gallery, cui faceva seguito un’esplosiva Cross-Eyed Mary. Subito dopo la band arrivò di nuovo in Italia per
le date del 12 ottobre al Palasport di Forlì, del 13 al Palatrussardi di Milano
e del 14 al Palasport di Verona. I concerti di quel periodo venivano introdotti
dal nastro registrato che faceva ascoltare un frammento dei Carmina Burana.
Interessante anche la versione strumentale di Paparazzi (da
UNDERWRAPS), suonata dai soli Martin, Doane e Dave, presente anche nel
concerto ripreso a Istanbul. I Jethro Tull tornarono in Italia nel 1992 per la
sola data all’Arena Parco Nord di Bologna (il sottoscritto era sotto al palco),
con il nuovo tastierista Andy Giddings a rendere più eleganti e ricchi i brani
dopo il tour semi-acustico di qualche mese prima, con Dave Mattacks alla
batteria, documentato sul disco dal vivo A LITTLE LIGHT MUSIC. Questi concerti cominciavano con
Ian Anderson in giacca e cilindro neri, impegnato alla voce e all’armonica in
una nuova versione di Someday the Sun
Won’t Shine for You, accompagnato dal solo Martin Barre e poi da tutta la
band, prima dell’accendersi di ogni show con una brillante esecuzione di Living in the Past. Quindi le varie
celebrazioni per i 25 anni della band nel 1993: il box-set a forma di scatola
da sigari, il doppio Cd di rarità NIGHTCUP e il video A New Day Yesterday, che vedeva riuniti
in un pub i vecchi componenti del gruppo, compresa la formazione originale
composta da Anderson, Barre, Cornick e Bunker. Il tour mondiale vide Ian e Martin ancora vivaci e con un look
accattivante. Brillanti anche gli inizi dei concerti, con la rivisitazione dei
brani di inizio carriera: My Sunday
Feeling in apertura, poi For A
Thousand Mothers, quindi Living In
The Past, con Ian Anderson che irrompeva sul palco indossando una festosa
giacca azzurra con disegni multicolori e capelli legati in un codino, mentre
Martin Barre si scatenava con capigliatura lunga e bionda su abiti neri. In
scaletta tornò Dharma for One. Le
date italiane del 1993 furono quelle del 6 luglio allo Stadio Briamasco di
Trento e del giorno dopo al Rolling Stone di Milano. Questo periodo
scintillante fu però anche l’ultimo per i Jethro: l’album ROOTS TO BRANCHES del 1995 fu
seguito da un tour più dimesso, senza
Dave Pegg al basso (sostituito da Jonathan Noyce) e con Anderson e Barre
meno in forma. Inaspettato l’inizio dei concerti, con un medley strumentale di
brani tratti dall’album A: And Further
On, Fylingdale Flyer e Protect and
Survive. Nel 1996 lan Anderson
rimase vittima di un’embolia ad una gamba che lo costrinse alla sedia a rotelle
per le date di marzo e aprile negli USA. Ma a maggio il gruppo era già in tour
in Australia. Tra agosto e settembre andarono in tournée negli States insieme
agli ELP. E’ dello stesso anno il tributo ai Jethro Tull intitolato TO CRY YOU A SONG che, oltre a ospiti quali John Wetton,
Glenn Hughes e Roy Harper, vede coinvolti anche Mick Abrahams, GlennCornick,
Clive Bunker e Dave Pegg. Nel 1997 ebbi modo di rivedere i Tull sia al Cus
Subiaco di Roma, che la sera dopo al Castello Sforsesco di Vigevano: i concerti
si aprivano con una brillante rivisitazione di A Song for Jeffrey, e a Roma eseguirono Acres Wild (da HEAVY
HORSES). L’album successivo a ROOTS TO BRANCHES uscì solo quattro anni più tardi, nel 1999: si
intitolava DOT COM, era
buono, registrato bene, e con ottime spruzzate di prog. Il sottoscritto andò a
vederli il 14 luglio di quell’anno presso l’ex acciaieria di Bagnoli insieme
alla PFM, in occasione del Neapolis Rock Festival. Quello sarebbe però rimasto
l’ultimo disco vero e proprio dei Jethro Tull. Seguirono infatti altri lavori,
su Cd o Dvd, in studio e dal vivo, ma non si sarebbe più trattato di album
composti da materiale interamente inedito: Living
With The Past presenta il concerto della band del 25 novembre 2001
all’Hammersmith Apollo, includendo anche tre brani di THIS WAS (A
Song for Jeffrey, Someday the Sun Won’t Shine for You e My Sunday Feeling) suonati dalla formazione originale dei Jethro
Tull nel gennaio del 2002 in un pub, di fronte ad un pubblico formato in realtà
da componenti di vari fan club (Aldo Tagliaferro compreso) che dovevano fingere
di conversare tra loro disinteressandosi della band; THE CHRISTMAS ALBUM del 2003 raccoglieva brani
di ispirazione natalizia; Live At
Montreux documentava lo show della band tenuto il 4 luglio di quello stesso
anno al prestigioso festival svizzero, con riprese in alta definizione. Subito
dopo scesero in Italia, suonando il 6 luglio al Palastampa di Torino, il 7 al
Castello di Udine, l’8 al Teatro di Verdura di Palermo (prima volta in
Sicilia), il 9 allo Stadio Centrale del Tennis di Roma, l’11 in Piazza Duomo a
Pistoia e il 12 al Teatro Smeraldo di Milano (di nuovo, dopo la prima volta del
febbraio 1971). Nel 2005 esce una versione live del disco AQUALUNG registrata l’anno
prima dalla formazione che comprendeva Anderson, Barre, Perry, Giddings e
Noyce; nel 2008 viene filmato il concerto pubblicato l’anno seguente con il
titolo di Live At AVO Session Basel,
con la nuova line-up che vede l’arrivo di John O’hara alle tastiere (al posto
di Giddings) e di David Goodier al basso (in sostituzione di Noyce): i brani in
scaletta sono tutti del periodo 1968-1991. Il 28 maggio Barriemore Barlow si
unisce di nuovo alla sua vecchia band presso la Royal Festival Hall, suonando Thick as a Brick, Heavy Horses e Locomotive Breath: a quest’ultimo pezzo
partecipa anche Greg Lake, mentre Barrie è dietro i tamburi in coppia con Doane
Perry. Nell’occasione viene eseguita anche One
for John Gee, per la prima volta dal 1968.
E’ dello stesso anno il doppio Dvd che celebra il 40° anniversario della
band, Jethro Tull, Their Fully Authorized Story,
che contiene sul primo dischetto la storia della band, con interviste (Barrie
Barlow si commuove ancora ricordando John Glascock) più frammenti di concerti,
e sul secondo il documentario Swing In
del 1969; sempre nel 2008 esce Jack In
The Green: Live In Germany 1970-1993.
Il 7 luglio del 2009 ebbi modo di assistere all’esibizione dei Tull al
Teatro Antico di Taormina: era il tour per i 40 anni di STAND UP, e dunque eseguirono anche Jeffrey Goes To Leicester Square e Back To the Family, che davvero non mi
aspettavo. Dal 2011 anche Martin Barre e Doane Perry rimangono fuori dal
gruppo: l’ultima data di Martin con i Jethro Tull è quella del 31 luglio a
Monaco. Il suo sostituto è il biondo chitarrista tedesco Florian Ophale. Glenn
Cornick ci ha lasciati il 28 agosto 2014, mentre Mark Craney era scomparso già
il 25 novembre 2005: prima di entrare nei Jethro Tull, nel 1979 era stato in tour con Gino Vannelli insieme a
Daryl Stuermer dei Genesis, ed era un grande amico di Doane Perry. Maartin
Alcock è venuto a mancare il 16 settembre 2018. Ophale, Goodier e O’Hara
avevano già accompagnato Ian Anderson insieme all’orchestra filarmonica di Francoforte
sul Dvd filmato nel 2004, con il figlio di Ian Anderson, James Duncan, alla
batteria. Quest’ultimo nel 2015 avrebbe sposato la figlia di Terry Ellis, il
primo manager dei Jethro Tull. Lo stesso anno la band si esibisce di nuovo al
festival dell’Isola di Wight, 35 anni dopo la loro leggendaria partecipazione
del 1970, con il nuovo batterista Scott Hammond. Nel 2017 esce THE STRING QUARTETS, che vede
Ian Anderson impegnato a cantare e suonare vecchi classici dei Jethro Tull
insieme ad un quartetto d’archi. Nel 2018 il cerchio si chiude con la
pubblicazione del box-set contenente l’album d’esordio THIS WAS con i nuovi missaggi di Steven Wilson
in occasione del 50° anniversario di questa inossidabile band. Anche Martin
Barre ha voluto festeggiare la ricorrenza girando il mondo con il suo gruppo e
proponendo i pezzi storici: dopo aver avuto Jonathan Noyce al basso, il tour
del 2019 lo vede affiancato dai vecchi amici Dee Palmer e Clive Bunker. Naturalmente i Jethro Tull sono ancora in
tournèe.
MALIBRAN E JETHRO
TULL
Quando apprendo che i Jethro Tull avrebbero suonato a
Palermo l’8 luglio 2003 al Teatro di Verdura (anfiteatro all’aperto, sorta di
appendice estiva del Teatro Massimo), mi attivo subito per piazzare i Malibran
come gruppo di apertura del loro show. Come detto li avevo visti dal vivo
numerose volte in giro per l’Italia. E, soprattutto, erano da sempre il mio
gruppo preferito. Dunque, esibirmi con loro sullo stesso palco, magari
conoscendoli di persona, e poterlo fare davanti ad un pubblico numeroso (e
presumibilmente affine al nostro tipo di proposta musicale) sarebbe stato
quanto di meglio avrei potuto chiedere. Mi metto subito al lavoro per rendere
concreta anche questa possibilità, come quattro anni prima con il Banco: contatto
il sopracitato Aldo Tagliaferro, il presidente del fan club italiano dei
Tull, che conosce di persona Ian
Anderson & Co. Anzi, da semplice loro estimatore, era ormai diventato il “referente italiano” del gruppo: durante i
tour, è lui che va a prenderli all’aeroporto, li porta nei vari hotel e
ristoranti da una città all’altra, e tutto il resto. Lo sentivo da anni per
procurarmi bootleg della band, e conosceva i Malibran. Mi metto anche in
contatto con la Blue Sky, l’agenzia che porta i Jethro Tull (e Steve Hackett)
in Italia: loro sono sempre gentilissimi, e, in sinergia con Aldo, si cerca di
rendere concreta la cosa: Malibran e Jethro Tull insieme a Palermo. Passano
mesi di telefonate, con conseguente alternanza di speranze e delusioni: “si può
fare”, “anzi no”, e così via. Alla fine Aldo mi chiama, non mi trova, ma parla
con i miei: ed io, al mio rientro a casa, trovo un biglietto sul tavolo:
“suonerete con i Jethro Tull”: meglio del biglietto vincente della lotteria di
Capodanno! Si entra nei dettagli: Ian Anderson ha apprezzato il Cd italiano di
tributo ai Tull ( SONGS FOR JETHRO), aperto da una nostra versione
di Bourèe. Ma pone delle condizioni:
innanzitutto, non dobbiamo essere una cover band dei Jethro, ma un gruppo con
una discografia propria. E in effetti è proprio così. In secondo luogo, io non
posso suonare il flauto: Ian Anderson non vuole infatti altri gruppi che
suonino questo strumento, tanto peculiare per il suono e l’immagine dei Jethro
Tull, prima che sia lui a salire sul
palco. La cosa mi sembra comprensibile, e per noi non è un problema: di fatto
sono pochi i brani nei quali, dal vivo, utilizzo il flauto: dopo che Benny
Torrisi (tastiere) ha lasciato i Malibran insieme a Giancarlo Cutuli (flauto e
sax) nel 2001 io, oltre a cantare, con la chitarra devo anche coprire i vuoti
lasciati dai due “transfughi”. E dunque sarà sufficiente non mettere in
scaletta alcuni brani. Ecco però in arrivo un altro guaio: Alessio, il nostro batterista (nonché mio
fratello) quel giorno potrebbe non essere disponibile, e cominciamo a
considerare l’ipotesi di un sostituto. Ma come? Eravamo in sei e adesso
diventiamo in tre (io, Jerry Litrico alla chitarra e Angelo Messina al basso),
più un batterista “esterno” che non conosce i nostri pezzi? E questo proprio
nell’occasione più importante? Comunque la cosa si risolve: Alessio ci sarà, e
si comincia ad entrare nei dettagli tecnici: noi dovremo suonare 40 minuti e
lasciare il palco ad una certa ora. Non potremo usare la strumentazione dei
Jethro Tull, dal momento che verremo solo collegati all’impianto principale.
Dunque il mio amico Riccardo Nicoloso, che ha un service, mi presterà i
microfoni, mentre Ignazio Schirone (un altro amico) sarà al mixer per noi. In
cambio chiede solo se sarà possibile far entrare sua moglie senza farla pagare:
giro la richiesta, che mi viene accordata. Per Ian Anderson, la band, il loro
storico tour manager Kenny Wylie e per quello italiano è tutto ok, la cosa si
farà. Noi ci limitiamo a fare una sola, normale prova, avendo conferma che il
nostro show funzionerà anche senza il flauto. Sul giornale «La
Sicilia» esce un paginone tutto dedicato
a questo concerto, che abbina i siciliani Malibran e i leggendari Jethro Tull,
con belle foto a colori e biografie di entrambi i gruppi. Ma, appena un paio di
giorni prima della data tanto attesa, ecco una laconica e-mail da parte del
tour manager italiano, che mi comunica
quanto segue: “per motivi tecnico-burocratici non potrete suonare con i
Jethro Tull”. Non capisco: era tutto definito nei minimi dettagli, c’era l’ok
di Ian Anderson e di tutto l’entourage della band, e adesso non possiamo
suonare? Chiamo il tour manager italiano, poi anche l’organizzatore dell’evento
a Palermo. E mi sento dire, addirittura, che se suoneremo noi, non suoneranno
neanche i Jethro Tull! Alla fine si scopre che l’agenzia Blue Sky, purtroppo,
aveva pensato più che altro al benestare di Ian Anderson, ma non a comunicare
la partecipazione dei Malibran agli organizzatori di Palermo, i quali avevano
probabilmente saputo della cosa proprio dal giornale, sentendosi “scalzati”, e
senza essere in possesso della necessaria documentazione (EMPALS, ecc.)
riguardante noi. Otteniamo solo il contentino di assistere gratis al concerto
dei Jethro Tull, che si svolge senza alcun gruppo di apertura. Ci andiamo
comunque con il macchinone di Jerry, e
arrivati sul posto (dove vedrò Steve Hackett l’anno seguente) sento Aldo
Tagliaferro al telefono: lui è lì, ma non riusciamo ad incontrarci. Riesce comunque
a farci entrare senza pagare (e vorrei vedere). Il bello è che un tipo seduto
davanti a me si lamenta del fatto che non c’è un gruppo ad intrattenere il
pubblico in attesa dei Jethro Tull! Solo quattro giorni prima loro avevano
effettuato le riprese per il Dvd LIVE AT MONTREUX. Scherzando, quando qualcuno mi
chiedeva se non fossi emozionato per il fatto che avremmo suonato insieme al
mitico gruppo di Ian Anderson, io rispondevo che sarei stato soddisfatto solo
quando i Jethro Tull avessero fatto da gruppo spalla a noi. Ad ogni modo sul
quotidiano del giorno dopo scrivono che i Malibran avevano suonato prima dei
Jethro Tull. Ma come li scrivono certi articoli? Da casa? E’ vero, noi
c’eravamo: ma tra il pubblico! Personalmente, in seguito, ho davvero suonato
prima di Ian Anderson a Novi Ligure, nel 2006, nel corso della Convention
annuale di “Itullians”. La nostra versione di Bourèe si sentiva in diffusione: come accennato apriva il Cd di
tributo ai Jethro Tull intitolato SONGS FOR JETHRO, pubblicato nel 2000 e
apprezzato da Ian Anderson, che dunque aveva ascoltato i Malibran appena
inserito il dischetto nel lettore: in quel disco su We Used To Know suonavano anche John Evan, Glenn Cornick e Clive
Bunker. Io ero a Novi Ligure per partecipare come flautista a due brani dei
Jethro (We Used To Know e Weathercock) in qualità di ospite del
cantante-chitarrista Andrea Vercesi. C’erano anche gli ex Tull Glenn Cornick,
Clive Bunker e Dave Pegg, più l’ex batterista dei Gentle Giant John Weathers.
Io mi intrattengo a lungo con Glenn, e mi faccio scattare qualche foto con lui
e Dave Pegg. Cornick portava di nuovo i capelli lunghi stretti da una bandana
raffigurante peperoni rosssi, ed era sempre amabile e sorridente. Tempo prima,
quando abitava in California, gli avevo spedito materiale dei Malibran e il
live dei Jethro Tull a Stoccolma ’69 che avevo fatto rimasterizzare in versione
stereofonica.Tutti loro avrebbero suonato in serata, su un palco più grande.
Sempre a proposito dei Jethro Tull, vorrei concedermi qualche considerazione a
proposito di Jeffrey Hammond, il bassista del loro periodo 1971-1975, vecchio
amico di Ian Anderson prima ancora di entrare a far parte della band, che
decise poi, come detto, di abbandonare per tornare a dipingere. Ho letto più
volte che Jeffrey Hammond Hammon sarebbe stato un bassista “mediocre”: ebbene,
mi permetto di dissentire: ascolto musica, suono, e proprio non riesco a capire
questo giudizio: quelli erano gli anni nei quali la band si sbizzarriva nelle
composizioni più difficili ed articolate: nessun bassista “mediocre”, pur non
componendo in prima persona quelle partiture, avrebbe potuto eseguirle. E non
solo in studio, ma anche dal vivo. La sola A PASSION PLAY, suite lunga un intero album,
era complicatissima da ricordare e suonare tutte le sere, senza una parte che
si ripetesse due volte, con una infinità
di note, stacchi e passaggi
articolati. Eppure Jeffrey suonava tutto
questo con disinvoltura ad ogni concerto, nonostante si muovesse come un pazzo
sul palco, correndo su e giù e incrociandosi di continuo con Martin Barre:
perché, proprio in quegli anni non era più il solo Ian fare lo show, bensì
tutti e cinque i Jethro Tull, impegnati a saltellare a destra e a sinistra come
indemoniati. E con Jeffrey che esibiva con abiti di scena, basso e contrabbasso
tutti a strisce bianche e nere durante il tour ’74 -’75. Bassista mediocre?
Anche il basso del disco WARCHILD è strepitoso. Così come quello di THICK
AS A BRICK. E che
dire di MINSTREL IN THE GALLERY? Tutti ricordano che quest’ultimo suona quasi come un album
“solo” di Ian Anderson nelle sue parti più acustiche. Ma in quelle elettriche? Black Satin Dancer, Cold Wind To Valallah
e la stessa Minstrel in The Gallery sono tra i brani più potenti che i Jethro Tull
abbiano mai registrato, con un suono di basso e batteria poderoso. Bassista
mediocre? Per qualunque grande bassista di oggi non sarebbe affatto facile
suonare quei brani, facendo anche spettacolo sulla scena. La verità è che i
primi tre bassisti dei Jethro Tull, Glenn Cornick, Jeffrey Hammond e John Glascock
sono stati tutti musicisti meravigliosi e personaggi incredibili.
MALIBRAN IN
USA
Tornando ai Malibran, partiamo per gli USA dall’aeroporto di
Catania i primi di ottobre del 2000: lì trovo Carmen Consoli, che va a suonare
a Bari: ci conosciamo da anni, andavo spesso a casa sua e ora la riprendo un
po’ con la mia videocamera, facendole una finta intervista. Lei, come sempre,
mi chiama “Scaravilli”. Poi la lascio a farsi le foto con un nugolo di
ragazzine. C’è anche un mio ex compagno di banco del Liceo che parte per il
viaggio di nozze. Tra andata e ritorno, per suonare negli States, dobbiamo
prendere sei voli (Catania-Roma-Newark-Raleigh, e poi
Raleigh-Newark-Milano-Catania). Ma è bello attraversare l’Atlantico per andare
a suonare la propria musica. E venendo pagati per questo! Jerry porta con sé
moglie e figlia di sette mesi (il che non contribuisce certo a conferirci un
aspetto molto rock). Lui, Giancarlo (fiati) e Angelo (basso) sono gli unici a
partire con i propri strumenti personali, mentre io e gli altri utilizzeremo
quelli che troveremo in America. Per arrivarci voliamo per nove ore
sull’Oceano. A bordo guardiamo pure un film. Quando arriviamo fa un gran caldo,
e quelli del “ProgDay Festival” vengono a prenderci per trasferirci in hotel.
Il palco è collocato in un ampio prato verde. Il posto si chiama “Storybook
Farm”, ed è a Chapel Hill, vicino Raleigh, in North Carolina. La gente,
proveniente da vari Stati, ascolta i gruppi che si alternano, provenienti da
varie parti del mondo (anche dall’India e dalla Svezia); oppure passeggia
sull’erba e compra qualche Cd negli stand sparsi qua e là. Qualcuno ci conosce
e ci chiede un autografo. Noi ci sdraiamo sul prato, chiacchierando con
Leonardo Pavcovich, che due anni dopo
porterà la PFM in Giappone (comparirà anche sul loro Dvd LIVE
IN JAPAN), e verrà
ringraziato al microfono da Franz Di Cioccio). C’è un bel sole, ma per il
giorno dopo (quando toccherà a noi) è previsto un peggioramento: gli
organizzatori chiedono alle band se preferiranno suonare in un luogo chiuso, ma
tutti rispondono di no. Il giorno dopo, in effetti, il clima è completamente
cambiato: dall’estate all’inverno in 24 ore! Freddo, giubbotti, cappucci in
testa e cioccolate calde. Senza la nostra strumentazione noi non abbiamo
neanche un gran suono, e fa talmente freddo che il basso si scorda in
continuazione; mentre io, dopo qualche pezzo, mi vedo costretto ad indossare il
giubbotto. Suoniamo Key Intro, On The
Lightwaves, Si Dirà di Me, La Città sul Lago, Nuvole di Vetro, Malibran e
Prelude. Naturalmente il sottoscritto deve
anche parlare in inglese al microfono, improvvisando sul momento per
presentare i brani, i componenti del gruppo, e ringraziando per gli applausi
dopo ogni pezzo. Belle le parole con le quali Peter Renfro introduce il nostro
show, dicendo: «Ho imparato nel corso degli anni
che non si hanno mai troppi gruppi italiani in un prog festival. Questi
meravigliosi musicisti vengono qui fin dalla Sicilia. Diamo dunque il benvenuto
a questa band per la sua prima performance in America: Malibran!». Il giorno dopo andiamo a New York, questa volta in veste di
semplici turisti: saliamo in cima all’Empire State Building, entriamo nelle
Twin Towers (senza immaginare che verranno giù meno di un anno dopo), vediamo a
distanza la Statua della Libertà, il Madison Square Garden e il Radio City
Music Hall. Per pura coincidenza incontriamo i Mary Newsletter, l’unico gruppo
italiano presente al festival oltre noi. E anche (ci eravamo divisi) mio
fratello Alessio e l’amico Alfredo (che vendeva i nostri Cd mentre noi
suonavamo) al Central Park. Un tassista sudamericano, anche lui musicista, ci
porta in giro: riesco a comunicare con lui utilizzando un mix tra l’inglese e
lo spagnolo parlato dai messicani nei fumetti di Tex Willer! Il tipo si
dimostra una grande persona: dopo averci
lasciati all’aeroporto, mentre il nostro volo per il rientro a casa sta
per partire, Jerry si accorge di aver dimenticato la sua chitarra sul taxi. Ma
il tassista, invece di tenerla per sé, appena si accorge di avere lo strumento
in macchina, fa il giro dell’aeroporto e riesce a raggiungere Jerry, che frattanto
correva di qua e di là, cercando
disperatamente di contattarlo (ci aveva lasciato il suo numero di telefono).
Alla fine l’incontro e l’abbraccio fra i due è quasi commovente!
BANCO DEL MUTUO
SOCCORSO E MALIBRAN
Il 29 agosto 1999 i Malibran hanno diviso il palco con il
Banco del Mutuo Soccorso. La data avrebbe dovuto in verità essere solo nostra:
con più tempo per noi e un compenso maggiore. Ma mi era stata offerta
l’occasione di suonare insieme ad un gruppo di rilievo, ed io, che avevo sempre amato il Banco,
conoscevo anche qualcuno a Roma che avrebbe potuto portarmi fino a loro: dunque
non avevo avuto dubbi nella scelta. In effetti, tramite questa persona (Aldo
Pancotti) riesco a tessere la tela che
renderà fattibile quello che un tempo avrei creduto irrealizzabile: poco tempo
dopo, eccomi al telefono con il manager del Banco Del Mutuo Soccorso. E,
successivamente, con Vittorio Nocenzi e Rodolfo Maltese, che sono in macchina:
la cosa è quasi surreale, perché parliamo come se ci conoscessimo già. «Ti passo Vittorio» mi dice Rodolfo. Ed ecco quella
voce bassa e pastosa: la stessa che recitava: «Lascia
lente le briglie del tuo Ippogrifo, O Astolfo»
all’inizio del primo disco del gruppo (1972). Con la piccola differenza che
adesso sta parlando con me, mentre io sono a casa. La cosa ancora più strana è
che io, forse proprio per la cordialità e la semplicità con la quale Vittorio
mi parla, non mi sento emozionato, e comunico con lui e Rodolfo come se fossimo
amici e colleghi da anni. Ci risentiamo,
e parliamo dell’aspetto tecnico del concerto: naturalmente suoneremo prima noi,
e Vittorio Nocenzi mi chiede se sarà possibile fargli trovare reggi-tastiere e
sgabello. La mattina del 29 andiamo a prenderli all’aeroporto, io e Giancarlo
dei Malibran, più l’amico Ignazio, che si presta gentilmente ad ospitare
qualcuno della band nella sua macchina. Io avevo già conosciuto Rodolfo Maltese
prima del concerto del Banco alle Ciminiere di Catania nel 1997. In
quell’occasione lui era rimasto un po’ sorpreso quando lo avevo anticipato,
dicendo di sapere della loro esibizione al teatro Malibran di Venezia del 1975
davanti a Keith Emerson. Ma non credevo che mi avrebbe subito riconosciuto, due
anni dopo. E invece, appena mi vede, all’aeroporto di Catania, il suo volto
barbuto si illumina in un ampio sorriso, e alza un braccio per salutarmi,
segnalandomi così che sono arrivati. Poco prima avevano suonato in Messico,
accolti come star. Qui nessuno ci importuna ed io, oltre a parlare con loro e
con Carlo Di Filippo, il loro fidato fonico (eccezionale il suono di NUDO, nella parte live registrata a
Tokyo), mi metto pure a fare le riprese con la videocamera, indovinato regalo
di Laurea. Chissà perché, temo che Vittorio Nocenzi possa infastidirsi. E
invece, mentre lo inquadro, lui saluta sorridente! Fa un gran caldo, e mentre
viaggiamo in macchina alla volta di Belpasso (dove si suonerà la sera stessa),
il cielo è azzurro. Li lasciamo a riposare in un albergo del paese, rimanendo a
conversare ancora un po’ nella hall. Francesco Di Giacomo mi racconta di quando
suo suocero gli diceva: «Si,
vabbè, ho capito, tu suoni…ma di mestiere…che fai?».
Come se la musica non potesse essere anche un lavoro. Solo quando aveva
realizzato che lo stesso Francesco si era comprato una casa con i proventi di
quel “passatempo” si era finalmente reso conto che di musica si poteva anche
vivere. Frattanto io ricordavo quando, da piccolo, avevo visto il Banco in Tv,
apprendendo il nome del cantante dalla sua stessa voce, al microfono:
presentando uno per uno i componenti del gruppo, lui aveva concluso infatti
dicendo: «Ed io, Francesco Di Giacomo».
Doveva essere più o meno il 1980, e Rodolfo suonava anche la tromba. Adesso, a
Belpasso, “Big” Francesco indossa una maglietta nera con la copertina del disco
in cui si vede lui stesso lanciare per aria una scarpa (BANCO, del 1975, con i testi in
inglese di brani del primo e terzo disco, edito dalla Manticore degli ELP): un
ricordo della allora recente trasferta messicana. In seguito, nel 2006, prima
di un loro concerto a Cittanova (in Calabria) mi racconterà invece di essersi
ritrovato ad alloggiare in un postaccio senza doccia, vedendosi costretto a
lavarsi con un secchio d’acqua! Sempre nel 2006 con i Malibran saremo di nuovo
in cartellone insieme al Banco al festival
di Andria, anche se loro suoneranno la sera dopo, mentre noi divideremo il
palco con Il Balletto di Bronzo. Ad ogni modo,
in quell’estate del 1999 torno a casa e mi riposo. Nel pomeriggio, ecco
la sorpresa: brutto tempo. Ma come, di mattina il sole spaccava le pietre e
adesso, a poche ore dal concerto, si mette a piovere? Non solo: è arrivato il
camion con tutta la loro strumentazione, e ha trovato il palco recintato da
assi di legno, che impediscono di scaricare il tutto. Mi chiama il manager da
Roma e mi intima che, se il palco non sarà accessibile, il Banco non suonerà.
Giusto per stare tranquilli. Così contatto un addetto del Comune che conosco,
il quale, per fortuna, riesce a far rimuovere quei pannelli. Il tempo è ancora
incerto, ma adesso non piove, e porto Francesco Di Giacomo ad un bar non
lontano dalla piazza dove in serata terremo il concerto: vuole prendere dei
dolci tipici da portare a casa. E nel frattempo mi racconta un sacco di cose.
Anche che, mentre suonava in un locale in Germania (presumo con Le Esperienze)
ha conosciuto un tipo chiamato Richie Blackmore. Il tutto prima della nascita
sia del Banco che dei Deep Purple. Mi manifesta stima nei confronti di Piero
Pelù, mentre torniamo dal bar alla mia macchina. Ed è in quel momento che noto
un particolare cui non avevo fatto caso, vedendolo solo sul palco: trascina un
piede. Inoltre non è più grosso ed imponente come una volta. Un’immagine che mi
aveva colpito fin da bambino. E che anche mio padre riconosce, pur ascoltando
esclusivamente musica classica: vede l’immagine di Francesco e dice: «Banco».
Anche mio padre li vedrà, quella sera. E alla fine commenterà dicendo,
semplicemente, che il paese neanche se lo sarebbe neanche meritato un gruppo di
quel livello. D’altro canto io sento anche alcune ragazzine lamentarsi
confabulando tra loro: «Ma chi sono questi? Non potevano
portare Nek?». Peggio in un’altra occasione,
a Centuripe: Banco Del Mutuo Soccorso in azione sul palco, e altre ragazze a
strillare: «Respiri piano per non far
rumore…». Quella è stata l’unica volta
in cui ho visto Francesco, davvero stizzito, voltarsi verso Vittorio Nocenzi e
sbottare in un: «A
Vittò…». A Belpasso, invece, l’unico
problema può essere rappresentato da un’eventuale acquazzone, dal momento che
il cielo non promette niente di buono. Comunque io sono sul palco e filmo sia
le prove del Banco che Francesco Di Giacomo mentre si intrattiene con alcuni
estimatori del posto, compreso qualche amico mio. Anche a Cittanova 2006
riprenderò le loro prove, oltre a parlare con Tiziano Ricci (il bassista) del
loro show pomeridiano al concerto del 1°
maggio 2002 in Piazza S. Giovanni, a Roma, con Morgan e John De Leo come
ospiti. A Cittanova avevo anche consegnato a Francesco Di Giacomo un Cd
contenente una mia versione del loro brano Canto
di Primavera, e poi avevo filmato tutto lo show, che si sarebbe aperto con Metamorfosi. E che dunque avrebbe visto
Francesco entrare in scena solo dopo dieci minuti di musica esclusivamente
strumentale. Avevo parlato con lui già dopo un concerto del Banco nel 1991,
mentre mi facevo fare un autografo per me e la band: e a quel punto lui mi
aveva chiesto: «Ma tu lo sai chi era la
Malibran?», riferendosi alla cantante
d’Opera dell’Ottocento, aggiungendo con accento romanesco: «E
pare che morì cadendo da cavallo…Ah, se allora ce fossero stati i taxi…».
All’interno del teatro Nino Martoglio di Belpasso ci cambiamo, sia noi che i
componenti del B.M.S: i camerini sono diversi, ma le porte non sono chiuse e
possiamo anche guardarci a vicenda, senza problemi. Quando mi ritrovo sul
palco, so che suonerò la chitarra utilizzando l’amplificatore di Rodolfo
Maltese, mentre Alessio suonerà la batteria di Maurizio Masi. Dovevamo essere
noi a prestare qualcosa al Banco, e invece sta succedendo il contrario! Anche
noi riusciamo comunque ad essere loro d’aiuto: proprio per il bis finale (Non Mi Rompete) Rodolfo Maltese ha
bisogno del capotasto per la chitarra, ma non lo trova: chiede se ne abbiamo
uno noi, e Jerry gli presta subito il suo. Rodolfo è salvo! Dietro di me
Vittorio Nocenzi mi sollecita a partire immediatamente con il nostro show: se
piove prima che cominci il concerto, nessuno verrà pagato. Così iniziamo,
praticamente senza fare soundcheck. Del resto mi fido di Carlo Di Filippo al
mixer. La piazza è piena, ma non quanto avrebbe potuto esserlo se il tempo
fosse stato migliore. Laura, la mia ex ragazza, vorrebbe fare le riprese con la
mia videocamera, ma quest’ultima è chiusa in macchina, e non ho il tempo per
cercare le chiavi: attacchiamo, e suoniamo bene. Durante la parte finale della
nostra On the Lightwaves, sul tempo dispari, con Jerry
che si scatena nel suo assolo, intravedo Vittorio Nocenzi, accovacciato dietro
di noi, che gode come un pazzo muovendo la testa a tempo ed agitando i capelli,
invece di starsene nascosto: un grande. A fine concerto sarà lui a salire sulla
mia macchina per andare a mangiare qualcosa nel pub poco più sopra della
piazza: si congratula con noi, parla bene di Jerry, aggiungendo che siamo tutti
bravi. Detto da lui, devo crederci per forza. Mentre suonavano loro, invece, io
cantavo tutte le canzoni insieme a Laura: bellissimo! Al tavolo del pub, nel
cortile interno, sono con Vittorio alla mia destra e Rodolfo di fronte: dunque
parlo a lungo con entrambi. Rodolfo è una splendida persona, e non mi nasconde
la sua gioia per il privilegio di poter vivere facendo della sua passione (la
musica) il suo lavoro. Tempo dopo mi invierà i suoi auguri di Natale. Purtroppo
adesso anche Rodolfo ci ha lasciati. Al pub non mangiamo molto, perché a
quell’ora la cucina del locale è ormai chiusa. Ci rifaremo l’anno dopo: io e
Giancarlo andremo a vedere Francesco cantare pezzi dei Beatles (e qualcosa del
Banco) a Caltanissetta, accompagnato da un semplice duo acustico (compreso
Rodolfo Maltese): alla fine dello show, gentilmente, Di Giacomo ringrazierà i
Malibran al microfono. E questa volta ceniamo insieme come si deve, parlando di
musica e di qualsiasi altra cosa. E’ in questa occasione che lui sbotta in un
simpatico: «E mò basta cò stò Darwin, vojo
cantà Papaveri e papere!». La sua ironia era proverbiale:
persino alla segreteria telefonica della casa di Zagarolo la sua voce
rispondeva: «Mi materializzo solo in alcuni
momenti del giorno…evidentemente questo non è quello giusto». Due anni dopo, Il 6 luglio del 2002, per celebrare il 30°
anniversario del gruppo, presso l’Ippodromo delle Capannelle di Roma il Banco
registrerà NO PALCO,
ospitando tra gli altri Gianni Nocenzi e Mauro Pagani. Durante il Festival di
Sanremo del febbraio 2014, quando Fabio Fazio comunica in diretta che Francesco
era scomparso nel corso di quella stessa giornata (un malore mentre guidava,
con conseguente incidente stradale), io avevo appena spento la Tv mettendomi a
dormire, e apprendo il tutto la mattina dopo: é stato come aver perso un
parente. Il pubblico dell’Ariston, alla notizia, si era alzato in piedi ad
applaudire, mentre veniva mostrata una sua immagine. Vittorio, che lo aveva
visto poco prima, viene a conoscenza del fatto attraverso una telefonata, e in
un primo momento aveva pensato ad uno scherzo. “Non mi svegliate, ve ne prego,
ma lasciate che io dorma questo sonno”, sembrava invece cantarci già da altri
luoghi Francesco Di Giacomo, soprannominato da quanti gli erano più vicini
“Capitano, mio capitano” (dal film L’attimo
fuggente). Il Banco deciderà di proseguire perché, citando ancora una loro
canzone, quel progetto è “Un’idea che non puoi fermare”. Ma arriveranno i guai
di salute di Vittorio (emorragia celebrale), che interromperanno il tour del
2015. Avevo preso il biglietto per la data di Catania, che verrà annullata.
Nocenzi viene a sapere della scomparsa di Rodolfo Maltese, già in cattive
condizioni di salute, dal suo fisioterapista. Il gruppo ha ripreso la propria
attività avvalendosi di un nuovo cantante. Nel 2019 il Banco del Mutuo
Soccorso, con Vittorio di nuovo in forma, ha firmato un contratto discografico
con la prestigiosa label tedesca Inside Out (che annovera tra i suoi artisti
Steve Hackett, Dream Theater e Ian Anderson) per la pubblicazione del nuovo lavoro
intitolato TRANSIBERIANA.
VAN DER GRAAF
GENERATOR
Pur essendo parte a tutti gli effetti del cosiddetto
“progressive rock”, i Van Der Graaf Generator hanno sempre fatto semplicemente
musica dei Van Der Graaf Generator: cupa, articolata e priva dei testi dalle
atmosfere fiabesche che caratterizzavano gli altri gruppi quali Genesis e Yes.
Esordirono nel 1968 con il singolo People
You Were Going To, quando la loro formazione, nata a Manchester, vedeva
Peter Hammill alla voce, Judge Smith alla batteria e Keith Ellis al basso. Il
generatore di Van Der Graaf (scritto in realtà “Van de Graaff”), da cui la band
prese il nome, era uno strumento in grado di generare una forte tensione
elettrostatica. Arrivarono Guy Evans
alla batteria (che sostituì il fondatore del gruppo, Smith) più Hugh Banton
alle tastiere e la band, dopo essersi sciolta a metà del 1968, registrò il
nuovo singolo Afterwards / Necromancer.
Il primo Lp, THE AEROSOL GREY MACHINE (1969) avrebbe dovuto essere pubblicato come disco solista
del giovane cantante (nonché chitarrista e pianista) Peter Hammill, ma, alla
fine, uscì a nome del gruppo, anche se solo negli USA. Per anni, in Italia, si
nutrirono anche dubbi se questo lavoro esistesse davvero, e divenne reperibile
solo nel 1974. Conteneva in ogni caso ottimi brani, quali la citata Afterwards in apertura, Running Back e Aquarian. Sull’album successivo (THE LEAST WE
CAN DO IS WAVE TO EACH OTHER,
1970) al bassista Keith Ellis subentrò Nic Potter e, soprattutto, il
sassofonista e flautista David Jackson, che divenne una sorta di icona non solo
sonora, ma anche visiva della band, con la sua caratteristica di suonare due
sax elettrificati contemporaneamente, seminascosto dai capelli lunghi che
venivano fuori da un berretto di pelle con visiera. Sulla copertina del disco
si poteva vedere il sopracitato generatore elettrostatico, mentre la sofferta Refugees sarebbe divenuta un classico
del gruppo per gli anni a venire. Era ancora il 1970 quando venne dato alle
stampe il terzo album, intitolato H TO HE, WHO AM THE
ONLY ONE, con
l’abbandono di Nic Potter, che registrò solo Killer, Lost e The Emperor in
His War Room, sulla quale venne sovraincisa la chitarra di Robert Fripp. I
VdGG non lo sostituirono, utilizzando per le frequenze basse i pedali
dell’organo di Hugh Banton, che suonava anche il basso elettrico sugli altri
pezzi del disco, tra i quali la struggente
House With No Doors: Nic Potter sarebbe scomparso nel 2013, mentre al suo
predecessore Keith Ellis Peter Hammill avrebbe dedicato il suo brano Not for Keith. Seguì il lavoro della
maturità, intitolato PAWN HEARTS (1971), composto da soli tre
brani: Lemmings, Man-Erg e A Plague of Lighthouse Keepers, benché
inizialmente concepito come album doppio (gli altri pezzi, pubblicati in
successive ristampe, erano: Squid One /
Squid Two / Octopus, Ponker’s Theme, Diminutions e Angle of Incidents).
Troviamo qui la formazione classica dei Van Der Graaf Generator, che schierava
Hammill, Banton, Jackson e il funambolico batterista Guy Evans. Come detto, il
bassista Nic Potter aveva lasciato la band. Ma, curiosamente, durante un
concerto i bass pedals di Hugh Banton non funzionarono: Nic era tra il pubblico
e venne chiamato sul palco dai suoi vecchi compagni, per una serata ancora
insieme. Il brano Killer (tratto da H
TO HE) fece furore
soprattutto in Italia. I VdGG, come accennato, rappresentavano l’attrazione
principale del “Six Bob Tour” del gennaio-febbriaio 1971, che portava in giro
per il Regno Unito sia loro che Audience e Genesis (ai quali si era unito da
poco Steve Hackett). La loro musica alternava momenti di caos ad altri molto
melodici, se non addirittura strazianti. E a Peter capitava davvero di avere le
lacrime agli occhi, mentre cantava con le cuffie in sala di registrazione. Per
il resto la sua voce, a volte soffusa, veniva più spesso travolta da un’enfasi
rabbiosa, con vocalizzi lunghi e
potenti, in grado di mandare in frantumi i bicchieri. Il punto era comunque che
si trattava di un gruppo rock che suonava dal vivo senza né la chitarra
elettrica né il basso (una specie di contraddizione in termini), ma capace di
sprigionare ugualmente un fragore e un impatto mai uditi prima. Lo stesso
Jackson, quando imparò a collegare i suoi sax all’impianto di amplificazione,
rimase impressionato dalla potenza che riusciva a sprigionare con i suoi
strumenti, facendo quasi fatica a gestire e a controllare quei suoni,
utilizzando gli effetti a pedale dei chitarristi (distorsore compreso)
collocati nel cinturone che teneva stretto alla vita. Anche per loro il grande
successo arrivò in Italia con l’album PAWN HEARTS, primo in classifica nel marzo
del 1972: come detto il disco conteneva solo tre brani, ma uno di questi era la
lugubre suite A Plague of Lighthouse
Keepers: una lunghissima cavalcata sonora ricca di stacchi, cambi di
dinamiche e indovinati chiaro-scuri. Quando la ascoltarono per la prima volta
dall’inizio alla fine, al buio, alle due di notte, Peter disse che a quel punto
avrebbe anche potuto morire. Per motivi tecnici, però, i Van Der Graaf non
misero mai in scaletta questo lungo brano, se non durante l’apparizione alla Tv
Belga del 1972, decidendosi a proporla dal vivo solo nel corso della tournée
del 2013. Durante il loro primo tour italiano del febbraio 1972, mentre si
recavano verso il luogo presso il quale avrebbero esordito (il Teatro Massimo
di Milano), videro una folla enorme e chiesero dal finestrino cosa accidenti
stesse succedendo. “Suonano i Van Der Graaf Generator!” fu la risposta. Non se
lo aspettavano. Come già nel caso di Genesis e Gentle Giant, fu dunque nel
nostro Paese che raccolsero i primi grandi consensi. Anche il singolo Theme One (1972) spopolò in Italia. Si
trattava in realtà di una cover: un frizzante brano sinfonico di George Martin
(il produttore dei Beatles) che svegliava il gruppo ogni mattina mentre
viaggiava al ritorno dai concerti, essendo la sigla di un programma radiofonico
della Bbc. David Jackson era alla guida, alle sei partiva questo pezzo, e i
suoi compagni aprivano gli occhi e cominciavano a cantarlo tutti insieme. Lo
eseguirono per divertimento durante un soundcheck, e da lì nacque l’idea di
inciderne una loro versione. Sul disco Hugh Banton registrò l’inizio del brano
suonando un vero organo da chiesa. Dal vivo il pezzo, simile a un inno, veniva
utilizzato spesso come festosa chiusura degli show, con Peter Hammill impegnato
a scatenarsi correndo per il palco o salendo sulle casse dell’amplificazione. I
concerti del maggio 1972 vedevano in
scaletta White Hammer, Darkness,
Lemmings, Man-Erg, W, Killer, Lost, Octopus, Aquarian, After the Flood e
appunto Theme One, con un crescente
successo di pubblico e critica. Quel mese la band tornò in Italia, esibendosi
anche al Festival di Villa Pamphili. Nonostante ciò nell’agosto di quello
stesso anno i VdGG decisero di sciogliersi, per motivi rimasti piuttosto
oscuri. Peter Hammill spiegò in qualche modo il perché di quella decisione
inaspettata ad Armando Gallo sulle pagine del nostro «Ciao
2001» e proseguì con la sua carriera
solista. Nel dicembre del 1972, a seguito di un’idea dello stesso Armando, aprì
i concerti de Le Orme, mentre David Jackson, l’anno successivo, accompagnò in
tour un Alan Sorrenti non ancora “figlio delle stelle”. Nel 1974 Peter Hammill
fece da open act per i concerti canadesi dei Genesis durante il loro “Selling
England by the Pound Tour”, e in seguito i suoi figli sarebbero andati a scuola
insieme a quelli di Peter Gabriel. Nei lavori solisti di Hammill, comunque, gli
altri componenti della band continuavano a partecipare, unendosi a lui anche
dal vivo in qualche occasione. In Italia, spesso, quando ad Hammill si
aggiungeva come ospite qualche altro ex della band (di solito David Jackson),
per attirare il pubblico sui manifesti veniva riportato che si trattava di un
concerto dei Van Der Graaf Generator. Il primo lavoro di Peter Hammill, FOOL’S
MATE (1971),
ospitava (tra gli altri) tutti i componenti dei VdGG e Robert Fripp. Nel 1973
il gruppo si ritrovò in un locale romano suonando per divertimento musica che
non aveva nulla a che vedere con quella del vecchio “generatore”. Quello stesso
anno Banton, Jackson, Evans e Potter incisero il lavoro strumentale THE
LONG HELLO, dato
alle stampe in Italia l’anno dopo. Nel dicembre del 1974 il quartetto originale
dei VdGG partecipò alla registrazione di tutti i brani dell’album solista di
Peter Hammill intitolato NADIR’S BIG CHANGE, pubblicato all’inizio
dell’anno successivo. Infine il gruppo tornò effettivamente insieme, sia su
disco che in tour: nel giro di 18 mesi uscirono GODBLUFF (1975), STILL
LIFE (1976) e WORLD
RECORD (ancora
1976). I quattro componenti della band si erano rivisti già alla fine del 1974,
decidendo di provare in un edificio di Norton Canon i brani tra i quali
scegliere quelli per il nuovo disco, tra il gennaio e l’aprile del 1975. Il
tour di GODBLUFF (contenente solo quattro
titoli) vide il suo esordio in Galles
nel maggio di quello stesso anno: dalla nuova setlist si decise subito di
escludere Killer (nonostante le
continue richieste del pubblico italiano), alternando invece i pezzi del nuovo
lavoro ad alcuni dei dischi solisti di Peter Hammill. Vennero inoltre proposti
in anteprima La Rossa e Pilgrims (pubblicati sul successivo STILL
LIFE). Dei brani
vecchi venivano suonati solo Lemmings
e Man-Erg. I primi due estratti di
GODBLUFF, The Undercover Man e Scorched Earth, essendo uniti insieme,
diedero l’impressione di essere una nuova suite: si trattava invece di due
pezzi distinti. Il titolo del disco proveniva dall’ironica risposta che la band
dava a quanti domandavano che tipo di musica proponessero (“Un bluff di Dio”).
Adesso Peter Hammill suonava anche la chitarra elettrica, e compariva in scena
indossando una sorta di kimono. La nuova Arrow
era l’unica canzone a vedere Hugh Banton non seduto all’organo, bensì in piedi
impegnato al basso elettrico, mentre Black
Room, pur pubblicata dal Peter Hammill solista, era in realtà un brano dei
Van Der Graaf Generator precedente lo scioglimento del 1972. La sopracitata Pilgrims, che apriva STILL
LIFE, era un brano
prima quieto e poi maestoso, che si chiudeva in maniera magniloquente, con il
sax impegnato a riprendere il refrain cantato. La title track si
contraddistingueva invece per la voce
bassa, intensa e struggente del vocalist, accompagnata solo dall’organo, e
interrotta da un intermezzo più concitato, nel quale faceva ingresso tutta la
band. Il successivo tour di WORLD RECORD, con un Peter sempre vestito
tutto di bianco, portò il gruppo per la prima volta in Canada e negli States: lo
show del 18 ottobre 1976 al Beacon Theatre di New York prevedeva la seguente
setlist: When She Comes, Lemmings, La
Rossa, Arrow, Still Life, Killer, Meurglys III, Gog, The Sleepwalkers, Man-Erg e Masks. Le prove per il disco erano
state effettuate a Headley Grange, lo stesso edificio del Settecento presso il
quale i Led Zeppelin avevano registrato il loro quarto album, e i Genesis
provato THE LAMB LIES DOWN ON BROADWAY. Il nuovo Lp si avvaleva delle nuove tastiere messe insieme
dallo stesso Hugh Banton, e conteveva pezzi d’impatto quali l’iniziale When She Comes e A Place To Survive. Venne inoltre realizzato un video per Wondering, l’epico inno che chiudeva il
lavoro. Il 28 agosto, in occasione del noto festival di Reading, Peter Hammill,
sempre vestito di bianco, annunciò che
avrebbero suonato La Rossa, ma
sopravvenuti problemi tecnici costrinsero il DJ John Peel a scusarsi con il
pubblico, mentre il pezzo fu sostituito da
Masks. Nell’occasione David Jackson sfoggiava una sorta di uniforme rossa,
senza per questo fare a meno del suo berretto di pelle con spillette e visiera.
Durante la tournée di WORLD RECORD vennero unite insieme le
lunghissime Meurglys III e
l’inquietante Gog: la prima faceva
parte del disco nuovo, si concludeva con una improvvisazione vagamente reggae e
prendeva il nome dalla chitarra elettrica di Peter Hammill, mentre la seconda
era tratta dal suo disco solista IN CAMERA (1974). Dopo questo breve ma
intenso tour de force di fatto il gruppo si scioglie di nuovo: per lo meno,
perde Banton, Jackson e anche la parola “Generator” dal proprio nome. Torna la
chitarra acustica di Hammill (abbandonata nel periodo 1975-1976), mentre il
violino di Graham Smith sostituisce il sax, con conseguente, inevitabile
mutamento del sound complessivo. Nel 1978 si aggiungerà anche il violoncello di
Charles Dickie. Il maestoso organo di Banton, ad ogni modo, in quella che era
ormai diventata l’era del punk, sarebbe risultato probabilmente fuori luogo.
Viceversa, Nic Potter, spesso presente sui dischi di Hammill, tornò a far parte
della band. Il sound del nuovo disco è potentissimo, con un fantastico suono di
batteria e un basso in distorsione. La voce di Peter Hammill diventa ancora più
rabbiosa, spiccando nelle vivaci Lizard
Play e Chemical World. Last Frame ha un inizio quieto, ma
diviene a sua volta impetuosa. I Van Der Graaf Generator manterranno negli anni
il loro felice rapporto con l’Italia: mentre sono in tour dalle nostre parti,
nel 1972, ascoltano volentieri in macchina gruppi rock italiani quali Banco,
PFM, Osanna e Le Orme: come detto, Peter Hammill aprirà in veste di ospite
proprio il tour de Le Orme nel dicembre di quello stesso anno, e nel 1973,
oltre a tornare a farci visita in veste da solista, curerà la versione inglese
del disco FELONA E SORONA delle stesse Orme. David Jackson vi aggiungerà anche un
sax, ma le sue registrazioni verranno sciaguratamente cancellate.
Paradossalmente, invece, lo stesso David Jackson, pur fuori dalla formazione del gruppo con violino e
violoncello, è presente su entrambi i dischi pubblicati dai nuovi Van Der
Graaf: i suoi strumenti a fiato, anche se poco e male, possono sentirsi infatti
sia sul disco in studio del 1977 (THE QUIETE ZONE / THE
PLEASURE DOME) che
in quello dal vivo del 1978 (VITAL): nel primo caso perché aveva
fatto in tempo a registrare qualche parte di sax prima di lasciare la band; nel
secondo per il fatto di aver partecipato in veste di ospite proprio a quel
concerto. Il gruppo riesce a conservare una sua credibilità pur con il cambiare
dei tempi: il cantante dei Sex Pistols, che usava esibire la maglietta con la
scritta “Odio i Pink Floyd”, verrà notato fare la fila per uno show dei Van Der
Graaf, mentre gli altri vecchi “dinosauri” del rock venivano massacrati o
dimenticati dalle nuove leve della critica musicale. Anche se, in verità, erano
sempre Pink Floyd, Genesis e Led Zeppelin a riempire gli stadi, e non certo i
Sex Pistols, i Damned o i Clash. Con tutto il rispetto, si intende. Su
VITAL, registrato il 16 gennaio 1978 al Marquee Club, il bel brano Mirror era un’anticipazione di quello
che avrebbe dovuto essere il lavoro successivo della band. Ad ogni modo anche
questa incarnazione del gruppo cessò la sua attività nello stesso 1978, tenendo
il suo ultimo show in occasione del festival all’aperto del 17 giugno in
Austria, ripreso dalla Tv. La carriera dei Van Der Graaf Generator sarebbe
ricominciata solo trent’anni dopo, nel 2005, con il nuovo disco intitolato PRESENT
e relativo tour,
nella classica formazione di PAWN HEARTS (io riuscirò a vederli a Roma e
a Taormina). Quello però è anche l’unico anno che vede David Jackson fare parte
della band: un buon documento che ci permette di seguire un intero concerto
nella formazione riunita insieme al sassofonista è quello di Leverkusen, in
Germania, il 5 novembre 2005 per Rockpalast, poco prima che Jackson lasciasse
la band: le telecamere immortalano in buona qualità video (e con audio stereo)
uno show simile a quello che aveva dato il via al tour il 6 maggio alla Royal
Festival Hall: inizio con The Undercover
Man unita a Scorched Earth, e
finale con Wondering, che vede David,
in camicia rossa e berretto di pelle, riprendere negli ultimi secondi gli
sbuffi di flauto con i quali era iniziato il primo brano dello show. Per motivi
mai chiariti del tutto i Van Der Graaf Generator proseguiranno fino ad oggi in
trio, rimanendo attivi, a volerci far caso, più in tempi recenti che negli anni
Settanta. I pochi filmati dei vecchi tempi che ci sono rimasti sono solo un
paio di brani eseguiti al Beat Club
nel 1970, qualche spezzone in bianco e nero al Bataclan di Parigi del marzo
1972, la mezz’ora alla Tv belga di pochi giorni dopo, i brani di
GODBLUFF suonati
dal vivo a Charleroi nel 1975 e poco altro del periodo 1977-1978. I due pezzi
filmati al Beat Club di Brema (Darkness e Whatever Would Robert Have Said?) mostrano un David Jackson ancora
sbarbato e senza berretto di pelle, un giovanissimo Nic Potter al basso, Peter
Hammill dai capelli lunghissimi in maglietta gialla e Guy Evans come sempre
curvo sulla batteria, mentre dall’oscurità emerge sullo sfondo l’illustrazione
del retro di THE LEAST WE CAN DO IS WAVE TO EACH OTHER, con la band raccolta su una
zattera dopo la tempesta (After the Flood).
I tre frammenti del Bataclan sono Lost,
Killer e Octopus. I due brani
ripresi dalla Tv belga sono Theme One e A Plague of Lightouse Keepers: sul
primo possiamo vedere la band scatenarsi senza Hammill, con un Guy Evans
devastante, assecondato da Jackson e Banton (il secondo in camicia rossa); la
suite vede al contrario protagonista
Peter Hammill, che, in conclusione del pezzo, si rivolge alla telecamera
per salutarci con un brindisi sollevando un calice di vetro, per poi alzarsi in
piedi e percorrere lo studio con un braccio levato, mentre i suoi compagni
conducono il brano al suo apocalittico finale. Il filmato di Charleroi ’75 ci
regala invece l’esecuzione dei cinque brani del nuovo
GODBLUFF: l’inizio
con le note staccate di flauto per The
Undercover Man, Arrow (la sequenza non è dunque la stessa del disco), Scorched Earth e The Sleepwalkers.
Quest’ultimo è l’unico pezzo a vedere, inizialmente, Hammill in piedi davanti
al microfono, mentre durante il resto delle riprese il vocalist rimane seduto
al piano elettrico: adesso porta i capelli più corti e ringrazia il pubblico in francese. Sui
titoli di coda si percepisce anche un accenno di Man-Erg, forse eseguita quella sera stessa. Si intravede anche la
chitarra elettrica dello stesso Peter, non utilizzata però nell’estratto del
concerto, che intendeva evidentemente promuovere solo il disco nuovo. Questo
filmato della Tv belga, realizzato per la precisione presso il Palais des Expos
il 27 settembre 1975 a Charleroi, rimane l’unico a documentare i Van Der Graaf
Generator in concerto: peccato che le immagini mostrino quasi sempre i
musicisti in primissimo piano, non permettendoci neanche di capire bene come
fossero vestiti. Inoltre, durante Arrow,
l’unico pezzo a vedere Hugh Banton al basso, questi non viene mai inquadrato.
Esiste anche un video a colori del 1978 nel quale i Van Der Graaf eseguono in
playback Cat’s Eye / Yellow Fever,
con il frenetico violino di Graham Smith e un furibondo Peter Hammill che
strapazza la sua chitarra elettrica nera indossando un assurdo abito di
cellophane trasparente. Le registrazioni audio effettuate presso gli studi
inglesi Maida Vale e alla Bbc sono invece preziosi documenti che ci permettono
di ascoltare versioni alternative di brani dei vecchi tempi: People You Were Going To, Afterwards e Necromancer (18 novembre 1968), Darkness e After the Flood (27 gennaio 1970), Theme One, Darkness e Man-Erg
(10 giugno 1971), Refugees (14
dicembre 1971), Scorched Earth e The Sleepwalkers (10 luglio 1975), La Rossa e Still Life (1° aprile 1976), When
She Comes e Masks (11 novembre
1976), Cat’s Eye / Yellow Fever e The Sphinx in the Face (24 ottobre
1977). L’unica registrazione live dal mixer fu quella effettuata al locale
L’Altro Mondo di Rimini il 9 agosto 1975: lo show comincia con tre brani tratti
dai dischi solisti di Peter Hammill (A
Louse is Not a Home, Faint-Heart and The Sermon e Black Room), mentre il
pubblico italiano va in visibilio quando riconosce l’inizio di Lemmings. A Man-Erg spetterà il compito di chiudere il concerto. Delusione per
il garbato diniego di Hammill quando ripete: «No
Killer». A parte i due estratti da PAWN
HEARTS, dunque, gli
spettatori del concerto di Rimini ascoltarono brani che in gran parte non
conoscevano: quelli di Peter solista (fu proposta anche Forsaken Gardens), i quattro dell’album GODBLUFF ancora inedito (sarebbe uscito
due mesi dopo) e le anticipazioni di Pilgrims
e La Rossa, che sarebbero stati
pubblicati solo nel 1976. Quel 9
agosto in realtà i VdGG avevano tenuto due show: durante quello pomeridiano si
erano presentati in pantaloncini corti e infradito, mentre per lo spettacolo
serale erano comparsi con vestiti di seta, Peter in pantaloni lunghi e camicia
aperta sul petto, mentre David alternò il suo consueto costume di scena nero ad
altri più colorati. TIME
VAULTS avrebbe
raccolto una decina di brani inediti del periodo 1972-1975: venne pubblicato
prima in audiocassetta nel 1982, e in Cd dieci anni dopo. La qualità audio di
questi due ultimi documenti è comunque mediocre.Tra i brani inediti di
TIME VAULTS si
lasciano preferire Riff Valley e Coil Night, entrambi del 1975. Nel 2000
un ricco cofanetto intitolato THE BOX ha raccolto su quattro Cd vario
materiale della band compreso tra il 1968 e il 1977, con libretto allegato:
sono presenti versioni rimasterizzate di molti brani tratti da tutti i dischi,
registrazioni radiofoniche della Bbc, la lista completa dei concerti ed
estratti dal sopracitato show del 1975 a Rimini. La
discografia di Hammill (1971-2017) è vastissima, e ci limitiamo qui a citare
alcuni brani davvero belli: Vision,
Crying Wolf, Open Your Eyes, Airport, Breakthrough, If I Could, Happy Hour,
Just Good Friends, My Favourite, Paradox Drive, Re-Awekening, Rock and Role,
Shingle Song, Again e Sitting Targets.
Lost and Found, del 1976, si chiudeva con una sezione che sarebbe divenuta
La Rossa dei VdGG quello stesso anno.
NADIR’S BIG CHANGE comprendeva una nuova versione della vecchia People You Were Going To (il primo
singolo del gruppo), mentre la quieta
Been Alone So Long metteva in bella evidenza il sax di David Jackson.
Quest’ultimo compare nelle ottime riprese del concerto di Peter al Palazzo
della Cultura di Mosca, tenuto il 18 maggio 1995, con Stuart Gordon al violino
e Manny Elias alla batteria. Della vecchia band nell’occasione viene eseguita
la sola The Siren Song, dall’album
del 1977. I pezzi che sembravano tratti da dischi dei Van Der Graaf Generator
(essendo stati incisi con il loro apporto) erano le citate Forsaken Gardens, A Louse is Not a Home, Red Shift e Black Room. Il titolo completo di
questo brano era in effetti (In The)
Black Room / The Tower, e avrebbe dovuto fare parte del disco successivo a
PAWN HEARTS.
Viceversa, il progetto denominato THE LONG HELLO con Banton, Evans e Jackson si
sarebbe protratto con formazioni cangianti sotto la denominazione di VOLUME
TWO (1981),
THREE (1982) e FOUR (1983), più
GENLTEMEN PREFER BLUES
(1985). Nel 1981 Peter Hammill formò il K Group con Guy Evans, Nic Potter e
John Ellis: come documentato dalle immagini del Rockpalast di quello stesso
anno, e dal live MARGIN (registrato nel 1983 e pubblicato due anni dopo), questa fu
la band che più si avvicinò alle sonorità dei Van Der Graaf, eseguendo anche
brani di THE QUIET ZONE / THE PLEASURE DOME. I componenti di questa
formazione utilizzavano curiosi pseudonimi.Tornando al tour de Le Orme del
dicembre 1972 con Hammill nella veste di ospite, questi si vide spesso
contestato dal pubblico, che voleva vedere il gruppo veneto, in quel momento
(dopo COLLAGE
e UOMO DI PEZZA)
all’apice del successo: in un’occasione l’artista inglese si vide costretto a
rivolgersi alla platea, dicendo in un italiano stentato che Le Orme non
sarebbero salite prima sul palco per il fatto che tutti continuassero a
fischiare. La verità é che quelle platee, che avevano amato i VdGG proprio per
il loro sound elettrico e potentissimo, non erano pronte ad assistere allo show
del solo Peter impegnato al pianoforte a coda (prestatogli da Tony Pagliuca) o
alla chitarra acustica. Le stesse Orme si rammaricarono per tutto questo: Michi
Dei Rossi assisteva allo spettacolo di Hammill tenendosi in disparte in un
angolo del teatro, trovavando che quei brani fossero belli; ma non poteva fare
nulla per evitare quelle inaspettate reazioni. Per inciso esistono ottime
riprese televisive in bianco e nero del 1973 che documentano le performance di
Peter in salopette e capelli lunghi mentre esegue dal vivo In The End (al piano) e German
Overalls (alla chitarra acustica) durante la promozione di CHAMELEON
IN THE SHADOW OF THE NIGHT.
I VdGG tornarono insieme solo per eseguire dal vivo Lemmings nel 1996 (THE UNION CHAPEL CONCERT) e Still Life nel 2003. Quasi 30 anni dopo lo scioglimento del 1978 lo
stesso Peter Hammill fu vittima di un infarto, e si rese anche conto che stavano
partecipando a troppi funerali di componenti del loro vecchio entourage: se
volevano rimettere insieme il gruppo, dunque, dovevano farlo fino a che erano
ancora tutti vivi! Come accennato sopra, nel 2005 uscì il nuovo disco, e il 6
maggio, presso la Royal Festival Hall di Londra, partì un tour di sei mesi, con
una fantastica scaletta che includeva soprattutto i brani dei vecchi tempi:
sorprendentemente, dopo una pausa lunga tre decenni, il loro suono era ancora
quello, come se non avessero mai smesso. Subito dopo lo show d’esordio si
fiondarono direttamente in Italia, per le date di Milano e Roma. Gli spettacoli
iniziavano solitamente con The Undercover
Man, oppure con Darkness. Quando
li vidi a Roma chiusero lo show con Theme
One, l’unico brano al quale non partecipava Peter Hammill. I pezzi della
setlist, oltre a qualche estratto del disco nuovo, erano sia quelli del periodo
1970-1972, che gli altri del biennio 1975-1976. Faceva eccezione la sola Black Room, tratta dal disco solista di
Hammill del 1973 (CHAMELEON IN THE SHADOW OF THE NIGHT), ma, come scritto sopra,
composta in realtà dal gruppo poco prima del suo scioglimento, avvenuto l’anno
prima, e registrata da tutti loro come brano conclusivo di quel lavoro di
Peter. A novembre del 2005, dopo sei mesi in tour, David Jackson tenne i suoi
ultimi concerti con la band. Nonostante le perplessità iniziali, anche in trio
i Van Der Graaf sono riusciti a mantenere il loro inconfondibile sound, dando
alle stampe molto materiale, sia in studio che dal vivo, segno tangibile di una
ritrovata scintilla creativa. Con Hammill e Banton dai capelli bianchi, e con Evans ormai calvo, sono
riusciti a rimanere credibili, e più volte hanno fatto ritorno dalle nostre
parti. Dei pezzi risalenti agli anni Settanta hanno tirato fuori anche Meurglys III e A Place To Survive (entrambi da WORLD RECORD, il disco che me li ha fatti
conoscere). La mancanza del sax si avverte, ma meno del previsto. Il suono e le
immagini di LIVE AT METROPOLIS STUDIOS (unico show del 2010) sono davvero strepitose, di fronte ad
un pubblico selezionato che aveva attraversato cumuli di neve per raggiungere
la location presso la quale si sarebbero effettuate le riprese. La lunghissima
suite A Plague of Lighthouse Keepers,
che non era stato possibile suonare dal vivo per i limiti tecnici dell’epoca
(se non alla Tv belga tra il 21 e il 23 marzo 1972, filmata però in due parti
distinte poi unite insieme, tra fiaccole e candele accese) farà finalmente la
sua comparsa nella scaletta del 2013. Gli album in studio dei Van Der Graaf
Generator in trio sono TRISECTOR (2008), A GROUNDING IN NUMBERS (2011), ALT
(2012) e DO
NOT DISTURB (2016).
REAL TIME
(2007) documenta la tanto attesa reunion dal vivo alla Royal Festival Hall del
2005; LIVE AT PARADISO, pubblicato nel 2009 ed esistente anche in video, ci offre
il concerto del 14 aprile 2007 senza David Jackson presso l’omonimo locale di
Amsterdam. Nel giugno del 2008 i VdGG tengono quattro spettacoli consecutivi a
Tokyo. La band torna in America nel 2009 per un tour che attraversa Stati Uniti
e Canada, dal 19 giugno al 10 luglio. MERLIN ATMOS, messo su nastro durante il
tour europeo del 2013 e pubblicato due anni dopo, offre ottimi brani recenti
quali All That Before, Lifetime, Your
Time Starts Now, e documenta finalmente su un disco ufficiale dal vivo i
brani Meurglys
III e la suite A Plague of Lighthouse Keepers,
registrata proprio in Italia. Infine AFTER THE FLOOD (2015) raccoglie in ordine
cronologico le Bbc session effettuate tra il 1968 e il 1977, concludendosi con
una breve versione della stessa suite unita ad un frammento di The Sleepwalkers, come già sul disco dal
vivo VITAL,
con il quale i VdGG ci avevano salutati nel 1978.
ROCK PROGRESIVO
ITALIANO
David Jackson farà parte degli Osanna in tempi recenti.
L’uomo dal doppio sax non ha mai capito perché il pubblico italiano degli anni
Settanta andasse pazzo per i gruppi inglesi, dal momento che ha sempre ritenuto
quelli italiani di livello addirittura superiore. E le band italiane dell’epoca
(solo successivamente ricondotte nell’alveo del cosiddetto “rock progressivo”)
vedevano infatti tra le proprie fila non solo gruppi di successo quali Premiata
Forneria Marconi, Banco Del Mutuo Soccorso, Le Orme, Osanna e New Trolls
(leggendario il loro CONCERTO GROSSO del 1971, con le orchestrazioni di Luis Bacalov), ma anche
innumerevoli altre band che incidevano dischi di notevole qualità (a volte uno
solo, in seguito oggetto di culto per appassionati e collezionisti), quali
Biglietto Per L’Inferno (che, a dispetto del nome, avrebbero visto il loro
istrionico cantante, Claudio Canali, diventare in seguito frate cappuccino),
Delirium (con Ivano Fossati sul disco d’esordio, DOLCE ACQUA, 1971), Quella Vecchia Locanda
(suggestiva la loro Villa Doria Pamphili),
Acqua Fragile (con la voce di Bernardo Lanzetti, poi nella PFM), Raccomandata
con Ricevuta di Ritorno, Balletto Di Bronzo, Rovescio Della Medaglia,
Metamorfosi, Ibis, Città Frontale, Alusa Fallax (che nel 1974 aprirono per i
Curved Air), Nova (con elementi degli Osanna), Flea On The Honey, Cherry Five
(con Claudio Simonetti dei Goblin), Alphataurus, i napoletani Cervello e Saint
Just (con la bella voce di Jenny Sorrenti). E ancora Celeste, Reale Accademia
Di Musica, Jumbo, Albero Motore, Picchio Dal Pozzo, Circus 2000, Capsicum Red
(con Red Canzian, che poi sarebbe entrato nei Pooh), Samadhi, L’Uovo di Colombo
(che aprì per i Deep Purple al Palasport di Roma il 10 marzo 1973), Il Volo
(formato da musicisti già famosi, compreso Alberto Radius), i siciliani Era
D’Acquario, i Garybaldi del chitarrista Bambi Fossati (con la splendida
copertina di Guido Crepax per l’album NUDA), Le Stelle di Mario Schifano
(a loro volta ricercatissimi per via della front cover illustrata dall’omonimo
artista), Corte Dei Miracoli, De De Lind, Jet (i futuri Matia Bazar), Giganti,
Procession, Osage Tribe, Festa Mobile, Fiori Di Campo, Nuova Idea, i Pierrot
Lunaire di Arturo Stalteri, Latte e Miele, Califfi, Capitolo 6, Panna Fredda,
Alluminogeni e tanti altri. I Città Frontale si erano formati agli inizi degli
anni Settanta con Lino Vairetti e Gianni Leone, ma senza pubblicare nulla:
Leone sarebbe divenuto di lì a poco il tastierista del Balletto di Bronzo,
mentre Vairetti, in un momento di pausa
con i suoi Osanna, avrebbe riesumato il vecchio nome di Città Frontale (la
città in questione era Napoli) per l’ottimo album EL
TOR (1975),
con Enzo Avitabile a flauto e sax (da citare lo strepitoso brano Duro Lavoro). Il Museo Rosenbach subì
contestazioni per via della copertina di ZARATHUSTRA (1973), che sembrava alludere a
temi richiamanti il fascismo: ad ogni modo quel disco era fenomenale, a partire
dal brano d’apertura intitolato L’ultimo
Uomo, con un inizio quieto prima della deflagrazione. I Semiramis avevano
nella line-up un giovanissimo Michele Zarrillo, in seguito cantante di successo
in ambito di musica leggera. E anche Giampiero Artegiani, che avrebbe poi
scritto il testo di Perdere l’amore
per Massimo Ranieri. Buoni ultimi, ma solo in ordine di tempo, i componenti de
La Locanda Delle Fate, che, con il bellissimo FORSE LE
LUCCIOLE NON SI AMANO PIU’
(1977) avrebbero di fatto chiuso la stagione del rock progressivo nel nostro
Paese. Sempre magnifico il loro brano
Profumo di Colla Bianca. Uno speciale in bianco e nero della Rai, mai
trasmesso ma diffuso tra i fan, vedeva la band eseguire alcuni pezzi di quel
lavoro intercalati a interviste. Inoltre la Mellow Records pubblicò molti anni
dopo un loro concerto di quel periodo, contenente l’inedito La Giostra. Anche il primo Alan Sorrenti fu parte di questo
movimento (splendida la sua ballata Vorrei
Incontrarti), con l’acclamatissimo album d’esordio
ARIA del 1972, e
David Jackson ad accompagnarlo durante il
tour dell’anno successivo. Così come il Franco Battiato dei dischi più
sperimentali (FETUS, POLLUTION, SULLE CORDE DI ARIES). Ma lo stesso Alan Sorrenti,
fratello di Jenny dei Saint Just, nel corso del festival di Licola del 1975 si
vide quasi linciato dalla folla, reo della sua svolta più “commerciale”. I
Teoremi diedero alle stampe una loro aggressiva versione di With You There To Help Me dei Jethro
Tull: sul brano (Tutte le Cose) è
assente il pianoforte, mentre il flauto viene sostituito da un’armonica. Il
loro chitarrista Mario Schilirò avrebbe in seguito lavorato per Zucchero e
suonato insieme a Brian May, Eric Clapton e Steve Winwood. Michele Zarrillo
partecipò ai vari festival dell’epoca con i Semiramis, e al loro unico album, DEDICATO
A FRAZZ (nome
composto dalle iniziali dei cognomi dei singoli componenti). Aveva solo 15
anni, ma sembrava più grande della sua
età: alto, con la sua Gibson SG e una gran massa di capelli ricci, fece anche
in tempo a diventare il cantante del Rovescio della Medaglia, prima che questa
formazione si sciogliesse dopo il furto degli strumenti: il 31 gennaio del 1974
al Piper Club di Roma si tenne un concerto per venire in aiuto al gruppo, con
la partecipazione di Banco, PFM, Osanna, Perigeo, Claudio Rocchi, Francesco De
Gregori, Riccardo Cocciante, Antonello Venditti e altri. Il RDM, guidato dal
chitarrista Enzo Vita, aveva esordito nel 1971 con LA
BIBBIA, album
registrato dal vivo in studio, con forti richiami all’hard rock inglese. Le
sporadiche linee vocali erano affidate a Pino Ballarini, che sul palco si
presentava dietro due grandi bonghi. Seguì il disco
IO COME IO,
pubblicato l’anno dopo. Se il primo lavoro conteneva un originale libretto a
forma di medaglia per i testi, il secondo offriva addirittura un vero
medaglione di metallo nella sua prima tiratura. Il loro disco migliore si
sarebbe però rivelato il successivo CONTAMINAZIONE (1973) che, come già dal titolo
e dalla copertina, si proponeva di amalgamare insieme rock e musica classica,
con particolare riferimento a J.S. Bach. Gli arrangiamenti orchestrali vedevano
coinvolto il maestro e compositore argentino Luis Bacalov, reduce dalle
precedenti esperienze con New Trolls e Osanna. Suggestivo il brano La Mia Musica, che uscì anche come
singolo. A questo punto la band poteva
contare su un impianto quadrifonico di oltre 6 mila watt: una potenza della
quale nessuna altra band italiana poteva disporre. Come detto, l’autotreno
contenente tutta la costosa amplificazione venne rubato a Roma nel dicembre del
1973, gettando la band nello sconforto. Nel 1975 uscì comunque un singolo in
inglese, ma il cantante aveva già deciso di rinunciare, trasferendosi in
Svizzera. Con l’ingresso di due componenti dei Napoli Centrale il RDM tenne
un’ultima tournée nel 1976, al termine della quale si sciolse. Enzo Vita ha
comunque riformato il gruppo con una nuova line-up, suonando in Giappone nel
2013 e dando alle stampe TRIBAL DOMESTIC tre anni dopo. Il Biglietto Per
L’Inferno pubblicò l’album omonimo nel 1973, caratterizzandosi per i forti
accenti hard rock, la voce e la presenza scenica del sopracitato Claudio Canali
(anche al flauto e al flicorno), e il discreto successo del brano Confessione (“Non posso salvarti dal
fuoco eterno, hai solo un biglietto per l’inferno”). Si trattò di uno dei rari
casi nei quali i testi in italiano si sposavano bene con la musica progressive.
Registrarono anche un secondo disco, prima dello scioglimento, nel 1975: era IL
TEMPO DELLA SEMINA,
che però vide la luce solo nel 1992, pubblicato ancora dalla Mellow Records
(l’etichetta di gran parte dei dischi dei Malibran) in una versione che non era
ciò che avrebbe dovuto rappresentare il prodotto definitivo, con suono e
missaggio non all’altezza. Un lavoro comunque apprezzabile, anche se inferiore
al primo: notevoli i brani L’Arte Sublime
di un Giusto Regnare e La Canzone del
Padre. La copertina vedeva il gruppo riunito, con il vocalist che brandiva
una falce: quando si recarono sul luogo nel quale sarebbe stata scattata la
foto, quella falce usciva fuori dal tettuccio apribile della 500 sulla quale
viaggiavano, e vennero fermati dai vigili urbani. Canali veniva soprannominato “Cocker”
non per via di una qualche somiglianza con il cantante inglese, ma perché i
capelli che portava in disordine sulla fronte ricordavano il cane cocker. Anche
se dovette tagliarli quando fu chiamato per il servizio militare, e si fece
scattare la foto di copertina dell’album omonimo con i capelli corti e un
assurdo casco d’aviatore in testa. Prese l’idea per il nome del gruppo
semplicemente leggendo una storia a fumetti. Le foto di quei giorni ci mostrano
un gruppo davvero spettacolare sul palco. Non esistono filmati d’epoca del
“Biglietto”: erano stati ripresi dalla Tv svizzera, ma non è stato possibile
recuperare quel documento, nonostante i reiterati tentativi del tastierista
Giuseppe “Baffo” Banfi. Una registrazione dal vivo del 9 maggio 1974 al Teatro
Europa è però riemersa qualche tempo fa, mentre si esibivano nella loro città
natale (Lecco) di spalla agli UFO. In quella occasione aprirono lo show con la
title track de IL TEMPO DELLA SEMINA, seguita dalla intera esecuzione
dell’unico album che erano riusciti a pubblicare. Il documento era stato
ritrovato su audiocassetta da uno dei componenti del gruppo e successivamente
restaurato in studio. Un episodio divertente vide Claudio Canali prendersi un
grande spavento quando, risvegliatosi in macchina al posto del passeggero, vide
il suo collega di band dormire beatamente al volante: terrorizzato, gli urlò di
svegliarsi subito, ma non si era accorto che la loro auto, avendo subito un
guasto mentre lui dormiva, giaceva sopra un carro-attrezzi che procedeva
tranquillamente sulla strada! Un altro episodio esilarante riguardò i
Metamorfosi: con il loro ottimo album INFERNO avevano trasposto in musica
episodi dalla Divina Commedia, aggiornando i dannati descritti da Dante nei più
moderni spacciatori di droga, politicanti corrotti, ecc. Alla fine della
rappresentazione il cantante Jimmy Spitaleri (ancora oggi con gli stessi
capelli lunghi e lisci che sfoggiava all’epoca) doveva finire sulla sedia
elettrica: ma in un’occasione, quando scese sotto il palco (per ricomparire poi
sulla sedia elettrica) si smarrì in un meandro di corridoi, non trovando più la
strada per tornare in scena: e così l’esecuzione finale avvenne senza di lui. A
parte questo piccolo infortunio quel disco era davvero molto valido, guidato dalla
voce possente e minacciosa dello stesso Spitaleri (“Sulle rovine di antiche
città, crescono fiori senza colori”) e dai lugubri e maestosi suoni d’organo di
Enrico Oliveri: nel loro caso non si avvertiva affatto la mancanza della
chitarra elettrica. Anche la copertina, con le figure dolenti dei dannati
disseminate non nel fuoco, bensì in un paesaggio ghiacciato, è molto bella,
indovinata e ricercatissima dai collezionisti, molti dei quali sono giapponesi.
Riviste quali «Ciao
2001», «Super
Sound» e «Re
Nudo» supportavano questi nuovi
gruppi, così come la trasmissione radiofonica Per Voi Giovani, che vedeva tra i suoi conduttori anche un giovane
Carlo Massarini. L’evento musicale Controcanzonissima
veniva organizzato proprio da «Ciao 2001» in polemica risposta ai cantanti che andavano in Tv durante
quegli anni. Come altri gruppi del rock progressivo italiano degli anni
Settanta, anche i Metamorfosi si sono riformati, e con i Malibran eravamo allo
stesso festival di Andria nel 2006: tra le “vecchie glorie” quella volta
c’erano anche gli Osanna, il Balletto di Bronzo (celebre il loro album Ys del
1972) e il Banco Del Mutuo Soccorso. Jimmy Spitaleri, tra l’altro, sarebbe
diventato per qualche anno il cantante de Le Orme, pubblicando con loro LA
VIA DELLA SETA (2011). Anche La Locanda Delle
Fate è tornata sulla scena, realizzando nel 2010 il suo Dvd ufficiale al Bloom
di Mezzago (Milano), dove con i Malibran io stesso avevo suonato nel 2003. E
pure il Museo Rosenbach si è riunito, sempre con Giancarlo Golzi (dei Matia
Bazar) alla batteria. Purtroppo Golzi ci ha lasciati in tempi più recenti,
insieme a Joe Vescovi dei Trip e a Claudio Canali del “Biglietto”.
Quest’ultimo, pochi anni dopo lo scioglimento della band, andò a registrare un
paio di pezzi surreali presso lo studio del compianto Claudio Rocchi: Del Coniglio il Pelo è Folto e Tra l’Assurdo e la Ragione. Anche gli
Acqua Fragile di Bernardo Lanzetti hanno pubblicato un nuovo disco nel 2017 (A
NEW CHANT), con il
vocalist che sfoggia una voce ancora integra. Nel 1973 avevano dato alle stampe
l’album omonimo, seguito da MASS MEDIA STARS (1974), con musiche e voci in
bilico tra Crosby, Stills & Nash e Genesis, che valsero a Lanzetti
l’appellativo di “Peter Gabriel italiano”. Bellissimo il pezzo Morning Comes. La PFM spinse la band, e
il manager di Mussida e compagni, Franco Mamone, riuscì a far aprire loro i
concerti italiani di Gentle Giant, Uriah Heep e Soft Machine. Ma l’ingresso di
Bernardo Lanzetti nella stessa “Premiata” sancì di fatto la fine di questo gruppo.
I Goblin conobbero il successo soprattutto grazie alle colonne sonore che
resero ancora più tenebrosi i film di Dario Argento (Profondo Rosso in primis, 1975). La Locanda delle Fate, dopo il
“Reunion Tour” che ha portato il gruppo anche in Giappone, Messico, Francia e
Belgio, ha deciso di ritirarsi tenendo il suo ultimo concerto presso il teatro
Alfieri di Asti il 9 dicembre 2017. Tante di quelle band degli anni Settanta
sono tornate, mentre alcune non si sono mai sciolte. C’è però da chiedersi se
siano ancora sufficientemente credibili Le Orme senza la voce e il basso di
Aldo Tagliapietra, il Banco senza la voce e la presenza scenica di Francesco di
Giacomo o la PFM senza Franco Mussida. Figure troppo “identificative” perché la
loro assenza (avvenuta per ragioni diverse) possa non lasciare il segno. E
questo, beninteso, senza nulla togliere al rispetto dovuto alla voglia di
continuare e di rimettersi in gioco di tutti questi storici gruppi. Il Banco
del Mutuo Soccorso sfornò entrambi i suoi capolavori nel 1972: il disco
omonimo, caratterizzato dalla copertina a forma di salvadanaio, conteneva brani
presto divenuti leggendari: dopo l’iniziale In
Volo, con le voci parlate di Vittorio Nocenzi e Francesco Di Giacomo nel
ruolo dell’Ippogrifo (“Da qui, messere, si domina la valle: ciò che si
vede…è”), il brano R.I.P. (Requiescat in Pace) esplodeva in un riff
concitato, raccontandoci di una battaglia sanguinosa (“cavalli, corpi e lance
rotte si tingono di rosso, lamenti di persone che muoiono da sole, senza un
Cristo che sia là”), seguito da un tema struggente, contrappuntato dal flauto
dolce di Gianni Nocenzi e dalla voce divenuta quieta del vocalist (“Ora si è
seduto il vento, il tuo sguardo è rimasto appeso al cielo, negli occhi c’è il
sole, nel petto ti è resta un pugnale”). E’ un inno contro tutte le guerre, che
sottolinea l’inutile sacrificio di ogni combattente (“E tu no, non scaglierai
mai più la tua lancia per ferire l’orizzonte, per spingerti al di là, per
scoprire ciò che solo Iddio sa”), con le liriche che diventano poesia (“Ma di
te resterà soltanto il dolore, il pianto, che tu hai regalato”). Passaggio ci fa ascoltare i passi di
Vittorio che si siede per suonare una bella melodia appena accennata ad una
sorta di clavicembalo, per poi richiudere lo strumento e allontanarsi. Le
lunghissime Il Giardino del Mago e Metamorfosi permettono al gruppo di
esprimersi in tutta la sua perizia strumentale, lasciando comunque spazio a Di
Giacomo per emozionarci con la sua voce non paragonabile a quella di altri. Il
successivo DARWIN racconta,
sempre con musiche strepitose e testi
affascinanti, il nascere della vita sulla Terra (L’Evoluzione) e il comparire del primo uomo, che da quadrumane
riesce infine ad alzarsi in piedi (La
Conquista della Posizione Eretta), per poi scoprire nella convivenza con i
suoi simili le condizioni per una vita migliore (Cento Mani, Cento Occhi). Splendido il duetto tra pianoforte e voce
nella delicata 750 mila anni fa: l’amore?,
con l’uomo primitivo che si nasconde per ammirare una donna (“Già l’acqua
inghiotte il sole, ti danza il seno mentre corri a valle”) non osando mostrarsi
nel timore che ella possa spaventarsi (“Ed io tengo il respiro, se mi vedessi
fuggiresti via”) e reprimendo il suo desiderio (“Se fossi mia davvero, di gocce
d’acqua vestirei il tuo seno, poi sotto i piedi tuoi, veli di vento e foglie
stenderei”) non avendo il coraggio di mostrarsi fin quando lei non andrà via (“Lo
so la mente vuole, ma il labbro inerte non sa dire niente, si è fatto scuro il
cielo, già ti allontani, resta ancora a bere”). Incredibilmente questo
magnifico disco venne registrato con un semplice mixer a otto tracce collocato
all’interno di un cinema parrocchiale: e il sabato e la domenica la band doveva
smontare tutti gli strumenti per permettere ai bambini della parrocchia di
assistere alle proiezioni. E’ del 1973 il terzo album,
IO SONO NATO LIBERO (il
primo con Rodolfo Maltese alla chitarra, seppure in veste di ospite) ispirato,
nel suo stupendo Canto Nomade Per Un
Prigioniero Politico, al golpe militare avvenuto quello stesso anno in
Cile. Ma ricordato soprattutto per il successo della più accessibile Non Mi Rompete. Il nuovo disco venne
presentato al Teatro Brancaccio di Roma il 22 novembre: per la prima e ultima
volta si esibirono insieme Marcello Todaro e Rodolfo Maltese alle chitarre,
mentre Vittorio Nocenzi suonò un assolo lungo 30 minuti utilizzando i nuovi
sintetizzatori costruiti per lui dall’artigiano Marco Maggi. Come nel caso
della PFM, la versione inglese di brani tratti dal primo e dal terzo disco,
intitolata BANCO
(1975) fu dovuta all’interessamento della label Manticore degli ELP, con Keith
Emerson che andò a vederli suonare dal vivo all’inizio di aprile presso il
Teatro Malibran di Venezia. Il Banco del Mutuo Soccorso aveva già firmato il
contratto con l’etichetta, e il relativo tour cominciò il 25 marzo al Teatro
Ambasciatori di Catania, per chiudersi il 10 aprile al Teatro Storchi di
Modena. La data di Venezia era quella prevista come presentazione ufficiale del
nuovo Lp di imminente uscita e, oltre a Keith Emerson (che arrivò in ritardo,
riuscendo ad ascoltare solo gli ultimi due brani) registrò la presenza di
giornalisti venuti da ogni parte del mondo e le riprese della Rai, che non
videro mai la luce. Salvo spezzoni in bianco e nero di Canto Nomade per un Prigioniero Politico e Leave Me Alone, la versione inglese di Non Mi Rompete: il frammento del primo brano, in tema con il testo,
vedeva Di Giacomo coprirsi il volto con le sbarre di una cella. La copertina
del disco mostrava invece la foto del barbuto cantante mentre lanciava in aria
una scarpa, e conteneva la traccia inedita intitolata L’Albero del Pane. Tutti i brani erano stati registrati nuovamente
e con arrangiamenti diversi, eccetto Traccia
II. Il concerto tenuto al Teatro Verdi di Salerno il 23
aprile del 1975 (pubblicato dalla Ma.Ra.Cash Records 30 anni dopo) vide
il pubblico contestare l’iniziale R.I.P. nella
versione inglese, urlando: «Cantate in italiano!»,
per poi applaudire Francesco Di Giacomo quando interpretò nella nostra lingua
la seconda parte del pezzo. Questo spettacolo venne inciso su un Revox a bobine
collegato direttamente all’impianto del gruppo, e la registrazione, regalata a
Vittorio Nocenzi, fu rimasterizzata per l’occasione. Il booklet del doppio Cd,
intitolato SEGUENDO LE TRACCE, conteneva il diario di viaggio del buon Rodolfo Maltese,
compresi i suoi disegni relativi a quei giorni. Al fine di promuovere il nuovo
disco, registrato a febbraio presso gli Advision Studios di Londra, la band
partì per un breve tour in Inghilterra a dicembre, esibendosi a Manchester,
Nottingham, Dorchester, Liverpool e Londra. La data di Manchester li vedeva
quali gruppo spalla dei Cuved Air, ma l’entusiastica risposta da parte del
pubblico invertì i ruoli. A Dorchester Rodolfo
salì sul palco a concerto già iniziato, dal momento che si era perso per
le strade della città avvolte dalla nebbia. A Londra il Banco tenne due concerti
alla Roundhouse, e chiuse la tournée al Marquee Club l’8 dicembre 1975.
Nell’occasione il gruppo romano rimase sorpreso dalle piccole dimensioni del
celebre locale; e Francesco Di Giacomo, rivolgendosi più alla stampa che al
pubblico, chiese gentilmente di smetterla di utilizzare il termine “spaghetti
rock” quando si parlava di band italiane. Greg Lake si congratulò per lo show
inviando un telegramma; la gente rimase a bocca aperta, richiedendo numerosi
bis, e anche i Soft Machine si complimentarono con loro a fine concerto. La
locandina di quella sera, con riferimento agli show londinesi, recitava
testualmente: “A seguito del fantastico responso in occasione del debutto alla
Roundhouse, il Marquee è orgoglioso di presentare il Banco per l’ultima data del
suo tour inglese”. Per inciso, durante le sopramenzionate registrazioni agli
Advision Studios (che ospitarono anche la PFM) i fratelli Nocenzi si
trattennero qualche giorno in più, e Vittorio si lanciò insieme a Keith Emerson
in un duetto di tastiere lungo 40 minuti. Dopo la colonna sonora per il film Garofano Rosso dello stesso anno, il
gruppo pubblicò il bellissimo COME IN UN’ULTIMA CENA nel 1976, tradotto in inglese
da Angelo Branduardi (AS IN A LAST SUPPER), dal momento che anche questo
lavoro sarebbe uscito per la Manticore. Del disco faceva parte il brano Si Dice che i Delfini Parlino, già
presente con altro titolo nell’opera rock SAN FRANCESCO, rimasta inedita e risalente
all’anno prima, con la partecipazione dello stesso Branduardi, il quale seguì
il Banco durante il tour del 1976 insieme ai Danzatori Scalzi, ottenendo grande
successo con il brano Alla Fiera dell’Est.
Lo stesso cantante e violinista avrebbe affiancato il Banco anche in occasione
del tour 1978-1979 denominato “La Carovana del Mediterraneo”, che, partito
dall’Italia (memorabile lo show all’Arena di Verona) avrebbe toccato altri
Paesi quali Inghilterra, Svizzera, Germania e Belgio. Altra tournée europea del
Banco era stata quella del 1976 insieme ai Gentle Giant, con Marcello Todaro al
mixer invece che alla chitarra. Vittorio Nocenzi compose le musiche e diresse
l’orchestra per il disco interamente strumentale intitolato
…DI TERRA (1978),
con il contributo di Alan King (flauto e sax), mentre Francesco di Giacomo
partecipò solo ideando i titoli del lavoro, che, letti nel loro insieme,
formavano una poesia. Il Banco del Mutuo Soccorso concluse il decennio con
l’ottimo CANTO DI PRIMAVERA, pubblicato nel 1979 con Gianni Colajacomo al posto di
Renato D’Angelo. Persino i Pooh vissero una stagione in qualche modo
assimilabile al progressive rock, specie con il magnifico e articolato brano Parsifal del 1973. I Trip, antesignani
del genere, furono protagonisti di un surreale film intitolato Terzo Canale: avventura a Montecarlo del
1970, comprendente immagini del 1° festival di Caracalla, ma ricordati
soprattutto per l’album CARONTE dell’anno successivo. Le Orme erano invece un gruppo veneto
nato già negli anni Sessanta, in piena epoca beat. Quando però la formazione si
ridusse ad un trio, tutto cambiò: Aldo Tagliapietra (basso e voce), Michi Dei
Rossi (batteria) e Tony Pagliuca (tastiere), dopo essere andati in macchina a
vedere il festival dell’Isola di Wight , e colpiti dall’esibizione degli ELP,
virarono verso il progressive con gli indimenticabili album COLLAGE (1971), UOMO
DI PEZZA (1972),
FELONA E SORONA (1973)
e CONTRAPPUNTI
(1974). Quest’ultimo disco vide anche il contributo del pianista e compositore
Gianpiero Reverberi, che rese più elegante il lavoro. Di rilievo lo strumentale Aliante, con una sezione ritmica in
controtempo, sulla quale sembrava soffiare una suggestiva melodia. Il singolo Sera, molto bello, uscì l’anno seguente
e vide per l’ultima volta Le Orme in trio. Solo con
SMOGMAGICA (1975)
ebbero di nuovo un chitarrista, Tolo Marton (anche all’armonica sulla
incantevole Amico di Ieri),
sostituito da Germano Serafin nei dischi successivi: VERITA’
NASCOSTE (1976) e STORIA
O LEGGENDA (1977).
Con questa formazione Le Orme optarono
per una coraggiosa svolta classicheggiante, sostituendo la chitarra
elettrica con il violino e il basso con il violoncello per gli album
FLORIAN (1979) e PICCOLA
RAPSODIA DELL’APE
(1980). La copertina di SMOGMAGICA (che alludeva alla città di Los
Angeles, ove il disco era stato registrato) venne realizzata da Paul Whitehead,
lo stesso artista che aveva lavorato su TRESPASS, NURSERY
CRYME e
FOXTROT dei
Genesis, probabilmente per intercessione di Armando Gallo, che era amico di
entrambi i gruppi. Con gli stessi Genesis Le Orme si fecero fotografare nel
1973, mentre erano in tour in Inghilterra, comparendo con un Peter Gabriel che
portava sul capo la maschera da volpe che utilizzava in quel periodo alla fine
di The Musical Box. Il bluesman Tolo
Marton lasciò il gruppo subito dopo aver contribuito alla realizzazione di
SMOGMAGICA, decidendo di non prendere parte
al tour del 1976, denominato “Rockspray”, caratterizzato da un istrionico Tony
Pagliuca che si vestiva come Ian Anderson, e con il gruppo che eseguiva
frammenti di Aqualung e Whole Lotta Love, per una goliardica
presa in giro del rock, prematuramente ritenuto al tramonto. Quello stesso anno
Le Orme parteciparono al Festivalbar con la brillante Canzone d’Amore, documentata in un video che li mostra eseguire divertiti il brano
all’Arena di Verona. Durante un programma televisivo della Rai il gruppo
comparve in playback per la sopramenzionata Amico
di Ieri, con Germano Serafin che fingeva di suonare la chitarra e
l’armonica di Tolo Marton. Il loro disco IN CONCERTO del 1974 fu il primo Lp dal
vivo pubblicato in Italia, essendo uscito poco prima di LIVE
IN USA della PFM,
dato alle stampe quello stesso anno. Il lungo brano Truck of Fire, compreso in questo album e cantato in inglese, non
verrà mai registrato in studio. LIVE ORME è invece un vecchio semi-bootleg
giapponese che, ristampato nel 2009 dalla nostra Black Widow, documenta
estratti dai tour del 1975 e del 1977 registrati dal mixer. A sua volta LIVE
IN PENNSYLVENIA
(2008) avrebbe messo su Dvd l’esibizione del gruppo con la nuova line-up
(compresi Tagliapietra e Dei Rossi) al NearFest: in questa occasione i roadies
americani li trattarono con sufficienza durante le prove del suono, fingendo di
non capire quanto veniva loro detto. Quando però la band cominciò a provare Collage quei tecnici si guardarono tra
loro mormorando: «Ehi, ma questi sono Le Orme!».
E cominciarono a trattarli con rispetto, capendoli perfettamente. Nel 2005 ho
avuto occasione di parlare a lungo con Aldo e Michi, e quest’ultimo mi ha
rivelato di chiamarsi in realtà Giuseppe, essendo il suo un nomignolo che gli
era rimasto appiccicato addosso da quando era bambino. Oggi è proprio lui
l’unico componente della formazione originale de Le Orme. Molto bella la suite Il Fiume (1996), che ebbi modo di
registrare dal vivo prima di ascoltare la versione su disco, con Aldo
Tagiapietra impegnato anche al sitar. Una delle caratteristiche di questo
gruppo, nei suoi brani più vecchi, era quella di unire liriche oscure a musiche
spensierate: la famosissima Gioco di
Bimba è una canzoncina orecchiabile, ma dal testo inquietante; così come Figure di Cartone che, pur avendo un
andamento allegro, racconta la triste vita di una ragazza rinchiusa in
manicomio. Altri pezzi rimasti indimenticabili sono Cemento Armato, Sguardo Verso il Cielo, Maggio, Una Dolcezza Nuova, La
Porta Chiusa, Era d’Inverno e Frutto
Acerbo. Michi Dei Rossi mi aveva anche svelato il suo progetto di far
pubblicare un live contenente brani del periodo 1971-1977: sarebbe stato
bellissimo, ma questo lavoro non ha ancora visto la luce. Un documento
particolare è quello relativo all’apparizione di Aldo Tagliapietra, Tony
Pagliuca e Tolo Marton al Prog Exhibition del 2010, con David Cross dei King Crimson
come ospite. Lo stesso evento aveva visto anche il Banco chiudere il proprio
show insieme a John Wetton. I napoletani Osanna, attivi ancora oggi, conobbero
il successo già con l’uscita del disco d’esordio, L’UOMO (1971), che vedeva in copertina
una presentazione di Renzo Arbore, il quale li avrebbe anche portati in Tv per
il brano Non Sei Vissuto Mai: il
pezzo venne eseguito in playback, ma subito prima Arbore intervistò Elio D’Anna
(flauto e sax) lasciandogli spiegare, mentre questi suonava dal vivo il flauto,
l’utilizzo dei pedali (chiamati da Elio “cassettine”) che utilizzava per
alterare il suono del suo strumento. Sul primo disco la band compariva (così
come in concerto) con lunghi costumi colorati e volti dipinti. Diversi
videoclip (a colori o in bianco e nero) furono realizzati, specie per il brano L’uomo, e i costumi venivano preparati
dalla mamma del cantante Lino Vairetti, l’unico elemento della formazione
sempre presente, dagli inizi ai giorni nostri. Nel 1972 uscì PRELUDIO,
TEMA, VARIAZIONI E CANZONA,
con orchestrazioni del maestro Luis Bacalov, nonché colonna sonora del film Milano Calibro 9, seguito dal capolavoro
PALEPOLI (1973), ripreso nel 2015 con il
titolo di PALEPOLITANA.
Oggi la band partenopea sta vivendo una sua seconda giovinezza, spesso con la
partecipazione dell’ex VdGG David Jackson, sia sul palco che su disco: in uno
dei Dvd relativi al Prog Exhibition di Roma 2010 David si scatena con loro in Theme One. Come accennato Luis Bacalov
aveva già orchestrato il CONCERTO GROSSO PER I NEW TROLLS
del 1971, per
una riuscita combinazione tra musica rock e sinfonica, cui fecero seguito
l’album intitolato UT (1972) e CONCERTO GROSSO N° 2 (1976), prima della svolta pop
con l’album ALDEBARAN
(1978), che includeva Quella Carezza
della Sera, canzone di enorme successo, ma lontanissima dai canoni del
progressive rock. Il gruppo ligure ebbe come suo leader sempre il tastierista e
cantante Vittorio De Scalzi, mentre la formazione cambiava di continuo, fino a
scindersi in diversi gruppi che richiamavano nel proprio nome la ormai
affermata sigla di New Trolls, eccetto il caso degli Ibis. Di quest’ultima band
faceva parte anche Nico Di Palo, chitarra e voce (dalle tonalità altissime) dei
primi, “veri” New Trolls. Egli è anche presente nel lungo brano Il Sole Nascerà, ripreso dalla Rai in
occasione di una delle tappe della decima edizione del Cantagiro, tenutasi nel
1971 (la stessa che avrebbe visto i disordini di Milano, quando i Led Zeppelin
parteciparono come ospiti all’evento): durante questa performance Gianni
Belleno si scatena a torso nudo in un assolo di batteria, mentre De Scalzi, con barba e lunghi capelli
arruffati, suona anche il flauto, imitando un po’ Ian Anderson (come era in
voga all’epoca, per stessa ammissione di Ivano Fossati durante un’intervista,
mentre era ancora un componente dei Delirium). Nel 1998 Nico Di Palo fu vittima
di un gravissimo incidente stradale, che lo costrinse a passare dalla chitarra
alle tastiere: nell’occasione ricevette gli auguri di Phil Collins ed Eric Clapton.
I citati Delirium “sfidarono” la PFM nel corso del programma Studio 10 della Rai il 14 maggio 1972: i
primi eseguendo Dolce Acqua e i
secondi Impressioni di Settembre,
entrambe dal vivo e in versione ridotta. I Delirium avrebbero partecipato
quello stesso anno al Festival di Sanremo (condotto da Mike Bongiorno) con il
noto brano Jesahel, non incluso
nell’album d’esordio. Ivano Fossati lascerà poco dopo il gruppo, rimpiazzato al
flauto da Martin Grice, con il quale verranno registrati LO
SCEMO E IL VILLAGGIO
(1972) e soprattutto il concept VIAGGI NEGLI
ARCIPELAGHI DEL TEMPO,
sottovalutato capolavoro del 1974, accompagnato da una vera orchestra. I
Delirium con Martin Grice sono attivi ancora oggi. Fuori dal coro, non possiamo
dimenticare gli incredibili (e non facilmente etichettabili) Area, guidati
dalla stupefacente voce di Demetrio Stratos, purtroppo spentasi per sempre nel
1979. E, in un ambito più accostabile al jazz rock, gruppi quali Il Perigeo
(che i Weather Report non vollero più come gruppo spalla, perché ritenuti
troppo bravi), Il Baricentro, Arti & Mestieri (anche nelle vesti di open
act per i Gentle Giant) e Napoli Centrale (con il sax di James Senese, che
avrebbe introdotto nella band un giovane Pino Daniele come bassista). Il
sopracitato Perigeo venne filmato dalla Rai nel 1973 durante un’esecuzione live
in studio di Abbiamo Tutti un Blues da
Piangere. Il gruppo, scioltosi nel 1977, si è riformato nel 2019. Anche Il
Biglietto per l’Inferno si è rimesso insieme. Tornando per un attimo a Demetrio
Stratos (già ne I Ribelli all’epoca del beat degli anni Sessanta), quando si
ammalò e venne ricoverato a New York nel 1979, all’Arena Civica di Milano si
tenne un concerto (poi divenuto anche un disco e un Dvd) che riuniva una
moltitudine di artisti per raccogliere fondi al fine di pagare le cure mediche
necessarie. Era il 14 giugno. Quando però giunse la notizia della morte di
Stratos (Demetrio era il cognome e Stratos il nome, contrariamente a quanto si
potrebbe pensare) quello spettacolo si trasformò in un evento in suo onore.
Anche in quell’occasione non mancarono né il Banco, né la PFM. Fu quel giorno
che Bernardo Lanzetti, il cantante della “Premiata”, essendosi presentato
all’Arena, si sentì dire: «Che
ci fai qui? Non te lo hanno detto che non fai più parte del gruppo?».
PREMIATA FORNERIA
MARCONI
La Premiata Forneria Marconi (PFM) aveva mosso i suoi primi
passi già negli anni Sessanta con il nome de I Quelli, suonando nei brani di
grande successo di Mina e Battisti, ma ottenendone molto poco a proprio nome.
Curiosamente, per un breve periodo ebbero anche il futuro comico Teo Teocoli
come cantante. Ottennero un discreto riscontro commerciale solo con il singolo
del 1966 intitolato La bambolina che fa
no no no (cover di un brano del cantautore francese Michel Polnareff).
Durante il servizio militare Franco Mussida venne temporaneamente sostituito da
Alberto Radius, ma continuò a suonare una chitarra Fender Telecaster con la
band che aveva messo insieme mentre adempiva al suo obbligo in Marina. De I Quelli
facevano parte anche i giovani Franz Di Cioccio, Giorgio Piazza e Flavio
Premoli. Una rara foto a colori li mostra con capelli corti e rosse uniformi
inglesi d’epoca proprio in questo periodo con Radius al posto di Mussida:
Premoli indossa un assurdo costume da
Robin Wood, mentre Di Cioccio e Piazza (a quel tempo metalmeccanico) portano il pizzetto. Con loro è presente
anche Pino Favaloro, altro elemento del gruppo. Con il nome di Krel nel 1970
Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Flavio Premoli e Giorgio “Fico” Piazza
pubblicarono il singolo Finché le braccia
diventino Ali, ancora in bilico tra beat e progressive. Furono sempre loro
(non ancora PFM) a suonare ne LA BUONA NOVELLA di Fabrizio De Andrè quello
stesso anno, prima del loro rinnovato connubio per il tour a cavallo tra 1978 e
1979, di enorme successo, così come il disco dal vivo che ne sarebbe stato
tratto. Con l’ingresso di Mauro Pagani (flauto e violino) e l’esplosione del
nuovo “verbo” musicale (solo in seguito denominato “prog”), la band prese il
nome di “Forneria Marconi”, con la successiva aggiunta di “Premiata” (quella
forneria esisteva davvero, tra l’altro), e cominciò ad aprire i concerti dei
grandi gruppi stranieri di passaggio in Italia (Yes, Deep Purple, ecc.). Erano
soliti suonare pezzi famosi di band quali King Crimson, Focus e Jethro Tull,
più improvvisazioni interamente strumentali. Quando finalmente eseguivano il
loro unico pezzo cantato in italiano (La
Carrozza Di Hans), il pubblico capiva che non si trattava di una band
inglese, ma italianissima! Un buon documento di questo periodo è la
registrazione del concerto al Carta Vetrata di Bollate: questo show è stato
pubblicato all’interno del box-set del 1996 intitolato
10 ANNI LIVE, 1971-1981,
in una bella scatola rettangolare azzurra con quattro Cd e anesso libretto. Lo
spettacolo di Bollate, benché non registrato dal mixer, ha una buona qualità
stereo e inizia con una esplosiva versione di 21st Century Schizoid Man dei King Crimson; di questi ultimi
eseguono con perizia anche Picture of a
City. Non mancano My God e Bourée dei Jethro Tull, probabilmente
fatte inserire in scaletta da Mauro Pagani, che era rimasto folgorato dallo
show della band di Ian Anderson al Teatro Smeraldo di Milano nel febbraio di
quello stesso anno. Erano già famosi prima di pubblicare un disco. Di Cioccio e
Pagani si erano dati appuntamento in una spiaggia per conoscersi: non si erano
mai visti prima, ma si riconobbero a vicenda per il semplice fatto che erano
gli unici a portare i capelli lunghi. Nell’ottobre del 1971 La Carrozza Di Hans (composta da Mussida
mentre guidava) sarebbe stata pubblicata come lato B del loro primo singolo: il
lato A conteneva invece quello che si sarebbe rivelato il loro più grande
successo di sempre: Impressioni di
Settembre che, con il suo celebre motivo di Moog al posto del più canonico
“ritornello” cantato, sarebbe diventata il simbolo stesso di un’epoca. Mogol,
il paroliere di Lucio Battisti, avrebbe indicato nel testo di questo brano uno
di quelli per i quali sarebbe andato più
orgoglioso. Nel 1972 uscì il primo disco, STORIA DI UN MINUTO, contenente entrambi i titoli
del singolo, ma anche E’ Festa (più
nota nella versione inglese con il titolo di Celebration), vale a dire l’altro inno (una sorta di trascinante
tarantella prog-rock) della PFM. Il gruppo si rese subito conto del potenziale
di Impressioni di Settembre: durante
un concerto di quello stesso anno Franz Di Cioccio, di fronte alle insistenti
richieste del pubblico, disse al microfono: «Tanto
sappiamo già che ce la porteremo dietro per tutta la vita».
Era ancora il 1972 quando venne dato alle stampe il secondo lavoro, PER
UN AMICO,
altrettanto bello: Il disco conteneva Il
Banchetto, altro futuro classico del gruppo, tra melodia e sperimentazione.
Anche il gruppo romano Banco del Mutuo Soccorso, nel corso di quello stesso
1972, era riuscito a pubblicare entrambi i suoi capolavori: B.M.S. (con la famosa copertina a forma di salvadanaio) e Darwin: un periodo di creatività
veramente incredibile! Per il tema chiave di Impressioni di Settembre quelli della PFM cercavano uno strumento
adatto, che non volevano fosse né la chitarra, né il flauto: lo trovarono
appunto nel neo-nato Moog (dal cognome del suo inventore): un piccolo strumento
con tastiera e manopole varie, in grado di creare un suono arioso, sintetico,
eppure ricco di vivacità e gioia. Lo scoprirono ascoltando Lucky Man degli ELP, ma non avevano i soldi per acquistarlo.
Proposero dunque al rivenditore di farglielo utilizzare per il brano: se dopo
la pubblicazione del singolo fosse riuscito a venderne almeno dieci esemplari,
loro avrebbero potuto tenere il Moog
senza pagarlo. E così fu. Anche il mellotron, che, viceversa, simulava
soprattutto tappeti d’archi o di ottoni (una sorta di orchestra tutta dentro
una tastiera molto pesante da portare in tour) fu utilizzato in Italia dalla
PFM in anteprima rispetto agli altri gruppi italiani. E loro se lo procurarono
“soffiandolo” ai New Trolls: il gruppo genovese aveva infatti prenotato quel
mellotron presso un negozio di strumenti musicali, ma quelli della PFM
arrivarono poco tempo dopo, pagarono in contanti e se lo portarono a casa.
Flavio Premoli spiegò le caratteristiche di Moog e mellotron ad Enzo Arbore nel
corso di una trasmissione televisiva della Rai, prima che il gruppo eseguisse
dal vivo la seconda parte di Dove e
Quando. Il 20 dicembre 1972 Greg Lake assistette seduto in prima fila alla
presentazione di PER UN AMICO al Palasport di Roma.
L’etichetta degli ELP si era infatti interessata alla PFM, e alcuni scatti
ritraggono Lake insieme al gruppo: PHOTOS
OF GHOSTS permise
alla band italiana di acquisire la sua statura internazionale con la versione
inglese di alcuni brani dei primi due dischi. Il lavoro comprendeva anche
l’inedita e sofisticata Old Rain.
Greg Lake regalò un suo basso dei tempi dei King Crimson a Giorgio Piazza e un
violino a Mauro Pagani. Il 15 marzo 1973 la Premiata Forneria Marconi fece il suo debutto britannico per la label
Manticore con lo spettacolo tenuto all’ABC Fulham Theatre di Londra, e dopo il
tour italiano di aprile, partì per quello europeo di maggio con Mel Collins e
Pete Sinfield. Il 26 agosto dello stesso anno partecipò al noto festival di
Reading con i Genesis in cartellone: ma quella volta sforò con i tempi, e la
corrente elettrica venne staccata dal palco prima che il gruppo riuscisse a
portare a termine il proprio show. L’Inghilterra sarebbe comunque stata
“conquistata” nel corso del tour britannico del 1974: il gruppo si sarebbe
esibito anche al ben noto Raimbow Theatre di Londra sia il 25 maggio che il 1°
novembre di quell’anno. Frattanto Patrick Djivas, bassista del primo album
degli Area, aveva rimpiazzato Giorgio Piazza: durante una delle consuete jam
session all’Altro Mondo di Rimini, infatti, Franz Di Cioccio si trovò talmente
bene a suonare con lui da proporgli su due piedi di passare armi e bagagli con
loro. E Djivas, più interessato alla musica (e al crescente successo della PFM)
che all’impegno politico degli Area, accettò, suonando su L’ISOLA
DI NIENTE del 1974,
e nella sua successiva versione inglese intitolata THE
WORLD BECAME THE WORLD
con un brano in più, che era proprio la title track (un nuovo arrangiamento di Impressioni di Settembre). Dopo il tour
europeo di aprile insieme ai Ten Years After e quello inglese di maggio, Patrick
andò con la band negli Stati Uniti quello stesso anno, poco dopo la
partecipazione al festival del Parco Lambro: il disco LIVE
IN USA documentò
quella esperienza incredibile, con un gruppo italiano, che, senza pizza e
mandolini, era in grado di fare bene quanto gli artisti con i quali si trovò a
confrontarsi nel corso di vari festival americani, grandi nomi compresi. La
tranche iniziale copriva i mesi di luglio e agosto, ma, a seguito del successo
ottenuto, il gruppo fu invitato a tornare negli States a novembre. E questa
volta a tempo indeterminato. Il primo concerto della PFM in America si svolse
il 6 luglio 1974 presso la Convention Hall di Ashbury Park, nel New Jersey.
Seguirono le date di Los Angeles, Seattle e Portland. Al festival dello Charlot Speedway, in North
Carolina, si esibirono il 10 agosto con gli ELP di fronte a 250 mila persone.
Pubblico e giornalisti rimasero a bocca aperta. I primi tempi trascorsi in
America non furono facili, dal momento che il gruppo si vide spesso costretto a
tenere due concerti al giorno, uno per pagare le spese e l’altro per guadagnare
qualcosa. Durante i festival salivano sul palco tra un gruppo e l’altro senza
neanche il tempo di fare il soundcheck: inserivano i cavi negli amplificatori e
cominciavano a suonare. Inoltre, poco prima del concerto con i Santana del 25
luglio a Seattle, subirono il furto degli strumenti, compresi due bassi di
Djivas e la chitarra 335 di Mussida. In compenso suonarono con nomi quali ZZ
Top, Allman Brothers Band, Aerosmith, Johnny Winter, Fleetwood Mac, Dave Mason,
Beach Boys e Peter Frampton (proprio durante il tour dal quale quest’ultimo
avrebbe tratto il disco da 25 milioni di copie FRAMPTON COMES
ALIVE!). Furono il
primo gruppo italiano ad entrare nella classifica di Billboard. Mauro Pagani
trovò che i Poco, con i quali suonarono a novembre e dicembre, fossero delle
persone orribili: una rivista musicale statunitense, recensendo un concerto che
aveva visto il gruppo americano esibirsi insieme a quello italiano, titolò a
caratteri cubitali: “Meno Poco, più PFM!”. Un altro giornale americano riportò
che la band era stata la più interessante novità proveniente dall’Europa dopo i
Led Zeppelin. Impararono a preparare le scalette a seconda del tempo che
avevano a disposizione, e per questo venne ideata anche una versione corta de La Carrozza di Hans. In breve passarono
dal semplice ruolo di “Special Guest” a quello di “Top of the Bill”. Diversi
pezzi del disco dal vivo furono registrati al Central Park di New York il 31
agosto del 1974. Gli altri vennero messi su nastro a Toronto il precedente 22
agosto. Fantastico il lungo brano strumentale di Mussida intitolato Altaloma 5 Till 9, nato durante un
soundcheck dell’anno prima: presente sul live, non fu mai registrato in studio.
La lunghissima It’s my Face on Straight
dovette essere esclusa per motivi di spazio, ma sarebbe riemersa in
pubblicazioni successive: Franco Mussida cominciava il brano cantando e
arpeggiando con la chitarra, preceduto da un colpo di gong da parte di Franz;
all’estratto da L’ISOLA DI NIENTE seguiva poi un frammento di Photos of Ghosts, che si evolveva in uno
spettacolare assolo da parte di Flavio Premoli, qui impegnato anche alla
fisarmonica. I concerti di Cleveland, riemersi sul secondo Cd del box-set,
permisero di ascoltare questo e altri brani in una qualità audio migliore
rispetto a quella di LIVE IN USA, che aveva un suono piuttosto
ovattato. E fu così resa disponibile anche una nuova versione di Altaloma dal sound più nitido e
brillante. A presentare i pezzi era di solito Mauro Pagani, che parlava
discretamente l’inglese. La conclusione dei concerti era affidata ad uno
strumentale inedito intitolato Poseidon,
che poneva termine a ciascuno show in maniera maestosa. La versione americana
dell’album dal vivo nacque dall’idea di un dirigente della Manticore di
registrare i brani estratti dai migliori concerti relativi ai primi due mesi
negli States, e prese il titolo di COOCK (“Cucinare”): si presentava con
una copertina diversa rispetto a quella italiana (che mostrava una foto
rovesciata della band in concerto), raffigurando una pentola colma di serpenti
invece che di spaghetti. L’idea derivava dal fatto che i componenti della PFM
presentarono il disco ai giornalisti invitandoli nel loro appartamento negli
States e cucinando per loro piatti di pasta. COOK
uscì prima
negli Stati Uniti rispetto a LIVE IN USA in Italia, ma i brani contenuti
nei due dischi erano i medesimi. Sempre nell’agosto del 1974 si recarono a Los
Angeles per prendere parte al Tv show intitolato In Concert. Alcune foto e filmati amatoriali ritraevano il gruppo
felice in America sotto enormi cartelloni che pubblicizzavano il disco dal
vivo, mentre la rivista «Ciao 2001»
metteva la PFM negli States in copertina. Uno scatto li ritraeva insieme ad
Armando Gallo. Gli stessi componenti del gruppo effettuarono qualche filmino in
Super 8 mentre erano in macchina, spostandosi da una città all’altra: si
alternavano al volante, ma fu il chitarrista a doversi occupare nella gran
parte dei casi di questa incombenza. Al punto che tra loro nacque lo scherzoso
motto: «Chi guida? Mussida».
Patrick Djivas, che era di origini francesi e aveva girato il mondo, insegnò ai
suoi compagni come apprezzare i cibi piccanti e speziati. Viceversa Di Cioccio
non sopportava di vedere i cetrioli nelle pizze che ordinavano! L’esperienza
americana fu costellata da episodi esilaranti: in un caso Franz, che era
passato con il rosso, vide avvicinasi un poliziotto. Quest’ultimo lo fece
accosciare sulla strada mettendogli una mano sulla spalla e, indicando il
semaforo, gli chiese: «Perché pensi che mettiamo lì
quelle luci? Perché è Natale?». In ogni caso conobbero Frank
Barsalona, il più importante agente musicale degli Stati Uniti, che permise
alla PFM di entrare nel “giro grosso” e di partecipare ai grandi festival. I
concerti del tour americano del 1974 iniziavano con River of Life (la splendida versione inglese di Appena un po’), e non con Four Holes in the Ground (La Luna Nuova) che apriva il disco dal
vivo. Proprio questo pezzo venne presentato alla Tv italiana con divertenti
riprese che vedevano Franco Mussida indicare di volta in volta al cameraman su
quale dei musicisti dovesse spostare la propria inquadratura. La traduzione dei
testi fu curata da Pete Sinfield, “il poeta dei King Crimson”, come amava
definirlo Di Cioccio. Per consolidare il proprio successo oltreoceano la PFM
avrebbe dovuto trasferirsi definitivamente in America, ma, al contrario di
Franz e Patrick, Franco Mussida e Flavio Premoli furono vinti dalla nostalgia
di casa in vista delle vacanze natalizie. Anche se in un’occasione Franz fu sul
punto di affogare Premoli in piscina!
Mauro Pagani, ritrovandosi con il gruppo a Mobile (Alabama) si ritrovò a
chiedersi: «Ma io che accidenti ci faccio
qui?». Non molto d’aiuto si sarebbe
rivelata la stessa copertina di CHOCOLATE KINGS, che mostrava una barra di
cioccolato avvolta in una carta accartocciata con i colori della bandiera
americana. Il colpo di grazia fu determinato infine dalla partecipazione della
PFM ad un evento organizzato in favore dell’O.L.P. (Organizzazione per la
Liberazione della Palestina) l’8 gennaio 1976 al Palazzo dello Sport di Roma,
che indusse i promoter americani (quasi tutti ebrei) a chiudere con la
“Premiata”. Il noto manager Bill Graham, che aveva creduto molto nel gruppo
italiano, si vide costretto a comunicare loro che avrebbero dovuto dimenticarsi
della West Coast. Dopo aver provato Ivan Graziani, tra il 1975 (con il
sopramenzionato album CHOCOLATE KINGS) e i primi mesi del 1979 ebbero
Bernardo Lanzetti (già vocalist degli Acqua Fragile) come cantante di ruolo.
Quest’ultimo, con i suoi lunghi capelli ricci, aveva una buona presenza scenica
e un’ottima pronuncia inglese, avendo vissuto per qualche tempo negli USA. Ivan
Graziani partecipò alla composizione di
From Under, che apriva CHOCOLATE KINGS. Il tour in Giappone del
novembre 1975, con la consegna del disco d’oro il giorno 20 a Tokyo, contribuì
in maniera decisiva a far amare il prog italiano in quel Paese. Alla fine di
uno di quegli show Djivas lanciò per aria il basso, ma, accecato dalla luce dei
fari, non riuscì ad agguantarlo mentre questo ricadeva: poco dopo nei camerini
si presentò un fan giapponese, rimasto colpito alla testa dallo strumento, con
l’intenzione di restituirlo, e Patrick glielo regalò. La PFM fu l’unico gruppo
italiano a comparire al noto programma musicale della Tv inglese The Old Grey Whistle Test, presentato da
Bob Harris: queste riprese a colori, pur senza pubblico ma con esecuzioni dal
vivo, ci consentono di avere un’idea di come si esibisse la band in quegli
anni: vennero suonate Four Holes in the
Ground il 22 ottobre 1974, Celebration,
Mr. Nine Till Five / Altaloma Five Till Nine (incluso l’assolo di violino e
l’overture di Guglielmo Tell) il 23 maggio 1975, e Chocolate Kings il 13 aprile 1976, con Bernardo Lanzetti alla voce.
A quest’ultimo show televisivo fece seguito un nuovo tour inglese: molto bello
il disco dal vivo alla Nottingham University del 1° maggio di quell’anno, con
il pubblico in delirio. In questo concerto l’assolo di batteria venne inserito
all’interno de La Carrozza di Hans,
mentre la platea accolse con un’ovazione Dove
e Quando nel momento in cui Pagani annunciò che era un brano incluso
nell’album COOK.
Alla fine dello show il pubblico inglese richiese con insistenza il pezzo che
tutti attendevano, e Di Cioccio li accontentò urlando al microfono:
«Celebration!».
Pochi giorni dopo, il 6 maggio, mentre si trovavano alla Royal Albert Hall di
Londra, ebbero modo di conoscere la regina madre Elisabetta, che stava visitando
la celebre sala da concerto, e Flavio Premoli suonò per lei L’Adagio di
Albinoni: quella volta tutti i roadies inglesi, che poco prima sembravano dei
pirati ubriachi, cominciarono a dirsi l’un l’altro: «C’è
la regina, c’è la regina!», e cominciarono subito a
comportarsi disciplinatamente. Nel corso della tournèe del 1976 in Italia
suonarono anche spunti strumentali quali Mediterranea Jam e La Grande Fuga, che sarebbero finiti con titoli diversi (Traveller e Meridiani) sul disco successivo. La gran parte dei brani presenti
nel box-set all’interno del terzo Cd venne registrata a Palermo nell’ottobre di
quell’anno, comprese diverse improvvisazioni, cui vennero dati titoli quali Spanish Jam e Pascolo Siderale Jam. Mauro Pagani lasciò la PFM senza astio quello
stesso anno, sostituio da Greg Bloch, ma solo per l’album JET
LAG e relativa
tournée, nel 1977: in quei giorni il gruppo aveva deciso di fare a meno del
violino, dopo la partenza di Pagani, ma Greg (scomparso nel 1982) chiese di
partecipare ad una prova con loro, mentre si trovavano in California, e venne
assunto quella sera stessa. Fu con lui che vennero dunque eseguiti anche i
brani vecchi e quelli del disco precedente, quali Out of the Roundabout (“Fuori dal cerchio”), introdotta da Lanzetti
con la sua spiegazione riguardante il fatto che la sopravvenuta mancanza della
distinzione netta tra le quattro stagioni dell’anno aveva indotto nell’uomo un
senso di smarrimento. La title track del nuovo disco era divisa in due parti,
una cantata e una strumentale, che riprendeva nella sua conclusione quello che
era il tema dell’inizio. JET LAG venne registrato tra Los Angeles e Londra, e ad agosto la
PFM partì per un nuovo USA tour. Esistono filmati della Rai che documentano
l’esecuzione di Left Handed Theory e una
intervista alla band con il baffuto Greg Bloch. Quest’ultimo, sul palco, si
esibiva anche in un assolo di violino contenente richiami alle ballate country.
Ma alla PFM l’ingaggio del pur bravo musicista americano risultò eccessivamente
oneroso (considerate anche le spese di viaggio per farlo tornare periodicamente
a casa), e si dovette fare a meno del suo contributo. Durante il periodo
jazz-rock di JET LAG
Patrick Djivas ebbe modo di fare amicizia con Jaco Patorius e Leo Fender. La
tournée di PASSPARTU’ (1978)
attraversò solamente l’Italia, con la band a bordo di un furgone verde: al
gruppo si erano aggiunti Roberto Colombo (tastiere e seconda chitarra) e
Roberto Haliffi, un percussionista di origini siciliane che utilizzava vari
strumenti, chiamati scherzosamente “cacioffe”. Di Cioccio conobbe proprio in
quel periodo Frank Zappa, tentando invano di stringere una collaborazione con
lui, dal momento che il celebre artista statunitense non comprese il senso dei
surreali testi del nuovo album, scritti da Gianfranco Manfredi. Il brano Se Fossi Cosa, tratto da quel disco, venne presentato in Tv a Discoring da Gianni Boncompagni, subito
prima della partenza della tournée da Palermo. Fantastica la versione live
dello stesso brano Passpartù presente
nel cofanetto come unica traccia a testimoniare il tour di quell’anno, con
bellissimi fraseggi di Mussida alla chitarra acustica e un brillante sound
jazz-rock. Il posto di Greg Bloch al violino venne preso da Lucio Fabbri dal
1979 in avanti. Quest’ultimo era già presente con la band nel corso del tour
insieme a Fabrizio De André, che si svolse dal 21 dicembre 1978 al 1° febbraio
1979: il cantautore genovese era andato a vedere un concerto della PFM in
Sardegna, dove risiedeva, e si mostrò riluttante di fronte alla proposta di
Franz di partire in tournée con i brani suoi arrangiati dal gruppo. «Con
tutto il chiasso che fate mi coprirete» disse Fabrizio. Invece Mussida,
Premoli e Djivas si fecero carico di lavorare ciascuno su alcuni brani
selezionati dal repertorio di De André, che apprezzò a tal punto da pretendere
gli arrangiamenti della PFM anche per gli anni seguenti, quando sarebbe stato
accompagnato da altri musicisti. Il disco dal vivo venne registrato in gran
parte al Teatro Tenda di Firenze il 13 e 14 gennaio del 1979, ma anche al
Palasport di Bologna nei due giorni sucessivi, con l’ausilio del Manor Mobile
Recording Studio di Londra. Roberto
Colombo faceva parte della band. La conclusione strumentale di Amico Fragile permetteva a Franco
Mussida di esibirsi in un fantastico assolo, mentre la PFM si riappropriava per
qualche minuto della propria anima progressive. Il bellissimo libro Evaporati in una Nuvola Rock, a cura di
Guido Harari e Franz Di Cioccio, avrebbe documentato nei dettagli quel tour
irripetibile, corredato dalle splendide foto dello stesso Harari. Il disco
uscì a nome di Fabrizio De Andrè, con
l’aggiunta della dicitura “arrangiamenti PFM”, e vedeva in copertina uno scatto
del pubblico virato in verde, più le immagini di “Faber” e di tutta la band
schierata insieme a lui mentre riceveva l’applauso finale. In un’occasione De
Andrè si sentì contestato di continuo da un tizio in platea: irritato, smise di
esibirsi e scese dal palco per affrontare questa persona: ne uscì malconcio,
colpito al volto, e tornò sulla scena dicendo a Mussida e a Djivas: «Belìn,
come menava!». Tornò a sedersi e riprese a
cantare, accompagnandosi con la chitarra acustica, come se nulla fosse
successo. Il primo “volume” del concerto, pubblicato in quello stesso
1979, riscosse più successo rispetto al
secondo, grazie anche alla briosa versione de Il Pescatore: la PFM avrebbe continuato ad eseguire questo brano fino
ai giorni nostri, inserendolo anche nel disco dal vivo del 1998, e suonandolo
durante la reunion con Mauro Pagani al concerto romano del 1° maggio di quello
stesso anno in Piazza San Giovanni. La seconda parte dello spettacolo con De
Andrè uscì nel 1980, con Franco Mussida coinvolto nei missaggi e un maggior
ampliamento dello spazio stereofonico. Registrato sempre a Firenze e Bologna,
ottenne però un successo inferiore, dal momento che i brani più conosciuti
erano già stati pubblicati l’anno prima. I due lavori presentavano solo pezzi
di Fabrizio, ma in realtà alla fine dei concerti la PFM suonava anche Celebration. Lucio Fabbri si esibì per
la prima volta quale componente effettivo della band (ancora con Roberto
Colombo nella line-up) il 14 giugno del 1979 all’Arena Civica di Milano in
occasione del concerto per Demetrio Stratos, comparendo con capelli lunghi,
baffi e camicia azzurra più cravatta, mentre “Francone” Mussida mostrava
pimpante una maglietta gialla e chioma corta prematuramente ingrigita; ed era
di nuovo con loro durante lo show ripreso dalle telecamere tre mesi dopo nella
stessa Arena Civica il 10 settembre, con Alberto Fortis come open act e una
versione accorciata di Four Holes in the
Ground in apertura. Nell’occasione vennero eseguite anche una nuova
interpretazione de Il Banchetto e la cover di Eleanor Rigby dei Beatles. Nel 1980 la PFM opta per una svolta pop-rock
di buona qualità, pubblicando l’album SUONARE SUONARE, dal quale vengono tratti nuovi classici per i
concerti dal vivo: la title track, Si Può
Fare e Maestro della Voce:
quest’ultimo brano, dedicato all’amico Demetrio Stratos, è contraddistinto da
un bel giro di basso che i fan riconoscono fin dalle prime note. E’ di questo
anno anche il concerto ripreso dalla Radiotelevisione Svizzera Italiana. Il
successivo COME TI VA IN RIVA ALLA CITTA’ (1981) vede Lucio Fabbri
sostituire Flavio Premoli alle tastiere. Chi
ha Paura della Notte? si rivela il pezzo più trascinante sia sul disco che
in concerto. L’album dal vivo intitolato PERFORMANCE (1982) documenta bene questo
periodo, mettendo insieme pezzi recenti e
versioni nuove di quelli storici, con Fabbri impegnato pure alla
chitarra e Di Cioccio sempre più scatenato nel ruolo di frontman. Le
registrazioni vennero effettuate presso lo stesso Teatro Tenda di Firenze che
aveva ospitato la band nel corso delle incisioni relative al live con De Andrè.
Gli ultimi due dischi degli anni Ottanta sono PFM? PFM! del 1984 e MISS
BAKER del 1987.
L’anno prima io vedo il gruppo in concerto a Scordia, e durante il soundcheck
li ascolto mentre suonano Black Market
dei Weather Report, ricordando la loro infatuazione per il jazz-rock relativa
ai tempi di JET LAG.
Dopo dieci anni di scioglimento “non ufficiale” la PFM torna in tour alla fine
del 1997, documentando il tutto sul doppio Cd dal vivo del 1998, registrato a
gennaio tra Roma e Napoli, con i concerti che si aprono con una potente
versione de La Carrozza di Hans, che
manda il pubblico in visibilio. Del nuovo disco ULISSE (1997) è da sottolineare la
bellezza di Sei, brano quieto cantato
da Premoli, con una chiusura incalzante che vede Franco Mussida lasciarsi
andare in un bellissimo assolo di chitarra. Io riprendo da sotto il palco anche
questo pezzo durante il concerto di Biancavilla nel 2001, e Di Cioccio mi chiede
di inviargli a casa una copia del filmato. La versione su Cd di LIVE
IN JAPAN 2002 si
apre con la magnifica Sea Of Memories,
che vede il caratteristico sound del gruppo fondersi mirabilmente con la sempre
ispirata voce di Peter Hammill. La band torna anche negli States per
partecipare a vari festival di rock progressivo. Altri dischi registrati in
studio sono SERENDIPITY
(2000), DRACULA OPERA ROCK (2005, ultimo con Flavio Premoli) ed
EMOTIONAL TATTOOS
(2017). A.D. 2010 - LA BUONA NOVELLA vedeva la band impegnata
in una nuova versione dell’omonimo lavoro di Fabrizio De Andrè del 1970, che
aveva visto i componenti del gruppo partecipare nel ruolo di sessionmen.
L’opera, ispirata ad alcuni Vangeli apocrifi, venne proposta dalla PFM anche in
tournèe. Se il divorzio con Bernardo Lanzetti non era stato molto cordiale,
Mauro Pagani sarebbe invece tornato con la PFM nel 1998 per qualche pezzo in
diretta televisiva alla fine dell’annuale concerto del 1° maggio in Piazza San
Giovanni a Roma, con giacca scura e capelli di nuovo lunghi, cantando con foga La Carrozza di Hans. E per un intero
concerto il 29 agosto 2003 a Siena (evento immortalato sul Dvd Piazza del Campo), suonando flauto e
violino, questa volta in maglietta rossa, in uno show che ricordava quelli del
1974, compreso l’inizio con la sempre magnifica River of Life. Il 25 settembre 2004 i Malibran erano previsti come
open act della PFM alla Villa Bellini di Catania: mi ero sentito più volte con
la loro manager Iaia De Capitani, ma proprio quel loro show venne annullato.
Era il periodo nel quale il gruppo portava in giro il suo tour “PFM canta De
André”, che vedeva nella sua prima parte una selezione di brani del cantante
genovese (ricordando la fortunata tournée 1978-1979), e nella seconda una bella
carrellata dei classici della PFM. Nel corso degli ultimi 20 anni la Premiata
Forneria Marconi, come accennato, ha pubblicato diversi Cd e Dvd inediti. Da
sottolineare l’ottima riuscita del disco STATI DI IMMAGINAZIONE
(2006), che riporta
la band ad atmosfere più accostabili al progressive: i brani, uno più bello
dell’altro (a cominciare dall’iniziale La
Terra dell’Acqua) sono tutti strumentali, e al Cd è allegato un Dvd
contenente otto cortometraggi da abbinare a ciascuno dei pezzi, che dal vivo
venivano presentati su maxischermo: ognuno di quegli show si apriva con
un’inaspettata L’Isola di Niente, e
riportava in scaletta Chocolate Kings.
Altro lavoro splendido è PFM IN CLASSIC del 2013, che vede il gruppo
eseguire brani di musica classica accompagnato da un’intera orchestra
sinfonica: quest’ultima impreziosisce a sua volta qualche pezzo storico della
band. Le immagini riprese in occasione dell’annuale “Estival Jazz” di Lugano,
il 5 luglio di quello stesso anno, ci premettono di vedere i componenti della
“Premiata” in eleganti abiti grigi insieme all’orchestra della Svizzera
italiana. Franco Mussida, capelli lunghi bianchi e volto sorridente, si rivolge
al pubblico cercando di spiegare quanto fosse bello esibirsi dal vivo insieme
ad un’orchestra. Quello però sarebbe stato il disco e il tour d’addio di
“Francone” con i suoi vecchi compagni. Da non dimenticare che il 5 novembre del
2010, nel corso della manifestazione romana chiamata “Prog Exhibition”, quasi a chiusura di un cerchio
la PFM aveva ospitato Ian Anderson proprio nei due brani dei Jethro Tull (Bourée e My God) che eseguiva nel lontano 1971. A sua volta Ian accompagnò
il gruppo suonando il flauto ne La
Carrozza di Hans, per poi salutare il pubblico definendo la Premiata
Forneria Marconi “La più grande prog band italiana di tutti i tempi”. La
formazione è ancora in attività, con Patrick Djivas, Franz Di Cioccio e Lucio
Fabbri nella line-up attuale. Il bassista compare in scena con una bandana,
mentre il frontman è sempre in grado di trascinare il pubblico saltellando su e
giù per il palco, non mancando mai di indossare una maglietta nera con la
scritta “Randagio”. Il tour di EMOTIONAL TATTOOS li porta in Giappone e nelle
tre Americhe. Quando
li vedo il 5 agosto 2018 in provincia di Messina, durante la successiva tournèe italiana, l’album
d’esordio dei Gentle Giant viene mandato in diffusione prima dello show. Il
successivo 13 settembre la PFM viene premiata a Londra come “Band
internazionale dell’anno” ai Prog Music Awards britannici. Nel 2019 il gruppo
si esibisce di nuovo in Inghilterra e partecipa per la terza volta a “Cruise To
The Edge”, l’annuale crociera che vede esibirsi a bordo di una nave di lusso
grandi nomi del rock progressivo quali Yes, Marillion, Gong, Martin Barre, Neal
Morse, Carl Palmer e Steve Hackett. In occasione dei 40 anni dal fortunato
connubio tra la PFM e il cantautore genovese, la band torna sui palchi di tutta
Italia tra marzo e maggio dello stesso anno con un tour denominato “PFM canta
De Andrè Anniversary”, che vede il ritorno di Flavio Premoli nella veste di
ospite. A proposito di quell’esperienza Faber si era espresso in questi
termini: «Il nostro è stato il primo
esempio di collaborazione tra due modi del tutto diversi di concepire ed
eseguire le canzoni. Una esperienza irripetibile, perché la PFM non era solo
un’accolita di ottimi musicisti riunita per l’occasione, ma un gruppo
importante che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno
hanno preso tutto questo e l’anno messo al mio servizio».
I FESTIVAL DI ROCK
PROGRESSIVO E GLI AREA
I festival di musica “progressiva” che si susseguirono nel
nostro Paese furono tantissimi. Solo per citare i più noti: Terme di Caracalla,
Re Nudo, Avanguardia e Nuove Tendenze (a Viareggio nel 1971, a Roma nel 1972),
Be-In (organizzato dagli Osanna nel 1973), Palermo Pop ’71, Davoli Pop, Villa
Pamphili e Parco Lambro. Con la possibilità per tantissimi gruppi di mettersi
in mostra (alcuni pur senza essere riusciti a pubblicare un solo disco) anche a
fianco di ospiti stranieri quali i Van Der Graaf Generator. In occasione del
Festival di Villa Pamphili del maggio 1972, durante le prove del suono di
questi ultimi, Peter Hammill stupì tutti (compreso Francesco Di Giacomo) con i
suoi vocalizzi al microfono senza alcun accompagnamento strumentale, mentre il
baffuto Marcello Todaro (chitarrista dello stesso Banco) se ne andava in giro
per il prato con la figlioletta in braccio. All’evento, durato tre giorni,
parteciparono numerosi gruppi, tra i quali Osanna, New Trolls, Trip, Osage
Tribe, Flea On The Honey, Blue Morning e gli inglesi Hawkind. I VdGG giocarono
a calcio dietro al palco prima di esibirsi e conclusero il loro show con Theme One. Ospiti del Palermo Pop ’71
furono invece i Black Sabbath, presentati da una spaesata Rosanna Fratello. Il
sopracitato Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze di quello stesso anno vide
vincitori a pari merito Osanna, Mia Martini e Premiata Forneria Marconi: fu
proprio guidando il furgone al ritorno da questo evento che Franco Mussida
compose mentalmente La Carrozza di Hans,
poi provata a casa di Flavio Premoli. Il brano, eseguito alla Rai quello stesso
anno in occasione di Tutti Insieme
(programma che vedeva esibirsi Lucio Battisti e altri appartenenti
all’etichetta discografica Numero Uno) fu il primo a documentare la “Premiata”
con riprese professionali. Nell’occasione Mauro Pagani, in maglietta bianca,
cantò la sua parte aggressiva con un testo diverso da quello poi divenuto
definitivo. Il Banco del Mutuo Soccorso venne filmato invece nel corso dell’edizione
romana del festival d’Avanguardia e Nuove Tendenze, mentre eseguiva il brano R.I.P. Il gruppo esisteva già, ma trovò
la sua line-up classica dalla fusione tra Le Esperienze e i Fiori di Campo, che
avevano fatto amicizia durante il 2° festival di Caracalla, tenutosi a Roma nel
1971. Fu così che nacque il magnifico sodalizio tra Francesco Di Giacomo
(voce), i fratelli Gianni e Vittorio Nocenzi (tastiere), Pierluigi Calderoni
(batteria), Marcello Todaro (chitarra) e Renato D’Angelo (basso). Gianni Nocenzi
suonava soprattutto il pianoforte, ma anche il clarinetto e il flauto dolce,
sempre con un foulard al collo, mentre la band provava i suoi capolavori in una
semplice stalla di Marino, vicino Roma. In qualche modo Parco Lambro ’76 sancì
la fine di tutto, con politica, droga, scontri, polemiche e “cattive
vibrazioni” a prendere il sopravvento sulla musica. Proprio come era avvenuto
nel 1970 all’Isola di Wight rispetto al festival di Woodstock dell’anno
precedente. Un giovane Eugenio Finardi fu presente sul palco di quell’ultima
edizione del Parco Lambro con la sua esplosiva Musica Ribelle, accompagnato da Lucio “violino” Fabbri, futuro
componente della PFM (e anche in coppia con Demetrio Stratos alla fine degli
anni Settanta). Eddy Ponti era spesso il presentatore di questi festival. Beppe
Crovella, tastierista degli Arti e Mestieri (apprezzata band in bilico tra
jazz-rock e prog, appartenente al giro degli Area e della loro etichetta
Cramps) ebbe modo, per qualche bizzarra coincidenza, di vedere nel 1972, in Italia,
sia i Genesis che i Van Der Graaf Generator proprio nelle loro due esibizioni
più strane: era infatti tra il pubblico il 13 aprile in occasione del concerto
che i Genesis tennero al club “Le due Rotonde” di Cuorgnè praticamente senza
Tony Banks (in cattive condizioni di salute), quando riuscirono ad eseguire
solo quattro pezzi. E assistette anche all’esibizione dei VdGG che vide la band
di Peter Hammill costretta ad un improvvisato show acustico a causa della imprevista mancanza della
corrente elettrica. In seguito Crovella avrebbe fondato l’etichetta
Electromantic Music, pubblicando anche qualcosa dei Malibran. Quando gli Arti
& Mestieri suonavano insieme agli Area, Crovella si faceva prestare da
Stratos l’organo Hammond, ricambiando il favore con il suo piano elettrico
Wurlitzer. I sopracitati Area erano dei talentuosi musicisti che si erano
ritrovati a suonare insieme per un brano dell’album solista di Alberto Radius
(chitarrista de La Formula 3, il gruppo che accompagnava Lucio Battisti). Il
pezzo si intitolava proprio Area, e
da lì partì il progetto. Con Patrizio Fariselli alle tastiere, Giulio Capiozzo
alla batteria, Paolo Tofani alla chitarra, Patrick Djivas al basso più Stratos
alla voce e Busnello al sax, diedero alle stampe il loro primo Lp nel 1973,
intitolandolo con la stessa scritta, ARBEIT MACHT FREI, che campeggiava sopra il campo
di concentramento di Auschwitz (che, tradotto, significava beffardamente “Il
lavoro rende liberi”). Schierati apertamente a favore della causa palestinese,
composero quello che sarebbe diventato subito il loro inno: Luglio, Agosto, Settembre (nero). Quando
Djivas passò alla PFM, venne sostituito dall’altrettanto bravo Ares Tavolazzi
(che in seguito avrebbe lavorato anche con Francesco Guccini). La musica degli
Area era complessa, e spaziava tra jazz-rock, musica elettronica, balcanica,
etnica (la futura world music) e popolare (“International Popular Group” era la
dicitura posta sotto il nome del gruppo). Viceversa, la band non avrebbe mai
amato di vedersi ricondotta nell’alveo del progressive rock. Inoltre, come la
PFM, anche gli Area si riferivano a sé stessi in terza persona (“Area ha
detto”, “Area ha fatto”…). Quel tipo di composizioni molto articolate non
avrebbe potuto lasciare molto spazio alla voce di Demetrio Stratos, figura
imponente e dai lunghi capelli sfilacciati. Ma lui riusciva ad inserirsi
comunque, anche perché spesso si esprimeva con vocalizzi senza parole, come se
la sua voce fosse uno strumento come gli altri. Aveva studiato (e insegnato)
tutte le potenzialità della voce umana: dopo aver lavorato sugli antichi canti
delle popolazioni mongole, era anche in grado di emettere due voci
contemporaneamente. Di certo è stata la voce maschile più impressionante della
musica italiana. Stratos era di origini greche, ma si era trasferito in Italia
da piccolo, e aveva uno spiccato accento romagnolo: amava Tom Jones, e quando
il gruppo beat chiamato I Ribelli lo ascoltò alla fine del 1966 mentre
interpretava una serie di cover nel locale milanese Santa Tecla, si sorprese
quando, chiacchierando con lui dopo lo spettacolo per invitarlo ad entrare
nella band, lo sentì parlare con quell’accento: erano convinti che non sapesse
esprimersi in italiano. Insieme a I Ribelli Demetrio Stratos conobbe un buon
successo grazie al brano Pugni Chiusi
(1967). Con gli Area in Cometa Rossa
cantava in greco, mentre durante La Mela
di Odessa (con tanto di mele vere morsicchiate sul palco) raccontava una
storia, più che cantarla. Sempre impegnati politicamente, gli Area si
presentavano in scena con il pugno alzato prima di cominciare a suonare, e
terminavano lo show con una stralunata
versione de L’Internazionale: e
questa volta era il pubblico ad ascoltarli con il pugno alzato. Spesso si
esibivano gratis alle Feste dell’Unità. Durante il brano Lobotomia (come testimoniato dal film sul Parco Lambro ’76,
intitolato Nudi Verso La Follia)
Patrizio Fariselli scendeva tra il pubblico portando con sé un cavo collegato
alle diavolerie elettroniche di Paolo Tofani: quando le persone toccavano questo
cavo, venivano emessi suoni di diversa altezza e intensità, permettendo così
alla band di interagire con il pubblico e di farlo in qualche modo partecipare
in prima persona alla performance. Il secondo Lp, intitolato CAUTION
RADIATION AREA,
uscì nel 1974 e conteneva le citate
Cometa Rossa (in apertura) e Lobotomia
(in chiusura). E’ qui che troviamo per la prima volta la line-up storica della
band: Stratos, Fariselli, Capiozzo, Tavolazzi e Tofani. L’anno succcessivo
venne pubblicato CRAC!, con l’uovo rotto da un cucchiaino in copertina, che
sarebbe rimasto il loro disco più accessibile, soprattutto con brani quali L’elefante Bianco e la scanzonata (si fa per dire) Gioia e Rivoluzione, nella quale Stratos
cantava “Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia”. Del primo
dei due titoli citati esiste un filmato a colori della Rai, con la concitata
voce di Demetrio che incita “Corri forte, ragazzo corri, la gente dice sei
stato tu”. L’album dal vivo intitolato ARE(A)ZIONE (1975) documenta bene quelle
che erano le performance di questo periodo: registrato tra Milano, Napoli,
Rimini e Reggio Emilia, rimane la testimonianza di miglior qualità audio del
gruppo sul palco. Gli Area si esibirono anche in Portogallo e in Francia: esiste
il Cd PARIGI-LISBONA che documenta queste loro “trasferte” del 1976. Il 27
ottobre di quello stesso anno registrarono dal vivo
EVENT ’76 presso
l’Università statale di Milano, con una line-up rimaneggiata (solo Stratos,
Fariselli e Tofani erano ancora presenti) e l’improvvisazione intitolata Caos ad occupare quasi l’intero lavoro
(eccetto la title track, che era una diversa versione di Scum). Formidabile il basso di Tavolazzi sui brani di altri
dischi, quali Il bandito del Deserto
(sull’ultimo Lp degli Area con Demetrio) e L’Albero
Di Canto (sul disco solista di Mauro Pagani). Nel 1977 la Rai trasmise uno
speciale in bianco e nero che vedeva gli Area impegnati a presentare in
playback il loro album MALEDETTI! pubblicato l’anno precedente:
Demetrio Stratos spiegava il significato di ogni pezzo al pubblico televisivo,
mentre Tofani era intento a partecipare alla performance anche passandosi sul
viso un rasoio elettrico. Però non c’erano né Tavolazzi al basso (sostituito
dal musicista di colore Hugh Bullen) né Capiozzo alla batteria: al posto di
quest’ultimo compariva un giovane Walter Calloni, che pochi anni dopo sarebbe
entrato nella PFM, quando Di Cioccio passò dai tamburi al microfono (proprio
come Phil Collins con i Genesis!). Relativi al tour di MALEDETTI! sono i dischi dal vivo
LIVE IN TORINO 1977 e
CONCERTO TEATRO UOMO (registrato a Milano nell’aprile dello stesso anno),
entrambi con la formazione classica. Questi due
show contengono sia brani storici che estratti dal nuovo lavoro, quali Gerontocrazia, Scum e Giro, Giro, Tondo. Anche Francesco Di
Giacomo mi ha parlato con nostalgia delle conversazioni avute insieme a
Demetrio dietro al palco di qualche concerto. L’ultimo album degli Area con la
voce di Stratos fu GLI DEI SE NE VANNO, GLI ARRABBIATI
RESTANO, del 1978.
Quello stesso anno gli Area parteciparono al primo disco di Mauro Pagani, e
andarono con lui a suonare all’Undicesimo Festival della Gioventù Cubana. Nel
1980 diedero alle stampe TIC & TAC, dalla matrice più marcatamente
jazz, senza Stratos (scomparso l’anno prima) e Tavolazzi (il suo ultimo lavoro
in studio era stato MALEDETTI! del 1976). Pagani in seguito
avrebbe stretto una lunga e profiqua collaborazione con Fabrizio De Andrè. Di
recente gli Area si sono esibiti di nuovo con l’ex PFM in veste di ospite, dal
momento che anche loro si sono riformati: Fariselli, Tavolazzi, un giovane
batterista e Tofani. Quest’ultimo, Hare Krishna dagli anni Settanta, appare
oggi calvo e piuttosto ingrassato, ma anche molto simpatico. Io ho avuto modo di
vederli nella formazione in trio, con Patrizio Fariselli, Ares Tavolazzi e
Giulio Capiozzo. Nel 1995 ho incontrato lo stesso Capiozzo, batterista
originale degli Area, purtroppo scomparso pochi anni dopo. Memorabile rimane
comunque il concerto organizzato all’Arena Civica di Milano il 14 giugno del
1979, che vide sul palco, tra gli altri, gli stessi Area omaggiare il talento e
la personalità del loro vecchio compagno.
GLI SCONTRI PER LA MUSICA GRATIS
Gli scontri tra la polizia e il
pubblico (soprattutto contro quanti reclamavano “la musica gratis”) si
protrassero in Italia per tutti gli anni Settanta, con gli incidenti in
occasione del concerto dei Led Zeppelin al Vigorelli di Milano nel 1971, di quello
dei Jethro Tull a Bologna nel 1973, i palchi di Lou Reed e Santana dati alle
fiamme (rispettivamente nel 1975 e nel 1977), più i “processi politici” a
Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Quest’ultimo si vide costretto a
spiegare ai contestatori che i suoi testi celavano significati a favore del
proletariato, mentre De Gregori avrebbe smesso di esibirsi in concerto dal 1976
al 1979, quando ebbe luogo la tournée di BANANA REPUBLIC insieme a Lucio Dalla. I manager
italiani (soprattutto Zard, Mamone e Sanavio) che portavano in Italia i grossi
gruppi stranieri venivano accusati di arricchirsi a spese dei giovani.
Soprattutto, si pretendeva che la musica fosse “di tutti”, e che non si dovesse
pagare per ascoltarla: Gianni Nocenzi del Banco Del Mutuo Soccorso si disse
d’accordo, a patto che fosse il pubblico ad onorare le cambiali per gli
strumenti acquistati! Durante un’intervista i Gentle Giant, spesso in Italia,
cercarono di far capire che, tolte le spese, anche i musicisti dovevano poter
mangiare, e che la musica era il loro lavoro, e non un passatempo. La PFM subì
un’aggressione, con Franco Mussida pronto a fronteggiare i più esagitati
stringendo la chitarra per il manico, come fosse una clava. Nell’occasione
Franz Di Cioccio, il batterista della stessa “Premiata”, la mise sul ridere:
chiamò sul palco uno dei contestatori,
gli consegnò le bacchette e gli disse: «Ah,
la musica è di tutti? E allora suona tu».
Capitava spesso che gruppi già pronti per esibirsi, sentendo che gli
“auto-riduttori” avevano sfondato da qualche parte per irrompere nel luogo che
ospitava il concerto, riponessero gli strumenti nelle custodie per tornarsene a
casa. Il risultato di tutto questo trambusto fu comunque che l’Italia venne
praticamente cancellata dai tour di tutti i grandi gruppi inglesi e americani.
I Van Der Graaf Generator, riformatisi nel 1975 dopo lo scioglimento del 1972,
si fecero vedere solo perché riuscirono ad esibirsi sulla riviera romagnola, in
un clima di vacanze e ombrelloni. Ma quando suonarono a Roma, nel dicembre del
1975, subirono il furto del furgone con tutti gli strumenti dentro, e,
nonostante fossero riusciti a recuperare quel materiale, se ne tornarono a
casa; sarebbero dovuti venire a suonare
anche nel Sud Italia e a Catania quello stesso mese, ma, dopo i fatti di Roma,
tutte le date rimanenti vennero
cancellate. E il sottoscritto li avrebbe
visti solo 30 anni dopo, come detto, a Roma e a Taormina. Quest’ultimo concerto
fu quello che David Jackson avrebbe ricordato come il più bello tra quelli del tour
del 2005. E il brano Still Life, facente
parte di una edizione del loro live REAL TIME, relativo a quell’anno con bonus tracks, era tratto
proprio da quello show. Di fatto il nostro Paese perse l’occasione di vedere i
gruppi più grandi della storia del rock proprio nel momento del loro massimo
fulgore. I Genesis e i Jethro Tull si sarebbero rifatti vivi solo nel 1982,
quando le acque si furono calmate. Diversi pullman dell’agenzia di viaggi
“Medianova Spettacoli” partivano appositamente da Torino e Milano per
permettere ai giovani italiani di vedere i loro gruppi preferiti a Parigi,
Zurigo, Vienna e in altre città europee, riportandoli a casa a fine concerto.
Durante uno show dei Genesis a Lione Phil Collins finì per parlare più in
italiano che in francese. A parte l’edizione di Parco Lambro ’76, la politica
mise in secondo piano la musica: mentre gli Area venivano acclamati per il loro
presentarsi sulla scena con il pugno alzato, gli Osanna suonarono una loro
versione di Bandiera Rossa. Elio
D’Anna, entusiasta a seguito della reazione del pubblico, una volta sceso dal
palco incitò gli altri del gruppo dicendo loro, in dialetto napoletano: «Ragazzi, dobbiamo farla di nuovo!». Anche il Biglietto per l’Inferno si
esaltò quando udì un boato del pubblico durante il brano Confessione, immaginando di
essere riuscito a scaldare gli animi con la propria musica. In verità il
vocalist Claudio Canali aveva cantato il verso “Un amico ha parlato di preti,
mai visti, chi sono, che fanno. Ciarlatani, mercanti o profeti, ma tolgano
questo mio affanno”. Egli non aveva inteso affatto parlare male dei preti, ma
ai giovani raccolti davanti alla band, naturalmente tutti anticlericali, era
bastato l’accostamento tra la parola “preti” e l’espressione “ciarlatani” per
esplodere nell’ovazione di cui sopra.
PINK FLOYD
Uno show in qualche modo assimilabile a
THE LAMB LIES DOWN ON BROADWAY
dei Genesis (un’unica storia, un doppio album portato per intero in concerto
come una sorta di musical rock, immagini proiettate, vari personaggi, ecc.) fu THE
WALL dei Pink
Floyd, in tour tra il 1980 e il 1981 per una ventina di spettacoli in poche
città. A differenza dei Genesis, i Floyd non avrebbero concesso alcun bis, e
dopo il roboante crollo finale del muro (costruito man mano durante lo spettacolo,
fino a nascondere gli stessi musicisti al pubblico) si andava tutti a casa. Di
fatto fu questo l’atto finale della band insieme a Roger Waters, autore di
tutto il progetto, con il tastierista Rick Wright ormai stipendiato come gli
altri musicisti esterni alla band.
Dietro le quinte i componenti del gruppo
nemmeno si parlavano più tra loro. Lo spettacolo era comunque grandioso,
e David Gilmour ne era anche il direttore artistico. Il successivo THE
FINAL CUT, pur
pubblicato a nome Pink Floyd, può essere considerato quasi un album solista di
Waters, con l’apporto di Gilmour (che canta in un solo brano) e Mason (che non
suona neanche su tutti i pezzi). Né il disco fu supportato da alcun tour.
Alcune di quelle canzoni erano comunque molto belle, e il suono dell’album si
avvaleva del sistema olofonico, con effetti binaurali che consentivano di
ascoltare in cuffia rumori, quali quelli di monete tintinnanti, non solo in
stereo (canale destro e sinistro), ma con suono “circolare” (anche sopra e
sotto): per ottenere questo risultato ci si avvaleva di una sorta di testa da
manichino opportunamente microfonata. Rick Wright era stato di fatto sostituito
dagli arrangiamenti orchestrali di Michael Kamen. Il lavoro venne registrato
nel 1982, poco dopo la fine della guerra delle Falklands, che aveva viste
contrapposte Inghilterra e Argentina: si trattava dunque di un disperato inno
pacifista da parte di Roger Waters, che sulla traccia d’apertura, The Post War Dream, rivolgendosi alla
premier britannica Margaret Thatcher, urlava: «Maggie,
cosa abbiamo fatto?». Il disco era dedicato al padre
di Roger, caduto durante lo sbarco alleato di Anzio. Ma i fan dell’epoca non lo
percepirono come un disco dei Pink Floyd vero e proprio, e il suo stesso
titolo, “Il Taglio Finale”, sembrava voler mettere la parola fine sulla storia
del gruppo. Molto diversa era la situazione quando la band mosse i suoi primi
passi a metà degli anni Sessanta: David non c’era ancora (sarebbe entrato nei
Floyd solo per il secondo disco, A SAUCERFUL OF SECRETS) e il gruppo era guidato dal
geniale Syd Barrett, chitarrista, cantante e compositore. Fu con Barrett che il
gruppo firmò per la EMI e pubblicò i primi singoli, fino al caleidoscopico
album d’esordio THE PIPER AT THE GATES OF DOWN del 1967: una spruzzata di
colori e creatività psichedelica tradotta in musica. Una foto li ritraeva
festanti e a gambe levate dopo la firma del contratto. Fu lo stesso Syd a dare
alla band il nome Pink Floyd, dai nomi dei bluesmen di colore Pink Anderson e
Floyd Council. Il gruppo si esibiva spesso all’ Ufo Club di Londra, dalla notte
all’alba, davanti ad un pubblico di giovani che vivevano appieno l’era della
“Swinging London” tra diapositive colorate, droghe di ogni tipo, abbigliamenti
stravaganti e nudità artisticamente dipinte: insomma, la cornice ideale per la
musica ipnotica dei primi Floyd, che sarebbe bastata da sola a trasportare i
presenti in un altro mondo, senza neanche che si capisse quale strumento
creasse un suono piuttosto che l’altro: lunghissime improvvisazioni
strumentali, volutamente poco intellegibili e del tutto fuori dai canonici
schemi della forma canzone, rimanendo sempre esclusi i singoli che li avevano
resi conosciuti al pubblico, come Arnold
Layne e See Emily Play. Il
giornale underground «It» supportava
questo variegato movimento giovanile londinese della fine degli anni Sessanta.
Per inciso Emily era una ragazza hippy che davvero frequentava le rockstar
dell’epoca: ancora oggi è un’eccentrica artista che scolpisce grandi teste in
pietra nella campagna toscana. Con Barrett i Pink Floyd realizzarono diversi
videoclip: durante quello di Astronomy
Domine Syd allargava le braccia illuminato da luci intermittenti, esibendo
la sua Fender Telecaster decorata da specchietti rotondi. Il film intitolato London 1966 / 1967 ci permette di
vederlo in maglietta a righe rosse e nere durante le lunghe improvvisazioni di Interstellar Overdrive e dell’inedita Nick’s Boogie, filmate presso i Sound Techniques Studios di Chelsea nel gennaio
del 1967. Le riprese includono immagini dei Pink Floyd insieme a Syd all’UFO
Club e in occasione del “14 Hour Technicolour Dream”, svoltosi in aprile presso
l’Alexandra Palace. Con lui partirono per il primo tour americano nell’ottobre
dello stesso anno. Insieme a Jimi Hendrix e ai Nice di Keith Emerson
condivisero quindi la tornée britannica che prese inizio il 14 novembre alla
Royal Albert Hall. Poi però avvenne qualcosa: semplicemente (e tristemente) il
giovane, bello e talentuoso Syd Barret impazzì. Forse qualche dose eccessiva di
LSD aveva aggravato una qualche latente forma di malattia mentale. Fatto sta
che, quando a qualcuno fu chiesto di andare a cercare Syd, che sembrava
scomparso, questi fu trovato a casa. E non era più lui. Il suo sguardo era
spento, come se all’interno della sua testa qualcuno avesse premuto un
interruttore: “click”, e il giovane Barrett, talentuoso, creativo e simpatico,
non c’era più. E mai sarebbe tornato. Gli altri del gruppo tentarono di tenerlo
ancora nella band, ma il loro vecchio compagno magari non si presentava ad un
concerto, oppure rispondeva in modo sconnesso durante qualche intervista
televisiva. In un’occasione non mosse le labbra quando avrebbe dovuto mimare un
brano in playback. Durante qualche show lasciò anche il braccio a penzolare sulla
chitarra senza prendere accordi, facendo risuonare le corde a vuoto e
producendo solo un gran rumore. Non era più possibile controllarlo. Così,
quando arrivò il momento di andare a prendere Syd per una serata nell’aprile
del 1968, gli altri Floyd decisero che sarebbe stato meglio lasciarlo a casa e
sbrigarsela da soli insieme a David, liberandosi dall’ansia di non sapere quel
che avrebbe potuto combinare. Waters e Mason avevano studiato insieme
architettura al Politecnico di Cambridge, mentre Syd e David Gilmour erano
amici e avevano fatto anche un viaggio insieme in Francia. Così fu Gilmour,
dopo un periodo che vide insieme entrambi i chitarristi, a prendere il posto di Barrett. Come si disse
allora, “i Pink Floyd non sarebbero mai nati senza Syd Barrett, ma non
avrebbero potuto continuare con lui”. Eppure uno schiacciante senso di colpa
avrebbe per sempre graffiato l’anima degli altri componenti del gruppo, che
sentirono di aver abbandonato l’amico nel momento del bisogno. E, nonostante
Syd compaia di fatto solo sul primo disco dei Floyd, la sua eredità avrebbe in
qualche modo contaminato tutta la loro carriera, contribuendo al loro successo
planetario: Gilmour cominciò infatti a suonare nella band utilizzando lo stile
e i “trucchi” chitarristici di Barrett (venati, però, da uno stile più blues e,
con il tempo, più elegante e personale); la follia della quale si parla in THE
DARK SIIDE OF THE MOON
(1973) è quella di Syd. In WISH YOU WERE HERE (1975) si parla ancora di lui;
lo stesso può dirsi per quanto riguarda THE WALL (sia il disco che il successivo
film). In qualche modo Syd Barrett è rimasto sempre nei Pink Floyd. Proprio
durante le registrazioni del disco WISH YOU WERE HERE
ad Abbey Road
(i ben noti studi delle strisce pedonali sulle quali sfilavano i Beatles nella
loro famosissima copertina) i Floyd videro Barrett per l’ultima volta. E
all’inizio nemmeno lo riconobbero. Il bel giovanotto dai capelli ricci e dallo
sguardo ammaliante era diventato un uomo grasso e calvo, con sopracciglia
rasate (come il protagonista del film THE WALL), lo sguardo perso nel
vuoto e una stupida busta di plastica in
mano. “Ma lo sai chi è quello?”. “No, chi diavolo è?”. “E’ Syd”. Roger Waters
si mise a piangere. Gli fecero ascoltare in sala regia Shine on You Crazy Diamond (“Brilla, diamante pazzo”), che era
dedicata a lui. Ma Barrett non diede l’impressione di capire molto, domandando
perché la ascoltassero più volte. E quando andò via, vedendo che stava cercando
un passaggio, qualcuno dell’entourage dei Floyd si abbassò nella macchina per
non farsi notare: come sostenere una conversazione con quello strambo soggetto,
riportandolo a casa? Non lo avrebbero rivisto mai più. Nel 1982 un giornalista
tedesco riuscì con una scusa ad introdursi in casa sua e a rivolgergli delle domande,
ma ottenne solo risposte prive di senso. I negozi di tutto il mondo
continuavano a vendere i dischi dei “suoi” Pink Floyd, divenuti frattanto uno
dei gruppi più famosi della storia della musica, e lui non ne era consapevole. Era riuscito a pubblicare due
album solisti, THE MADCAP LAUDGHS (registrato nel 1968, ma
pubblicato solo due anni dopo) e BARRETT del 1970, aiutato dagli altri
componenti della band, e si esibì per l’ultima volta a Londra il 6 giugno di
quello stesso anno, abbandonando il palco dopo aver suonato solo pochi brani.
L’ultimo suo show in assoluto fu quello tenuto con gli Stars nel febbraio del
1972 presso il Corn Excange di Cambridge. Nell’occasione
eseguì Octopus, Dark Globe, Gigolo Aunt,
Baby Lemonade, Waving my Arms e Lucifer Sam. Per oltre dieci minuti si perse in un assolo privo di senso,
con i capelli scompigliati sul volto, mentre se ne stava chino sulla chitarra
senza alzare quasi mai lo sguardo. Andava fuori tempo in continuazione e
lanciava occhiate di rimprovero ai suoi compagni, un bassista e un batterista,
come se fosse colpa loro. Sbagliava la tonalità dei brani e faticava a prendere
gli accordi giusti. Ad un certo punto si grattò il naso con un lieve sospiro.
La musica era del tutto priva di una struttura comprensibile. Il pubblico, che
aveva tanto atteso il ritorno dell’ex leader dei Floyd, andò via prima della
fine dello show: con i propri occhi aveva assistito al disfacimento di Barrett,
e nessuno era più in grado di fare nulla per aiutarlo. Materiale inedito tratto
dalle session per i suoi dischi solisti venne pubblicato nel 1988 con il titolo
di OPEL. Syd sarebbe morto a
Cambridge il 7 luglio del 2006. Dopo il
disco d’esordio, THE PIPER AT THE GATES OF DOWN, caratterizzato dalle
stranianti Astronomy Domine e Interstellar Overdrive, i Pink Floyd
avevano registrato A SAUCERFUL OF SECRETS tra l’agosto del 1967 e il
maggio del 1968 presso gli studi di Abbey Road e quelli di Sound Techniques,
presentandolo in pubblico il giorno della sua uscita al festival gratuito di
Hyde Park del 29 giugno con il nuovo chitarrista David Gilmour. Nell’occasione
Roger Waters comparve sul palco in foulard, occhiali rotondi arancioni e basso
Rickenbacker. Con questa formazione promossero vari brani alla Tv francese,
comprese le versioni dal vivo in pubblico di Let There Be More Light e
Flaming a Tous en Scene il 21
ottobre del 1968. Il lavoro conteneva
inoltre Set the Controls for the Heart of
the Sun, il pezzo ipnotico di Roger che sarebbe divenuto un loro classico,
insieme alla title track. Questo fu l’unico brano del disco, oltre a Remember a Day e Corporal Clegg, a permetterci di ascoltare insieme le due chitarre
di David e Syd, benché incise separatamente e poi abbinate nel mix finale. Il
solo pezzo scitto e cantato da Barrett sul secondo disco dei Floyd era Jugband Blues, con un incipit
inquietante che lasciava già intuire quale fosse il suo stato mentale: “E’
molto cortese da parte vostra pensarmi qui, e vi sono davvero obbligato per
aver chiarito che io non sono qui”. Il successivo MORE
(1969) era la
colonna sonora del film omonimo: i brani Green
is the Colour e Cymbaline
sarebbero stati quelli più eseguiti dal vivo. Dello stesso anno è anche il doppio
Lp UMMAGUMMA, che presenta due facciate
registrate in concerto, con quattro pezzi già editi (Astronomy Domine, Careful with That Axe Eugene, Set the Controls for
the Heart of the Sun e A Saucerful of Secrets) e le altre due con brani
affidati a ciascun componente della band. I pezzi dal vivo vennero incisi al
Mothers Club di Birmingham il 27 aprile del 1969 e al Manchester College of
Commerce il 2 maggio. I brani in studio vennero invece messi su nastro presso i
familiari studi di Abbey Road tra i successivi mesi di agosto e settembre.
Questo disco fu anche il primo ad entrare nella Top 100 degli Stati Uniti,
oltre che a raggiungere il quinto posto della classifica inglese. La front
cover presentava un collage di foto dello studio Hypgnosis nel quale i quattro
componenti della band venivano mostrati in posizioni diverse, come in un tunnel
che confondeva le idee all’osservatore. Il retro metteva invece in bella mostra
tutti gli strumenti e l’amplificazione dei Pink Floyd dell’epoca, disposti in
forma piramidale sulla pista di un’aeroporto, camioncino compreso. Nel 1970
uscì l’ambizioso ATOM HEART MOTHER, con il brano omonimo che
vedeva il gruppo accompagnato da un’intera orchestra sinfonica, più gli
arrangiamenti di Ron Geesin. Il nome Pink Floyd non compariva in copertina (vi
era semplicemente lo scatto di una mucca), mentre l’assistente del fonico era
il giovane Alan Parson, che avrebbe strabiliato tutti con la nitidezza dei
suoni ottenuto sul disco di tre anni dopo. Se il lato A è occupato dall’intera suite
orchestrale, il lato B presenta soprattutto la quieta If cantata da Roger Waters, Summer
’68 con la bella voce di Richard Wright (ancora contrappuntata da
interventi sinfonici) e Fat Old Sun
interpretata da Gilmour. Il titolo del disco proveniva da un articolo di
giornale che stava sfogliando Roger Waters. Un documento video di questo
periodo è quello relativo alle riprese effettuate presso gli studi KQED di San
Francisco il 29 aprile 1970: nell’occasione i Pink Floyd aprirono la propria
performance (dal vivo, ma in assenza di pubblico) con una versione di Atom Heart Mother senza l’orchestra. Il
successivo MEDDLE
del 1971 passò alla storia grazie alla presenza della nuova suite intitolata Echoes: nata per caso quando in studio
una nota scaturita dal piano elettrico di Wright sembrò evocare il suono
misterioso del sonar di un sommergibile, il brano, che riempiva tutto il lato B
del disco, passava dall’inizio tranquillo, cantato all’unisono da David
(tonalità bassa) e Richard (controcanto in tonalità alta) a momenti più
aggressivi. Seguiva un intermezzo che cambiava completamente tempo, con le urla
della Fender Stratocaster di Gilmour suonata con il bottleneck su un ritmo
serrato di basso (come sempre utilizzato da Waters con il plettro) e batteria
sdoppiata sui due canali. Quindi questa parte sfumava in un caos di rumori
alieni e inquietanti, con strida di cornacchie e albatros che venivano fuori
dal brontolio di un vento incessante, come se ci si trovasse su un pianeta
ostile. Da questa atmosfera surreale veniva pian piano fuori la ritmica serrata
della chitarra sostenuta da ampi accordi d’organo che, dopo un cambio di tonalità, esplodevano
in un bellissimo tema epico di Gilmour, mentre partivano note di basso lunghe e
distorte. Solo a questo punto tutto si calmava, con il ritorno al quieto canto
delle voci iniziali di David Gilmour e Richard Wright. Infine il brano sfumava,
con morbidi fraseggi di chitarra e piano che sembravano rispondersi l’un
l’altro, fino a che tutto svaniva risucchiato da un coro che saliva sempre più
di tonalità: un capolavoro assoluto. Echoes
avrebbe anche aperto il film dei Pink Floyd a Pompei, girato nell’ottobre del
1971, venendo però separato in due parti distinte: la prima si chiudeva alla
fine della sezione con il bottleneck, mentre la seconda, dopo gli altri brani
del film, ripartiva dalla parte rumoristica per arrivare fino alla fine,
chiudendo la pellicola. Un altro pezzo molto utilizzato dal vivo, posto in
apertura di questo disco, fu One of These
Days, caratterizzato dal convulso basso iniziale e dai passaggi di Nick
Mason alla batteria. Quest’ultimo avrebbe quindi pronunciato con voce bassa e
distorta la frase “Uno di questi giorni ti farò a pezzettini”, facendo partire
la parte più concitata del brano, con un tempo veloce, di nuovo la chitarra con
il bottleneck e i fantastici contrappunti di Wright all’organo Hammond. Nel
film girato a Pompei questo pezzo avrebbe visto inquadrato per tutto il tempo
proprio Nick Mason, scatenato con baffi e capelli lunghi stretti da una bandana,
e una farfalla stampata sulla maglietta. Ad un certo momento, inquadrato
dall’alto, Nick perde anche una bacchetta, ma la sostituisce rapidamente con
un’altra. In seguito il regista del film si sarebbe detto sicuro che
esistessero immagini di altre cineprese che permettevano di vedere anche gli
altri componenti del gruppo, ma queste non vennero mai ritrovate. Al contrario
di Echoes, che era stata filmata di
giorno, le evoluzioni di Mason durante One
of These Days vennero riprese di sera. Per inciso, quella frase di Nick
documentò per la prima e ultima volta la sua voce su un disco dei Pink Floyd. Le
immagini del film Pink Floyd at Pompeii
di Adrian Maben cominciavano con un’inquadratura diurna dell’anfiteatro ripresa
da lontano, mentre partiva il brano Echoes,
e si avvicinavano pian piano verso la band, che inizialmente si intravedeva a
stento, per stringere infine sulla batteria di Nick Mason. David Gilmour
suonava a torso nudo una Fender Stratocaster nera con battipenna bianco,
sbarbato e dai capelli lunghi. Roger Waters, tutto vestito di nero, prendeva il
basso, se lo metteva a tracolla e iniziava a far schioccare poche note durante
l’inizio tranquillo del brano. Quindi Dave e Rick (a torso nudo anch’egli) cominciavano
a cantare insieme la bellissima melodia di Echoes.
L’esecuzione di A Saucerful of Secrets
vedeva David seduto per terra rispondere con strisciate del bootleneck sulla
chitarra carica di riverbero, poggiata di traverso sulle gambe, agli accordi
dissonanti di Rick al pianoforte e al piatto percosso da Roger Waters, finché
quest’ultimo non si dirigeva verso il gong per colpirlo più volte con violenza.
Frattanto Mason ripeteva un passaggio di batteria “in loop”, ostinatamente (ma
senza i trucchi di uno studio di registrazione). A questa prima parte
volutamente caotica si contrapponeva la sezione conclusiva, aperta da ampi
accordi da parte di Richard Wright, che sembrava suonare un organo da chiesa:
seguirà un “crescendo” sempre più intenso che condurrà all’esplosivo canto
liberatorio da parte di David Gilmour con i lunghi capelli portati sul viso dal
vento. Questo vocalizzo non ha testo, ma è carico di pathos. Il brano è
presente in versione live anche su UMMAGUMMA e, solo in
questa seconda parte, nel film dedicato all’olandese Stamping Ground Festival
del 1970. E’ invece del 1972 il disco intitolato OBSCURED BY CLOUDS: si tratta della colonna sonora del
film francese La Vallèe, e contiene
ottimi brani quali l’acustica Wot’s…Uh
the Deal cantata da Gilmour, e Stay,
affidata alla voce di Wright. Durante quello stesso anno la band suonava dal
vivo e registrava in studio quello che diverrà l’album della loro consacrazione
a livello mondiale: THE DARK
SIDE OF THE MOON (1973), che li renderà improvvisamente ricchi e famosi
grazie al suo mix tra pop, progressive e ultimi sprazzi di psichedelia. Tutti i
brani, uno più bello dell’altro, sono
uniti tra loro e vedono l’impiego di “effetti esterni”: il pulsare iniziale di Speak to Me di Nick Mason; il suono
degli orologi come introduzione di Time;
i mille rumori di On the Run
(compresi i passi che corrono da un canale all’altro accompagnati da un respiro
affannato) con il suono ossessivo dei sinetizzatori AKS e VCS3; le incisioni casalinghe di Waters relative al
rumore di monete, collegate a quelle di un registratore di cassa e di banconote
strappate per l’inizio di Money; le
interviste a varie persone alla fine di questo stesso brano (venne esclusa la
voce di Paul McCartney, che stava registrando in una sala accanto con i Wings,
mentre fu utilizzata quella del loro chitarrista che diceva: «Non lo so, ero sempre ubriaco a quel
tempo»). Queste voci
ricorrono più volte attraverso tutto l’album. A Clare Torry, una cantante che
frequentava gli studi di Abbey Road, venne chiesto di lasciarsi andare a
vocalizzi senza parole sulla musica di Great
Gig in the Sky: lei lo fece improvvisando in una sola seduta, ma pensò di
non aver fatto quello che i Pink Floyd volevano, e andò in sala regia per
scusarsi con loro, scoprendo invece che alla band era venuta la pelle d’oca a
seguito di quella performance, che sarebbe finita sul disco. Quest’ultimo
conteneva anche il decisivo apporto di coriste, mai utilizzate negli album
precedenti. Lo stesso film Pink Floyd at
Pompeii include riprese aggiuntive che mostrano la band lavorare a questo
album presso i sopracitati studi di Abbey Road. THE DARK SIDE OF THE MOON uscì prima negli USA che in
Inghilterra, e il singolo Money
ottenne un successo strepitoso. Il suono ottenuto dal fonico Alan Parson fu
perfetto al punto che gli audiofili, anche non amanti dei Pink Floyd,
utilizzarono questo disco per provare gli impianti stereo. L’Hipgnosis presentò
alla band sette diverse illustrazioni tra le quali scegliere quella per la
copertina, e tutti e quattro i componenti del gruppo indicarono istantaneamente
quella realizzata da Storm Thorgerson, rappresentante un prisma attraversato da
un fascio di luci colorate su sfondo nero: scelta che si rivelò più che
azzeccata, dal momento che quella front cover sarebbe presto divenuta
un’immagine iconica, riconoscibile anche senza la necessità di leggere il nome
del gruppo o il titolo dell’album. Per la prima volta su un lavoro dei Pink
Floyd fece la sua comparsa il sassofono, suonato dal vecchio amico Dick Parry
su Money e Us and Them. Come detto l’intero concept album veniva suonato già
nel 1972 in una versione ancora embrionale, ma non dissimile da quella
definitiva: il relativo tour di 16 date nel Regno Unito era partito il 20
gennaio, per concludersi con quattro concerti al Raimbow Theater di Londra. I
pezzi venivano eseguiti più lentamente, e al posto di On the Run era in scaletta una più canonica jam intitolata The Travel Sequence. Il disco sarebbe
stato presentato dal vivo (coriste comprese) nel corso degli anni successivi: e
sarebbe stato eseguito integralmente per l’ultima volta durante il tour del
1994. Il successo ottenuto fu talmente grande da portare di fatto alla
disgregazione della band quale entità unica. E questo fu anche il tema del
successivo WISH YOU WERE HERE
del 1975, che con il suo titolo, intendeva riferirsi sia alla mancanza di Syd
Barrett che a quella dello stesso gruppo da parte di Roger Waters (“Vorrei che
foste qui”). L’acustica title track e
Shine on You Crazy Diamond (“Brilla diamante pazzo”, espessamente dedicata
a Syd) divennero presto altri due classici per i concerti dal vivo. Del brano Wish You Were Here esiste anche una
versione con il violino di Stephane Grappelli, che Nick Mason credeva fosse
andata perduta: venne invece ritrovata e data alle stampe per edizioni
successive del disco. Su Have a Cigar
Gilmour e Waters non rimasero soddisfatti dalla loro prestazione vocale, e
accettarono la proposta dell’amico Roy Harper (a sua volta presente in quei
giorni presso gli Abbey Road Studios) che disse: «Posso
cantarla io». l’interpretazione
rabbiosa di Roy fu ottima, ma Roger si pentì di aver lasciato cantare il pezzo
a qualcuno che non fosse un componente della band, non sentendolo più come un
brano dei Pink Floyd. Ad ogni modo anche
la versione cantata da Gilmour e Waters saltò fuori e venne pubblicata
successivamente. Dal vivo erano comunque loro a cantare questa canzone durante
il tour del 1974-1975. Paradossalmente Roy Harper, durante i suoi show, avrebbe
dovuto spesso sentire qualcuno del pubblico urlargli: «Cantaci Have a Cigar!».
La lunga Shine on You Crazy Diamond,
che inizialmente veniva eseguita per intero in concerto, sul disco venne divisa
in due, all’inizio e alla fine del disco. Il fenomenale show all’Empire Pool di
Wembley, registrato dal mixer il 16 novembre 1974 durante il “British Winter
Tour” presenta questa versione ancora non separata, unitamente agli inediti Raaving and Drooling e You Gotta be Crazy,
seguita dall’intera esecuzione di THE DARK SIDE OF THE MOON e
da Echoes come bis (qui accompagnata
anche dalle coriste): i due brani inediti non sarebbero stati inseriti sul
nuovo disco, ricomparendo con i titoli di Sheep
e Dogs sull’album successivo. Il tour di WISH YOU WERE HERE si concluse al festival di
Knebworth il 5 luglio del 1975: esistono foto che ritraggono David Gilmour
insieme a Roy Harper in sella al suo cavallo prima dell’esibizione. Estratti
dal sopramenzionato concerto all’Empire Pool sarebbero stati pubblicati qualche
decennio dopo come bonus tracks di questo album (il preferito da Gilmour). Per
inciso la copertina, che mostrava due uomini d’affari stringersi la mano, con
quello di destra che prendeva fuoco, non era frutto di un fotomontaggio: a
quello stuntman gli abiti venivano dati alle fiamme sul serio, nel corso di più
tentativi, e in un’occasione l’uomo rischiò di rimanere bruciato! A causa
dell’immediato successo del disco, la EMI faticò a stampare il numero di copie
sufficienti per far fronte alle numerose richieste. L’album intitolato ANIMALS venne registrato presso gli studi Britannia Row, dei quali erano
proprietari gli stessi Pink Floyd, quando era ancora il 1976, per essere
pubblicato all’inizio dell’anno seguente. In concerto Gilmour comparve con una
Fender Telecaster, capelli più lunghi e barba folta, mentre le due casse della
batteria di Nick riportavano l’illustrazione di onde del mare. La front cover
raffigurava la centrale elettrica di Battersea, a Londra, e venne concepita da
Waters per essere poi realizzata di nuovo da Storm Thorgerson. Tra le ciminiere
poteva intravedersi un maiale volante (“Pigs” era una parola che si ripeteva in
vari titoli del disco): inizialmente fu realizzato un gigantesco maiale
gonfiabile, che venne lasciato volteggiare in cielo sotto la mira del fucile di
un cecchino, nel caso questa sorta di dirigibile fosse andato in rotta di
collisione con qualche aereo. Ma, dopo diversi tentativi, nessuna delle foto
ottenute risultò soddisfacente, e il maiale rosa in copertina venne applicato
tra le quattro ciminiere con un fotomontaggio. Per inciso Steve Hackett, che
viveva proprio dalle parti della centrale di Battersea, vedendola ogni giorno,
pensò che quella avrebbe dovuto essere la front cover di un album suo! ANIMALS rappresentava una
critica feroce di Waters alla condizione sociale e politica dell’Inghilterra
del tempo, utilizzando i vari animali dei titoli quali metafore. Il sound del
gruppo mutò notevolmente, e all’interno di esso nacquero i primi dissapori, che
avrebbero in seguito indotto Roger Waters (ormai leader indiscusso della band)
ad allontanare Rick Wright. Lo stesso Waters, durante il relativo tour in
grandi arene stracolme di gente che neanche prestava attenzione alla musica
(richiedendo di continuo:”Money!”) provò un senso di frustrazione: proprio nel
corso dell’ultimo concerto, tenuto all’Olympic Stadium di Montreal il 6 luglio
1977, pieno per gli oltre suoi 62 mila posti, sputò in faccia con disgusto ad
un giovane che si dimenava sotto il palco. Rimase scosso egli stesso da quel
suo gesto, che gli avrebbe fornito l’ispirazione per il successivo album, con
la band ormai alienata rispetto al pubblico, come se tra musicisti e spettatori
si fosse eretto un muro (“Wall”). A
quella tournèe partecipò per la prima volta anche un secondo chitarrista, Snowy
White, che con la sua Gibson Les Paul dorata avrebbe affiancato Gilmour, per
poi unirsi al Waters solista nel corso del concerto di Berlino ’90 e del tour
denominato “In the Flesh”. Ma il povero White si presentò ai Floyd nel momento
sbagliato. Entrò in sala regia mentre stavano missando il nuovo Lp, salutò
cordialmente, ma si vide accolto con freddezza: proprio in quel momento la band
si era accorta di aver cancellato per sbaglio un assolo di David Gilmour che
era piaciuto a tutti! Snowy White non suonò su ANIMALS, ma un suo assolo di chitarra era presente
nella versione del nuovo lavoro sulle vecchie cassette Stereo8, come elemento
di raccordo tra la fine e l’inizio del disco: la particolarità di quei
supporti, spesso utilizzati nelle autoradio, era infatti la bobina unica, che
permetteva la riproduzione a ciclo continuo. Il tour del 1977 presentava tutto
il nuovo album nella prima parte (ma con Sheep
in apertura), e l’intero WISH
YOU WERE HERE nella seconda, più il bis, costituito da Money e Us and Them. A volte veniva aggiunto un blues improvvisato, al
quale Roger non partecipò dopo l’episodio di Montreal. Per la prima volta comparvero i grandi
pupazzi, più ampiamente utilizzati nel corso della successiva tournée.
Quest’ultima si svolse tra il 1980 e il 1981 in occasione dell’uscita del
doppio album THE WALL ,
che riportava in copertina solo il disegno di un muro di mattoni bianchi con
sopra il nome del gruppo, e sotto il titolo del disco a caratteri cubitali.
L’intero lavoro era opera di Roger Waters, che aveva fatto ascoltare al resto
della band un’audiocassetta contenente quasi tutti i brani abbozzati da lui
stesso alla chitarra acustica, in alternativa ad un'altra che sarebbe divenuta
poi il suo album solista del 1984 intitolato THE PROS AND CONS OF HITCH HITING (“I pro e i contro
dell’autostop”). Il fantastico brano Comfortably
Numb era invece un pezzo che David Gilmour non aveva fatto in tempo ad
inserire nel suo disco omonimo del 1978. Altri contributi di David furono Young Lust, Hey You e Run Like Hell, mentre tutti i brani
erano cantati sia da lui che da Waters. Possiamo aggiungere anche il coro dei
bambini della scuola accanto agli studi, che cantarono su Another Brick in the Wall Part II. Divenuti adulti, avrebbero
preteso le royalties per quella loro partecipazione. Io comprai come tutti gli
adolescenti della mia età quel singolo in 4/4, che apparve ai vecchi fan una
canzoncina banale rispetto ai Floyd dei vecchi tempi, e furbescamente in linea
con la musica dance di quei tempi. In effetti non era esattamente così, tanto è
vero che la ascoltiamo ancora oggi. Roger e David la cantarono all’unisono.
Quest’ultimo, per il suo leggendario assolo di chitarra, non utilizzò la
consueta Fender Stratocaster, bensì una Gibson Les Paul Gold Top. Durante il
tour questo assolo divenne molto più lungo, perché a quello di Gilmour si
aggiungevano le improvvisazioni dell’organo Hammond e quelle di Snowy White.
Tra l’altro il tema di Another Brick in
the Wall Part II poteva ascoltarsi anche su altri brani. Waters aveva
composto il doppio album (registrato ad Abbey Road e pubblicato alla fine del
1979) basandosi su pochi accordi: eppure THE WALL era un autentico capolavoro, che sarebbe
presto entrato nella memoria collettiva. Oltre al tema della distanza che si
stava venendo a creare tra musicisti e pubblico, Roger basò le liriche del
concept anche sulla frustrazione diffusa, il senso di alienazione e di
solitudine individuale, più il difficile rapporto tra genitori e figli, allievi
ed insegnanti; su tutto, la metabolizzazione del suo dolore per la perdita del
padre, caduto ad Anzio durante la Seconda Guerra Mondiale. L’unico momento di
distensione si poteva vivere nel corso del piccante brano Young Lust di Gilmour. Il tour di THE WALL cominciò nel febbraio del 1980 in America,
con sette date al Memorial Sports Arena di Los Angeles e altre cinque al Nassau
Coliseum di Uniondale. Ad agosto si
spostò in Inghilterra per le sei serate all’Earls Court di Londra. Quindi,
quando era il 1981, toccò la Germania per le otto date al Westfalenhallen di
Dortmund a febbraio, e si concluse con il ritorno all’Earls Court di Londra per
gli ultimi cinque concerti nel giugno di quello stesso anno. Il magnifico
cofanetto rettangolare intitolato IS THERE ANYBODY OUT THERE? (dalla frase che precedeva l’inizio di
Comfortably Numb), pubblicato dalla
EMI nel 2000, documentò su doppio Cd questo breve tour del 1980-1981,
registrato in gran parte all’Earls Court di Londra: la stessa voce del
presentatore all’inizio del primo dischetto dava il benvenuto al pubblico proprio
in questa celebre sala da concerti londinese, prima di venire sommersa
dall’esplosivo inizio di In the Flesh?.
Durante i concerti del 1980 la seconda chitarra era quella di Snowy White,
sostituito da Andy Roberts per quelli del 1981. Ai quattro Floyd si
aggiungevano inoltre un altro bassista, batterista e tastierista, mentre i cori
erano affidati a quattro voci maschili. Registrazione e missaggi vennero
effettuati da James Guthrie, che fece un fantastico lavoro. I brani What
Shall We Do Now? e The Last Few
Breaks non erano comprese nell’album THE WALL. La copertina di questo
box-set riportava le maschere dei volti di Gilmour, Waters, Mason e Wright che
venivano anche indossate dalla band “surrogata” che si presentava sul palco
all’inizio di ciascuno show, facendo finta che si trattasse dei veri Pink
Floyd. Il bel booklet mostrava inoltre foto tratte da quel tour, comprese
pagine in carta trasparente dove comparivano i progetti dei mattoni leggeri da
incastrare insieme per erigere il muro, oltre a quello, poi non realizzato, che
avrebbe visto lo spettacolo svolgersi all’interno di una sorta di lombrico
gigante. La prima parte dello show si concludeva con l’inserimento del mattone
(“brick”) sull’ultimo spazio rimasto aperto nel muro, quando Roger Waters, da
quella finestrella rettangolare, pronunciava la parola “Goodbye” alla fine del
breve brano acustico Goodbye Cruel World.
Dopo l’intervallo la seconda parte cominciava con l’arpeggio di Hey You e proseguiva con l’intero muro a
separare i musicisti dagli spettatori, salvo alcune aperture dalle quali si
poteva, per esempio, vedere Roger cantare guardando la Tv. Lo spettacolare
assolo di Gilmour alla fine di Comfortably
Numb veniva eseguito da quest’ultimo in cima al muro, illuminato da un
unico faro bianco. Sulla parete venivano inoltre proiettate le immagini animate
di Gerald Scarfe, mentre gli enormi pupazzi del maestro di scuola, della madre
e degli altri personaggi si muovevano davanti al pubblico. Alla fine del
processo (The Trial), sottolineato
ancora dal motivo di Another Brick in the
Wall suonato dalla chitarra distorta di Gilmour, si udiva un sommovimento
cui seguiva il boato che accompagnava il crollo del muro. A quel punto, durante
la conclusiva Outside the Wall, tutti
i musicisti venivano fuori in fila indiana, cantando quella canzoncina
tranquilla che riportava finalmente pace e serenità, come in una sorta di
“happy end” ricco di speranza. L’ultimo concerto di Roger Waters con i Pink
Floyd fu quello del 17 giugno 1981 a Earls Court. Quei concerti londinesi
vennero anche filmati, ma le riprese non furono ritenute soddisfacenti, e si
optò per un film con attori veri e propri, alternati alle animazioni
inquietanti di Scarfe: i martelli in marcia con il passo nazista, il fiore che
aggredisce l’altro, i soldati morti in guerra, gli aerei che si trasformano in
croci. La regia fu affidata ad Alan Parker e il film, intitolato THE WALL (come il disco), uscito nel 1982, recava sulla locandina
l’immagine del viso dalla bocca spalancata in un urlo. Le musiche della colonna
sonora non erano del tutto uguali a quelle del doppio album. In un primo
momento si pensò di far interpretare il ruolo del protagonista (Pink) allo
stesso Waters, ma in seguito si preferì affidarlo a Bob Geldof, il cantante dei
Boomtown Rats, successivamente divenuto famoso come organizzatore del Live Aid. Questi era l’ultima persona a
cui sarebbero potuti piacere i Pink Floyd, ma entrò bene nel personaggio, e
alla fine capì e apprezzò anche quella musica. Sarebbe stato proprio lui, 20
anni dopo il Live Aid, a far tornare
insieme i Pink Floyd: nel
2005, in occasione del nuovo evento benefico denominato Live Eight, Geldof riuscì infatti a convincere Waters, Gilmour,
Wright e Mason a riunirsi per un ultima volta ad Hyde Park. Dopo THE
FINAL CUT (1983)
Roger aveva scatenato una guerra legale contro i suoi ex compagni, al fine di
impedire loro l’utilizzo del nome della band. Ma aveva perso la causa, e gli
altri Floyd riuscirono a registrare ancora qualche disco: due in studio: A
MOMENTARY LAPSE OF REASON
nel 1987 e THE DIVISION BELL nel 1994, più due dal vivo: DELICATE SOUND
OF THUNDER nel 1988
e PULSE nel 1995, questa volta sotto la
guida di Gilmour. Il primo live venne inciso ad agosto presso il Veterans
Memorial Coliseum di Long Island, mentre il secondo fu in gran parte registrato
all’Earls Court di Londra il 20 ottobre 1994 (evento seguito in diretta Tv da
milioni di persone). I due live vennero pubblicati anche in versione video. A
Long Island, nel 1988, avevano eseguito anche Great Gig in the Sky
e Welcome To The Machine, che non
vennero però inserite nell’album dal vivo. La band suonò su una pedana
galleggiante a Venezia nel 1989 e al festival di Knebworth l’anno successivo.
Gli spettacoli del 1994 furono gli ultimi a vedere l’intera esecuzione di THE
DARK SIDE OF THE MOON
e i primi a mostrarci un David Gilmour con i capelli corti. Il sottoscritto ha
avuto modo di vedere il gruppo allo stadio Flaminio di Roma nel 1988:
purtroppo, ai concerti dei Pink Floyd si sentiva la mancanza di Roger Waters e
viceversa. Ma il 2 luglio del 2005 al Live
Eight avvenne il miracolo: David Gilmour, Roger Waters, Nick Mason e Rick
Wright furono di nuovo insieme sul palco per la prima volta dai tempi di
THE WALL, ed
eseguirono Breathe, Money, Wish You Were
Here e Comfortably Numb, con un
abbraccio finale (forse un po’ forzato, ma sollecitato dallo stesso Waters) a
favore dei fotografi. E naturalmente non mancò neppure in questa occasione la
dedica di Roger a Syd Barrett. L’anno seguente, durante la seconda parte della
scaletta del tour solista di David Gilmour per la promozione del suo ON
A ISLAND (per
coincidenza l’isola greca cui faceva riferimento il titolo era Castellorizon,
la stessa del film Mediterraneo di
Gabriele Salvatores) si sarebbe potuto ancora assistere a qualcosa di simile ad
uno show dei Pink Floyd, con una formazione non troppo diversa da quella del
tour di THE
DIVISION BELL.
E con un’emozionante versione di Echoes,
con le voci di Gilmour e Wright di nuovo amalgamate insieme, come nel film Pink Floyd at Pompeii. Purtroppo anche
Rick Wright, così in forma durante quella tournèe del 2006, sarebbe venuto a
mancare due anni dopo. E nel 2014, in omaggio allo stesso Wright, sarebbe
uscito THE ENDLESS RIVER: di fatto una raccolta di avanzi strumentali provenienti
dalle session di THE DIVISION BELL, che avrebbe scritto la parola
fine alla straordinaria storia dei Pink Floyd. David Gilmour ha continuato a
portare in tour molti brani del gruppo fino ai giorni nostri: bello, in
particolare, il Dvd Remember That Night,
tratto dai suoi tre spettacoli alla Royal Albert Hall del maggio 2006, con
ospiti quali Crosby, Nash, Robert Wyatt e David Bowie. Gilmour sarebbe tornato
ad esibirsi a Pompei nel 2016. A sua volta Roger Waters ha riproposto lo
spettacolo di THE WALL,
ospitando per una sera David Gilmour per l’assolo di Comfortably Numb in cima al muro, ed esibendosi anche al Circo
Massimo di Roma nel 2018, proponendo pezzi tratti da vari album della band,
compresi quelli mai utilizzati da Gilmour, da THE FINAL CUT e dal sempre sottovalutato
ANIMALS: l’immagine
della centrale di Battersea (la copertina del disco) con le sue ciminiere
apriva proprio quello show. Anche Nick Mason si è deciso ad abbandonare per
qualche tempo la sua passione per le automobili tornando a quella per la
musica: ha ripreso a suonare in tempi recenti con una band denominata Nick
Mason’s Saucerful of Secrets, che esegue soprattutto brani dei primi Pink
Floyd: del resto, già nel suo bellissimo libro Inside Out, l’unico a raccontare la storia della band da parte di
un componente del gruppo stesso, molto spazio era dedicato agli anni trascorsi
con il mai dimenticato Syd Barrett.
GENTLE GIANT
Quando i Jethro Tull tornarono in
Italia nel febbraio del 1972, rischiarono seriamente di farsi “rubare la scena”
da quello che era il loro gruppo spalla: i Gentle Giant. Questi ultimi avevano
esordito due anni prima con l’album che li mostrava disegnati in mano ad un
gigante gentile (appunto), pacifico e barbuto: il volto del gigante sarebbe
diventato la loro immagine iconica, e la musica contenuta in quel disco era
qualcosa di incredibile: brani splendidi quanto articolati che miscelavano
rock, musica barocca e medievale, con un’infinità di strumenti suonati da
ciascuno dei componenti del gruppo (dal vivo se li passavano l’un l’altro sul
palco!), unitamente a strepitose polifonie vocali. Ian Anderson, con il senno
di poi, avrebbe affermato di aver visto giusto nello scegliere i Gentle Giant
come open act, riconoscendo a questa formazione inglese il titolo di miglior
gruppo progressive degli anni Settanta. Tra l’altro, all’epoca, le formazioni
ancora sconosciute che precedevano le esibizioni di quelle più note venivano a
malapena tollerate: viceversa ai Gentle Giant, in quelle occasioni insieme ai
Jethro Tull, veniva richiesto addirittura il bis. E questo bel rapporto con il pubblico
italiano si sarebbe protratto nel tempo, al punto che qualcuno dei loro dischi
sarebbe stato pubblicato prima in Italia che in Inghilterra. Lo stesso Ian
Anderson rivela poi che, quasi in contrapposizione alle loro esibizioni
formalmente perfette sul palco, dietro le quinte (e in albergo) i Gentle Giant
erano degli autentici pazzi scatenati. Inoltre, essendo già una macchina ben
oliata, non provavano affatto ore e ore come si potrebbe pensare, considerata
la complessità delle loro composizioni. L’album omonimo del 1970 e i successivi
ACQUIRING THE TASTE
(1971), OCTOPUS (1972), THREE FRIENDS (ancora 1972) e IN A GLASS HOUSE (1973) definirono
ulteriormente il loro suono complesso e affascinante, pur non riuscendo a riscuotere grande
successo in Gran Bretagna e in America. Le cose cambiano con l’uscita dei
dischi più rock, quali THE POWER AND THE GLORY
(1974), FREE HAND (1975)
e INTERVIEW (1976),
seguito dal bel live PLAYING
THE FOOL, registrato durante
un tour europeo con il Banco del Mutuo Soccorso come gruppo spalla. Il secondo
lavoro dal vivo uscirà solo nel 2014: inciso il 3 luglio 1976 a Long Island per
una trasmissione radiofonica, si intitolerà LIVE AT BICENTENNIAL. La formazione dei Gentle Giant
ruota attorno ai fratelli Shulman (per semplificare: Derek alla voce, Ray al
basso e Phil a vari strumenti, fino al suo abbandono nel 1972), cui si uniscono
il chitarrista Gary Green e il tastierista Kerry Minnear (bravo anche al
vibrafono e al violoncello, mentre Ray lascia il basso al fratello Derek quando
è impegnato al violino o alla tromba). I batteristi che si succedono nel gruppo
sono invece tre, ma è John Weathers quello che rimane più a lungo nella band
(dal 1972 al 1980, quando i Gentle Giant decidono di sciogliersi). Il
batterista sui primi due album era Martin Smith (scomparso nel 1997 a soli 50
anni), mentre Malcom Mortimore, che suonò su THREE FRIENDS, venne sostituito a causa di uno
spaventoso incidente motociclistico avvenuto nel marzo del 1972 dal citato John
Weathers, che rimase dietro i tamburi da OCTOPUS in avanti. Quest’ultimo riuscì anche ad essere
il cantante solista per un paio di brani degli ultimi tempi. Chi scrive ha
avuto modo di veder suonare John Weathers a Novi Ligure nel 2006. Una bella
foto a colori del gruppo nella formazione dei primi due dischi ritrae, da
sinistra a destra, Derek Shulman in giaccone di pelle, Gary Green, Martin
Smith, Ray Shulman, un giovane Kerry Minnear al piano e Phil Shulman. Questo
stesso scatto si poteva vedere, in bianco e nero, all’interno dell’originale
edizione in vinile di ACQUIRING
THE TASTE. Quando i Gentle Giant vennero in Italia nel 1972 come open
act dei Jethro Tull il batterista era Malcolm Mortimore. Le date furono quelle
di Roma, Bologna, Treviso, Varese e
Novara, tenute tra il 1° e il 6 febbraio. Un successivo show di agosto presso
il Lido di Jesolo venne in parte filmato e trasmesso dalla Rai. Aprirono diversi
concerti dei Black Sabbath negli States a settembre, compreso quello al
Municipal Auditorium di Chicago. Saranno di nuovo in tour nel nostro Paese nel
gennaio del 1973, supportati dagli Area: il giorno 2 al teatro Alcione di Genova, il 3 al Palazzo
dello Sport di Roma, il 4 al Palalido di Milano, il 5 al Palazzo dello Sport di
Vicenza, il giorno dopo a Le Cupole, dalle parti di Cuneo, con chiusura giorno
8 al Palazzo dello Sport di Varese. Una bella foto a colori immortala i tre
fratelli Shulman davanti al Duomo di Milano. Sarebbero dovuti tornare in ottobre, a seguito del grande successo
ottenuto, ma quella tournée venne annullata. Il primo lavoro del gruppo senza
Phil Shulman è IN A GLASS HOUSE. Il brano Edge of Twilight (da ACQUIRING THE TASTE ) vedeva l’utilizzo di 20 strumenti, con sei
diversi temi nel breve volgere di tre minuti e mezzo. Splendida, sul disco
d’esordio, la quieta Funny Ways, con
Ray Shulman al violino e Kerry Minnear al violoncello, prima che quest’ultimo
dal vivo si mettesse in piedi davanti al vibrafono per lanciarsi in un
fenomenale assolo, mentre la musica incalzava sempre più. Sullo stesso disco il
brano Alucard non era altro che
Dracula scritto al contrario. Bellissima la morbida voce di Phil Shulman su Isn’t it Quiet and Could?. Anche Nothing at All ha un inizio quieto, che
si evolve presto in un tema hard rock, assolo di batteria compreso. La voce più
rabbiosa era sempre quella del barbuto Derek Shulman, impegnato anche al sax,
mentre quella di Kerry Minnear era soffice e dal timbro più basso, che sembrava
evocare atmosfere elisabettiane. Why Not?
è un pezzo decisamente rock, mentre lo stupefacente brano strumentale The Boys in the Band apriva il lato B di OCTOPUS (album di grande
successo in Italia) con l’indimenticabile rumore di una moneta gettata a
rotolare su un tavolo. La splendida copertina di questo disco, rappresentante
la piovra ad otto tentacoli del titolo, era opera di Roger Dean, il grafico che
caratterizzava i lavori degli Yes. THREE FRIENDS, come già
dal titolo, è un concept album che racconta la storia di tre amici che si
separano, seguendo ciascuno la propria strada, per poi ritrovarsi: molto bella Schooldays. Gli ultimi album, THE MISSING PIECE (1977), GIANT FOR A DAY (1978) e CIVILIAN (1980) si lasciano sempre più alle spalle lo
stile che aveva caratterizzato i dischi dei Gentle Giant della prima metà degli
anni Settanta (influenzando anche i maggiori gruppi italiani, quali Banco Del
Mutuo Soccorso e PFM), in favore di una musicalità più ordinaria e commerciale.
Le vendite però non si rivelano soddisfacenti, nonostante il gruppo rimanga
sempre strepitoso e acclamato durante i concerti, compresi gli ultimi, tenuti
negli States nella primavera-estate del 1980
(bello il concerto registrato dal mixer al Toad’s Place il 18 maggio,
proprio durante il tour di CIVILIAN).
Per questo motivo, all’alba del nuovo decennio, i Gentle Giant si sciolgono.
Ma, al contrario di tanti altri loro colleghi, non torneranno più insieme, se
non per il progetto “Three Friends” del 2009 (dal titolo del loro vecchio
album), che riunisce Gary Green, Malcom Mortimore e Kenny Minnear, il quale
però abbandonerà il gruppo subito dopo un breve tour. Curiosamente della
formazione farà parte anche Jonathan Noyce, il bassista dei Jethro Tull dal 1995
al 2006. La line-up, pur subendo vari cambiamenti nell’organico, continuerà a
esibirsi dal vivo, toccando anche l’Italia nel 2012, fin quando Gary Green non si vedrà costretto a chiamarsi
fuori due anni dopo a causa di problemi al cuore. Con il tempo la band
originale viene riscoperta e rivalutata, grazie alla pubblicazione di diversi
cofanetti, rarità varie, Dvd e Cd dal vivo.
Giant On The Box (2004) raccoglie belle esibizioni in concerto filmate nel
1974 per la Tv tedesca e nel 1975 per quella americana: quest’ultima, relativa
allo show tenuto presso il Terrace Theater di Long Beach, é più breve, ma di
migliore qualità. Qui Funny Ways
viene interrotta poco dopo l’inizio e ripresa da capo, perché violino e
violoncello risultano essere leggermente scordati. Entrambi i live sono tenuti
di fronte ad un pubblico, con audio mono. La performance americana si apre con
l’inquadratura del volto barbuto del “Gigante Gentile” che è posta dietro il
gruppo. Strepitose, valutando i due show insieme, le esecuzioni di Cogs in Cogs, Proclamation, The Runaway
(aperta dal rumore di vetri infranti, così come l’inizio degli show relativi al
tour di IN A GLASS HOUSE),
Advert of Panurge e So Sincere, che come sempre chiude lo
spettacolo con tutti i componenti del gruppo impegnati alle percussioni.
Fenomenale l’estratto da
OCTOPUS, che vede Gary Green e Ray Shulman duettare con strabiliante
perizia alle chitarre acustiche, prima che esploda Knots. Il Dvd contiene anche l’intervista della band alla Tv
italiana nel corso del programma non a caso intitolato “Baroque and Roll”
(espressione coniata da un giornalista), alternata a spezzoni dei Gentle Giant
dal vivo: nell’occasione il gruppo risponde alle domande, ma quasi subito la
sedia sulla quale è accomodato il corpulento Derek si sfascia, facendo
scompisciare dalle risate i suoi compagni.
Al batterista John Weathers viene chiesto se conosce qualche gruppo rock
italiano, e lui risponde: «PFM,
PFM, PFM…». E’ durante questa
intervista che Derek, a proposito della richiesta di ascoltare la musica gratis
da parte di frange del pubblico di casa nostra, risponde che il gruppo non può
permettersi di acquistare la strumentazione, viaggiare e pagare la troupe senza
ricevere in cambio un riscontro economico (“Dobbiamo pur mangiare!”). Nel 1997 viene
dato alle stampe il magnifico
UNDER CONSTRUCTION, con un Cd dedicato a materiale del tutto inedito, e
l’altro a demo e outtakes: veramente splendidi, sul primo dischetto, i brani del 1970 (precedenti alla
pubblicazione del disco d’esordio) Freedoms
Child, Hometown Special, Weekend Cowboy e Bringing me Down. Sono comprese
anche due versioni live di Interview
e Timing. Fantastica poi la qualità
audio del Cd intitolato KING
BISCUIT FLOWER HOUR PRESENTS GENTLE GIANT (1998), relativo al concerto
registrato per l’omonimo programma radiofonico americano il 18 gennaio 1975
presso “The Academic of Music” di New York: il brano Proclamation, posto come inizio dello show, risulta esplosivo.
Esistono comunque altre registrazioni live di ottima qualità registrate per la
Bbc. Discreto il Cd denominato
IN A PALESPORT HOUSE, comprendente Plaing
Truth con l’assolo di violino. Solo per appassionati incalliti risulta
invece essere il box-set SCRAPING
THE BARRELL (2004) che, tenendo fede al suo titolo (“Raschiando il fondo
del barile”), offre in quattro Cd singole tracce strumentali o vocali
registrate in studio senza che si possano ascoltare gli altri strumenti, e
altre curiosità del genere. Interessante risulta soltanto la prova di Pinewood,
che ci offre di fatto un intero spettacolo dei Gentle Giant senza pubblico
prima della partenza per il tour di THE MISSING PIECE. Il concerto del 5 gennaio 1978, tenuto durante
la trasmissione televisiva Sight &
Sound (che solo l’anno prima aveva ospitato Procol Harum, Jethro Tull e
Supertramp) ci permette di vederli accompagnati da un magnifico suono stereo.
In questa caso, oltre ai brani degli album più recenti, la band stupisce per la
strabiliante esecuzione delle magnifiche Free
Hand, On Reflection (con il tema
iniziale suonato da Gary al flauto dolce, Ray al violino, Kerry al violoncello
e John al vibrafono, e poi cantato “a
cappella” da tutti i componenti del gruppo); ancora, con la citata Funny Ways, Just the Same, Playing the Game
(che vede Derek impegnato allo Shulberry, una stramba chitarrina con sole tre
corde, colpite a vuoto e in controtempo). Anche la nuova Memories of Old Days si lascia apprezzare per la sua melodia eterea
e nostalgica. Derek Shulman porta adesso i capelli corti, come già durante il
tour del 1977, imitato dal fratello Ray, e indossa una sorta di tuta bianca,
mentre Gary Green si è fatto crescere la barba e compare con gli occhiali. Del
Dvd fanno inoltre parte tre videoclip girati il
30 aprile del 1976 in playback, tratti da INTERVIEW: la title track, Give It Back (caratterizzata da un tempo vagamente reggae) e I Lost my Head, che ci permettono di
guardare e ascoltare i Gentle Giant in una ampia sala, per l’ultima volta con i
capelli lunghi, sotto una bella illuminazione che mette in mostra tutti i loro
strumenti. Seguono altri tre video filmati a Los Angeles e tratti dall’album GIANT FOR A DAY, decisamente
più commerciali, che tentano (con scarso successo) di strizzare l’occhio al
mercato americano. Durante lo stesso tour venivano distribuite al pubblico maschere
di carta del “Gigante Gentile” da indossare durante ciascuno show. Il Dvd si chiude con il cosiddetto “Octopus
Medley”, filmato di nuovo per il programma The
Old Grey Whistle Test al Drury Lane Theater di Londra il 26 novembre 1974.
E’ presente anche un filmato amatoriale tedesco del 5 aprile dello stesso
anno. Ian Anderson tenterà di far
tornare insieme i Gentle Giant per portarli di nuovo in tour con i Jethro Tull,
ma dovrà desistere: Gary Green, John Weathers
e Kerry Minnear sarebbero stati d’accordo, ma non così i fratelli Derek
e Ray Shulman, e dunque una reunion dei Gentle Giant non sarà possibile. Gli
stessi Derek e Ray rimarranno a lavorare nel mondo della musica, ma dietro le
quinte, mentre Kerry Minnear comporrà ed eseguirà le sigle dei loro Dvd,
pubblicati molti anni dopo lo scioglimento del 1980.
YES
E’ ancora Ian Anderson a
ricordarsi del cantante di un altro gruppo spalla dei Jethro Tull, dalla voce
esile e dai lunghi capelli neri: quel cantante era il suo quasi omonimo Jon
Anderson, e la band si chiamava semplicemente Yes. Durante quel tour insieme,
nell’aprile del 1971, i Tull erano all’apice della loro popolarità, avendo
appena pubblicato AQUALUNG,
mentre gli Yes erano in tournèe negli States per promuovere il loro terzo Lp,
intitolato THE YES ALBUM
con il nuovo chitarrista Steve Howe. La band aveva già dato alle stampe sia il
disco d’esordio, intitolato proprio YES (1969) che TIME AND A WORD, sotto l’ala
protettiva del solito Ahmet Ertegun, boss dell’Atlantic (lo stesso di Led Zeppelin,
Genesis e tanti altri), che li aveva apprezzati vedendoli dal vivo a Londra. Il
primo lavoro non rappresentava ancora lo stile che avrebbe in seguito
caratterizzato il sound del gruppo, essendo vagamente psichedelico, con
richiami a Crosby, Stills, Nash & Young
e Simon & Garfunkel. Era inoltre presente la cover di un brano dei
Beatles, Every Little Thing, mentre
la sola Survival risultava essere
accostabile alle atmosfere evocate dagli Yes della maturità. Jon Anderson, che
lavorava in un bar proprio sopra il Marquee Club, aveva conosciuto e trovato
sintonia con il bassista Chris Squire. A loro si erano uniti il tastierista
Tony Kaye, il batterista Bill Bruford e il chitarrista Peter Banks, cui si deve
il nome Yes. Il logo del nome del gruppo era riprodotto anche sulla pelle della
cassa della batteria di Bruford e sulla chitarra dello stesso Banks, ma non era
lo stesso di quello reso poi celebre da Roger Dean, illustratore “fantasy” dei
loro album successivi. Il secondo disco, TIIME AND A WORD, del 1970, fu l’ultimo registrato
con la formazione originale, che vedeva Jon Anderson alla voce, Bill Bruford
alla batteria, Peter Banks alla chitarra e Tony Kaye alle tastiere: il lavoro,
che aveva l’ambizione di unire la musica rock a quella di un’orchestra sinfonica,
nonostante le discrete vendite, lasciò scontento Banks, il quale abbandonerà la
band dopo le prime date del relativo tour, mentre l’Atlantic minacciava di
rescindere il contratto se non avesssero avuto successo con il terzo Lp.
Un’altra cover presente nel disco, Sweet
Dreams, sarebbe stata presente nel Dvd relativo al concerto dell’8 luglio
2014 all’Estival Jazz di Lugano. Avendo Peter Banks lasciato il gruppo, il suo
sostituito Steve Howe, nel videoclip del
bellissimo brano Astral Traveler,
avrebbe mimato la chitarra suonata in realtà da Banks. Un incredibile documento
video degli Yes con quest’ultimo ancora in formazione è quello del 1969 al Beat Club, contenente le esecuzioni in
bianco e nero di No Opportunity Necessary, No Experience Needed (una
cover di Richie Havens) e Looking Around,
con l’esile Chris Squire che porta un cappellino sulla testa e un foulard
appeso al manico del basso: come scritto sopra, il nome “Yes” compare sia sulla
cassa della batteria di Bruford che sulla chitarra di Banks, oltre che sullo
sfondo dietro i musicisti. Uno speciale della Tv belga del settembre 1970
contiene invece vari brani con il nuovo chitarrista Steve Howe, compresa Time and a Word, con il gruppo filmato
anche all’aperto, o mentre si diverte correndo in macchina. E’ sempre Steve a
comparire sui videoclip di Yours is no
Disgrace e I’ve Seen All Good People
(Beat Club, 1971), entrambe tratte da THE YES ALBUM che, come
sperato, decretò il primo successo della band, virando sul progressive rock. Il
disco conteneva anche The Clap,
registrata live dal solo Steve Howe alla chitarra acustica, e Starshing Trooper, tutti futuri classici per la band in concerto. In
particolare l’ultimo di questi brani, con il suo formidabile “crescendo” finale
che esplodeva negli assoli di Moog e chitarra, avrebbe chiuso il film Yessongs del 1972. Curiosamente I’ve Seen All Good People, divisa in due
sotto-titoli, conteneva anche un verso del noto inno pacifista di John Lennon Give Peace a Change. A
questo punto tutti i componenti del gruppo sono degli autentici virtuosi dei
rispettivi strumenti, essendo anche in grado di arricchire i brani con cori
eseguiti magistralmente dalle voci di Anderson, Howe e Squire, come avverrà
anche per gli anni a venire, con una eccellente varietà timbrica (dalla voce
acuta di Jon Anderson a quella bassa di Steve Howe). Il 1971 è anche l’anno
della pubblicazione di FRAGILE,
che vede Rick Wakeman sostituire Tony Kaye alle tastiere, e Roger Dean fare il
suo esordio come grafico per le copertine della band, rendendole riconoscibili
sin dal primo sguardo. La nuova formazione verrà considerata quella classica
degli Yes (avendo anche realizzato il successivo capolavoro CLOSE TO THE EDGE, contenente
l’omonima suite), mentre nel 2015 FRAGILE verrà collocato dalla rivista «Rolling Stone»
alla decima posizione degli album progressive più belli di tutti i tempi. Il
lavoro include pezzi di altissima qualità, quali Roundabout, Long Distance Runaround e Heart of the Sunrise, che lasciò gli stessi Yes stupefatti mentre
la provavano. Tutti questi brani sarebbero divenuti altrettanti “cavalli di
battaglia” per i concerti del gruppo nei successivi decenni. La lunghissima South Side of the Sky e The Fish (concepita su un assolo di
basso) non vennero molto utilizate dal vivo all’epoca, ma sarebbero state
documentate sul Dvd Live At Montreux 2003,
oltre che su quello sopracitato tenuto a Lugano nel 2004. In quest’ultimo caso The Fish segue senza soluzione di
continuità Long Distance Runaround,
proprio come sul disco YESSONGS.
L’album verrà supportato da uno speciale della Bbc intitolato Sounding Out, contenente riprese degli
Yes dal vivo il 3 ottobre 1971 presso l’Hempstead di Hemel, in Inghilterra, con
il nuovo arrivato Rick Wakeman vestito tutto d’arancione. Tra gli altri brani
(tutti spezzoni tra un’intervista e l’altra) possiamo ascoltare Long Distance Runaround, I’ve Seen All Good
People, Perpetual Change, Heart of the Sunrise e la conclusiva Yours is no Disgrace, con la quale la
band saluta il pubblico. CLOSE
TO THE EDGE uscì nel 1972, e subito dopo la registrazione anche Bruford
abbandonò il gruppo per unirsi ai King Crimson. Il disco, ritenuto da molti il
migliore degli Yes, contiene solo tre brani, tutti fenomenali: l’omonima suite
(suddivisa in quattro sotto-titoli), And
You and I e Siberian Khatru.
Questi pezzi diverranno parte integrante delle successive tournèe. Alan White,
ex batterista della Plastic Ono Band di John Lennon, fa in tempo ad unirsi agli
Yes per il citato YESSONGS:
le riprese per il film vennero effettuate il 15 dicembre 1972 presso il famoso
Raimbow Theater di Londra, mentre le registrazioni per l’omonimo triplo album
(in seguito doppio Cd) furono realizzate anche nel corso di altri show durante
il tour estivo negli USA. The Clap,
il brano ragtime eseguito dal solo Steve Howe alla chitarra acustica, è
presente nel film, ma non sul disco. Da rilevare che gli unici due brani in
comune tra la pellicola del Raimbow Theater
e il triplo album sono Close
To The Edge e il finale di Starshing
Trooper. Dunque gli altri titoli presenti sia nel film che sull’album sono
tratti, in quest’ultimo caso, da altri concerti. I brani del triplo vinile sono
relativi al tour di CLOSE TO
THE EDGE, eccetto Perpetual Change
e Long Distance Runaround / The Fish
, che provengono dalla tournée di FRAGILE, e dunque ancora con Bill Bruford alla batteria. Il
concerto su disco si apre con il nastro registrato del finale de L’uccello di Fuoco di Igor
Stravinskij (Firebird Suite), che era il caratteristico inizio delle performance
degli Yes di quel periodo. Quindi la band entra in scena suonando Siberian Khatru e Heart of the Sunrise, che erano già sufficienti a mettere il
pubblico al tappeto. Di Stravinskij Anderson cantava in completa solitudine
anche un breve passaggio de La Sagra
della Primavera, che nel film concludeva con lo schiocco di un bacio. Su And You and I (anch’essa suddivisa in
quattro sotto-titoli) Steve Howe è
impegnato pure alla lap steel guitar, posizionata orizzontalmente e suonata con
il bottleneck: per potersi alternare ai suoi diversi strumenti a corde,
acustici o elettrici, Steve si sarebbe sempre servito di aste che sorreggevano
le chitarre in posizione per essere suonate, mentre ne teneva qualcun’altra a
tracolla. All’inizio di I’ve Seen All
Good People utilizzava la chitarra portoghese a dodici corde (e dal
bellissimo suono) che gli era stata regalata dalla sorella. Si serviva anche di una Gibson a due manici.
Howe, magro e dai capelli lisci e lunghi, aveva dita affusolate con grossi
polpastrelli, come se fosse nato per suonare la chitarra. Non mancavano Roundabout, I’ve Seen All Good People, Yours
is no Disgrace e la citata chiusura con Starship
Trooper (sul disco presente per intero). Suggestivi poi gli estratti dal
disco solista di Rick Wakeman
SIX WAVES OF HENRY VIII (“Le sei mogli di Enrico VIII”), che
permettevano all’eccentrico tastierista, ancora sbarbato, di mettere in mostra,
oltre la propria strabiliante bravura (nelle riviste dell’epoca era sempre
votato come il migliore, insieme a Keith Emerson) anche la sua incredibile
immagine, con i capelli lunghi, lisci e biondi, unitamente al mantello
argentato che gli pendeva dalle spalle in giù, facendolo apparire come una
sorta di mago delle fiabe. Durante questo assolo, grazie al mellotron accennava
anche il maestoso Hallelujah di
Handels e uno scherzoso Jingle Bells,
dal momento che il concerto veniva filmato proprio nel periodo di Natale. Il
primo bis era Yours is no Disgrace,
che nella pellicola mostra un giovane del pubblico quasi accasciarsi svenuto
per l’emozione con braccia e testa sul palco durante il reprise del tema
principale. Il secondo bis era Starship
Trooper, che chiudeva il concerto con il pirotecnico assolo di Rick Wakeman
seguito da quello di Steve Howe, dopo l’incalzare di tre soli accordi sorretti
dalle lunghe note del basso in distorsione. Il triplo album venne pubblicato
nel 1973 mentre il film, pur presentato quello stesso anno alla stampa inglese,
sarebbe uscito solo nel 1975, con anteprima all’Uptown Theater di Milwaukee, negli
Stati Uniti, il 17 marzo. Come già per i concerti degli Yes, anche il film era
stato realizzato con il nuovissimo sistema quadrifonico: questa rivoluzionaria
particolarità era messa ben in evidenza sulle locandine dei cinema, pochi dei
quali erano però adeguatamente attrezzati. Il film iniziava con Ouverture, un mix tra immagini di Roger
Dean e altre girate al rallentatore e
tratte dal concerto al Raimbow, sulla splendida musica di I Get Up, I Get Down (uno dei movimenti di Close To The Edge) divinamente cantate dalla voce eterea di Jon
Anderson. Lo stesso frammento, durante l’esecuzione integrale della suite,
vedeva invece le suggestive immagini di organismi marini. Chris Squire si muove
con agilità agitando i veli della sua mantellina: all’epoca il suo basso
Rickenbacker sembrava grande rispetto alla sua corporatura minuta, mentre
sarebbe apparso di dimensioni più ridotte quando Chris divenne più corpulento
nel corso delle esibizioni di Lugano 2003 e Montreux 2004. Il film venne
pubblicato su Vhs nel 1984, su laser disc nel 1988 e su Dvd nel 1997, ma mai
nella durata originale di 135 minuti che era stata proiettata nelle sale, e con
l’effetto quadrifonico. Alan White
registrò con gli Yes in studio per la prima volta sull’album TALES FROM THE TOPOGRAPHIC OCEANS
del 1973. Quello stesso anno l’ex Strawbs Rick Wakeman collaborò alla
registrazione del disco dei Black Sabbath intitolato SABBATH BLOODY SABBATH. Il nuovo lavoro degli
Yes, uscito sempre per la Atlantic Records, è un doppio concept album forse troppo
ambizioso, composto da soli quattro brani, che non troveranno posto nelle
usuali scalette dei concerti. Addirittura la band chiese che negli studi di
registrazione fossero ricreate le ambientazioni naturali corrispondenti ai vari
momenti del concept, che finì per risultare oltremodo pretenzioso. In compenso,
la strabiliante copertina del solito Roger Dean è stata votata come la migliore
di tutti i tempi in un sondaggio promosso ancora dalla rivista «Rolling Stone» nel 2014. Fu durante le
incisioni di questo lavoro che i componenti degli Yes divennero
vegetariani, eccetto Rick Wakeman, che abbandonò il gruppo, insoddisfatto sia
delle musiche che dell’alone mistico nel quale sembravano essere ormai immersi
i suoi compagni, dediti a nuove diete macrobiotiche ispirate da antiche teorie
filosofiche cinesi: durante quel tour, quasi in segno di scherno nei loro
confronti, Rick si mise anche a mangiare cibo “mordi e fuggi” sul palco, e fece
amicizia con Ozzy Osbourne proprio perché era l’unico della band a trovarsi a
bere alcolici al bar degli Studios insieme al vocalist dei Sabbath, mentre i
suoi colleghi viaggiavano nel loro mondo onirico. Fu così che gli Yes, dopo
aver provato Vangelis, scelsero come nuovo tastierista lo svizzero Patrick
Moraz, che avrebbe registrato solo sul successivo album RELAYER, pubblicato nel 1974. Qui troviamo, come già su CLOSE
TO THE EDGE, solamente
tre brani: The Gates of Delirium, Sound
Chaser e To Be Over. Il
primo pezzo trova la sua ispirazione nel romanzo Guerra e Pace di Toltstoj, mentre sull’ultimo Stewe Howe è
impegnato anche al sitar. Il bel concerto filmato al Queen’s Range Park Stadium
nel 1975 ci offre anche una versione della splendida Close To The Edge con questa nuova line-up: Alan-White, che su Yessongs sembrava un esile ragazzino,
adesso appare con barba e capelli lunghissimi, mentre tutti i componenti degli
Yes sono vestiti di bianco di fronte ad un pubblico immenso. Come al solito
Chris Squire è sul palco con stivali e basso Rickenbacker, e l’esecuzione del
brano risulta perfetta. A lasciare perplessi è proprio il nuovo tastierista
Patrick Moraz, che, con i suoi lunghi capelli ricci e neri, ci fa rimpiangere
Rick Wakeman, specie durante l’assolo che chiudeva l’intermezzo strumentale.
Dopo i progetti solisti dei singoli componenti, gli Yes si ritrovano insieme a
Wakeman per registrare in Svizzera il nuovo GOING FOR THE ONE (1977), caratterizzato da brani più
brevi e vicini alla “forma canzone”, eccetto la suite Awaken (il brano degli Yes preferito da Jon Anderson). La stessa
title track, ricca di spensieratezza e gioia, aprirà il citato Dvd del concerto
di Lugano 2004. Ancora per l’Atlantic Records nel 1978 uscì l’album TORMATO che, nonostante il
disappunto della critica e l’insoddisfazione degli stessi componenti del gruppo,
toccò le top ten internazionali, grazie anche al singolo Don’t Kill The Whale, che, come suggerito già dal titolo, si
schierava contro la caccia alle balene. Curiosamente sul brano Circus of Heaven poteva ascoltarsi la voce del figlio di Jon Anderson.
La grafica della copertina fu questa volta affidata alla famosa Hipgnosis, e
avrebbe dovuto chiamarsi YES
TOR. A quanto si dice, Rick Wakeman, insoddisfatto dalle foto dei
componenti del gruppo proposte per la front cover, lanciò contro di esse un
pomodoro (tomato) preso dal sandwich che stava mangiando in quel momento: il
risultato piacque più dell’originale, e il pomodoro rimase sulla copertina,
mentre il disco, dalla contrazione tra Yes Tor e tomato, si intitolò appunto TORMATO. Durante la relativa
tournée la band si esibiva su un palco rotondo girevole, che permetteva al
pubblico di guardare gli Yes da ogni angolazione. Anche Don’t Kill The Whale sarebbe ricomparsa nel Dvd di Montreux 2003,
durante i pochi anni che videro la reunion di quella formazione (Anderson,
Howe, Squire, Wakeman e White). All’inizio del 1980 Jon Anderson e Rick Wakeman lasciarono gli
Yes, ma gli altri tre componenti non si persero d’animo e li sostituirono con
il cantante Trevor Horn e con il tastierista Geoffrey Downes, che erano già
conosciuti come Buggles per via della celebre hit Video Killed The Radio Star (1979), del tutto lontana dagli stilemi
del progressive rock. Nonostante queste premesse, il nuovo album DRAMA, pubblicato da questa formazione con stile e suoni molto diversi da quelli
tipici degli Yes, risultò essere un ottimo lavoro: questo pur provvisorio
connubio funziona, e gli occhiali bianchi, tondi e giganti del nuovo vocalist
faranno bella mostra di sé anche sulla Tv italiana, dal momento che un estratto
di quel disco, Does it Really Happen?
diverrà la sigla d’apertura della trasmissione televisiva Discoring (e il sottoscritto se la ricorda bene), mandando in
visibilio i ragazzi di allora con il vertiginoso giro di basso iniziale, il
tema trascinante e i cori, che vedono fondersi bene le voci di Horn con quelle
di Howe, Squire e White. Il disco venne
registrato nella primavera del 1980 e pubblicato in agosto, ricevendo una
tiepida accoglienza da parte dei vecchi fan degli Yes, ma raccogliendone di
nuovi per via del sound più vicino alla new wave e al pop che al
progressive. L’album raggiunse il
secondo posto nella classifica inglese, e il relativo tour vide una grande
affluenza di pubblico. Le chitarre di Steve Howe avevano un suono che non si
era mai sentito prima su un disco del gruppo, ma, quasi a voler giustificare la
presenza del nome Yes sulla copertina, questa venne affidata alla vecchia
conoscenza Roger Dean. Trevor Horn si ripresenta in veste di produttore per
l’album del 1983 intitolato 90125, nel quale ritroviamo Jon Anderson alla voce.
Il disco é trascinato dal successo stratosferico del singolo Owner of a Lonely Heart, con il suo
riff di apertura divenuto famoso più o
meno quanto quello di Smoke On The Water dei
Deep Purple. E questa volta alla chitarra e alla seconda voce c’è Trevor Rabin
al posto di Steve Howe, mentre il primo tastierista degli Yes, Tony Kaye, è
nuovamente della partita. Durante il tour dei Genesis di quello stesso anno
Phil Collins annunciava uno dei brani in scaletta facendo ascoltare alcuni
pezzi apparentemente sintonizzati a caso su una grossa radio che portava in
spalla: e quando per un attimo si ascoltava il riff di Owner of a Lonely Heart tutto il pubblico esplodeva in un boato.
Anche i singoli Leave it e It Can Happen entrarono in classifica: Owner of a Lonely Heart fu l’unico
singolo della band a raggiungere il primo posto negli Stati Uniti, e 90125
(titolo che si riferiva al numero di catalogo dell’edizione originale) divenne
il disco più venduto della storia degli Yes. Brillanti erano anche Hold On e Changes. Questa nuova line-up era nata per caso, dopo che Squire e
White, una volta che il gruppo si era sciolto, avevano deciso di formare un
duo, al quale si erano poi uniti Trevor Rabin e Tony Kaye, con la produzione di
Trevor Horn. Quando ad essi si unì anche Jon Anderson, la band assunse il
vecchio nome di Yes. Curiosamente il
brano Cinema prendeva il suo titolo da quello che avrebbe
dovuto essere il nome del nuovo gruppo, prima della decisione di tirare fuori
il vecchio e glorioso marchio. Proprio questo pezzo avrebbe vinto il Grammy
Award quale miglior interpretazione strumentale rock nel 1984. Il suono del
disco era magnifico, “spaccava” le casse degli impianti stereo, e la musica,
per quanto di impronta pop anni Ottanta, era suonata con perizia da grandi
musicisti; né mancava di offrire momenti più sofisticati. L’immediato successo
portò la band a tenere un acclamatissimo tour mondiale, documentato in un disco
dal vivo pubblicato nel 1985. Non altrettanto successo ottenne il successivo
album BIG GENERATOR,
uscito solo nel 1987 a causa di divergenze tra Trevor Rabin, che voleva
proseguire nel solco del disco precedente, e Jon Anderson, che avrebbe
preferito tornare al sound dei vecchi Yes: fu così che il vocalist lasciò di
nuovo il gruppo alla fine della tournée del 1988, dando vita alla band
denominata ABWH (Anderson, Bruford, Wakeman, Howe) che, pur suonando in tour e
su Cd live brani degli Yes (con il supporto di Tony Levin al basso), non poté
fregiarsi di quel nome, dal momento che i relativi diritti erano detenuti da
Chris Square, che si unì invece ad Alan White, Trevor Rabin e Tony Kaye sotto
la denominazione di Yeswest. Questa situazione quantomeno ridicola venne
finalmente ricomposta nel 1991 con il disco (e relativo tour) denominato UNION, che rimetteva insieme le due formazioni, Tony Levin compreso. Due
terzi dei brani dell’album furono scritti da quelli che erano gli ABWH, ma le
vendite furono peggiori di quelle già insoddisfacenti del precedente BIG GENERATOR. Anche se per il
pubblico fu emozionante ascoltare dal vivo le canzoni maggiormente
apprezzate degli Yes (compresa Close To The Edge) suonate dai due
tastieristi Rick Wakeman e Tony Kaye, i due chitarristi Steve Howe e Trevor
Rabin, i due batteristi Bill Bruford e Alan White, guidati dal sempre pimpante
Jon Anderson dai capelli biondi di nuovo lunghi (ad inizio carriera erano neri)
e dalla voce ancora integra, che si accompagnava con il tamburello, mentre
Chris Squire si muoveva sul palco con spolverino a righe verticali e il
consueto basso Rickenbacker. I concerti iniziavano con la fulminante Yours is no Disgrace subito dopo il
nastro registrato di Firebird Suite
già utilizzato, come sappiamo, agli inizi degli anni Settanta. Dei pezzi vecchi non mancavano Heart of the Sunrise, Clap, And You and I,
I’ve Seen All Good People, Long Distance Runaround, Awaken e Roundabout. A parte qualche brano
del disco nuovo, venivano suonate le più recenti Owner of a Lonely Heart, Hold On e Changes (da 90125).
Nella setlist era anche presente un “Drum Duet” di Bruford e White, oltre agli
assoli di tastiere, rispettivamente, di Tony Kaye e Rick Wakeman, che indossava
di nuovo il mantello, seppure più corto rispetto a quello dei tempi passati.
Cosa singolare, gli show del 1991 si chiudevano con Gimme Some Lovin’, cover della hit anni Sessanta dello Spencer
Davis Group cantata dal sedicenne Steve Winwood, e poi ripresa dai suoi
Traffic. Il successivo album
TALK (1994) vide di nuovo
insieme la line-up del fortunato
90125, con Jon Anderson, Chris Squire, Alan White e Trevor Rabin (alla
sua ultima registrazione con la band): ma non ebbe uguale fortuna, anche a
causa della concomitante esplosione del fenomeno musicale denominato “grunge”.
Composto da Anderson e Rabin, TALK
fu il primo lavoro degli Yes a non diventare disco d’oro. Nel 1996 il
doppio KEYS TO ASCENSION vide
riunita la formazione classica che non aveva più inciso insieme da TORMATO: Jon Anderson, Steve
Howe, Chris Squire, Rick Wakeman e Alan White. Il disco tornava inevitabilmente
al progressive, con i primi sette brani (già editi) registrati dal vivo presso
il californiano Fremont Theatre, e gli ultimi due (inediti) in studio. Delle
nuove versioni live dei pezzi vecchi (molti dei quali registrati dal vivo per
la prima volta) facevano parte Siberian
Khatru in apertura, Awaken, Starship
Trooper e Roundabout, nonché America di Paul Simon, già pubblicato come singolo nel 1972. L’anno
dopo KEYS TO ASCENSION 2
vide ancora ancora brani vecchi registrati dal vivo presso la stessa location
californiana sul primo Cd (compresi I’ve
Seen All Good People in apertura, Going
for the One, Time and a Word, Close To The Edge, And You And I), mentre il
secondo dischetto era composto esclusivamente da materiale nuovo. E’ del 1987
anche OPEN YOUR EYES,
che vede Billy Sherwood alle tastiere in sostituzione del dimissionario Rick
Wakeman: il lavoro si rivela un autentico flop commerciale, criticato dai fan e
ritenuto insoddisfacente dagli stessi componenti della band. La copertina
richiamava in modo esplicito quella del primo disco degli Yes, risalente al
1969. Il successivo THE LADDER
(1999) ricevette invece un’accoglienza più calorosa, con il ritorno al classico
sound che aveva la band ai vecchi tempi. La formazione comprendeva questa volta
Jon Anderson alla voce, Steve Howe alla chitarra, Chris Squire al basso, Alan
White alla batteria più il nuovo tastierista Igor Khoroshew, mentre Billy
Sherwood si vide relegato al ruolo di seconda chitarra. Il 2001 fu l’anno della
pubblicazione di MAGNIFICATION,
con Anderson, Squire, Howe e White supportati da un’intera orchestra sinfonica
al posto di Khoroshew e Sherwood: l’album venne accolto con grande entusiasmo,
al punto da essere paragonato ai grandi classici che il gruppo aveva saputo
realizzare negli anni Settanta. Per inciso, era dai tempi di TIME AND A WORD che gli Yes
non si avvalevano di una vera orchestra. Nell’album era inoltre presente una
nuova suite in quattro movimenti, intitolata In The Present Of, che contribuì a far ritenere che questo fosse il
miglior lavoro degli Yes dai tempi di GOING FOR THE ONE. Il brano che dava il titolo al disco, Magnification, aveva un finale che
ricordava i Beatles della splendida A Day
in the Life, mentre Can You Image,
l’unico pezzo dell’intera discografia degli Yes con Chris Squire nel ruolo di
cantante solista, derivava da una canzone degli XYZ, il supergruppo degli anni
Ottanta che vedeva il bassista insieme ad Alan White e Jimmy Page. Dalla
tournée venne tratto il bel Dvd Symphonic
Live, che alternava immagini di animazione a quelle della band insieme all’orchestra, con l’apporto del
tastierista Tom Brislin: alla vecchia suite Close
to the Edge si aggiungeva quella nuova, In
The Present Of, e durante la conclusiva Roundabout
un nutrito numero di ragazze saliva sul palco mettendosi a ballare in una
gioiosa atmosfera di festa. Le riprese erano state effettuate ad Amsterdam il
22 novembre 2001 durante il “Yes Symphonic Tour”. Il disco MAGNIFICATION venne
distribuito nei giorni dell’attentato
alle Torri Gemelle, e il brano Spirit of
Survival fu interpretato come un involontario commento degli Yes a quanto
accaduto l’11 settembre a New York nei seguenti versi: ”In questo mondo gli dei
hanno perso la loro strada, chi si è smarrito nell’oscurità si schianterà nella
notte. Lo spirito di sopravvivenza, per magnificare l’anima, per magnificare
l’amore. Stiamo in piedi in cerchio”. Con questo album si può considerare
chiusa l’era degli Yes veri e propri. Solo dieci anni più tardi verrà dato alle
stampe FLY FROM HERE
(2011), con Steve Howe, Chris Squire e Alan White, cui si uniscono il
tastierista di DRAMA Geoff
Downess e il nuovo cantante canadese Benoit David, già vocalist di una nota
cover band degli Yes. Collabora alle tastiere il figlio di Rick Wakeman Oliver,
mentre la voce di Trevorn Horn, autore dei testi, verrà aggiunta per l’edizione
del 2018 al posto di quella di Benoit David, in occasione del 50° anniversario
della band. Gran parte dei brani erano stati composti proprio nel periodo di DRAMA (1980), che vedeva Horn e
Downess quali cantante e tastierista del gruppo. Dal 2011 la nuova voce della
band è quella del polistrumentista Jon
Davison, che sostituisce il precedente vocalist a causa dei problemi
respiratori accusati da quest’ultimo. Con Davison alla voce nel 2014 gli Yes
pubblicano HEAVEN & EARTH,
l’ultimo disco degli Yes con Chris Squire, cui si uniscono Steve Howe, Geoff
Downes e Alan White. La copertina è ancora di Roger Dean. La formazione attuale
vede invece, oltre al nuovo cantante dai capelli lunghi, i “vecchi” Steve Howe e Alan White insieme a
Geoff Downess e Billy Sherwood, ora impegnato nel ruolo di bassista. Tra il
2002 e il 2004 si era riformata la line-up storica di YESSONGS, costituita da Anderson, Howe, White, Squire e Wakeman,
che aveva girato il mondo durante il “Full Circle Tour”, dimostrando di essere
ancora in grande forma, ma senza pubblicare alcun disco. La reunion viene però
immortalata dai sopracitati Dvd Live At
Montreux 2003 e Lugano 2004. In
quest’ultimo caso la band si esibiva nel corso dell’annuale “Estival Jazz”
davanti ad un pubblico costretto a ripararsi sotto gli ombrelli a causa della
copiosa pioggia: Rick Wakeman indossa di nuovo un mantello lungo fino ai piedi,
e il suono stereo è fenomenale. Chris Squire appare ingrassato (ma non quanto
lo diverrà in seguito), facendo spettacolo con il suo basso giallo, specie
durante The Fish e Starshing Trooper: porta un pizzetto e
capelli biondi ancora lunghetti. Dopo un album del 2012 insieme all’ex Genesis
Steve Hackett, Chris è purtroppo scomparso il 27 giugno 2015 a 67 anni,
raccomandando al suo sostituto Billy Sherwood, poco prima di morire, di portare
avanti la musica degli Yes. Il 7 aprile 2017, durante la cerimonia di
ammissione del gruppo alla Rock and Roll Hall of Fame, Jon Anderson, Steve
Howe, Rick Wakeman, Alan White e Trevor Rabin sono di nuovo insieme al Barklais
Center di Brooklyn per una magistrale esecuzione di Roundabout, supportati dal bassista Geddy Lee e dal chitarrista
Alex Lifeson, entrambi componenti dei fenomenali Rush, nonché da sempre grandi
fan degli Yes.
FREE
Festival dell’Isola di Wight,
Gran Bretagna, 30 agosto 1970. E’ giorno, e di fronte ad una marea umana si
esibisce un gruppo di ragazzi che aveva partecipato anche all’edizione del
festival tenutasi l’anno precedente. Questa volta, però, la band, chiamata
Free, si trova all’apice della forma e della popolarità, a seguito del successo
clamoroso del brano All Right Now,
tratto dal loro terzo disco, FIRE
AND WATER, pubblicato quello stesso anno. I primi due Lp, TONS OF SOBS e FREE, intrisi di blues venato da riff rock decisi e graffianti,
erano già usciti nel 1969 per l’etichetta Island, senza però riscuotere
consensi immediati, essendo privi di brani in grado di accendere gli entusiasmi
di un più vasto pubblico. Ma già dal primo album la ruvida voce di Paul
Rodgers, il potente basso dell’appena sedicenne Andy Fraser, il preciso
drumming di Simon Kirke e la bollente chitarra di Paul Kossof lasciavano
intravedere la possibilità di un futuro luminoso per questo giovanissimo
quartetto inglese. Andy aveva solo 15 anni quando ricopriva il ruolo di
bassista per John Mayall and the Heartbreakers, prima di entrare nei Free. Del
disco di debutto, uscito nel marzo del 1969, facevano parte bei pezzi quali Walk in my Shadow e I’m a Mover, mentre il lavoro veniva aperto e chiuso dalle due
parti della suggestiva ballata Over the
Green Hills. La sopracitata Walk in
my Shadow era la prima canzone che aveva composto Paul Rodgers. Anche il
secondo Lp conteneva ottimi brani per gli show dal vivo, quali I’ll Be Creepin’, Songs of Yesterday e Trouble on Double Time. Ma all’epoca,
non avendo ancora scritto la loro hit più famosa, riuscivano a riscaldare il
pubblico solo a fine concerto con la cover di The Hunter, inclusa in TONS OF SOBS (brano di Albert King accennato anche all’interno di How Many More Times dei Led Zeppelin).
Questo non sembrava bastare, e una sera, dopo i fiacchi applausi ricevuti alla conclusione di un loro concerto,
tornarono piuttosto depressi nei camerini. Andy Fraser, per tirare un po’ su il
morale ai suoi compagni, cominciò a canticchiare il verso “All Right Now” (“Ora
va tutto bene”): era già il ritornello del pezzo, cui Rodgers avrebbe aggiunto le strofe. Così, con
i coinvolgenti brani di FIRE
AND WATER (quali Mr. Big), i
pezzi degli album precedenti e le anticipazioni del nuovo HIGHWAY (sempre del 1970) Be My Friend (una splendida ballata) e The Stealer, il festival dell’Isola di
Wight rappresentò per i Free la consacrazione definitiva. Solo tre brani del
loro set vennero filmati (Mr. Big, Be My
Friend e All Right Now), ma sono
ancora oggi sufficienti a dare l’idea di ciò che quella band riusciva a dare sul palco nel suo
momento di grazia: Paul Rodgers, con camicia e jeans entrambi neri, capelli
lunghi e barba, impegnato a cantare con la sua voce magnifica, roca, densa e
stracolma di pathos. Oppure intento a contorcersi sull’asta del microfono e a
dimenarsi, sottolineando con i suoi movimenti gli stacchi e le accelerazioni
della musica che sembrava pervaderlo interamente; Paul Kossoff appare
addirittura in trance durante i suoi assolo alla Gibson Les Paul, senza l’aiuto
di alcun pedale, mentre schiaccia la
schiena contro gli amplificatori Marshall alle sue spalle, spalancando la bocca
nell’estasi che lo prende, mentre Andy e Simon ci danno dentro con impeto,
riempiendo tutti gli spazi come solo un grande gruppo può fare, essendo
formato, voce a parte, solo da tre strumenti. Inoltre Fraser, che sui dischi
suonava anche piano e mellotron, sul palco, potendo utilizzare soltanto il
basso, riesce a trasformare il suo strumento quasi in una seconda chitarra,
producendo accordi distorti oltre che singole note (soprattutto mentre
Kossoff è impegnato nelle sue parti
soliste). Quando poi, sempre all’Isola di Wight, il concerto si chiuse con la
già famosa All Right Now, anche la
parte del pubblico che era chiuso in tenda a sonnecchiare venne fuori: e adesso
erano tutti in piedi ad applaudire. Centinaia di migliaia di giovani a
tributare la loro approvazione sotto i raggi del sole. E dietro di loro,
l’azzurro del mare. Splendido! Il bis, come sempre, sarà Crossroads, il noto brano del bluesman di colore Robert Johnson,
risalente agli anni Trenta. La scaletta completa dell’apparizione della band
all’Isola di Wight fu comunque la seguente: Ride
on a Pony (il pezzo che apriva di solito i loro show), Woman, The Stealer, Be My Friend, Mr. Big, Fire and Water, I’m a
Mover, The Hunter, All Right Now e Crossroads. Nella pellicola, durante
l’assolo di basso contenuto in Mr. Big
le immagini del gruppo sono inesistenti, e vengono sostituite da una panoramica
del vasto pubblico ripreso dall’alto. Esiste anche uno spezzone che mostra il
presentatore sollecitare il bis, ma questo (Crossroads)
viene interrotto dopo pochi secondi. Simon Kirke rimase strupito dagli
apprezzamenti ricrevuti da Pete Townshend degli Who riguardo All Right Now, mentre attraversavano in
traghetto il braccio di mare per recarsi all’Isola di Wight. Nonostante il
successo ottenuto, nel 1971 di fatto i Free si sciolgono, e la casa
discografica riempie il vuoto con l’immancabile disco dal vivo: FREE LIVE! venne registrato in
Inghilterra nel gennaio 1970 (The Locarno, Sunderland) e a settembre dello
stesso anno presso la Fairfield Halls di Croydon, con Andy Jones al mixer. La set-list dell’album originale
prevedeva All Right Now, I’m a Mover, Be
My Friend, Fire and Water, Ride on a Pony, Mr. Big e The Hunter, più l’inedita e acustica Get Were I Belong, incisa in studio. La successive ristampa
su Cd aggiunse altri pezzi, messi su nastro durante la seconda delle due date a
Croydon: Woman, Walk in My Shadow,
Moonshine, Trouble on Double Time, oltre a versioni alternative di tre
brani già presenti sul disco pubblicato nel 1971. Il gruppo si rimette insieme
nel 1972, dando alle stampe FREE
AT LAST (l’ultimo con la formazione originale) e HEARTBREAKER
nel 1973: ma a questo punto non sono più i veri Free, con un Paul Kossoff
(scomparso nel 1976) sempre più assente, il bassista giapponese Tetsu Yamauchi
al posto di Fraser (morto nel 2015) e l’aggiunta dell’organista John Bundrick,
che dal 1979 diverrà il tastierista live degli Who. Tutti i filmati dei Free
esistenti sono relativi al 1970: il
mini-concerto per la Granada Tv, le apparizioni a Top of the Pops e al Beat
Club, i tre pezzi all’Isola di Wight, il filmato muto girato dal fratello
di Paul Kossoff e poco altro. Lo show per la Granada Tv di Manchester era parte
del programma intitolato Doing Their
Thing, al quale avevano partecipato anche i Deep Purple quello stesso anno:
i Free si esibirono il 24 luglio in pubblico su un palco verde, suonando Ride on a Pony, Mr. Big, Songs of
Yesterday, I’ll Be Creeping e All
Right Now. Fa eccezione una ripresa di scarsa qualità del 1972 in uno
stadio giapponese con l’ultima line-up, che vedeva Paul Rodgers impegnato anche
alla chitarra elettrica. In seguito sia quest’ultimo che Simon Kirke faranno
parte dei Bad Company, l’unica band di successo dell’etichetta Swang Song dei
Led Zeppelin: Paul Rodgers rimase incredulo a seguito dell’ingaggio della casa
discografica, dal momento che i Led Zeppelin erano in quel momento la band più
famosa al mondo. Del nuovo gruppo faceva parte anche il compianto Boz Burrell,
ex bassista dei King Crimson il quale, avendo imparato a suonare lo strumento
da Robert Fripp, sarebbe in seguito diventato molto bravo, essendo in grado di
suonare ad orecchio qualsiasi cosa. Utilizzava uno strumento senza tasti e
amava stare in compagnia. Mick Ralphs, proveniente dai Mottle The Hople, era
impegnato alla chitarra e componeva i
brani insieme a Paul. Fu lui l’autore del refrain di Feel Like Makin’ Love, le cui strofe erano invece opera di Rodgers.
I Bad Company proponevano un genere rock-blues non troppo dissimile da quello
dei Free, ma in grado di strizzare maggiormente l’occhio al mercato americano:
Peter Grant, il manager degli Zeppelin, promise che sarebbe andato ad
ascoltarli durante le prove. Ma la band, non vedendolo arrivare, dopo ore di
attesa perse le speranze e cominciò a suonare in maniera indiavolata. Quando
uscirono fuori trovarono Grant in macchina: si era tenuto in disparte per non metterli
in soggezione. Apprezzò molto, e da allora cominciò a supportarli, mantenendo
con loro sempre un ottimo rapporto. I Bad Company, che sfondarono sin dal
primo, omonimo album del 1974, andarono in tour insieme agli Zeppelin e spesso,
per scherzo, da un lato del palco, mentre Page e compagni suonavano, urlavano
loro: «Buuuu, fate schifo!». In qualche occasione fu concesso a
Simon Kirke di sedersi alla batteria al posto di John Bonham per qualche bis.
Rodgers, vocalist stimatissimo anche dai suoi colleghi musicisti, formerà i
Firm insieme a Jimmy Page tra il 1984 e il 1986, con la pubblicazione di due
dischi (THE FIRM nel
1985 e MEAN BUSINESS
l’anno seguente), seguiti da altrettanti tour, con il videoclip di Radioactive che mostrava Paul affiancato
da un Jimmy Page con stivali, sciarpa bianca e chitarra double neck. Il calvo
batterista Chris Slade avrebbe successivamente fatto parte degli AC/DC. Paul e
Jimmy decisero subito che non avrebbero eseguito in tournèe brani dei loro
precedenti gruppi. Nei ricordi di chi scrive rimane il concerto del 9 dicembre
1984 immortalato dalle telecamere all’Hammersmith Odeon di Londra. Il connubio
tra l’ex Free e l’ex Zeppelin era nato nel 1983, in occasione del tour benefico
denominato ARMS, che li vedeva esibirsi insieme per mezz’ora negli USA suonando
anche Midnight Moonlight, futuro
brano di punta dei Firm, nato da un frammento musicale scartato dai Led
Zeppelin. Il progetto ARMS aveva avuto il suo battesimo con due concerti
alla Royal Albert Hall nel settembre di
quello stesso anno per una raccolta fondi contro la sclerosi multipla che aveva
colpito Ronnie Lane, ex bassista di Small Faces e Faces (questi ultimi con Rod
Stewart e Ron Wood, prima del passaggio del chitarrista tra le fila dei Rolling
Stones in sostituzione di Mick Taylor). I due spettacoli vedevano la
partecipazione di grandi artisti quali Eric Clapton, Steve Winwood, Jeff Beck e
Jimmy Page, che chiudeva il suo set con una versione strumentale di Stairway To Heaven. Fu proprio Jimmy, in
giacca azzurra, il musicista più acclamato, dal momento che non saliva sul
palco dallo scioglimento dei Led Zeppelin risalente a tre anni prima. Il
successo del doppio evento londinese portò ad una ulteriore tranche americana,
con l’aggiunta di nomi quali Joe Cocker e Paul Rodgers alla lista delle
rockstar partecipanti. E fu così che Rodgers affiancò Page (a Londra Jimmy
aveva avuto come cantante Steve Winwood): il loro set si apriva con Prelude (una rivisitazione di Chopin da
parte di Jimmy Page) e proseguiva con un alternarsi tra brani di Rodgers e
dello stesso Page (tratti dalla sua colonna sonora per il film Death Wish II del 1982), fino
all’esecuzione della loro Midnight
Moonlight. Quest’ultima includeva una sezione orientaleggiante suonata dal
solo Jimmy, seduto sul palco con la Telecaster, che richiamava White Summer / Black Mountain Side
eseguite da Page durante i concerti dei Led Zeppelin con la chitarra Danelectro
utilizzando la medesima accordatura. Durante un quieto passaggio che Jimmy
suonava già ai tempi del dirigibile, Paul aggiunse la sua voce. Alla fine di
questo intermezzo il chitarrista si alzava in piedi, non appena Midnight Moonlight esplodeva di nuovo,
fino al suo incalzante finale. Quindi Jimmy imbracciava la doppio manico rossa,
e tutti capivano che stava per suonare Stairway
To Heaven: anche negli USA il celebre pezzo verrà eseguito in versione solo
strumentale, con Clapton e Beck che si univano nella parte conclusiva.
Relativamente a queste esibizioni americane esistono le riprese effettuate al
Madison Square Garden di New York l’8 dicembre 1983. Per inciso l’idea di Jimmy
Page di alzarsi in piedi alla fine dell’intermezzo “orientale” era stata
utilizzata anche al festival di Knebworth ’79: con la differenza che a quel
punto era Kashmir ad esplodere. La
carriera solista di Paul Rodgers iniziò proprio nel 1983, e vide il suo culmine
con la pubblicazione dell’album-tributo a Muddy Waters di dieci anni dopo, con
la partecipazione di David Gilmour, Jeff Beck, Slash, e Buddy Guy. LIVE IN GLASGOW (2007)
consentì invece a Paul di passare in rassegna la sua intera carriera, con molti
brani dei Free, ma anche dei Bad Company, uno dei Firm (il singolo Radioactive) e qualcuno suo. Nel 1998
Paul riformerà i Bad Company (che aveva lasciato nel 1982) con il solo Simone
Kirke quale componente della formazione originale. Il bel Dvd Merchants of Cool del 2002 documenta
bene questa reunion, che vede Paul in forma smagliante trascinare la platea
anche nel corso di All Right Now dei
Free, lasciando che fosse il pubblico stesso a cantare il ritornello (o
refrain) al posto suo. Pochi anni dopo si unirà addirittura ai Queen, senza la
pretesa di sostituire Freddie Mercury, ma cantando comunque i loro brani sotto
la sigla “Queen + Paul Rodgers”, oltre a qualcosa dei Free (All Right Now, Wishing Well) e degli
stessi Bad Company (Feel Like Makin’Love,
Shooting Star, Bad Company, Can’t Get Enough, Seagull), mirabilmente
accompagnato da Brian May, che era già un suo fan prima che i Queen medesimi
nascessero. Con i Queen Paul verrà immortalato in tre Dvd: Return of the Champions (2005), Super
Live in Japan (2006) e Live in Ukraine (2009). L’’unico disco
di brani inediti pubblicato fu
THE COSMOS ROCKS (2008). Qualche polemica nacque in occasione del
concerto della band tenuto a Roma proprio in coincidenza con la scomparsa di
Papa Wojtyla nell’aprile del 2005. Tra le tante star degli anni Settanta Paul,
pur essendo meno conosciuto di altri, è rimasto tra i pochi a mantenere una
forma fisica invidiabile e una voce pefetta, uguale ai vecchi tempi, con lo
stesso timbro blues e la medesima estensione, riuscendo a cantare i vecchi
successi senza aver mai bisogno di abbassarli di tonalità. Negli ultimi anni ha
riformato i Bad Company con Simon Kirke e il chitarrista Mick Ralphs quali
membri dell’originale line-up, supportati da altri bravi musicisti. Boz Burrell
ci aveva lasciati il 21 settembre 2006: buon bevitore, viveva per la musica, e
quel giorno si trovava in casa con amici e la moglie per festeggiare il suo 60°
compleanno. Ad un certo punto disse
qualcosa, lasciò cadere la chitarra e si
accasciò, colpito da un infarto fulminante.
La parabola dei Free, bella per quanto breve, è documentata invece dal
magnifico box-set intitolato
SONGS OF YESTERDAY, pubblicato nel 2000 e contenente cinque Cd di
rarità, mix alternativi, brani inediti e un intero concerto del 1970 registrato
con una qualità audio stupefacente. E’ compresa anche una versione con traccia
vocale diversa della meravigliosa ballata
I Love You So e una Heartbreaker eseguita
dal vivo a Portsmouth nel 1972. I
brani inclusi nel sopracitato show del 1970 (tratto in realtà da più
spettacoli) sono Ride on a Pony, Be My
Friend, Fire and Water, The Stealer, Don’t Say You Love Me, Mr. Big, I’ll Be
Creepin’, Free Me, Woman, I’m a Mover, Walk in my Shadow, Songs of Yesterday,
All Right Now e Crossroads,
eseguite tutte con la consueta perizia e intensità. La voce di Paul
Rodgers non ha eguali.
THE WHO
Ancora a proposito dell’Isola di
Wight, gli Who, altra leggendaria band inglese,
furono l’unico gruppo (oltre Jimi Hendrix) ad esibirsi sia a quel festival, nel
1970, che a quello di Woodstock dell’anno precedente. Già attivi dal 1964,
ebbero modo di presentare in entrambe le occasioni il loro capolavoro: e cioè
la versione live dell’intero
TOMMY, concept album contenente un’unica storia, con brani tutti legati
tra loro. All’Isola di Wight suonarono questa suite come chiusura di show, dopo
aver eseguito altri nove brani. Giunto il momento di eseguire TOMMY il batterista Keith Moon
chiese al pubblico di fare silenzio, poiché stavano per presentare la loro
“Rock Opera”. Il pezzo intitolato A Quick
One, suonato durante il già citato “Circus” dei Rolling Stones, aveva
gettato le basi per questo tipo di ricerca musicale più matura, presentandosi
come una mini-suite composta da più frammenti musicali ben amalgamati tra loro.
E TOMMY aveva rappresentato la compiutezza di
questa elaborazione maggiormente complessa del concetto di semplice
rock’n’roll, finendo per rimanere il traguardo più alto raggiunto dalla loro
pluridecennale carriera. Il compositore era il chitarrista e cantante Pete
Townshend. La voce solista era affidata al carismatico Roger Daltrey, mentre il
citato Keith Moon si scatenava come un ossesso alla batteria, con John Entwistle
a fargli quasi da “contrappeso” con la sua serafica calma sulla scena
(nonostante l’imponenza roboante del suo basso elettrico). Dopo essere stati
per un breve periodo esponenti del movimento Mod inglese, con capelli corti e
giacche su misura, gli Who trovano il successo nel 1965 con l’inno
generazionale intitolato appunto My
Generation, che vedeva un Roger Daltrey cantare balbettando di proposito: è
un brano dall’impatto devastante (più o meno quanto la coeva Satisfaction dei Rolling Stones), mentre
gli insuperabili Beatles si muovevano ancora su musicalità più morbide e
rassicuranti. Nel giro di pochi anni gli Who si trasformano in una macchina da
guerra: capelli lunghi, Townshend che roteava il braccio destro per fare scena
e colpire energicamente la chitarra, Daltrey che, con giacca a lunghe frange,
faceva mulinare in aria il microfono trattenendolo per il cavo, e tutti gli
strumenti sfasciati alla fine di ogni show (come in occasione del Monterey Pop
Festival del 1967). Dopo l’epico LIVE AT LEEDS del 1970 (per molti il miglior disco rock dal vivo
di sempre) e WHO’S NEXT (1971) Pete Townshend ci riprova con
l’opera rock, dando alle stampe
QUADROPHENIA (1973). Questa volta il progetto si rivela più sofferto del
previsto, e lo stesso Pete finirà per dubitare di riuscire a portarlo mai a
compimento. Anche dal vivo il lavoro non ottiene lo stesso successo del suo
predecessore, con Roger Daltrey che, sul palco, perde anche troppo tempo nello
spiegare al pubblico l’evolversi del racconto tra un pezzo e l’altro. Lo stress
accumulato porterà persino Pete e Roger a venire alle mani, mentre uno strambo
avvenimento accaduto durante la data del 20 novembre 1973 a San Francisco non
contribuisce certo a rasserenare il clima di quel periodo: infatti in
quell’occasione Keith Moon, che aveva assunto un sovradosaggio di tranquillanti
per cavalli prima del concerto, verso la fine dello show collassa sulla
batteria. Si cerca di farlo proseguire in qualche modo, ma Moon non è più in sé
e viene prima bloccato da Pete, mentre il batterista si dimena come un ossesso
sul palco. Quindi viene portato via con la forza, con Townshend che chiede al
microfono se tra il pubblico è presente qualche batterista: e così un tizio
sconosciuto (il diciannovenne Scott Halpin), che era andato semplicemente a
vedere uno show degli Who, si ritrova a suonare con loro per gli ultimi due
brani del concerto. Esiste anche il filmato di questo tragicomico episodio. Del
secondo concept album fa comunque parte la fenomenale Love Reign O’er Me: all’inizio tranquillo con rumore di pioggia,
piano e voce bassa fa da contrasto l’urlo di Roger sulla parola “love” nel
refrain. Entrambe le opere rock,
TOMMY e QUADROPHENIA,
diverranno altrettanti film: Il personaggio di Tommy verrà interpretato dallo
stesso Roger Daltrey nel 1975, con la partecipazione di Jack Nicholson, Elton
John, Eric Clapton, Tina Turner e gli stessi Who; mentre nella versione
cinematografica di QUADROPHENIA (1979) comparirà anche un
giovane Sting. Il protagonista di questa seconda opera rock si chiama Jimmy, un
adolescente alla ricerca della propria identità nel contesto della lotta tra
Mods e Rockers. Tommy era invece un ragazzo divenuto sordo, muto e cieco dopo
aver assistito, quando era ancora bambino, all’omicidio di suo padre da parte
del patrigno, per poi scoprirsi bravissimo nel gioco del flipper, sconfiggendo
il campione in carica (Pinball Wizard),
divenendo quindi una sorta di nuovo messia purificato dalle trascorse
esperienze (I’m Free). Bellissimo il
tema di See Me, Feel Me, che ricorre
attraverso l’intero concept, dall’Overture iniziale alla maestosa conclusione.
Per inciso anche Phil Collins parteciperà in veste di attore alla rappresentazione
dell’opera nel 1989, in occasione del suo 25° anniversario. Se durante i
concerti del 1969-1970 Pete Townshend compariva sul palco in tuta bianca,
sbarbato e con una Gibson SG rossa, gli anni successivi lo avrebbero visto con
barba, capelli più corti e una Gibson Les Paul scura con battipenna bianco.
Esistono filmati del 1977 (Behind Blues
Eyes, I’m Free) e del 1978 (Won’t Get
Fooled Again, Baba O’Riley) che vedono la band con Keith Moon ancora
scatenata: Roger indossa jeans e maglietta, con lo scotch nero avvolto sul microfono, al fine di evitare che
il cavo potesse staccarsi durante le sue evoluzioni; Pete indossa invece
camicia marrone e pantaloni bianchi, strapazzando una Gibson di color rosso
scuro e dimenandosi come un forsennato sul palco. Nel corso del festival
all’Isola di Wight John Entwistle aveva indossato invece un assurdo costume
nero con le ossa di uno scheletro dipinte sopra. Dal vivo TOMMY veniva presentato in una
versione più breve rispetto a quella del disco, ma ancora più efficace. Moon
utilizzava un piatto al posto del’usuale charleston. L’adrenalinica Won’t Get Fooled Again (1971) fu il
primo singolo di successo contenente suoni di sintetizzatori. Altri brani leggendari sarebbero rimasti Can’t Explain, Young Man Blues, Substitute,
I Can See for Miles, Magic Bus e la citata Behind Blue Eyes. Il gruppo ritrova il successo nel 1978 con
WHO ARE YOU, l’ultimo
album con Keith Moon, che muore quello stesso anno, sostituito per i concerti
dal vivo dall’ex Faces Kenney Jones. Con quest’ultimo verranno incisi due
album: FACE DANCES
(1981) e IT’S HARD
(1982). Gli Who pubblicheranno un altro disco in studio (ENDLESS WIRE) solo nel 2006.
Ma dal vivo continueranno a esibirsi anche dopo la scomparsa di John Entwistle,
trovato morto in un albergo di Las Vegas nell’estate del 2002, e sostituito da
Pino Palladino, con il figlio di Ringo Starr alla batteria. I lettori della
rivista «Rolling Stone» sceglieranno proprio Entwistle quale
miglior bassista di tutti i tempi. Gli Who non mancheranno l’apppuntamento con
il Live Eight del 2005 (più noto per
la reunion dei Pink Floyd con Roger Waters) e l’ occasione della cerimonia di
chiusura dei Giochi Olimpici di Londra del 2012. Il documentario intitolato The Kids are Alright, diretto da Jeff
Stein e pubblicato nel 1979, riuscì a fissare su pellicola l’intera parabola
della band nella sua formazione originale, includendo materiale del periodo
1965-1978, incluse apparizioni televisive, brani dal vivo, videoclip e
interviste. Non mancavano alcune lunghe conversazioni tra Keith Moon e Ringo
Starr e le apparizioni al festival di Woodstock del 17 agosto 1969 e a quello
di Monterey del 18 giugno 1967. Altri estratti dal vivo riguardavano il
concerto al Pontiac Silverdome (nei dintorni di Detroit) del 6 dicembre 1975,
con la band che raggiungeva il suo apice suonando di fronte a 76.000 persone.
Il documentario venne mostrato in anteprima al gruppo nel corso di una
proiezione privata, e Keith Moon si mostrò scosso nel guardare il proprio
decadimento fisico nel corso degli anni. Sarebbe morto una settimana dopo, nel
sonno, a seguito di un avvelenamento da tranquillanti successivo alla sua
partecipazione ad un party organizzato da Paul McCartney.
TRAFFIC
Come detto, un altro artista
proveniente dalle Midlands inglesi era Steve Winwood, noto soprattutto per
essere stato il leader di quella fenomenale band chiamata Traffic, attiva dal
1967 al 1974, e tornata insieme in occasione della reunion del 1994. Steve era
già diventato famoso a 16 anni nella veste di cantante dello Spencer Davis
Group, noto per il successo di Gimme Some
Lovin’, che sarebbe divenuto un vero e proprio evergreen per merito della
sua festosa ballabilità, unita a vene di puro soul e ad un ritmo irresistibile:
uno strambo videoclip in bianco e nero ci mostra il vocalist cantare il brano
con un casco per asciugare i capelli in testa. Anche gli stessi Traffic
avrebbero eseguito dal vivo questo pezzo in più occasioni, nonostante non
facesse parte della loro discografia. Ma la chiave di quella hit risiedeva soprattutto
nella fantastica voce del giovanissimo Steve Winwood, già praticamente uguale a
quella degli anni della maturità: un timbro pastoso intriso di soul e rhythm
and blues, assimilabile a quella dei migliori cantanti di colore, appassionato
e ricco di sfumature, sia per i brani più coinvolgenti che per le ballate
tranquille. Il primo nucleo dei Traffic si formò a Birmingham, e, in aggiunta a
quella di Winwood, vedeva tra le proprie fila l’altra voce dei primi Traffic, e
cioè quella di Dave Mason, oltre ai fiati di Chris Wood e alla batteria di Jim
Capaldi. Durante la “Summer of Love” del 1967, in piena era psichedelica, il
gruppo, spinto dalla forza della neonata etichetta Island, ottennero subito
ottimi risultati con alcuni singoli (Paper
Sun e Hole in my Shoe), che
precedettero l’album d’esordio MR.
FANTASY, pubblicato alla fine di quello stesso anno. Il disco è un
vivace caleidoscopio di colori, con l’utilizzo del sitar e brani surreali che
vanno dai frammenti costellati da
chiacchere in libertà (rutto compreso) alla dolcezza dell’acustica No Face, No Name, No Number. Se i primi
45 giri del gruppo ricordavano un po’ i Beatles di quel periodo (lo stesso
dell’album d’esordio dei Pink Floyd, anch’esso a tinte fortemente
psichedeliche), il brano Dear Mr. Fantasy,
registrato all’una di notte, venne viceversa ritenuto fonte d’ispirazione per
il quartetto di Liverpool nella loro splendida Hey Jude, oltre che canzone-simbolo di quel coloratissimo scorcio
di fine anni Sessanta. Il celebre tecnico del suono Eddie Kramer, pur avendo
lavorato con nomi del calibro di Jimi Hendrix e Led Zeppelin, cita proprio la
registrazione di questo pezzo come il ricordo più bello della sua intera
carriera. Sul secondo disco,
TRAFFIC (1968) Mason si è di fatto già allontanato dal gruppo (era suo
anche il contributo al sitar) per divergenze riguardanti lo stile musicale, ma
contribuisce soprattutto con il brano
Feelin’ Alright, cantato da lui e in seguito interpretato anche da Joe
Cocker. Il disco contiene inoltre Forty
Thousand Headmen e la sublime No Time
To Live, con l’inizio quieto quasi sussurrato da parte di Steve Winwood,
contrappuntato dal sax, mentre poi il brano cresce e la voce del vocalist
assume le sue caratteristiche connotazioni soul, da brividi quando passa alle
tonalità più alte. Dave Mason otterrà un buon successo dopo il suo
trasferimento negli USA, e si ritroverà più volte in cartellone per i concerti
dal vivo con la nostra PFM. Dopo l’uscita di LAST EXIT (1969), con un minimo apporto da parte di
Mason, i Traffic si sciolgono, ma quello che sarebbe dovuto diventare un album
solista di Steve Winwood, JOHN
BARLEYCORN MUST DIE (1970) viene invece dato alle stampe a nome Traffic,
divenendo addirittura il loro maggior successo internazionale. Intriso di folk,
prog e jazz-rock questo lavoro (sempre con testi di Jim Capaldi) si dimostrerà
solidissimo già dai suoi primi solchi, con l’accoppiata di Glad (sigla iniziale del programma televisivo di Carlo Massarini
intitolato proprio Mr. Fantasy) e Freedom Rider, praticamente unite
insieme. I due brani sono fenomenali, con la prima traccia, interamente
strumentale, guidata dal piano di Steve, dal sax di Chris e dalle concitate
atmosfere jazz-rock, mentre la seconda vede il primo all’organo Hammond e il
secondo ad un convulso flauto traverso. I due pezzi verranno proposti senza soluzione di continuità anche dal vivo. La
title track è in realtà una ballata folk della tradizione britannica, cantata e
suonata alla chitarra acustica da un Winwood in stato di grazia, contrappuntata
dal bel flauto di Chris Wood (scomparso ancora giovane nel 1983) e da una
indovinata contovoce, dal vivo affidata a Jim Capaldi. Bella anche Empty Pages. Questo diverrà il primo
disco d’oro per i Traffic. Nel corso dell’anno precedente, mentre la band era
sciolta, Steve Winwood aveva anche trovato tempo e ispirazione per formare i
Blind Faith, con gli ex Cream Eric Clapton e Ginger Baker, più il bassista Ric
Grech degli ottimi Family. Questo “super gruppo” non resisterà a lungo alle
pressioni esterne, e rimarrà attivo solo nel 1969, pubblicando un solo album:
il miglior documento rimasto è la loro famosa esibizione diurna filmata
all’annuale concerto gratuito di Hyde Park (con Clapton in giubba militare
inusualmente impegnato alla Fender Telecaster), comprendente il brano Can’t Find my Way Home, che Winwood
continuerà a proporre nel corso delle sue esibizioni dal vivo fino ai giorni
nostri; la sua voce, unitamente alla stupefacente versatilità nel suonare vari
strumenti (organo Hammond, piano, chitarra elettrica e acustica, banjo) sono
miracolosamente rimasti intatti, come si può apprezzare anche nel Dvd che
documenta l’ esibizione di Steve all’Estival Jazz di Lugano 2013, accompagnato
da una band con la quale propone anche
le vecchie Rainmaker (in apertura) e Dear Mr. Fantasy. I Traffic invece, nel
novembre del 1971 avevano pubblicato THE LAW SPARK OF HIGH HEELED BOYS, ancora contaminato da
progressive rock, jazz e musica etnica: in questo lavoro, oltre al fantastico
trio formato da Winwood, Capaldi e Wood, si erano aggiunti musicisti ospiti,
tra i quali Ric Grech (la vecchia conoscenza di due anni prima con i Blind
Faith) al basso e al violino. Nel 1973 esce SHOOT OUT AT THE FANTASY FACTORY, seguito da quello
che sarà l’ultimo album della band negli anni Settanta: WHEN THE EAGLES FLIES del 1974, contenente
ottimi brani quali Something New, Walking
in the Wind e soprattutto Dream
Gerrard, sorretto da un tema di sax che si ripete in maniera quasi
ossessiva, mentre gli altri strumenti si evolvono in un magnifico “crescendo”
avvolto dal suono del mellotron. I Traffic si sciolgono quello stesso anno, ma
tornano insieme 20 anni dopo, partecipando anche al concerto che celebra i 25
anni del Festival di Woodstock. Nel 2005 viene pubblicato il bel Dvd The Last Great Traffic Jam, che
documenta la tournée dei Traffic del 1994 attraverso gli States, con Jerry
Garcia ospite per una versione live di Dear
Mr. Fantasy. Della formazione originaria rimangono solo Winwood e Capaldi;
ma anche il bassista Rosko Gee era presente sull’album del 1974. Le immagini includono anche le prove del suono
e la band in viaggio sul tour bus, aprendosi con la brillante Pearly Queen. Non possono mancare Forty Thousand Headmen, contrappuntata
dal flauto, e la sempre stupefacente Glad.
Nel Dvd è compreso un simpatico siparietto da parte del barbuto Jim Capaldi: il
batterista viene mostrato mentre rientra
nei camerini, sfinito dallo show appena concluso: si toglie la maglietta nera
inzuppata di sudore, quindi la strizza più volte in un lavandino, facendo
fuoriuscire litri di liquido (probabilmente acqua preparata per la gag). E
invece di cambiarsela con una pulita, si infila di nuovo quella stessa
maglietta, con un grande sospiro di sollievo. E’ sempre del 1994 il disco che
chiude la loro discografia, FAR
FROM HOME, composto e suonato dai soli Steve Winwood e Jim Capaldi,
coadiuvati da un paio di ospiti esterni. Come artista solista Winwood ha
riscosso un discreto successo negli anni Ottanta, oltre a prestare la sua
magnifica voce a Jimmy Page durante i primi concerti del citato tour benefico
denominato ARMS, tenuti alla Royal Albert Hall nel 1983 al fine di raccogliere
fondi contro la sclerosi multipla. Nel 2004 i Traffic hanno l’onore di entrare
nella Rock and Roll Hall of Fame, ma poco dopo Jim Capaldi (batteria,
tamburello e seconda voce) viene a mancare, lasciando al solo Steve Winwood il
testimone di quelli che furono i vecchi Traffic, ormai autentici classici della
migliore tradizione del rock nel senso più ampio del termine. In tempi più
recenti Steve Winwood ha realizzato un bellissimo video nel quale, in completa
solitudine e accompagnandosi solo con la chitarra acustica, canta ancora in
maniera perfetta la sempre emozionante John
Barleycorn Must Die. Un bel documento dell’epoca rimarrà invece il concerto
californiano filmato al Civic Center di Santa Monica il 21 febbraio del 1972
con audio mono, ma con immagini di ottima qualità: qui Chris Wood, oltre che
alternarsi al flauto e al sax, indossa sia un giubbotto di pelle che una giacca
azzurra, mentre un percussionista di colore accentua la matrice etnica del loro
sound. Come sempre a Jim Capaldi è affidata la voce solista su Light Up or Leave me Alone (dall’album
del 1971), che gli consente di scatenarsi al microfono percuotendo il
tamburello. Questo show vede Roger Hawkins sostituirlo alla batteria, mentre
David Hood è al basso. Steve Winwood, qui con lunghi capelli lisci, si alterna
mirabilmente, oltre che che al canto, anche al piano, alla chitarra acustica e
alla sua caratteristica elettrica verde, con la quale sfoggia la propria
bravura come solista nella lunga parte conclusiva di Dear Mr. Fantasy, brano sempre trascinante per quanto costituito
da pochi accordi. Questa è comunque la setlist completa di quello
show: The Low Spark of High Heeled Boys,
Light Up or Leave me Alone, John Barleycorn, Rainmaker, Glad, Freedom Rider,
Forty Thousand Headmen e Dear Mr. Fantasy. I dischi ufficiali live
che rimangono a ricordarci le grandi qualità di questa band fuori da ogni
schema sono WELCOME TO THE
CANTEEN (1971), di nuovo con Dave Mason, ON THE ROAD (1973) e la versione su Cd del sopracitato THE LAST GREAT TRAFFIC JAM
(2005), che già con il suo titolo ci saluta, senza per questo impedirci di
apprezzare ancora il gruppo ascoltando la sua fantastica musica. Curiosa fu la
genesi del primo di questi dischi dal vivo: a supporto dell’album JOHN BARLEYCORN MUST DIE la
band era partita in tour nel 1970 con la line-up composta da Winwood, Capaldi,
Wood più Ric Grech, registrando una serie di concerti al Fillmore East di New
York a novembre, con l’intenzione di trarne un disco dal vivo da pubblicare
all’inizio dell’anno successivo. Ma, per motivi rimasti sconosciuti, l’album
non vide mai la luce, e solo alcuni di quei brani sarebbero riemersi come bonus
tracks della ristampa di JOHN
BARLEYCORN MUST DIE (1999). In occasione della tournée successiva la
formazione venne allargata, con l’aggiunta della vecchia conoscenza Dave Mason,
Jim Gordon e Reebop Kwaku Baah (il percussionista di colore che si può vedere
nel sopracitato video di Santa Monica del 1972). Furono fissate solo sei date,
e WELCOME TO THE CANTEEN
nacque dalle registrazioni effettuate al Fairfield Hall di Croydon (primo
concerto del tour) e a Londra. La stampa commentò con entusiasmo le versioni
dei due ultimi brani, Dear Mr. Fantasy
e Gimme Some Lovin’, dilatate a dismisura
rispetto agli originali in studio, per un’esperienza di fantasia eterna.
SUPERTRAMP
Fu proprio cantando e suonando Dear Mr. Fantasy dei Traffic che uno
sconosciuto Elton John impressionò favorevolmente Rodger Hodgson, il quale
pubblicò con la futura rockstar il singolo intitolato Mr. Boyd nel 1969, insieme a una band chiamata Argosy. Il lato B
di quel 45 giri era Imagine. La
musica di quei solchi era venata di pop contaminato dal nascente progressive.
Frattanto Stanley August Miesegaes, un milionario olandese, deluso dai Joint,
nel 1969 decise di puntare sul loro talentuoso cantante e pianista Rick Davies,
nativo di Swindon, in Inghilterra, offrendogli la possibilità di diventare il
frontman di una nuova band. Fu proprio Roger Hodgson, nato a Portsmouth, il
primo componente ad affiancare Davies. I due musicisti non avrebbero potuto
essere più diversi: Rick Davies era un pianista blues dalla voce ruvida,
cresciuto in una famiglia operaia, mentre Hodgson aveva vissuto ad Oxford e
studiato presso la prestigiosa Stowe School nel Buckinghamshire; era inoltre un
hippie intriso di misticismo, appassionato di psichedelia, che vestiva con
caftano e jeans, portando i capelli lisci e lunghi. La sua voce, al contrario
di quella di Rick, si muoveva su tonalità acute ed eteree. Eppure le
composizioni e le differenti vocalità dei due musicisti si amalgamarono
mirabilmente insieme, un po’ come quelle del duo Lennon-McCartney, creando le
basi per quello che sarebbe divenuto un successo internazionale del tutto inaspettato.
A Davies e Hodgson si erano frattanto aggiunti il chitarrista Richard Palmer e
il batterista Keith Backer, che avevano risposto all’annuncio di Rick Davies
sul solito «Melody Maker». Palmer si sarebbe occupato anche dei
testi (come in futuro avrebbe fatto per i King Crimson di LARKS’ TONGUES IN ASPIC, STARLESS
AND BIBLE BLACK e RED),
mentre il batterista venne quasi subito sostituito da Robert Millar. La band
aveva deciso di chiamarsi Daddy, ma, al fine di evitare confusioni con un altro
gruppo dal nome simile, cambiò nome in Supertramp, dietro suggerimento di
Palmer, prendendo spunto dal libro Autography
of a Supertramp, pubblicato da W. H. Davies nel 1910. Con questa formazione
tennero una serie di concerti al P.F. Club di Monaco di Baviera e firmarono il
loro primo contratto con la A&M Records, pubblicando il loro disco
d’esordio omonimo il 14 luglio del 1970 nel Regno Unito e in Canada. Solo nel
1977 sarebbe uscito anche negli USA. Il lavoro venne promosso da un’esibizione
presso il Revolution Club di Londra. Curiosamente, la copertina di Bob Hook
raffigurava un volto umano tra petali di fiore rosa, ricordando il costume
indossato da Peter Gabriel durante Supper’s
Ready pochi anni dopo. SUPERTRAMP,
benché molto apprezzato dalla critica, non ebbe alcun successo commerciale.
Eppure si trattava di un autentico gioiellino progressive rock, contenente
brani uno più bello dell’altro. Il disco venne registrato a giugno nel corso di
session notturne, dal momento che la band riteneva che la notte portasse con sé
un alone di magia. Oltre a ciò, tutto il gruppo amava i Traffic, e aveva
sentito dire che la band di Steve Winwood incideva sempre di notte. Fatto sta
che Robin Black finì spesso per addormentarsi durante quelle sedute. Questi era
lo storico fonico degli album dei Jethro Tull dal 1970 al 1982 (eccetto AQUALUNG, registrato da John
Burns), e le session vennero effettuate presso i Morgan Studios, la “seconda
casa” del gruppo di Ian Anderson. Le musiche erano di Davies e Hodgson, mentre
dei testi si occupò solo il chitarrista Richard Palmer. Questi alternò la
propria voce solista a quella di Roger nel brano Maybe I’m a Beggar, che sarebbe rimasto dunque l’unico pezzo non
cantato dai soli Rick e Hodgson fino a quando questi rimase nella band. Roger
non suonava ancora il piano, essendo impegnato (solo su questo Lp) al basso,
oltre che alla chitarra acustica e al violoncello. Si occupava anche del flauto
dolce denominato flagioletto, che si può sentire soprattutto su Shadow Song e durante la sezione
strumentale della lunga Try Again.
Rick Davies suonava invece già piano acustico ed elettrico, organo e armonica.
Richard Palmer, oltre alla chitarra elettrica, era impegnato anche a quella
acustica e alla balalaka, mentre il batterista Robert Millar era l’unico a non
cantare. Avvincenti risultavano le interazioni tra l’elettrica di Palmer e
l’organo di Davies. L’album si apriva e si chiudeva con la dolce Surely, appena
accennata all’inizio del disco, e sviluppata in maniera più enfatica alla fine
dello stesso. Splendidi i
brani It’s a Long Road, Words Unspoken e
la citata Try Again. Molto
incalzante e ricca di variazioni risultava essere Nothing To Show. Le melodie di tutti i pezzi sono bellissime, e
cantate soprattutto da Roger Hodgson. Anche gli intermezzi più rock si lasciano
apprezzare, con Roger davvero bravo anche al basso. Questo è l’unico album dei
Supertramp a non avvalersi del sassofono. Tutti questi pezzi non sarebbero più
stati eseguiti dal vivo dopo il successo di CRYME OF THE CENTURY (1974), il primo con la line-up
“classica”. Solo la quieta Home Again
e la menzionata Surely sarebbero
state eseguite durante i bis di alcuni anni dopo. La voce solista di Richard
Palmer viene accreditata anche su Shadow
Song e Try Again, ma, come detto,
è solo su Maybe I’m a Beggar che può
sentirsi distintamente, aprendo il brano e alternandosi a quella di Hodgson.
Deluso dall’insuccesso del disco, lo stesso Palmer lasciò la band a seguito di
un esaurimento nervoso. Nell’agosto del 1970 i Supertramp si esibirono
all’Isola di Wight con il nuovo sassofonista Dave Winthrop. Seguì un tour
norvegese che si rivelò disastroso. Il 25 giugno 1971, dopo che anche Robert
Millar aveva abbandonato il gruppo all’inizio dell’anno, uscì il secondo lavoro
della band, intitolato INDEBLY
STAMPED, che, con riferimento al titolo, mostrava il seno nudo tatuato
di Marion Holler, che venne pagata con 45 sterline per mettersi in posa per
quella foto in bianco e nero. Il disco sarebbe uscito in ritardo negli USA
anche in questo caso (nel 1976, con copertina a colori). E pure questa volta fu
un insuccesso commerciale, nonostante il cambio di formazione e l’ammiccante
front cover. Adesso a Roger Hodgson e Rick Davies si affiancavano Frank Farrel
al basso, il citato Dave Winthrop al sax e al flauto, più Kevin Currie alle
percussioni. I nuovi componenti del gruppo vennero reclutati poco prima delle
registrazioni, che vennero effettuate tra marzo e aprile agli Olympic Studios,
sempre in Inghilterra, con Bob Hall al mixer. Il lavoro, caratterizzato da una
virata verso il jazz-pop-rock, risultò molto meno affascinante del precedente,
nonostante contenesse alcuni buoni brani, quali Rosie Had Everithing Planned (cantata da Roger) e Times Have Changed (con Rick alla voce).
Questo pezzo era stato in realtà già composto insieme a Richard Palmer, prima
che questi lasciasse la band. Travelled era
una delle poche tracce a evocare richiami all’album di debutto, mentre la
conclusiva Aries, lunga oltre sette
minuti, era più accostabile al progressive e alle improvvisazioni strumentali
dei mai dimenticati Traffic. La citata Rosie
Had Everithing Planned fu l’unica (e ultima) traccia nella quale Roger
suonò ancora il basso, nonché la sola canzone dell’intera discografia del
gruppo a non vedere Rick Davies nelle vesti di autore (o co-autore). Sull’album
Roger Hodgson, oltre a cantare, suona la chitarra acustica, per la prima volta
anche quella elettrica, ma non ancora il piano. E’ del fiatista Winthrop la
voce solista di Potter, la canzone
che apriva l’originale lato B in vinile. Il tour a supporto del nuovo disco
incluse di nuovo alcune date al P.F. Club di Monaco, che aveva visto le prime
esibizioni dei Supertramp in pubblico. Ma il nuovo flop commerciale indusse il
magnate olandese ad abbandonare la band al suo destino: Rick Davies e Roger
Hodgson rimasero soli. Il fato si dimostrò nuovamente favorevole nei loro
confronti, questa volta nelle vesti di Ken Scott, ex manager di David Bowie,
che scommise su di loro. Inoltre la casa discografica A&M li indusse a
provare in completo isolamento (come avevano già fatto i Genesis al cottage dei
McPail) in una fattoria settecentesca del Somerset con una nuova line-up, che
si sarebbe rivelata quella vincente: a Rick e Roger si aggiunsero infatti il
bassista scozzese Dougie Thompson, il batterista californiano Bob Sibemberg e
l’estroso sassofonista John Helliwell, con i quali crearono una musica che non
aveva più nulla a che vedere con i Supertramp dei primi due dischi, dando vita
ad un sound magico che fondeva insieme eleganti melodie pop, maestosità
progressive e mini-opere rock. CRIME
OF THE CENTURY esce nel settembre del 1974 e li lancia nell’olimpo del
successo internazionale, con quello che è da molti considerato il loro
capolavoro: la struggente melodia di School
apre il disco (e i concerti) con la sola bellissima voce di Roger Hodgson,
accompagnata da un suo splendido arpeggio alla chitarra elettrica, prima che
tutto il gruppo faccia il suo ingresso dopo le urla di bambini (gli scolari
evocati dal nostalgico titolo). Qui il brano diviene incalzante, quindi si placa,
per svilupparsi poi in uno strepitoso assolo di piano. L’avvincente Dreamer divenne subito un singolo di
successo, caratterizzato dal suo andamento allegro e dal piano elettrico
Wurlitzer di Roger Hodgson, che sarebbe divenuto uno dei marchi di fabbrica
della band. Altro estratto accolto con entusiasmo fu Bloody Well Right. Emotivamente più coinvolgenti risultano le
mini-suite Hyde in Your Shell, Rudy, If
Everyone Was Listening e la stessa
Crime of the Century: aperto dal pano e dalla voce roca del barbuto Rick
Davies, questo brano si evolve dall’inizio quieto ad un “crescendo” sinfonico
con sax in chiusura. Rudy include
invece un frammento di Mozart prima del finale. I brani, da questo momento in
poi, vengono cantati dai rispettvi compositori (Hodgson o Davies), che si
uniscono anche nei cori: è in questi casi che la voce ruvida e blues di Rick si
trasforma in un falsetto quasi da cartone animato, che si fonde però alla
perfezione al timbro di Roger e a quello del sassofonista John Helliwell. Durante
i concerti dal vivo sarà proprio quest’ultimo a comunicare con il pubblico,
presentando i brani prima che questi vengano eseguiti: un’altra caratteristica
precipua dei Supertramp, dal momento che tutti gli altri gruppi vedevano il
vocalist (in questo caso Roger Hodgson o Rick Davies) parlare alla platea.
Helliwell si rivolgeva alle persone presenti agli show in maniera
confidenziale, con humour molto “british”, tentando di esprimersi nella lingua
dei vari Stati nei quali si esibivano senza badare agli errori, divertendo sé
stesso e tutti i presenti. Di fatto era lui il frontman dei Supertramp. Nel
1975 esce CHRISIS, WHAT
CHRISIS?, con il quale il progressive lascia il posto al pop di buona
fattura, a parte la lunga A Soapbox Opera,
cantata con trasporto da una intensissima interpretazione vocale di Roger.
L’anelito blues di Davies riecheggia invece nel brano Ain’t Nobody But Me. Molto belle risultano essere anche Just a Normal Day, Lady e l’acustica Two of Us, delicato cameo di un Roger
Hodgson in stato di grazia, bravo anche alla 12 corde. E’ questo il primo album
a portare la band a girare tutto il mondo in tour. Il titolo del disco fu
dovuto ad un fatto molto semplice: era stato registrato a Los Angeles, la città
del divertimento, e poi missato a Londra, mentre L’Inghilterra stava
attraversando un periodo non certo felice. Così, quando venne comunicato loro
questo stato di cose, la band si domandò di quale crisi tutti stessero
parlando. Secondo il parere di John Helliwell, la loro musica era sofisticata e
pervasa da un certo gusto per le orchestrazioni, ma più accessibile rispetto a
quella di gruppi loro contemporanei quali Genesis, Pink Floyd e Yes. Nel 1977,
l’anno dell’esplosione del punk, i Supertramp proseguono per la loro strada
dando alle stampe EVEN IN THE
QUIETEST MOMENT: la title track è un piccolo capolavoro cesellato da
arpeggi di chitarra acustica accompagnata da bucolici cinguettii di uccellini.
Hodgson si supera poi con gli undici minuti di Fool’s Overture: all’inizio lento segue un intermezzo di voci e
rumori, compreso l’estratto da un discorso di Winston Churchill, che introduce
lo splendido tema cantato da Roger con un pathos senza eguali. Altri ottimi
pezzi a vedere lo stesso Hodgson come vocalist risultano essere Give a Little Bit e Babaji. Il brano From Now On,
invece, oltre alla voce di Rick Davies vede coinvolto un coro di parenti e
amici: per registrare in maniera adeguata questi ultimi furono necessarie
numerose session, al punto da indurre il sempre tranquillo John Helliwell a
sbottare in un “Ma perché diavolo non riescono a cantare intonati?”. La
struggente Downstream è eseguita dal
solo Rick, impegnato sia alla voce che al pianoforte. Un mini-concerto della
band venne ripreso dalla televisione inglese proprio nel 1977 durante la nota trasmissione
Sight & Sound: il 10 novembre,
presso il Queen Mary College, suonarono dal vivo Give a Little Bit, Bloody Well Right, Lady, From Now On, Babaji, Poor
Boy, Dreamer, Another Man’s Woman e Fool’s Overture. La copertina del nuovo
Lp mostra un pianoforte coperto di neve. Per incidere questo disco i Supertramp
decidono di trasferirsi in America: ormai stabilitosi in California, il gruppo
attende due anni per fare uscire l’album della consacrazione definitiva: BREAKFAST IN AMERICA,
pubblicato nel 1979, vende 18 milioni di copie in tutto il mondo e rimane al
primo posto della classifica USA per un mese e mezzo. Rick Davies aveva
scommesso 100 dollari con il batterista Bob Siebenberg che quel disco non
avrebbe raggiunto i primi cinque posti negli States, e fu naturalmente felice
di essere stato così clamorosamente smentito: l’album diviene in poco tempo uno
dei più fortunati evergreen della storia del rock, segnando la generazione dei
giovani di quel tempo. The Logical Song e Goodbye Stranger divennero hit
immortali. La prima di queste due canzoni era cantata da Roger con una melodia
struggente eppure ritmata, che sfociava in un tema più concitato sul quale
prendeva il volo un bel sax di Helliwell. La seconda vedeva invece come
vocalist Rick, e si concludeva con un fantastico assolo di Hodgson alla
chitarra elettrica con pedale wha-wha. The
Logical Song iniziava con i seguenti versi: “Quando ero giovane sembrava
che la vita fosse così meravigliosa, un miracolo, oh, era bellissima, magica”.
La title track, Breakfast in America,
era un brano che Roger aveva scritto quando era giovanissimo: una sorta di
orecchiabile marcetta circense cadenzata dal piano e condita anche da trombone
e clarinetto: Rick Davies detestava quella canzone, e nessuno si sarebbe mai
aspettato che avrebbe dato il titolo al loro disco di maggior successo.
L’America sognata da Hodgson si può vedere sulla copertina, che ci mostra una
rubiconda e sorridente cameriera in tenuta arancione tra varie stoviglie sullo
sfondo di una triste Manhattan a tinte blu: il sogno si è rivelato una mera
illusione, e i testi, come spesso nel caso dei Supertramp, sono pervasi dalla
malinconia, nonostante la festosità delle musiche. La città di New York è
peraltro vista attraverso un oblò, come se fosse l’osservatore (o il gruppo
stesso) a guardare l’America del titolo da un aereo in volo. Il retro
dell’album raffigura invece i componenti della band di fronte alla propria
colazione in un bar statunitense, intenti a leggere ciascuno il giornale della
propria città. Anche Take the Long Way
Home, nonostante la sua melodia allegra e il ritmo accattivante, ci
racconta il senso di solitudine del rientro a casa dopo l’adrenalina dello show
sul palco. Il brano è caratterizzato dalla presenza di una bella armonica dagli
accenti country-blues. Il senso di struggimento è invece palesato con evidenza
nella meravigliosa ballata Lord is It
Mine, cantata con trasporto da Roger e contrappuntata da un bel piano elettrico. Hodgson e Davies duettano
invece sull’eccelsa Oh Darling. Il
colpo da maestro si trova proprio in coda al disco: cantata da Hodgson, Child of Vision rispolvera a sorpresa la
maestosità progressive dei vecchi tempi, dal piano elettrico serrato
dell’inizio alla grandiosa sezione conclusiva, con un assolo di piano dell’ottimo
Davies. Nel 1990, quando con i Malibran viaggiammo da Catania a Roma a bordo di
un furgone rosso, ascoltavamo questa mini-suite in continuazione. Il disco dal
vivo LIVE IN PARIS,
registrato nel 1979 e pubblicato l’anno successivo, consacrò il successo
dell’album anche sul palco, con versioni dei brani di BREAKFAST IN AMERICA anche migliori di quelle
registrate in studio, unitamente a bei
pezzi tratti dai dischi precedenti, quali l’iniziale School, Bloody Well Right, Hide in Your
Shell, Rudy, A Soapbox Opera, From Now On, Dreamer, Fool’s Overture, Two of Us e
Crime of the Century. Splendida la
versione in Dvd uscita nel 2011, con lo show originale filmato al Pavillon de
Paris nel dicembre del 1979 restaurato nelle immagini e remissato nel suono. I
componenti del gruppo, nonostante avessero raggiunto la propria apoteosi
proprio con LIVE IN PARIS,
dichiararono successivamente che un altro show, di poco precedente, era stato
in realtà migliore, avendoli visti un po’ brilli dopo qualche bevuta, e più efficaci
sul palco. Ad ogni modo, dopo un tour di 120 date in dieci mesi, il gruppo era
al massimo della forma, e quelle serate parigine videro per l’ultima volta la
band davvero unita. Il successivo album FAMOUST LAST WORDS uscì solo nel 1982, e fatalmente, dopo
il raggiungimento del top, non si rivelò all’altezza dell’album precedente,
deludendo in parte le aspettative dei fan con quello che sarebbe stato l’ultimo
lavoro dei Supertramp insieme a Roger Hodgson. Del resto qualche crepa nel
rapporto fra quest’ultimo e Rick Davies si era già manifestata durante la
lavorazione di BREAKFAST IN
AMERICA. Il nuovo disco contiene comunque ottimi pezzi quali Crazy, It’s Raining Again, My Kind of Lady,
Don’t Leave Me Now e la dolce Know
Who You Are di Hodgson. Ad ogni modo già la copertina, che mostra una mano
munita di forbici che sta per tagliare la corda di un acrobata, sembra
ammettere che l’equilibrio interno al gruppo sta per spezzarsi. Una Vhs
documenta gli ultimi “veri” Supertramp in concerto durante questo tour del
1983, alternando brani eseguiti in due diverse location: il sassofonista Scott
Page, che pochi anni dopo si sarebbe unito ai Pink Floyd per il tour di A MOMENTARY LAPSE OF REASON,
affianca John Helliwell: ma è la classe di quest’ultimo a farsi di gran lunga
preferire, mentre Page, come già in occasione della tournèe insieme ai Floyd,
sembra solo attendere il momento giusto per lanciare la sua nota più acuta.
Adesso Roger porta i capelli corti, e trascina ancora il pubblico con la
chitarra acustica a tracolla cantando la festosa Give a Little Bit mentre è ancora giorno. Il validissimo
compositore, cantante e polistrumentista proseguirà con una sua carriera non
molto fortunata, dando alle stampe IN THE EYE OF THE STORM (1984), nel quale fa praticamente tutto da
solo, lasciando spazio alla sua anima progressive unita alla capacità di creare
brani di elegante pop melodico. Il successivo HAI HAI (1987) segna la definitiva rottura con il
passato: ma, nonostante il contributo di sessionmen d’eccezione, quali il
batterista dei Toto Jeff Porcaro, l’album si perde tra i suoni elettronici
all’epoca in voga, suscitando ben poche emozioni. In seguito Hodgson è
costretto a fermarsi diversi anni a causa di un incidente domestico che gli
procura la frattura di entrambi i polsi. Nel 1994 compare quale co-autore di un
brano (Walls) delll’album TALK degli Yes, e nel 1997
pubblica il live RITES OF
PASSAGE. Pochi anni dopo è impegnato quale componente della band di
Ringo Starr che include nomi famosi, quali quello di Greg Lake. Un suo nuovo
album in studio arriva solo nel 2000: si tratta di OPEN THE DOOR, influenzato da atmosfere francesi e
caratterizzato da un folk-pop acustico nel quale vengono utilizzati strumenti
quali il liuto, l’arpicordo, il piffero irlandese e il banjo, che affiancano
l’immancabile piano Wurlitzer. Il disco passa inosservato, così come quelli dei
Supetramp senza di lui: BROTHER
WHERE YOU BOUND (1985), con il poco appetibile singolo Cannonball, FREE AS A BIRD (1987) e LIVE 88. Il relativo tour li
porta anche in Italia, ma si rivela un insuccesso: il bassista Dougie Thomson
lascia il gruppo, essendo in disaccordo con l’dea di mantenere in scaletta i
pezzi composti e cantati da Roger, affidandoli alla voce di Mark Hart. Seguono SOME THINGS NEVER CHANGE
(1997), con Rick Davies che riesce a inserire di nuovo nella band John
Helliwell, e SLOW MOTION
(2002). Il doppio disco dal vivo registrato a Londra nel 1999 esce quello
stesso anno con il nostalgico titolo di IT WAS THE BEST OF TIME: della vecchia line-up sono
ancora presenti, oltre a Rick Davies, anche John Helliwell e il batterista Bob
Siebenberg, mentre le canzoni che erano cantate da Roger Hodgson (Breakfast in America, Take The Long Way
Home, The Logical Song e School) come detto vengono affidate alla voce del
chitarrista Mark Hart. Dei pezzi vecchi Rick può naturalmente interpretare
quelli che lo vedevano già come vocalist: Ain’t
Nobody But Me, From Now On, Rudy, Downstream, Another Man’s Woman, Bloody Well
Right, Goodbye Stranger e la conclusiva
Crime of the Century. Non mancano le raccolte con la formazione classica
(Hodgson, Davies, Helliwell, Siebenberg e Thomson) impegnata nei pezzi più conosciuti
del gruppo: THE AUTOBIOGRAPHY
OF SUPERTRAMP (1986), THE
VERY BEST OF SUPERTRAMP (1990) e THE VERY BEST OF SUPERTRAMP 2 (1992). Quest’ultima,
aperta dalla gradevolissima Ladies,
pur essendo assemblata con i brani meno di successo, è forse più bella della
precedente. Nessuno dei pezzi compresi nei primi due dischi trova posto in
queste compilation. Nel 1992, in occasione della festa per i 30 anni della
A&M, Rick e Roger si esibiscono in coppia come ai bei tempi, ma una reunion
del gruppo non avverrà mai. Hodgson nel 2006 dà alle stampe il Dvd intitolato Take The Long Way Home, che lo vede
accompagnato solo da un sassofonista, che suona anche il clarinetto. L’anno
successivo lo vede partecipare al concerto in memoria della principessa Diana
al Wembley Stadium, eseguendo un medley composto da Dreamer, The Logical Song, Breakfast in America e Give a Little Bit.
Nel 2008, all’Estival Jazz di Lugano, riceve un grande applauso quando intona It’s Raining Again proprio quando sul
pubblico si rovescia un violento acquazzone. Il 2010 vede il gruppo di nuovo in
tour per festeggiare i 40 anni dalla propria nascita: ma è lo stesso Roger a
smentire le voci riguardanti una sua partecipazione al progetto. Nel 2015 i Supertramp
sono di nuovo in Italia: John Helliwell si sente ancora con Hodgson, e
condivide con lui uno spettacolo per pochi intimi a Ginevra, trovando che il
suo compagno di un tempo ha ancora una
gran voce. La verità è, in ogni caso, che i classici brani dei Supertramp
proposti dal vivo da Roger Hodgson (da solo o con una band) suonano più come
pezzi del vecchio gruppo rispetto a quelli suonati dai Supertramp senza di lui.
Esistono riprese di Roger che esegue Child
of Vision nel 2013 davvero impressionanti: accompagnato da un’ottima band,
Hodgson suona e canta in maniera assolutamente identica ai tempi che furono, con i capelli di nuovo
lunghi e il suo imprescindibile piano elettrico Wurlitzer. Il bassista si
diverte con una minuscola videocamera installata sulla paletta del suo
strumento, mentre l’altro tastierista sostituisce Rick Davies non solo alla
voce, ma anche all’armonica, suonando pure il sax nelle parti che erano di John
Helliwell. Magnifici altri brani, eseguiti durante vari festival, compreso quello
di Montreux, fino al 2018: Take The Long
Way Home, Lord is It Mine, School, Breakfast in America, Fool’s Overture, A
Soapbox Opera, It’s Raining Again e l’immancabile The Logical Song.
CAMEL
Anche gli inglesi Camel, pur
riconducibili per la loro proposta musicale al progressive rock, suonavano un
genere molto particolare. Erano originari di Guildford, ma la vicinanza del
loro sound a quello dei Caravan indusse la stampa ad inserirli nella cosiddetta
“scena di Canterbury”, che univa atmosfere jazz, psichedeliche, elettroniche e
d’avanguardia al pop più melodico. Questa musica, caratterizzata da testi
surrreali o fiabeschi, metteva insieme gruppi assai diversi tra loro, quali i
Gong e i Soft Machine, entrambi fondati dell’eccentrico artista australiano
Daevid Allen, e i sopracitati Caravan. Anche Robert Wyatt e Kevin Ayers erano
componenti dei Soft Machine, nonché compositori e musicisti di rilievo a
seguito delle rispettive carriere da solisti. Wyatt in particolare riuscì a
farsi un nome, nonostante una caduta dalla finestra, avvenuta il 1° giugno del
1973, lo avesse messo per sempre sulla sedia a rotelle, ponendo fine alla sua
carriera di batterista. I Pink Floyd organizzarono due serate di beneficenza al
Raimbow Theater nel novembre di quello stesso anno per accorrere in suo aiuto.
Anni prima, mentre stava per suonare con i Soft Machine, essendo stato notato
da un addetto della Royal Albert Hall con i suoi capelli lunghi e gli abiti
trasandati, si sentì dire che in quella sala si suonava solo “musica seria”(con
riferimento alle orchestre sinfoniche). «E
invece oggi suoniamo noi»
fu la sua risposta. Presso la stessa Royal Albert Hall sarebbe stato invitato a
suonare la tromba durante i sopracitati spettacoli di David Gilmour del 2006.
Ma i Camel proponevano un sound del tutto personale. Andrew Latimer aveva
formato un suo gruppo già nel 1964, ma, dopo vari cambiamenti di line-up e di
nomi per la band, fu solo il 4 dicembre 1971 che i Camel suonarono per la prima
volta in pubblico, al Waltham Forest Technical College, con la formazione
definitiva: Andy Latimer alla chitarra, Peter Bardens alle tastiere, Andy Ward
alla batteria e Doug Ferguson al basso. E’ dell’agosto del 1972 la firma del
contratto con la MCA Records, etichetta per la quale pubblicano il loro primo e
omonimo disco nel febbraio del 1973. CAMEL venne registrato presso i Morgan Studios, e conteneva belle
tracce quali Never Let Go e Arubaluba, molto eseguite dal vivo. Del
primo di questi due brani esiste anche un videoclip a colori filmato il 17
marzo 1973 presso la Guildford Civic Hall: essendo in playback, il
bell’arpeggio iniziale di chitarra acustica vede Andy eseguirlo con la sua
chitarra elettrica Gibson Les Paul. Qui Ferguson compare sbarbato e con la
giacca, mentre Ward picchia sulla batteria nella sezione concitata a torso
nudo. Non meno bella sarebbe stata in seguito la versione registrata nel 1977
ed inserita nel fantastico A
LIVE RECORD. Benchè composta da Latimer, la voce solista di questa
piacevolissima canzone era quella di Peter Bardens, che sull’album d’esordio
suonava organo, mellotron, pianoforte e sintetizzatore VCS3. Andy era impegnato
alla chitarra e alla voce, ma non ancora al flauto traverso. Anche il bassista
Doug Ferguson cantava un paio di pezzi. L’edizione su Cd del 2002 avrebbe
aggiunto alcune bonus tracks. L’album non riscosse il successo sperato, e i
Camel preferirono cambiare label, passando alla Decca per dare alle stampe MIRAGE: la band questa volta
effettuò le registrazioni presso gli Island Studios, e il disco uscì il 1°
marzo del 1974. La copertina ritraeva l’immagine sfocata di un cammello
(evocando il nome del gruppo), come se l’osservatore potesse vederlo attraverso
l’aria rarefatta e liquida di un deserto. E’ questo il disco che porta i Camel
ad essere consacrati nella scena del miglior rock progressivo, contenendo
splendidi brani quali l’iniziale Freefall
e la conclusiva Lady Fantasy, una
mini-suite in tre movimenti lunga 13 minuti che sarebbe divenuta un classico
per i successivi concerti. Supertwister
cominciava invece con un bel flauto e finiva con il rumore di un liquido
schiumoso versato in una tazza. I testi del lavoro trattano tematiche
“fantasy”, ispirandosi al Signore degli
Anelli di Tolkien. E’ su questo secondo album che possiamo apprezzare per
la prima volta Andy Latimer al flauto, oltre che alla chitarra. Anche in questo
caso l’edizione su Cd del 2002 offre alcune bonus tracks, quasi tutte
registrate dal vivo il 30 ottobre 1974 al Marquee Club. Adesso a scambiarsi il
ruolo di vocalist sono i soli Latimer e Bardens. Curiosamente questo album ebbe
più successo negli USA che in Inghilterra, permettendo così alla band di tenere
il suo primo tour statunitense, trascorrendo tre mesi sulla West Coast. Il
capolavoro dei Camel è però l’album successivo: registrato di nuovo presso gli
Island Studios per la Decca, e dato alle stampe nell’aprile del 1975, THE SNOW GOOSE era un
magnifico affresco interamente strumentale che si ispirava all’omonimo racconto
dello scrittore americano Paul Gallico. Questi, però, acceso oppositore del
vizio del fumo, pensò che i Camel fossero in qualche modo legati all’omonimo
marchio di sigarette, e pemise alla band di pubblicare l’album solo a patto che
uscisse con il nome di MUSIC
INSPIRED BY THE SNOW GOOSE. Il concept riempiva entrambi i lati del
disco, con temi musicali che si succedevano benissimo uno dietro l’altro,
supportati dagli arrangiamenti orchestrali di David Bedford: i titoli Rhayader e Rhayader Goes To Town, che si legavano insieme senza soluzione di
continuità all’inizio del lavoro, sarebbero divenuti i brani più richiesti dal
pubblico: il primo era un tema vivace condotto dal flauto di Andy Latimer,
mentre il secondo vedeva lo stesso leader del gruppo passare alla chitarra
elettrica per una sezione più aggressiva, che iniziava dopo due colpi di
rullante. E’ qui che Latimer poteva lasciarsi andare ad un sempre ispirato
assolo di chitarra. Anche la traccia intitolata proprio The Snow Goose, uscita su singolo, era molto bella, e veniva
ripresa alla fine del concept album con il titolo di La Princesse Perdue. La celebrazione dal vivo di questa suite
sarebbe avvenuta presso la prestigiosa Royal Albert Hall nell’ottobre del 1975,
con il gruppo accompagnato dalla London Symphony Orchestra. L’intera
registrazione di questa grandiosa performance avrebbe trovato posto sul
sopracitato A LIVE RECORD.
Esistono numerose foto che ritraggono la band in posa all’esterno della nota
sala da concerti londinese. Un filmato dei Camel al programma televisivo The Old Grey Whistle Test del 9 maggio
1975 li vede eseguire dal vivo un medley costituito da Friendship, The Snow Goose e
Rhayader Goes To Town, supportati da una piccola orchestra di ottoni. Qui
Andy inizia a suonare con la sua Gibson Les Paul, concludendo con una Fender
Stratocaster verde. L’ultimo disco a vedere insieme la formazione originale dei
Camel fu MOONMADNESS,
pubblicato nel 1976: il bassista Doug Ferguson non gradì infatti le pressioni
del batterista Andy Ward, che desiderava portare la band verso sonorità più
accostabili al jazz: Ferguson lasciò la band all’inizio del 1977, mentre il
tour a supporto di MOONMADNESS
vedeva l’ingresso nei Camel dell’ex King Crimson Mel Collins al sax e al
secondo flauto. Esiste un bel filmato del gruppo in concerto il 14 aprile 1976
all’Hammersmith Odeon, con Andy Latimer dai capelli ancora molto lunghi (li
avrebbe accorciati l’anno seguente), ma un po’ scuro nelle riprese. I brani
eseguiti sono White Rider, Lunar Sea,
Preparation, Dunkirk, Another Night e
Lady Fantasy. Dopo il sofisticato concept album del 1975, il nuovo disco
riporta i Camel a composizioni più semplici, ma comunque gradevoli, come nel
caso di Song Within a Song e la
conclusiva Lunar Sea. Sono questi due
gli estratti più eseguiti in concerto: presenti tra le bonus tracks dell’edizione
su Cd del 2002 nelle versioni eseguite all’Hammersmith Odeon il 14 aprile 1976,
sarebbero comparse anche su A
LIVE RECORD: Song Within a Song
registrata dal vivo nel settembre del 1977 presso lo stesso Hammersmith Odeon,
e Lunar Sea nell’ottobre del 1977
alla Colston Hall di Bristol. Il barbuto Ferguson venne sostituito da Richard
Sinclair, alto e allampanato bassista ex Caravan e Hatfield and the North, che
assunse anche il ruolo di cantante. Con questa nuova line-up (Latimer, Bardens,
Ward, Collins e Sinclair) i Camel pubblicarono i successivi due dischi, RAIN DANCES e BREATHLESS. Il primo di
questi lavori uscì per la Decca nel
settembre del 1977, e conteneva ottimi brani quali Metrognome, Unevensong, Skylines e la conclusiva title track.
Questo periodo dei Camel venne documentato dalla loro partecipazione al
programma televisivo della Bbc Sight and
Sound, filmato, come nel caso dei Jethro Tull, quello stesso anno presso il
Golders Green Hippodrome di Londra. Era il 22 settembre del 1977, e molto
spazio venne naturalmente riservato ai brani del nuovo disco (compresi quello
di apertura e di chiusura dello show), anche se non mancarono alcuni estratti
dagli album precedenti. Il presentatore, prima di annunciare l’ingresso in
scena della band, poggiò sul palco il pupazzo di un cammello: quindi il gruppo
suonò First Light, Metrognome,
Uneversong, Rhayader, Rhayader Goes To Town, Skylines, Highways of the Sun,
Lunar Sea, Rain Dances, Never Let Go e One of These Days I’ll Get an Early
Night. Nell’occasione, come accennato, Andy Latimer si presentò con capelli
meno lunghi, maglietta a maniche corte blu con salopette e bretelle, alternando
una Gibson Les Paul ad una chitarra a doppio manico. Su Rhayader il suo flauto potè essere doppiato da quello in
controcanto del biondo Mel Collins, che indossava un camicione bianco stretto
in vita, suonando spesso sax soprano e tamburello. Peter Bardens era alle
tastiere con maglioncino a righe, mentre Andy Ward sedeva alla batteria a torso
nudo, con capelli lunghi e pantaloncini. Questa volta a cantare la splendida Never Let Go non era Bardens, bensì
Richard Sinclair. L’esecuzione del mini-concerto fu perfetta, e rappresentò il
documento video più conosciuto dei Camel anni Settanta. Dal momento che il
programma musicale andava in onda contemporaneamente anche in radio, con audio
stereo dal mixer, lo show, lungo meno di un’ora, sarebbe uscito anche su Cd.
Questa esibizione, preceduta da quella all’Hammersmith Odeon dell’anno
precedente, sarebbe uscita in Dvd nel 2007 con il titolo di Moondances. BREATHLESS
venne invece pubblicato nel settembre del 1978, ancora per la Decca: con Mick
Glossop al mixer, conteneva una bella traccia dal titolo identico alla nota
suite dei Pink Floyd: Echoes. Durante
il relativo tour anche Peter Bardens lascia il gruppo, sostituito da due
tastieristi provenienti dai Caravan (uno dei quali era il cugino di Richard
Sinclair). Alla fine della tournèe i Camel pubblicano un nuovo disco nel 1979,
inserendo nella formazione il nuovo tastierista Kit Watkins e il bassista Colin
Bass: I CAN SEE YOUR HOUSE FROM
HERE vedeva in copertina un austronauta crocifisso che guardava la Terra
dallo Spazio: un’immagine che venne considerata di cattivo gusto, causando non
pochi problemi alla casa discografica. Tra gli ospiti comparivano Mel Collins
al sax e Phil Collins dei Genesis alle percussioni. Il brano conclusivo,
intitolato Ice, era un suggestivo
strumentale di 10 minuti guidato da una chitarra da brividi. Con NUDE (1981) i Camel tornano
al concept album, raccontando la storia (vera) del soldato giapponese ritrovato
in tenuta da combattimento su un’isola, molti anni dopo la fine della Seconda
Guerra Mondiale, non essendosi reso conto che le ostilità erano cessate da
tempo. Il disco viene registrato dai soli Andy Latimer, Colin Bass e Andy Ward,
che incide qui per l’ultima volta insieme ai Camel, lasciando il gruppo alla
fine del breve tour che aveva fatto seguito all’album. A questa defezione seguì
lo scioglimento dei Camel: Andy Latimer, rimasto da solo, per ragioni
esclusivamente contrattuali nel 1982 pubblicò l’album ironicamente intitolato THE SINGLE FACTOR a nome
Camel, avvalendosi di turnisti e sessionmen, ma anche del contributo di Peter
Bardens, Anthony Phillips (proprio il primo chitarrista dei Genesis), Dave
Mattacks (batterista di Fairport Convention e Jethro Tull) e Simon Phillips
(altro batterista ancora più famoso, che avrebbe partecipato l’anno dopo al
tour benefico denominato ARMS, suonando con Jimmy Page). Questo lavoro era
molto lontano dal progressive, e tentò inutilmente di scalare le classifiche.
Bella però la briosa Sasquatch, con raffinati arpeggi di
chitarra acustica sui canali destro e sinistro. Un nuovo vero disco dei Camel
sarebbe uscito solo nel 1984: STATIONARY
TRAVELLER vedeva una nuova line-up costituita da Andy Latimer (voce,
chitarra, flauto, basso), Ton Scherpenzeel (tastiete, fisarmonica) e Paul
Burgess (Jethro Tull) alla batteria. Tra gli ospiti ricompare Mel Collins. Pur
contraddistinto da suoni anni Ottanta e dalla presenza di una drum machine, è
un buon lavoro. Il brano d’apertura,
Pressure Points, darà anche il titolo al bel live PRESSURE POINTS: LIVE IN CONCERT. Registrato
all’Hammersmith Odeon l’11 maggio del 1984 e pubblicato quello stesso anno, il
concerto si apre con il brano omonimo e
viene chiuso da Rhayader unita
a Rhayader Goes To Town, per un salto
indietro nel tempo dopo i brani di recente composizione. Tra questi, molto
avvincente risulta essere la citata Sasquatch,
con una fantastica chitarra di Latimer supportata da una bella linea di basso.
La formazione di questo show, oltre ad Andy, Colin Bass e Paul Burgess, vede
Peter Bardens e Mel Collins suonare su un brano a testa. Troviamo inoltre Ton
Scherpenzeel alle tastiere, coadiuvato da Chris Raimbow e Richie Close. PRESSURE POINTS: LIVE IN CONCERT
è uscito anche su Vhs e Dvd. Il live più famoso dei Camel rimane comunque il
più volte menzionato A LIVE
RECORD, doppio album pubblicato dalla Decca nell’aprile del 1978: le
prime due facciate dell’Lp contenevano brani registrati dal vivo tra il 1974 e
il 1977, mentre le altre due documentavano la nota esecuzione dell’intera THE SNOW GOOSE alla Royal
Albert Hall nel 1975, con l’accompagnamento della London Symphony Orchestra. Su
tutti i pezzi suonavano Latimer, Bardens e Ward; Ferguson era presente solo
sulle tracce del periodo 1974-1975, sostituito da Sinclair nei brani del 1977
che aprivano il disco. Questa
era comunque la setlist: Never Let Go
(Hammersmith Odeon, ottobre 1977), Song
Within a Song (Hammersmith Odeon, settembre 1977), Lunar Sea (Colston Hall, ottobre 1977), Skylines (Leeds University, ottobre 1977), Ligging at Louis’ (Marquee Club, ottobre 1974) e Lady Fantasy (Marquee Club, ottobre
1974). Il resto del lavoro, come detto, era riservato all’intera THE SNOW GOOSE (Royal Albert
Hall, ottobre 1975). La versione su Cd riportò i brani singoli sul primo
dischetto e la suite sul secondo. L’ottima apertura con Never Let Go vedeva anche un intermezzo dal sapore latino con una
bella interazione tra basso e batteria. Al contrario di Doug Ferguson, Richard
Sinclair suonava il suo strumento filtrato attraverso un effetto flanger. Se si
volesse entrare in possesso di un solo lavoro dei Camel per avere il meglio
della loro produzione, A LIVE
RECORD potrebbe essere la scelta giusta. L’edizione del 2002 si apriva
invece con First Light, e includeva
sul primo Cd molti brani non presenti nella versione originale, mentre THE SNOW GOOSE veniva
introdotta da una presentazione da parte di Peter Bardens. Nel 1990 Andy
Latimer si trasferì negli Stati Uniti, pubblicando finalmente un nuovo disco
dei Camel l’anno dopo: DUST AND
DREAMS era un ottimo lavoro, dato alle stampe per la nuova etichetta
Camel Production, fondata dallo stesso Andy. La nuova line-up lo vedeva insieme
ai ritrovati Colin Bass, Paul Burgess e Ton Scherpenzeel. Il brano Hopeless Anger era davvero magnifico, e
funzionava anche dal vivo. Sul lavoro erano presenti anche un oboe e un corno
francese. Nel 1996 Andy Latimer, Colin Bass e il tastierista Mickey Simmonds
pubblicarono HARBOUR OF TEARS:
il titolo derivava dal soprannome con il quale era conosciuto il porto dal
quale erano partiti gli irlandesi verso l’America tra il 1846 e il 1847,
durante la terribile caresatia detta “delle patate”, la cui raccolta era stata
compromessa da un fungo. Vari ospiti suonavano batteria, oboe, sax,
violoncello, armonium, corno francese e due violini. Il 1997 vide i Camel
partire in tour con una formazione che, accanto a Andy, vedeva Colin Bass, Foss
Patterson e Dave Stewart: ne avrebbero tratto il doppio album live COMING OF AGE, registrato il
13 marzo di quell’anno al Billboard di Los Angeles e pubblicato l’anno dopo.
Nel 1999 Latimer, Bass, Stewart, Scherpenzeel e il violoncellista Barry
Phillips registrarono e pubblicarono l’ottimo RAJAZ, ricco di sonorità orientali e ispirato al
passo del cammello che, nelle intenzioni del leader della band, avrebbe potuto
aiutare i viaggiatori stanchi a raggiungere la propria meta. Molti di quei
brani erano esclusivamente strumentali e di pregevole fattura. Qui Andy suona
anche il flauto. L’ultimo brano, intitolato Lawrence,
dura oltre 10 minuti. Il lavoro viene molto apprezzato da critici e fan, che
vedono in esso un ritorno dei Camel in gran forma. Due anni dopo la band
pubblica un fantastico disco dal vivo intitolato THE PARIS COLLECTION, che documenta un concerto tenuto
presso il Bataclan di Parigi il 30 settembre 2000, durante il quale la band
ripropone i brani migliori del proprio repertorio più recente e altri dei
vecchi tempi, tra i quali Slow Yourself
Down, Chord Change, Ice e Lady Fantasy. Il Cd riporta erroneamente la data del 30 ottobre. La
formazione di questo concerto vede sul palco Andy Latimer, Colin Bass, Guy
LeBlanc (tastiere) e Denis Clement (batteria). La copertina mostra un’immagine
della piramide trasparente collocata dinanzi al museo del Louvre, riflessa
sull’acqua e con il cielo azzurro solcato da un arcobaleno sullo sfondo. Il
successivo disco in studio è NOD
AND A WINK, registrato dalla stessa line-up, pubblicato nel 2002 e
permeato da atmosfere dolci e fiabesche. For
Today è una commovente traccia dedicata alle vittime dell’attentato alle
Torri Gemelle dell’11 settembre. L’anno dopo il gruppo parte in tour,
ricavandone il Dvd The Opening Farewell,
Live at the Catalyst, uscito nel 2010. Suggestiva l’esecuzione dell’eterea Stationary Traveller, con il leader
della band impegnato sia ad una Fender Stratocaster rossa che al flauto di Pan.
Andy Latimer deve fermarsi a causa di una malattia, che supera però
brillantemente, permettendogli di tornare in tournèe in Europa nel 2013. Lo
stesso anno i nuovi Camel (Latimer, Bass, LeBlanc e Clement) pubblicano una
versione rinnovata del leggendario THE SNOW GOOSE, dedicandola a Peter Bardens, tastierista della
formazione storica scomparso a causa di un tumore il 22 gennaio del 2002. Il
2014 li riporta in Italia per le date di Torino e Vicenza, il 20 e 21 marzo.
Altro tour europeo l’anno seguente, seguito da uno giapponese dal 18 al 22
maggio 2016. A parte le raccolte, numerosi Dvd e Cd dal vivo qui non menzionati
documentano l’attività del gruppo tra il 1972 e il 2013. Nel 2018 i Camel sono
ancora in attività, girando il mondo tra Polonia, Israele, Spagna e Giappone,
proponendo anche pezzi storici (Unevensong,
Lady Fantasy) con un Andy Latimer dai capelli corti e bianchi ancora più
bravo e ispirato che negli anni passati, sia alla chitarra elettrica che a
quella acustica. Non ha smesso di suonare il flauto, e il 17 settembre si
esibisce di nuovo alla Royal Albert Hall, osannato dal pubblico che si spinge
fin sotto al palco per tributargli un meritato e scrosciante applauso.
IL FESTIVAL DI WOODSTOCK
Dal 15 al 18 agosto 1969 si
svolse il celeberrimo festival di Woodstock. Un gigantesco palco venne montato
a Bethel, nello Stato di New York, tra infinite distese di campi erbosi e un
bellissimo stagno. Quelle memorabili
giornate vennero correttamente denominate “Tre giorni di pace, amore e
musica”, e il simbolo stesso del festival (il manico di una chitarra con sopra
una colomba) intendeva fare riferimento agli intenti ispirativi dell’evento.
Woodstock era in effetti il nome di una città vicina. Il giorno 18 non era
stato inizialmente previsto, e dunque la manifestazione durò in realtà quattro
giorni. Nel 1967 si era già svolto il Monterey Pop Festival, con l’iconica
immagine di Jimi Hendrix che bruciava la sua chitarra. E molti altri eventi
simili, con numerosi artisti in cartellone, si erano svolti in quegli anni
negli Stati Uniti. Eppure quello di Woodstock fu l’evento culminante del
crescente movimento hippy, contrario alla guerra in Vietnam, all’epoca in corso,
e alla cultura dominante imposta dalla generazione precedente, che quei giovani
desideravano fortemente lasciarsi alle spalle, credendo davvero di poter
realizzare il sogno di un mondo nuovo. L’afflusso di pubblico fu superiore ad
ogni aspettativa, al punto che il festival si trasformò in una manifestazione
gratuita, e che tutta la zona venne ritenuta dalle autorità competenti “zona
sinistrata”. Migliaia di automobili si riversarono in direzione della zona del
concerto, e, viste dall’alto, somigliavano ad altrettante macchinine per
bambini ammassate una sopra l’altra. All’inizio dell’omonimo film del 1970 Max
Yasgur, che aveva offerto il suo terreno, si stupì di come mezzo milione di
persone potessero aver vissuto in pace, nonostante la situazione avrebbe potuto
provocare facilmente risse o saccheggi. Un cronista del New York Times,
presente al festival, si rifiutò di adeguarsi alle richieste dei suoi
redattori, che volevano si sottolineasse soltanto un clima da catastrofe, con
blocchi stradali e uso di droghe, scrivendo invece dell’affascinante atmosfera
di cooperazione, premura e serenità della quale era testimone oculare.
Naturalmente non mancarono i problemi, dal momento che quell’afflusso
inaspettato di persone (come una città intera) aveva trovato impreparati gli
organizzatori in termini di strutture sanitarie e igieniche. Ci si mise anche
la pioggia, e c’erano ragazze che chiamavano a casa piangendo, non sapendo come
rientrare, bloccate da quella marea di persone. Eppure nessun fatto violento si
verificò, e gli stessi abitanti della zona, intervistati nel film, parlarono
dell’educazione di tutti quei giovani, che, per quanto capelloni e abbigliati
in maniera stravagante, non facevano altro che ringraziare o chiedere “per
favore”. L’unico incidente fu dovuto al caso: un ragazzo che dormiva dentro il
sacco a pelo sotto un trattore perse la vita quando, la mattina dopo, il mezzo
si rimise in moto. Per il resto tutti cooperarono affinché nessuno si facesse
male. Nel film si vede Bill Graham, il famoso proprietario del Fillmore West di
San Francisco e del Fillmore East di New York, proporre per scherzo
un’idea per fermare quell’invasione di
automobili impiegando il metodo in uso contro le formiche: scavare una lunga
buca e appiccarvi il fuoco! Sempre a proposito del film, con riferimento alla
pubblicazione originaria, solo parte dei tantissimi musicisti in cartellone per
quei quattro giorni di musica comparvero sulla pellicola. E il più delle volte
per un solo brano, nonostante ciascuno di essi avesse tenuto su quel palco un
mini-concerto. Incredibilmente Janis Joplin, che si esibì, si vede solo tra il
pubblico, con i suoi grandi occhiali colorati, stupefatta da quella marea
umana. Anche Jerry Garcia, che suonava con i Grateful Dead, si intravede per un
attimo mentre porge una canna di marijuana alla cinepresa. Bellissime le
immagini iniziali del grande palco in costruzione prima dell’evento, di giorno
e tra vasti campi verdeggianti. Degli artisti che compaiono nel film rimane
nell’immaginario collettivo la fenomenale performance di Joe Cocker nella sua
strabiliante versione di With A Little
Help From My Friends dei Beatles, il brano con il quale aveva chiuso il suo
set, così come Soul Sacrifice dei
Santana, più le esibizioni di Who, Ten Years After e Jimi Hendrix. Quest’ultimo
però salì sul palco solo alla fine del festival, e si ritrovò a suonare di
fronte a molta meno gente, in un clima di smobilitazione generale. Di contro,
la sua intera esibizione a Woodstock è stata pubblicata ufficialmente su Dvd.
Leggendaria sarebbe rimasta la sua versione stravolta dell’inno americano, con
le urla e i rumori della chitarra a simulare i bombardamenti della guerra in
Vietnam. Crosby, Stills & Nash manifestano al microfono la loro grande
emozione, dal momento che si stavano esibendo dal vivo per la prima volta (e
davanti a quel pubblico!). Con loro c’era anche Neil Young, che però non volle
essere filmato, ritenendo che le cineprese avrebbero distratto sia i musicisti
che la platea. Dopo lo show di Joe Cocker un violento temporale interruppe per
diverse ore la manifestazione. Tutti si divertirono poi a lanciarsi in corse
spericolate nel fango, cantando in coro e utilizzando strumenti a percussione
assemblati sul momento. La musica del primo disco dei Jethro Tull venne mandata
in diffusione mentre il regista del film intervistava uno degli organizzatori.
Richie Havens si ritrovò ad aprire il festival semplicemente perché il suo era
il gruppo più “piccolo”: lui, un altro chitarrista e un percussionista: quando
si ritrovò sull’elicottero per essere portato dietro al palco, e vide dall’alto
quelle centinaia di migliaia di persone, ringraziò Dio per avergli offerto
un’occasione simile. Paradossalmente Freedom,
il brano che chiuse il suo set e che finì nel film, fu un pezzo del tutto improvvisato
a seguito delle continue richieste di bis. John Sebastian pare sia stato
chiamato sul palco nonostante fosse soltanto un componente del pubblico. E in
ogni caso sospese anzitempo la sua esibizione quando venne a sapere che la
moglie aveva appena partorito. I Grateful Dead ebbero dei problemi tecnici
dovuti ad una presa a terra difettosa, e presero più volte la scossa non appena
toccarono le loro chitarre. Con Sly and the Family Stone arrivò anche la musica
funky. In occasione delle successive edizioni del film, artisti che erano
rimasti fuori dalla pellicola del 1970 (quali Janis Joplin, Canned Heat,
Credence Clearwater Revival e Johnny Winter) possono finalmente vedersi, con
immagini di ottima qualità e audio stereo. Il film originario presentava quasi
sempre le riprese separate in due, con possibilità di seguire quelle a destra o
quelle a sinistra, diverse tra loro. Nel caso di queste esibizioni recuperate
più di recente, invece, le immagini sono a tutto schermo. Al festival suonarono
pure i Blood, Sweet & Tears. Anche di musicisti che erano presenti nel film
con un solo brano sono riemersi altri pezzi di ottima qualità, come nel caso di
Joe Cocker (Something’s Coming Home e Let’s Go Get Stoned), Jefferson
Airplane e i Santana (con una fantastica versione di Evil Ways). Gli Who cominciarono a
suonare alle quattro del mattino, e presentarono l’intero concept album TOMMY, pubblicato quello
stesso anno (anche se nel film è pressente solo la sezione finale). Il loro
chitarrista Pete Townshend scaraventò giù dal palco Abbie Hoffman, che aveva
interrotto la loro esibizione prendendo possesso di un microfono per urlare la
sua rabbia contro l’arresto dell’attivista politico John Sinclair. E alla fine
dello show Pete sbattè più volte la
chitarra sul palco, per poi gettarla al pubblico. Rispetto al film, sono
successivamente saltate fuori anche le loro esecuzioni di My Generation e Pinball
Wizard. Carlos Santana, che aveva assunto qualche sostanza prima di
suonare, si esibì avendo l’impressione che la sua chitarra fosse un serpente
che tentasse di sfuggirgli tra le mani. Joan Baez cantò mentre era al sesto
mese di gravidanza, e parlò anche del marito David Harris arrestato in quanto
obiettore di coscienza. Joni Mitchell avrebbe voluto raggiungere il luogo del
concerto, ma si trovò imbottigliata tra tutte quelle automobili e rinunciò:
quando, il giorno dopo, vide alla Tv quale occasione si era persa, si disperò.
Ma in qualche modo si rifece, scrivendo la canzone intitolata proprio Woodstock che, cantata dai suoi amici
Crosby, Stills, Nash & Young, si sarebbe potuta ascoltare all’inizio
dell’omonimo film insieme alla bellissima Wooden
Ships. Bob Dylan, invece, pur abitando nelle vicinanze, preferì partecipare
all’edizione del festival dell’Isola di Wight di quello stesso anno. In
scaletta c’era anche il Jeff Beck Group (con Rod Stewart alla voce), che però
si era sciolto una settimana prima. Vennero invitati anche i Led Zeppelin, i
Procol Harum, Frank Zappa, i Free, i Byrds, i Moody Blues, gli Spirit e i
Jethro Tull, che per diverse ragioni non parteciparono: non sapendo certo che
si sarebbe trattato del festival più famoso di tutti i tempi! Anche i Beatles,
per quanto di fatto non più attivi, vennero contattati. I Doors non furono
presenti a causa dei guai con la legge nei quali era incorso Jim Morrison dopo
lo scandalo al concerto di Miami, ma al festival andò il loro batterista John
Densmore. Il film di Michael Wadleigh tende a cogliere più l’evento come fatto
culturale che musicale: e per questo le immagini dei musicisti sul palco sono
intercalate da interviste ai giovani presenti al festival, alle scivolate nel
fango e ai bagni nello stagno. Spazio alla musica viene tolto anche per
intervistare il tizio addetto a lavare i bagni chimici, che risponde alle domande
del regista parlando di suo figlio in Vietnam. Ma si tratta di un’idea giusta,
dal momento che ci viene così restituito il clima dell’epoca, con ragazzi dalle
idee molto chiare e protagonisti del movimento tanto quanto i gruppi impegnati
sul palcoscenico. In seguito, rendendosi conto della quantità di persone
coinvolte, le case discografiche fiutarono l’affare: tutto si tramutò in
business, e il sogno svanì. Ma, a mezzo secolo da quei giorni dell’agosto 1969,
ci rendiamo conto che questa non è una retrospettiva. Quei ragazzi, sopra o
attorno al palco, erano avanti a noi. Ancora oggi essi rappresentavano il
futuro che non è ancora arrivato.
BIOGRAFIA
Giuseppe Scaravilli è il leader
dei Malibran, band progressive rock che si è ritagliata uno spazio di rilievo a
livello internazionale, dopo 30 anni di carriera, concerti in tutta Italia e
all’estero, con dieci dischi venduti in tutto il mondo. E’ nato a Seregno nel
1966, e dal 1975 vive in Sicilia. Si è diplomato al Liceo Classico e laureato
in Legge. E’ stato un prolifico disegnatore di fumetti, ed è oggi anche un
apprezzato Storiografo. Nel 2018 ha pubblicato il libro “Jethro Tull 1968-1978”
per Europa Edizioni. Una sopravvenuta parziale disabilità motoria non gli ha
impedito di portare avanti la sua attività di musicista con la band,
consentendogli anche di scoprire questa sua sopita vena di scrittore. E’ da
sempre un grande appassionato del miglior rock degli anni Settanta, del quale è
unanimemente riconosciuto quale uno dei migliori conoscitori. L’esperienza di
musicista, unitamente ad uno approccio storico agli eventi e alla innata
vivacità nello stile narrativo, preciso ma non pedante, gli consentono di
divulgare in maniera piacevole la straordinaria epopea di una stagione
irripetibile per la storia della musica italiana ed internazionale.
Con un ringraziamento particolare
ad Aldo Pancotti, Armando Gallo, Beppe Crovella, Marcello Todaro, Lino
Vairetti, Franz Di Cioccio, Giorgio Piazza, Enzo Vita e Pino Ballarino per le
preziose informazioni utili alla compiutezza di questo libro.
In memoria di Francesco Di
Giacomo e Rodolfo Maltese, per sempre a me cari.
Indice:
Prefazione dell’Autore
Led Zeppelin
Black Sabbath
Deep Purple
Genesis
King Crimson
Malibran
Jethro Tull
Malibran e Jethro Tull
I Malibran in USA
Banco del Mutuo Soccorso e
Malibran
Van Der Graaf Generator
Rock progressivo italiano
Premiata Forneria Marconi
I festival di rock progressivo e
gli Area
Gli scontri per la musica gratis
Pink Floyd
Gentle Giant
Yes
Free
The Who
Traffic
Supertramp
Camel
Il festival di Woodstock
Gli inserti fotografici sono di
Giuseppe Scaravilli
Per contatti con l’Autore: malibranprog@hotmail.com
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