I Malibran si formano a Catania nell’estate del 1987 e cominciano subito a suonare brani di propria composizione, in classico stile progressive rock. Alla fine del 1988 la line up comprende GIUSEPPE SCARAVILLI (voce e chitarra), GIANCARLO CUTULI (flauto e sax), JERRY LITRICO ( chitarra), ANGELO MESSINA (basso), ALESSIO SCARAVILLI (batteria) e BENNY TORRISI ( tastiere). Con questa formazione registrano cinque dischi: THE WOOD OF TALES (1990, unico in vinile), LE PORTE DEL SILENZIO (1993), LA CITTA ’ SUL LAGO (1998), IN CONCERTO (2000) e OLTRE L’IGNOTO (2001), i primi due per la romana Pegaso Records, i successivi per la Mellow Records di San Remo.Tengono concerti sempre più spettacolari in ogni parte della Sicilia, si esibiscono varie volte a Roma e partecipano ai maggiori festival progressive italiani ( Castelverde ‘89, Mondovì ‘91, Altomonte ’94). Su L’ ITALIA DEL ROCK, edito da LA REPUBBLICA , sono indicati come uno dei gruppi più importanti della nuova scena prog tricolore. Suonano insieme agli OSANNA, agli ANEKDOTEN e compaiono sulla Enciclopedia del Rock Italiano (Arcana Editrice, 1993). Nel 1996, alla Festa del 1° Maggio tenuta a Catania con Edoardo Bennato e Gino Paoli, hanno di fronte ventimila persone. Nel 1999, a Belpasso, sono sul palco con il BANCO DEL MUTUO SOCCORSO, e nell’ottobre 2000 suonano in America, in North Carolina, in occasione del ProgDay festival, insieme alle migliori formazioni progressive internazionali. Partecipano inoltre alla raccolte MOLECOLE (Kaliphonia, 1995) e SONGS FOR JETHRO, tributo ai JETHRO TULL (Il Popolo del Blues, 2000). Nel 2001 Cutuli e Torrisi decidono di lasciare la band, che prosegue comunque l’attività ridotta a quartetto, con Giuseppe Scaravilli impegnato anche al flauto. Dopo la ristampa brasiliana dei primi due dischi (Rock Symphony,1999), nel 2002 la Mellow pubblica THE WOOD OF TALES PLUS e nel 2003 STRANI COLORI, raccolta di pezzi rari ed inediti. LIVE ON STAGE 1994 è invece il titolo del CD pubblicato dalla brasiliana Rock Symphony nel 2004. Vengono invitati all'edizione 2002 del 'Crescendo prog festival' in Francia, ma devono rinunciare. Nel 2003 il previsto show dei Malibran in apertura della esibizione palermitana dei JETHRO TULL è annullato all’ultimo momento dagli organizzatori locali. E’ del settembre dello stesso anno la data al BLOOM di Milano con i DEUS EX MACHINA, mentre la francese Musea pubblica il triplo KALEVALA, opera di artisti vari, compresa la band siciliana, che partecipa anche al natalizio TANTI AUGURI CD ( 2003) e a THE LETTERS, tributo ai KING CRIMSON dell'anno dopo. Cancellato il concerto della PFM che i Malibran avrebbero dovuto aprire nell’estate 2004 a Catania, viene affidata alla Electromantic Music di Beppe Crovella (ARTI E MESTIERI) la pubblicazione del DVD antologico 10 ANNI IN CONCERTO (2005). Spezzoni di questo stessa raccolta vengono proiettati sul maxi-schermo del primo Prog Festival di Buenos Aires. Tra il 2005 e il 2006 Giuseppe Scaravilli mette su CD circa 50 concerti della band, registra da solo THE HOME STUDIO SESSIONS e partecipa come ospite (in veste di flautista) alla ITULLIANS CONVENTION di Novi Ligure, prima di Ian Anderson, gli ex JETHRO TULL Glenn Cornick, Clive Bunker e Dave Pegg, più John Weathers (ex GENTLE GIANT). Nel 2006 i Malibran suonano anche all’ANDRIA PROGFEST, con BALLETTO DI BRONZO, OSANNA, METAMORFOSI, BANCO DEL MUTUO SOCCORSO, MALAAVIA e CONQUEROR. Il libro di Donato Zoppo dedicato alla Premiata Forneria Marconi paragona proprio i Malibran alla PFM quanto a spettacolarità sul palco. Nel 2008 esce TRASPARENZE, il nuovo disco: in realtà si tratta più un lavoro solista di Giuseppe Scaravilli, con collaborazioni interne ed esterne al gruppo. Il brano omonimo vince il concorso nazionale 'Progcontest' del 2008 e arriva alla finale dei 'Progawards' dell'anno successivo. La band si esibisce dal vivo fino all’agosto 2010. Quindi i Malibran si fermano per un paio di anni a causa di problemi di salute del vocalist, ripartendo a fine 2013 con n nuovo tastierista, Alberto Litrico, fratello di Jerry, e con Giuseppe Scaravilli che passa al basso. Dall'estate 2015 il gruppo si riduce ad un trio, senza più le tastiere. Sempre nel 2015 la Mellow Records pubblica una nuova versione de LE PORTE DEL SILENZIO, con un missaggio diverso e bonus tracks, mentre l'autorevole rivista 'PROG' inserisce questo disco tra i 10 migliori del progressive italiano degli anni '90. La AMS / BTF nel 2016 dà invece alle stampe la raccolta di rarità intitolata STRANIERO, mentre è del 2018 il decimo disco dei Malibran, LIVE ANTHOLOGY, che festeggia il 30° anno di attività della band.
domenica 23 marzo 2014
download "Live At The Eight Horses"
“DA QUESTO BLOG E’ POSSIBILE SCARICARE GRATUITAMENTE LA REGISTRAZIONE DEL NOSTRO CONCERTO ALL’EIGHT HORSES PUB DI BELPASSO, RISALENTE AL 24 GENNAIO 2014. SONO IN POSSESSO DI NUMEROSE NOSTRE ESIBIZIONI PROVENIENTI DAL MIXER, PUBBLICATE UFFICIALMENTE, OPPURE NO. MA QUESTO “BOOTLEG”, COMUNQUE DI BUONA QUALITA’, HA UN VALORE PARTICOLARE, PER ME: SI TRATTA INFATTI DEL NOSTRO PRIMO SHOW DAL 4 AGOSTO 2010. E, SOPRATTUTTO, IL PRIMO DA QUANDO IL SOTTOSCRITTO SI E’ SENTITO MALE, NEL GENNAIO 2012, RISCHIANDO SERIAMENTE LA VITA: PRIMA PER UN DELICATO INTERVENTO DI PANCREATITE ACUTA, E IN SEGUITO A CAUSA DI UNA PERICOLOSA EMORRAGIA INTERNA, DOVUTA AL PERFORAMENTO DI UN’ARTERIA, CHE MI HA FATTO ANDARE IN COMA PER UN MESE. I MEDICI DISPERAVANO CHE MI SAREI PIU’ SVEGLIATO. INVECE E’ SUCCESSO, ANCHE SE ERO RIDOTTO AD UNO SCHELETRO QUASI IMMOBILE, NON PIU’ IN GRADO DI ALZARSI DAL LETTO, SCOSSO DA TREMORI SE SOLO PROVAVO A PRENDERE QUALCOSA CON LE MANI, E ALIMENTATO UNICAMENTE CON LE FLEBO. IL TUTTO PER MESI INTERI, RIMANENDO SEMPRE IN OSPEDALE. POI HANNO COMINCIATO AD IMBOCCARMI, ED I MIEI MI SONO STATI MOLTO D’AIUTO, IN TUTTI I MODI POSSIBILI. QUANDO ERO IN COMA PIU’ PERSONE HANNO PROVATO A SCUOTERMI FACENDOMI ASCOLTARE DELLA MUSICA IN CUFFIA. MA NON HO SENTITO NIENTE. TEMPO DOPO UN CARO AMICO MI HA PORTATO UNA CHITARRA IN OSPEDALE, MA NON SONO RIUSCITO A SUONARE UNA SOLA NOTA. A CASA PERO’ HO RIPRESO CON ALTRI TENTATIVI, SUONANDO CON LA CHITARRA ELETTRICA LA MUSICA DEI CD, E CANTICCHIANDO UN PO’ CON L’ACUSTICA. NON SUONO CERTO COME PRIMA, MA HO FATTO NOTEVOLI PROGRESSI. COSI’ ABBIAMO RIPRESO ANCHE CON LA BAND, E IN QUESTO CONTESTO MI E’ STATO PIU’ FACILE PASSARE AL BASSO. HO PREPARATO UNA SCALETTA CHE POTESSE VENIRE INCONTRO ALLE MIE ATTUALI POSSIBILITA’, RIVISITANDO I PEZZI NOSTRI ED AGGIUNGENDO QUALCHE COVER. TUTTA MUSICA STRUMENTALE, PERCHE’ NON SONO ANCORA IN GRADO DI CANTARE IN MANIERA ACCETTABILE, NE’ DI SUONARE IL FLAUTO. FORTUNA CHE HO FATTO IN TEMPO A METTERE SU DISCO MOLTE COSE PRIMA DI STARE MALE ( SPECIE SU “TRASPARENZE”, IL MIO CD SOLISTA “TRAVESTITO” DA LAVORO DEI MALIBRAN, SU PRESSIONI DELL’ETICHETTA ). AL MOMENTO MI STO DIVERTENDO MOLTO CON QUESTA NUOVA SCALETTA ( E DI NUOVO CON UN TASTIERISTA! ), PUR SENZA PARTI CANTATE. DEL RESTO, HO SEMPRE PREFERITO GLI ARRANGIAMENTI ED I PASSAGGI STRUMENTALI ALLE LINEE VOCALI. AL MOMENTO SUONO SULLA SEDIA A ROTELLE, MA MI STO DANDO DA FARE PER RIMETTERMI IN PIEDI. E AL PUB E’ STATO QUELLO CHE POTREBBE DEFINIRSI UN “SUCCESSONE”. OGGI SIAMO I “MALIBRAN ENSEMBLE”: PIU’ O MENO COME UN QUARTETTO JAZZ, CHE PERO’ SUONA PROGRESSIVE ROCK!
Tracks list:
01 - La Città Sul Lago
02 - Trasparenze
03 - Mare Calmo
04 - On The LightWaves
05 - Distanze
06 - Straniero
07 - Malibran ( incl. drums solo )
08 - Altaloma
09 - The Snow Goose
Thank You ( intro )
Comfortably Numb ( guitar solo )
10 - Pyramid's Street
11 - 'Cause We've Ended As Lovers
12 - Risvegli ( Le Porte del Silenzio extract )
13 - Rhayader Goes To Town
14 - Nuvole Di Vetro ( incl. The Fountain of Salmacis )
15 - Prelude
Line-up:
Giuseppe Scaravilli - Basso
Jerry Litrico - Chitarre
Alberto Litrico - Tastiere
Alessio Scaravilli - Batteria
01 - La Città Sul Lago
02 - Trasparenze
03 - Mare Calmo
04 - On The LightWaves
05 - Distanze
06 - Straniero
07 - Malibran ( incl. drums solo )
08 - Altaloma
09 - The Snow Goose
Thank You ( intro )
Comfortably Numb ( guitar solo )
10 - Pyramid's Street
11 - 'Cause We've Ended As Lovers
12 - Risvegli ( Le Porte del Silenzio extract )
13 - Rhayader Goes To Town
14 - Nuvole Di Vetro ( incl. The Fountain of Salmacis )
15 - Prelude
Line-up:
Giuseppe Scaravilli - Basso
Jerry Litrico - Chitarre
Alberto Litrico - Tastiere
Alessio Scaravilli - Batteria
Download
Cover Art - http://www31.zippyshare.com/v/48239875/file.html
Part. One - http://www31.zippyshare.com/v/92714131/file.html
Part. Two - http://www2.zippyshare.com/v/9096269/file.html
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sabato 15 marzo 2014
Malibran Live - dal 1987
12 SEP 87 SANTA MARIA DI LICODIA, PIAZZA
13 SEP 87 BELPASSO, PIAZZA DUOMO ( CANCELLED )
17 OCT 87 BELPASSO, PARTY ( + BLUE IN BLUES )
31 DEC 87 SANTA MARIA DI LICODIA, L’ ULIVO
28 JUL 88 NICOLOSI, PIAZZA CARMINE ( FIRST REAL MALIBRAN SHOW)
29 JUL 88 NICOLOSI, PINETA MONTI ROSSI , “ NATURA E MUSICA ’’
( + KUNSERTU, UZEDA, GUIDO TOFFOLETTI … )
25 AUG 88 GIARDINI NAXOS
31 AUG 88 TRECASTAGNI, PIAZZA, “ CITTA’ SUONI IV ’’
12 SEP 88 GIARRE, PARCO JUNGO
23 SEP 88 MASCALUCIA, PARTY
24 SEP 88 SANTA MARIA DI LICODIA, PARTY
29 SEP 88 UNRELEASED RECORDING OF “ MALIBRAN ’’ ( SHORT VERSION )
AT MAESTRO TROVATO ’S STUDIOS, FIUMEFREDDO
3 OCT 88 CATANIA, PIAZZA EUROPA, FESTA DELL’ UNITA’
( FIRST SHOW WITH ALESSIO SCARAVILLI ON DRUM )
28 DEC 88 CATANIA, TEATRO AMBASCIATORI
29 DEC 88 CATANIA, TELESICILIACOLOR
31 DEC 88 PIANOPOLI, CATANZARO
28 JAN 89 SAN PIETRO CLARENZA, OASI
2 FEB 89 MASCALUCIA, PARTY
6 FEB 89 MASCALUCIA, PARTY
18 FEB 89 BELPASSO, PARTY
23 MAR 89 DEMO RECORDING AT HOME
5 APR 89 CATANIA, THE OTHER PLACE
6 APR 89 CATANIA, MACUMBA
15 APR 89 CATANIA, CENTRO SOCIALE GUERNICA
25 APR 89 CATANIA, PIAZZA (CANCELLED)
4 MAY 89 BELPASSO, TEATRO MARTOGLIO
27 MAY 89 LAVINAIO, PARTY
3 JUN 89 GIARRE, PIAZZA
24 JUN 89 MASCALUCIA, APOLLO 13
9 JUL 89 CENTURIPE, STADIO ( + NEON, CANCELLED)
17 JUL 89 SAN GIOVANNI LA PUNTA, MEIKADEH
25 JUL 89 NICOLOSI, PINETA MONTI ROSSI, “ NATURA E MUSICA ’’
( + BLUE IN BLUES, TOLO MARTON )
27 JUL 89 ROMA, CASTELVERDE PROG FESTIVAL
( + EDITH, LEVIATHAN, NOTTURNO CONCERTANTE )
9 AUG 89 NISCEMI, PIAZZA
11 AUG 89 NISCEMI, PIAZZA
21 AUG – 6 SEP 89 RECORDING AND MIXING OF “ THE WOOD OF TALES ’’
AT ARTE STUDIO SOUND, SAN GIOVANNI LA PUNTA
9 SEP 89 TRECASTAGNI, “ CITTA’ SUONI V ’’
7 OCT 89 BELPASSO, ARENA CAUDULLO
23 DEC 89 GIARRE, PARCO JUNGO
24 FEB 90 BELPASSO, PIAZZA DUOMO
APR 90 “ THE WOOD OF TALES ’’ RELEASED
5 JUN 90 CATANIA, RADIO MARTE
25 JUL 90 SAN GIOVANNI LA PUNTA, PIAZZA
3 AUG 90 NISCEMI, PIAZZA
21 AUG 90 BELPASSO, PIAZZA S. ANTONIO
7 SEP 90 NICOLOSI, FESTA DELL’ UNITA’
16 SEP 90 CATANIA, PIAZZA EUROPA, FESTA DELL’ UNITA’
5 OCT 90 ROMA, PARCO APPIO CLAUDIO, FESTA DELL’ UNITA’
27 OCT 90 CATANIA, PIAZZA MICHELANGELO, FESTA DELL’ AVANTI
1 DEC 90 CATANIA, ARTE MUSICA, ACOUSTIC SET
8 DEC 90 CATANIA, TELESICILIACOLOR, JOHN LENNON TRIBUTE
9 MAR 91 CATANIA, ARTE MUSICA
8 MAG 91 CATANIA, THE OTHER PLACE
1 JUN 91 MOMPILIERI, PARTY
24 JUN 91 GRAVINA, ALBATROS PUB
21 JUL 91 MONDOVI ’, CUNEO, “ JESTERS ’’ PROG FESTIVAL
( + AELIAN, ARCANSIEL, GALLANT FARM, MAN OF LAKE ... )
30 JUL 91 SAN GREGORIO, GAZY PUB
2 AUG 91 SAN GREGORIO, STICKY FINGERS
14 AUG 91 CATANIA, SPIAGGIA LIBERA N° 3 ( + EDITH )
18 AUG 91 SANTA MARIA DI LICODIA, PIAZZA ( + SERGIO CAPUTO )
20 AUG 91 MILITELLO, PIAZZA
6 SEP 91 SANTA VENERINA, IL CENACOLO
12 SEP 91 MASCALUCIA, PARTY
23 SEP 91 CATANIA, PIAZZA EUROPA, FESTA DELL’UNITA’
6 OCT 91 LEONFORTE, PIAZZA
20 OCT 91 CATANIA, PIAZZA MICHELANGELO, FESTA DELL’ AVANTI
6 DEC 91 SAN GREGORIO, GAZY PUB
13 - 23 DEC 91 RECORDING OF “ LE PORTE DEL SILENZIO ’’
AT EMME RECORDING STUDIOS, ROMA
18 DEC 91 ALPHEUS, ROMA
7 JAN 92 CATANIA,TELESICILIACOLOR TV SHOW
6 FEB 92 CATANIA, CINEMA ODEON ( + EDITH )
7 FEB 92 CATANIA, TELECOLOR VIDEO 3
8 FEB 92 ACIREALE, RADIO ETNA ESPRESSO
9 MAR 92 SOME VOCALS RECORDING +NEW MIX FOR “ LE PORTE DEL SILENZIO ’’
AT EMME RECORDING STUDIOS, ROMA
30 APR 92 CATANIA, THE OTHER PLACE
21 MAY 92 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
4 JUN 92 CATANIA, TELEIONICA, “ SELZ LIMONE E SALE ’’ TV SHOW
22 JUN 92 GRAVINA, ALBATROS PUB
16 JUL 92 SAN GREGORIO, GAZY PUB
23 AUG 92 CATANIA, VILLA BELLINI (“PER NON DIMENTICARE” ROCK FESTIVAL
12 SEP 92 S. AGATA LI BATTIATI, LA CONCA PUB
10 NOV 92 CATANIA, TELEIONICA, “ SELZ LIMONE E SALE ’’ TV SHOW
23 APR 93 S. AGATA LI BATTIATI, LA CONCA PUB ( CANCELLED )
1 MAY 93 S. AGATA LI BATTIATI, LA CONCA PUB
14 MAY 93 CATANIA, TELETNA, “ NOI OGGI ’’ TV SHOW (LIVE IN STUDIO)
29 MAY 93 CENTURIPE, PARCO DELLE AQUILE
JUN 93 “ LE PORTE DEL SILENZIO ’’ RELEASED
20 JUL 93 CATANIA, ENTE FIERA ( + BLUE IN BLUES )
30 JUL 93 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
31 AUG 93 MASCALUCIA, PIAZZALE TRINITA’ (“ IN THE TIME” RECORDED
LIVE FOR THE “MOLECOLE” CD, ISSUED IN 1995)
6 MAY 94 S. AGATA LI BATTIATI, LA CONCA PUB
13 MAY 94 TELETNA, “ TWEETER ”
9 JUN 94 TREMESTIERI, PIAZZA
23 JUL 94 ALTOMONTE, “ PROGRESSIVAMENTE ’’ ROCK FESTIVAL
( + OSANNA, TRONO DEI RICORDI, ANEKDOTEN )
26 JUL 94 MASCALUCIA, PIAZZA
16 AUG 94 NICOLOSI, PINETA MONTI ROSSI
25 SEP 94 BELPASSO, TEATRO NINO MARTOGLIO
26 SEP 94 ACICASTELLO, PIAZZA CASTELLO, FESTA DELL’ UNITA’
1 NOV 94 CATANIA, TELETNA, “ NOI OGGI ”
18 MAR 95 BELPASSO, TEATRO NINO MARTOGLIO
( + TONY ESPOSITO, CANCELLED )
1 APR 95 S. AGATA LI BATTIATI, LA CONCA PUB
5 MAY 95 BELPASSO, TEATRO NINO MARTOGLIO, LENNON FESTIVAL
6 MAY 95 CATANIA, LA COLLEGIATA PUB
19 MAY 95 CATANIA, NEW ZAGARA
28 JUL 95 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
30 JUL 95 TRECASTAGNI, STADIO ( CANCELLED )
4 AUG 95 NICOLOSI, CONESTOGA PUB, OPEN AIR SHOW
11 AUG 95 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
25 AUG 95 BELPASSO, PIAZZA DUOMO
26 AUG 95 NICOLOSI, CONESTOGA ( CANCELLED )
28 AUG 95 GAGLIANO CASTELFERRATO, PIAZZA
31 AUG 95 MASCALUCIA, PIAZZA
15 SEP 95 CATANIA, PIAZZA EUROPA, FESTA DELL’ UNITA’
22 SEP 95 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
1 MAY 96 CATANIA, PIAZZA CARLO ALBERTO, FESTA DEL LAVORO
( + GINO PAOLI, EDOARDO BENNATO )
22 JUN 96 CATANIA, PORTO
23 JUN 96 GRAVINA, ANFITEATRO, ACOUSTIC SET ( CANCELLED )
27 JUN 96 S. AGATA LI BATTIATI, PIAZZA ( ALBERTO LITRICO ON KEYBOARDS)
20 JUL 96 NICOLOSI, CONESTOGA
31 JUL 96 SANTA MARIA DI LICODIA, PIAZZA
5 AUG 96 TRECASTAGNI, PIANO PUCITA
9 AUG 96 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
24 AUG 96 NICOLOSI, CONESTOGA PUB, OPEN AIR SHOW
25 AUG 96 MASCALUCIA, VILLA COMUNALE ( + CONQUEROR )
7 SEP 96 MILO, PIAZZA MADONNA DELLE GRAZIE, “VINIMILO ’’
13 SEP 96 RAGALNA, LARGO VISCUSO
28 SEP 96 CATANIA, CORTILE CGIL, FESTA DELL’ UNITA’ ( + MAFFIA )
12 OCT 96 BELPASSO, PARTY
21 NOV 96 CATANIA, RADIO SIS
10 DEC 96 BELPASSO, TEATRO NINO MARTOGLIO
29 JAN 97 CATANIA, RADIO SIS
23 APR 97 CATANIA, TELETNA, “ INSIEME ’’
17 JUN 97 CATANIA, PIAZZA UNIVERSITA’
6 JUL 97 STAZZO, PIAZZA, FESTA DI LIBERAZIONE ( + CLAUDIO LOLLI )
17 JUL 97 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
22 JUL 97 ACIREALE, TERME
7 AUG 97 BELPASSO, PIAZZA DUOMO
10 AUG 97 PEDARA, PARCO BELVEDERE ( RECORDING OF “ IN CONCERTO ” )
5 SEP 97 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
6 SEP 97 MILO, PIAZZA, “ VINIMILO ’’
25 SEP 97 CATANIA, TERRAZZA CISL
4 OCT 97 BELPASSO, VILLA COMUNALE, FESTA DI LIBERAZIONE
12 OCT 97 BELPASSO, PIAZZA, FESTA DELLA MISERICORDIA
16 OCT 97 CATANIA, RADIO ANTENNA 1, INTERVIEW
17 OCT 97 CATANIA, ENTE FIERA, FESTA DELL’ UNITA’
7 NOV 97 CATANIA, LA CHIAVE PUB
11 NOV 97 ACIREALE, RADIO ACI BROADCASTING
13 NOV 97 CATANIA, RADIO DELFINO, ACOUSTIC SET
13 DEC 97 - 4 APR 98 RECORDING AND MIXING OF
“ LA CITTA’ SUL LAGO ” AT
TOWER HILL STUDIOS, BELPASSO
31 DEC 97 MASCALUCIA, PARTY
28 MAR 98 CATANIA, PIAZZA UNIVERSITA’
24 APR 98 CATANIA, TELETNA, “ NOI OGGI ’’, ACOUSTIC SET
9 MAY 98 CATANIA, LE CIMINIERE
25 MAY 98 CATANIA, TELETNA, “ INSIEME ’’
20 JUN 98 BELPASSO, VILLA COMUNALE, FESTA DELLA MUSICA
21 JUN 98 SCORDIA, PIAZZA, FESTA DELLA MUSICA
18 JUL 98 CATANIA, CORTILE PLATAMONE, FESTA DI LIBERAZIONE
10 AUG 98 LAVINAIO, PARTY
31 AUG 98 ACIREALE, LA CUMARCA CLUB
20 OCT 98 CATANIA, RADIO SIS, “ TIME OUT ’’
6 NOV 98 BELPASSO, MARASCA, ACOUSTIC SET
DEC 98 “ LA CITTA’ SUL LAGO ’’ RELEASED
27 DEC 98 CATANIA, TAXI DRIVER ( CANCELLED )
4 JAN 99 CATANIA, RADIO SIS, “ TIME OUT ’’
5 JAN 99 CATANIA, ROCK FLY + RADIO ANTENNA 1
( “LA CITTA’ SUL LAGO” OFFICIAL PRESENTATION )
14 JAN 99 CATANIA, REI TV, “ ANGELI DELLA NOTTE ’’
18 MAR 99 CATANIA, RADIO SIS, “ TIME OUT ’’
30 MAR 99 CATANIA, RADIO DELFINO, “ METROPOLIS ’’, ACOUSTIC SET
6 APR 99 CATANIA, TAXI DRIVER
11 APR 99 BELPASSO, VILLA COMUNALE, ACOUSTIC SET
10 MAY 99 CATANIA, TELETNA, “ INSIEME ’’, INTERVIEW
29 MAY 99 MISTERBIANCO, “ MAGMA ’’ ( CANCELLED )
7 JUN 99 BELPASSO, CENTRO SOCIALE, VIDEO ANTHOLOGY ( CANCELLED )
11 JUN 99 CATANIA, RADIO ANTENNA 1, “ ANGELI DELLA NOTTE ’’
14 JUN 99 CATANIA, TELETNA, “ INSIEME ’’, ANFITEATRO LE CIMINIERE
15 JUN 99 CATANIA, RADIO ANTENNA 1, “ ANGELI DELLA NOTTE ’’,
ACOUSTIC SET
20 JUN 99 BELPASSO, VILLA COMUNALE, FESTA DELLA MUSICA
3 JUL 99 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB, VIDEO ANTHOLOGY
18 JUL 99 BELPASSO, CENTRO SOCIALE, “10 ANNI IN CONCERTO” PRESENTATION
25 JUL 99 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
21 AUG 99 CATANIA, TELECOLOR VIDEO 3, TG
29 AUG 99 BELPASSO, PIAZZA DUOMO ( + BANCO DEL MUTUO SOCCORSO )
5 SEP 99 CATANIA, VILLA PACINI, FESTA DI LIBERAZIONE ( CANCELLED )
10 SEP 99 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
11 SEP 99 MASCALUCIA, PARTY ( CANCELLED )
20 - 22 FEB 00 RECORDING AND MIXING OF “ BOUREE ’’
FOR THE “ SONGS FOR JETHRO “ ITALIAN TRIBUTE
( INCL. JOHN EVAN, GLEN CORNICK & CLIVE BUNKER )
AT TOWER HILL STUDIOS, BELPASSO
22 MAR - 21 NOV 00 RECORDING AND MIXING OF “ OLTRE L’ IGNOTO ’’
AT TOWER HILL STUDIOS, BELPASSO
13 APR 00 CATANIA, IL GATTO BLU ( CANCELLED )
16 APR 00 CATANIA, ROCK FLY
MAY 00 “ IN CONCERTO ’’ (OFFICIAL BOOTLEG) RELEASED
11 MAY 00 CATANIA, TELETNA, “ INSIEME ’’ TV SHOW
10 JUN 00 CATANIA, TELETNA, “ FRUIT OF THE MUSIC ’’ TV SHOW
23 JUL 00 TROINA, ” ROCK FEST “
30 JUL 00 CENTURIPE, VILLA CORRADINO, “ CENTORBINOTA ’’
5 AUG 00 SAN GIOVANNI LA PUNTA, ANFITEATRO
9 SEP 00 MILO, PIAZZA MADONNA DELLE GRAZIE, “ VINIMILO ’’
17 SEP 00 BELPASSO, TEATRO NINO MARTOGLIO
18 SEP 00 ANTENNA 1 LENTINI TV SHOW
8 OCT 00 CHAPEL HILL, N.C., USA, “ PROGDAY ’’ FESTIVAL
( + LANDMARQ, DISCUS, SALEM HILL, MARY NEWSLETTER … )
24 FEB 01 BELPASSO, PIAZZA DUOMO ( LAST SHOW WITH THE 6 PIECE LINE-UP )
MAY - JUL 01 MASTERING OF “ OLTRE L’ IGNOTO ’’
AT QUASAR MASTERING LAB, VIAGRANDE
12 JUN 01 SOME VOCALS & KEYBOARDS RECORDING
FOR “ OLTRE L’ IGNOTO “ AT QUASAR
MASTERING LAB, VIAGRANDE
OCT 01 “ OLTRE L’ IGNOTO ’’ RELEASED
JAN 02 MASTERING OF “ LIVE ON STAGE 1994 ”
AT TOWER HILL STUDIOS, BELPASSO
25 MAY -20 JUN 02 RECORDING AND MIXING OF “ STRANI COLORI ’’
( FOR THE “ KALEVALA “ PROG COMPILATION )
29 JUN 02 PIAZZA ARMERINA, PIAZZA BORIS GIULIANO
( FIRST 4 PIECE LINE-UP SHOW )
8 AUG 02 BELPASSO, EGO PUB
17 AUG 02 SAINT PALAIS SUR MER, FRANCE, “ CRESCENDO ” PROG
FESTIVAL ( + TAAL, WHITE WILLOW, CANCELLED )
25 SEP 02 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
11 OCT 02 PEDARA, LA BUSSOLA
1 NOV 02 CATANIA, CORTILE PLATAMONE ( LANDOLINA DAY )
16 NOV 02 CATANIA, ROCK FLY
8 JAN 03 CATANIA, THE OTHER PLACE
10 JAN 03 MEZZAGO, MILANO, BLOOM ( CANCELLED )
10 JAN 03 BELPASSO, EGO PUB
18 JAN 03 RAGUSA, TEATRO FALCONE-BORSELLINO
25 JAN 03 LIVE & INTERVIEW FOR “ ONDE SONORE ’’ TV SHOW
8 FEB 03 CATANIA, FABBRIK
12 FEB 03 MISTERBIANCO, ANGELS PUB
19 FEB 03 ANTENNA SICILIA,” INSIEME ’’ TV SHOW, INTERVIEW
20 FEB 03 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB, SANREMO ROCK
25 FEB 03 D1 TELEVISION, “ ONDE SONORE ’’, TV SHOW
19 MAR 03 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
2 APR 03 ANTENNA SICILIA, “ INSIEME ’’, TV SHOW
5 APR 03 CATANIA, ROCK FLY ( FEAT. RICCARDO PITTAU )
12 APR 03 ACIREALE, MARGUTTA
1 MAY 03 BRONTE, PIAZZA SPEDALIERI
2 MAY 03 PEDARA, LA BUSSOLA
22 MAY 03 CATANIA, PIAZZA TEATRO MASSIMO, ROCK FESTIVAL
1 JUN – 1 DEC 03 RECORDING OF “ CANTO DI PRIMAVERA ’’
( BANCO DEL MUTUO SOCCORSO TRIBUTE )
AT CASTLE ROCK STUDIOS, GRAVINA DI CATANIA
13 JUN 03 BELPASSO, EGO PUB
19 JUN 03 SAN GIOVANNI LA PUNTA, CASA LIMONI
8 LUG 03 PALERMO, TEATRO DI VERDURA
( + JETHRO TULL, CANCELLED )
12 JUL 03 BRONTE, PIAZZA SPEDALIERI
15 JUL 03 D1 TELEVISION, “ PRIMAFILA ”, INTERVIEW + VIDEOS
25 JUL 03 BELPASSO, VILLA COMUNALE, “ MUSICA IN MOSTRA ’’
31 JUL 03 SAN GIOVANNI LA PUNTA, CASA LIMONI
6 SEP 03 MILO, PIAZZA MADONNA DELLE GRAZIE, ” VINIMILO ”
17 SEP 03 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
21 SEP 03 MEZZAGO, MILANO, BLOOM, “ PROGVENTION ’’
( + YLECLIPSE, DEUS EX MACHINA )
24 SEP 03 CATANIA, PARCO GIOENI, FESTA DELL’ UNITA’
26 OCT 03 BELPASSO, FESTA DELLA MISERICORDIA,
JAM SESSION ( + JOE MARIANI, CANCELLED )
31 OCT- 1 DEC 03 RECORDING OF “ I TALK TO THE WIND ’’
FOR “THE LETTERS ( KING CRIMSON TRIBUTE, INCL.
STEFANO BOLLANI ) AT LA STANZA DI NOTE STUDIOS,
SANTA MARIA DI LICODIA
8 NOV 03 SCORDIA, KROSSOWER
11 - 12 NOV 03 RECORDING OF “ GOD REST YE MERRY GENTLEMEN ’’
( FOR THE “TANTIAUGURI” CD ) AT CASTLE ROCK STUDIOS,
GRAVINA DI CATANIA
6 DEC 03 SAN GIOVANNI GALERMO, ROCK FESTIVAL
22 DEC 03 CATANIA, LA CARTIERA, FOR THE “TANTIAUGURI” CD PRESENTATION
DEC 03 “ STRANI COLORI ” RELEASED
13 JAN 04 CATANIA, THE OTHER PLACE
17 JAN 04 CATANIA, ROCK FLY
30 JAN 04 ACIREALE, MARGUTTA
25 MAR 04 NICOLOSI, NERO DI CENERE
31 MAR 04 BELPASSO, THE EIGHT HORSES
2 APR 04 CATANIA, APOCALYPSE PUB
APR 04 “ LIVE ON STAGE 1994 ” RELEASED IN BRAZIL
25 / 26 JUN 04 BUENOS AIRES, ARGENTINA, AUSTRAL SINFONICO 2004,
IFT THEATRE ( + TRANTOR, SUBTERRA, ATEMPO, WITH
MALIBRAN ON SCREEN ONLY )
26 JUNE 04 BELPASSO, GIARDINO MARTOGLIO
NOV 03 – JUN 04 RECORDING OF “ TRACCE ” – REVISITED SONGS
( KROSSOWER & CASTLE ROCK STUDIOS )
1 JUL 04 S. GIOVANNI LA PUNTA, CASA LIMONI
3 AUG 04 S. GIOVANNI LA PUNTA, CASA LIMONI ( CANCELLED )
8 AUG 04 BELPASSO, VILLA COMUNALE, MOTORADUNO
INTERNAZIONALE DELL’ ETNA ( CANCELLED )
29 AUG 04 SAN GIOVANNI LA PUNTA, CASA LIMONI
20 SEP 04 CATANIA, PARCO GIOENI, FESTA DELL’ UNITA’ ( + LOBOTOMIA )
22 SEP 04 CATANIA, RADIO FLASH SPECIAL
25 SEP 04 CATANIA, VILLA BELLINI ( + PFM & FIABA, CANCELLED )
17 OCT 04 BELPASSO, PIAZZA MUNICIPIO
7 NOV 04 CATANIA, LA CARTIERA
18 NOV 04 GRAVINA, ALBATROS PUB ( 20TH ANNIVERSARY ) WITH CHARLES’ ANGELS
24 NOV 04 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
5 DEC 04 PATERNO ’, PIAZZA VITTORIO VENETO
12 JAN 05 TOWER HILL STUDIOS, FLUTE ON “ FOUR PIECE TOUR ”
21 JAN 05 TOWER HILL STUDIOS, FLUTE ON “ FOUR PIECE TOUR ’’
22 JAN 05 TOWER HILL STUDIOS, GUITAR ON “ FOUR PIECE TOUR ”
29 JAN / 4 FEB 05 MASTERING OF “ NEL LABIRINTO LIVE 1990 ” AT TOWER HILL
4 MAR 05 ROSOLINI, MADE IN ITALY ( CANCELLED )
12 MAR 0 5 CATANIA , BARRIQUE
16 APR 05 CATANIA , EASY RIDER ( CANCELLED )
11 MAY 05 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
19 MAY 05 ANTENNA SICILIA, “ INSIEME ” TV SHOW
20 MAY 05 BELPASSO, MARIGIO ’
2 JULY 05 MASSANNUNZIATA, CAMPO SPORTIVO ( “ UN GOL ALLA LEUCEMIA ” )
14 JULY 05 RAGUSA, PIAZZA DUOMO ( + RANDONE )
9 AUG 05 ROCCHENERE , ACOUSTIC SET ( + CONQUEROR )
10 SEP 05 MILO, PIAZZA MADONNA DELLE GRAZIE
1 0CT 05 CATANIA, PARCO GIOENI, FESTA DELL’ UNITA’ (+ ASTERISKOS )
29 OCT 05 TAORMINA , PALACONGRESSI ( ACOUSTIC SET & CONQUEROR, CANCELLED )
6 NOV 05 MESSINA, FIERA CAMPIONARIA ( ACOUSTIC SET + CONQUEROR )
11 NOV 05 ACIREALE, BANBUDDAH ( G. SCARAVILLI + CONQUEROR )
22 DEC 05 CATANIA, MARLENE
4 JAN 06 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
1 MAR 06 CATANIA , BARRIQUE ( JAM SESSION )
2 MAY 06 ANTENNA SICILIA,” INSIEME “ TV SHOW
6 MAY 06 CITTANOVA ( RC ) + BANCO DEL MUTUO SOCCORSO ( ACOUSTIC SET,CANCELLED )
MARCH – MAY 2006 RECORDING OF “ THE HOME STUDIO SESSIONS ” AT HOME
7 JUNE 06 BELPASSO, THE EIGHT HORSES ( “ DIVINESTATE ” FESTIVAL ROCK FESTIVAL)
15 JULY 06 ANDRIA ( BA ) PROGFEST (+ BALLETTO DI BRONZO, METAMORFOSI, OSANNA,
BANCO DEL MUTUO SOCCORSO, CONQUEROR, MALAAVIA)
23 SEP 06 NOVI LIGURE, ITULLIANS CONVENTION ( G. SCARAVILLI & ANDREA VERCESI +
IAN ANDERSON, DAVE PEGG, GLENN CORNICK, CLIVE BUNKER, JOHN WEATHERS…)
17 OCT 06 CATANIA , RADIO DELFINO
18 OCT 06 CATANIA , BARRIQUE ( JAM SESSION )
25 OCT 06 CATANIA , RADIO ZAMMU’
20 NOV 06 FIRST RECORDING SESSION FOR “ TRASPARENZE ” AT TOWER HILL STUDIOS
6 DEC 06 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
5 JAN 07 ADRANO, CONTE RUGGERO PUB
16 MAR 07 CATANIA, LED ZEPPELIN CLUB
22 JUNE 07 ADRANO, PIAZZA UMBERTO ( CANCELLED )
18 JULY 07 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
20 JULY 07 ADRANO, PIAZZA UMBERTO
4 AUG 07 RANDAZZO, PIAZZA MUNICIPIO ( CANCELLED )
9 SETT 07 MASCALUCIA, PARCO TRINITA’ MANENTI ( G. SCARAVILLI + CONQUEROR )
22 SETT 07 ACICASTELLO, PIAZZA CASTELLO ( G. SCARAVILLI + CONQUEROR )
10 NOV 07 CATANIA, PIAZZA UNIVERSITA’, FESTA DEL VOLONTARIATO ( + MEXANGI )
14 NOV 07 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
6 APR 08 MASCALUCIA, PIAZZA ( + ARCHINUE’ )
14 MAY 08 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
12 SEP 08 SESTU, CAGLIARI, COMPROGRESS 2008 ( CANCELLED. INTERVIEW ONLY )
1 OCT 08 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
DEC 08 “ TRASPARENZE ” RELEASED
4 FEB 09 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
28 FEB 09 CATANIA , VELENO ( + JAILED LIONS & ILLUSION ON AIR )
APR 2009 “LE PORTE DEL SILENZIO” REMASTERED & REMIXED AT HOME
"TRASPARENZE" RELEASED
"TRASPARENZE" RELEASED
1 JULY 09 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB ( + TANGERINE )
30 SEP 09 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
10 OCT 09 CATANIA, CORTILE C.G.I.L. ( CANCELLED )
17 FEB 10 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
8 MAY 10 CATANIA , LA CARTIERA
14 MAY 10 CATANIA , NO NAME
4 AUG 10 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB ( LAST SHOW WITH THE 4 PIECE LINE-UP )
29 APR 11 CATANIA, MAGAZZINI SONORI, INTERVIEW ON “ VELVET RADIO ”
4 DEC 11 RADIO SICILIA INTERNATIONAL ( INTERVIEW + MALIBRAN MUSIC )
14 DEC 11 RECORDING OF “ STRANIERO ” AT JERRY LITRICO’S
HOME STUDIOS ( FIRST VERSION )
JAN-FEB 11 RECORDING OF “ STRANIERO ” AT TOWER HILL STUDIOS
12 JAN 14 “ONDA D’URTO” RADIO SHOW, BRESCIA, INTERVIEW & MUSIC
24 JAN 14 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
( FIRST SHOW WITH THE NEW LINE-UP )
4 APR 14 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
22 MAY 14 NICOLOSI, ROSEMARY'S PUB
20 JUN 14 NICOLOSI, ROSEMARY'S PUB
4 JULY 14 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
1 AUG 14 NICOLOSI, "AI PINI" ( CANCELLED )
24 AUG 14 NICOLOSI, "AI PINI"
30 AUG 14 ADRANO, PIAZZA MERCATO
? SEP 14 BIANCAVILLA, MORRISON PUB ( CANCELLED )
27 SEP 14 BELPASSO, ARENA CAUDULLO, FESTA DELLA MUSICA
26 AUG 14 “ECHOES OF SECRETS” ( PINK FLOYD TRIBUTE ) RELEASED
22 MAY 14 NICOLOSI, ROSEMARY'S PUB
20 JUN 14 NICOLOSI, ROSEMARY'S PUB
4 JULY 14 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
1 AUG 14 NICOLOSI, "AI PINI" ( CANCELLED )
24 AUG 14 NICOLOSI, "AI PINI"
30 AUG 14 ADRANO, PIAZZA MERCATO
? SEP 14 BIANCAVILLA, MORRISON PUB ( CANCELLED )
27 SEP 14 BELPASSO, ARENA CAUDULLO, FESTA DELLA MUSICA
26 AUG 14 “ECHOES OF SECRETS” ( PINK FLOYD TRIBUTE ) RELEASED
( INCL. “CYMBALINE” PERFORMED BY GIUSEPPE
SCARAVILLI )
7 OCT 14 “LE PORTE DEL SILENZIO REMIXED”
RELEASED
14 NOV 14 RECORDINGS AT THE JERRY LITRICO'S STUDIOS
14 NOV 14 RECORDINGS AT THE JERRY LITRICO'S STUDIOS
18 NOV
14 ALBATROS PUB, 30TH
ANNIVERSARY ( CANCELLED )
02 JAN 15 RECORDINGS AT THE JERRY LITRICO'S STUDIOS
29 JAN 15 RECORDINGS AT THE JERRY LITRICO'S STUDIOS
20 MAR 15 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
15 JUL 15 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
22 NOV 15 CATANIA, MA
23 DIC 15 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
28 FEB 16 CATANIA, "MA"
25 MAR 16 "STRANIERO" RELEASED BY AMS RECORDS
1 JUL 16 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
15 JUL 16 BELPASSO, ARENA CAUDULLO (FESTIVAL)
12 AUG 16 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
19 SEP 16 PERGUSA, PARTY (CANCELLED)
26 OCT 16 BELPASSO, MOOD
02 JAN 15 RECORDINGS AT THE JERRY LITRICO'S STUDIOS
29 JAN 15 RECORDINGS AT THE JERRY LITRICO'S STUDIOS
20 MAR 15 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
15 JUL 15 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
22 NOV 15 CATANIA, MA
23 DIC 15 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
28 FEB 16 CATANIA, "MA"
25 MAR 16 "STRANIERO" RELEASED BY AMS RECORDS
1 JUL 16 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
15 JUL 16 BELPASSO, ARENA CAUDULLO (FESTIVAL)
12 AUG 16 RAGALNA, LA VECCHIA BOTTE PUB
19 SEP 16 PERGUSA, PARTY (CANCELLED)
26 OCT 16 BELPASSO, MOOD
9 NOV
16 BELPASSO, TEATRO NINO
MARTOGLIO (CANCELLED)
21 DEC 16 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
DEC 16 ‘ECHOES OF SECRETS’ ISSUED ON CD BY
MELLOW RECORDS
30
MAR 17 CATANIA, LA CARTIERA (LONGO’S JAM CLUB)
19 APR
17 BELPASSO, THE EIGHT
HORSES PUB
24 JUNE
17 BELPASSO, CORTILE RUSSO
GIUSTI
29 JUNE
17 NICOLOSI, PINETA MONTI ROSSI (WITH DEEP
SOUTH)
2
AUG 17 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
25 AUG
17 NICOLOSI, PINETA MONTI
ROSSI (MAX FIRETTO’S BIRTHDAY)
16 SEP
17 PEDARA, KAOS
1
OCT 17 PEDARA, KAOS (JAM, CANCELLED)
21
OCT 17 BELPASSO, VILLA COMUNALE
11
NOV 17 CATANIA, TEATRO SANGIORGI
20 DIC
17 BELPASSO, THE EIGHT HORSES
PUB (CANCELLED)
5
JAN 18 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
11 FEB
18 CATANIA, MA (CANCELLED)
23 FEB 18 ‘LIVE ANTHOLOGY’ RELEASED
FOR MA.RA.CASH RECORDS
1 MAY
18 MISTERBIANCO, PIAZZA
MAZZINI (CONCERTO DEL 1° MAGGIO)
9
MAY 18 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
21 AUG
18 BELPASSO, ROSEMARY’S SQUARE
(CANCELLED)
31 AUG 18
PEDARA, KAOS
7 SEP
18 FICARAZZI, ‘ROCK SOTTO LE
STELLE’
12 SEP
18 BELPASSO, THE EIGHT HORSES
PUB
18 SEP
18 BELPASSO, ROSEMARY’S SQUARE
15 MAR 19 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
3 MAY 19 CATANIA, LIVE
24 MAY 19 GRAVINA DI CATANIA, PUB-BLICO'
31 MAY 19 BELPASSO, ROSEMARY'S SQUARE
2 JUNE 19 BELPASSO, X-TIME
15 MAR 19 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
3 MAY 19 CATANIA, LIVE
24 MAY 19 GRAVINA DI CATANIA, PUB-BLICO'
31 MAY 19 BELPASSO, ROSEMARY'S SQUARE
2 JUNE 19 BELPASSO, X-TIME
21
JUNE 19 SAN GIOVANNI LA PUNTA, MOONSHINERS
10 AUG 19 NICOLOSI, PINETA MONTI ROSSI
30 AUG 19 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
22 SEP 19 GRAVINA DI CATANIA, FESTA DELLA BIRRA
3 JAN 20 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB (CANCELLED)
10 JAN 20 BELPASSO, THE EIGHT HORSES PUB
17 JAN 20 CATANIA, GALLUN (+ TIME HAVEN CLUB)
22 FEB 20 GRAVINA DI CATANIA, PUB-BLICO’
6 MAR 20 BELPASSO, ROSEMARY’S SQUARE (CANCELLED)
25 APR 20 FREEDOM ROCK FESTIVAL (CANCELLED)
15 MAR 20 BELPASSO, ORPHEUS (CANCELLED)
4 JULY 20 SCHETTINO, FATTORIA SOCIALE AGORA’
25 APR 20 SCHETTINO, FREEDOM ROCK FESTIVAL
Crossroads – Gli
incroci del Rock
Led
Zeppelin, Black Sabbath, Deep Purple, Genesis, Jethro Tull, Van Der Graaf
Generator, Area
Premiata
Forneria Marconi, Banco Del Mutuo Soccorso, Pink Floyd, Rock Progressivo Italiano
I Led Zeppelin avevano grinta
vendere. Ma, unitamente a questa, anche un sound granitico e ben riconoscibile,
oltre ai riff immortali creati dalla stupefacente chitarra di Jimmy Page. Non
ultimo, la presenza di una sezione ritmica tanto precisa quanto devastante, con
un batterista dalla potenza fuori dal comune. Il boss della casa discografica
americana “Atlantic” intendeva mettere sotto contratto solo i gruppi che
avessero tra le loro fila almeno un musicista straordinario: ebbene, nel caso
degli Zeppelin, gli elementi straordinari erano quattro su quattro!
Jimmy Page e John Paul Jones si
conoscevano già prima di formare la band perché, a dispetto della loro giovane
età, durante gli anni ‘60 erano entrambi stimatissimi (e molto richiesti)
musicisti da studio. Jimmy guadagnava bene limitandosi a registrare le parti di
chitarra che gli venivano richieste. E questo per una infinita varietà di
artisti. A volte si trattava di nomi famosi. E in questo caso il suo nome non
compariva nemmeno nei credits di copertina, per non far sfigurare il
chitarrista “ufficiale” della band! Il che non doveva risultare particolarmente
gratificante per il giovane Page. Inoltre, era spesso costretto a suonare
musica che non gli piaceva per niente. Oppure, dopo aver tanto lavorato su
qualche parte, poteva capitargli di ascoltare il disco per scoprire che i suoi
sforzi erano stati vanificati da un missaggio nel quale la sua chitarra si
sentiva poco o niente. Così cominciò a stufarsi di quel lavoro, e prese a
suonare dal vivo con vari gruppi. Oppure a partecipare alle jam sessions che si
tenevano al ben noto “Marquee” di Londra, facendosi subito apprezzare. Anzi, ci
fu anche chi decise di “appendere la chitarra al chiodo”, dopo aver visto quel
giovane, così gracile e minuto, fare cose pazzesche con il suo strumento. Anche
John Baldwin cominciava ad essere stufo delle sessioni da studio, fatte con o
senza Jimmy. Qualcuno gli disse però che avrebbe dovuto cambiare il suo nome in
“John Paul Jones”. Quest’ultimo era in realtà un personaggio storico: un
ammiraglio che si era fatto valere nella guerra dei nascenti Stati Uniti contro
gli inglesi, nel ‘700. Al tipo in questione quel nome era piaciuto, ma
probabilmente non sapeva niente di tutto questo. Fatto sta che John Baldwin,
eccellente bassista, tastierista ed arrangiatore, divenne da allora in poi John
Paul Jones.
Il cantante Robert Plant ed il
batterista John Bonham, detto “Bonzo”, invece, suonavano già insieme nella
“Band Of Joy” (nome che Plant avrebbe poi “riesumato” alcuni decenni dopo).
Rispetto a Page e Jones, loro due erano i “campagnoli” provenienti dalle
Midlands. Più precisamente, dalla zona denominata “Black Country” (da qui il
titolo del brano “Black Country Woman” degli Zeppelin), per via del fatto che
il terreno, a causa dell’estrazione del carbone, era tutto nero. Bonham dormiva
in una roulotte davanti casa dei suoi, e tirava a campare vendendo anche di
nascosto articoli del negozio di sua madre. Mentre Robert, che stava già insieme
alla ragazza indiana Maureen (in seguito sua moglie) si dava da fare asfaltando
le strade. Naturalmente erano soprattutto musicisti di grande talento, in
attesa della grande occasione.
Ma era un’attesa che non
desideravano durasse in eterno. Al punto che Robert ebbe a dichiarare che
avrebbe mollato tutto se non fosse riuscito a sfondare entro i suoi 20 anni (e
20 anni li avrebbe compiuti di lì a pochi mesi!) Singolarmente, molti
personaggi divenuti in seguito veri e propri divi del rock, attivi ancora oggi,
provenivano da quella stessa zona del Regno Unito, dalle parti di Birmingham.
Tra questi, oltre ai due futuri
Zeppelin, anche i Black Sabbath, Steve Winwood (poi leader dei Traffic), Robbie
Blunt (chitarrista del primo Plant solista, già suo amico prima degli Zeppelin)
e Glenn Hughes (in seguito nei Deep Purple). Quest’ultimo, nonostante Robert
all’epoca non fosse di ancora nessuno, lo ricorda con un atteggiamento già da
rockstar, sfacciato e sicuro di sé, certo del proprio luminoso futuro, con un
grande carisma, abbigliato in modo particolare e sempre in compagnia di belle
ragazze: e quando Jimmy Page gli offrì il posto di cantante del suo nuovo
gruppo, Robert Plant non disse subito di si, tutto preso da un suo nuovo gruppo
dal nome impronunciabile.
Ebbe modo di parlarne con John
Osbourne (detto “Ozzy”, di lì a poco vocalist dei Sabbath), e quest’ultimo non
riusciva a capacitarsi del fatto che Plant potesse nutrire dei dubbi
nell’accettare quella proposta: nell’ambiente Jimmy era una celebrità, soprattutto
perché nel frattempo era diventato il chitarrista degli Yardbirds: una band di
successo, che suonava regolarmente anche in America ed aveva singoli in
classifica. Incredibilmente questo gruppo aveva visto succedersi tra le sue
fila prima Eric Clapton, poi Jeff Beck, quindi Jimmy Page (!). Jeff e Jimmy
erano amici fin dall’adolescenza, suonavano ed ascoltavano il blues insieme:
così, quando si liberò un posto di bassista, Beck introdusse Page nella band.
Naturalmente quest’ultimo, da anni un gran virtuoso della chitarra elettrica,
al basso era sprecato. Eppure accettò
l’offerta, pur di lasciare il monotono lavoro di turnista da studio. Dopo
qualche tempo andò a finire che gli Yardbirds, provvedendo diversamente per il
ruolo di bassista, poterono permettersi di sfoggiare per circa sei mesi
entrambi i formidabili chitarristi. Per inciso proprio questa formazione, con
Beck e Page insieme, appare nel film “Blow Up” di Michelangelo Antonioni,
ambientato nella “Swinging London” della fine degli anni ’60, con Jeff Beck che
sfascia la sua chitarra contro l’amplificatore (in effetti Antonioni avrebbe
voluto gli Who, che davvero distruggevano i loro strumenti alla fine dei
concerti, mentre gli Yardbirds non erano soliti indulgere in questo tipo di
bizzarre attività). Il brano che eseguono nel film è “Train Kept A Rollin”:
proprioil pezzo (una cover) che gli Zeppelin avrebbero suonato durante la loro
prima prova, e che avrebbero utilizzato anche come apertura dei primi concerti.
E anche degli ultimi, oltre 10 anni dopo, nel 1980, quasi a chiusura di un
cerchio magico.
Ad ogni modo, Beck decise di
piantare la band nel bel mezzo di un tour negli USA. E così Jimmy divenne
l’unico chitarrista della band, sostenendo benissimo il nuovo ruolo. Con gli
Yardbirds si esibiva già con l’archetto nel brano che sarebbe poi diventato
“Dazed And Confused” (intitolato all’epoca “I’m Confused”) e, seduto da solo
sul palco, anche nell’orientaleggiante “White Summer”. Entrambi i pezzi (il
secondo con l’aggiunta di “Black Mountain Side”) sarebbero entrati nella
scaletta degli Zeppelin. Il brano speziato di oriente sarebbe stato anche
documentato nel famoso filmato della Royal Albert Hall del 1970, per essere
rimesso in scaletta anche per i due concerti di Knebworth ’79, e nell’ultimo
tour della band (“Led Zeppelin Over Europe”), del 1980. Beck invece formò il
suo “Jeff Beck Group”, con Rod Stewart alla voce. Questa band fu anche invitata
a partecipare al leggendario festival di Woodstock dell’ agosto 1969, ma si era
sciolta poco prima. Anche Led Zeppelin e Jethro Tull furono invitati, ma non
parteciparono perché impegnati in altre date, sempre negli Stati Uniti. Un vero
peccato! Del resto, nessuno avrebbe potuto immaginare il successo che avrebbe
avuto quel festival, anche per merito del film, uscito l’anno dopo. Se avessero
partecipato a Woodstock, sarebbe stata una fantastica occasione poter vedere
questi due gruppi inglesi su pellicola, con ottima qualità audio e video, e
proprio nel momento della loro esplosione oltre Atlantico.
Dei Jethro Tull il bassista Glenn
Cornick si sarebbe sempre rammaricato per l’occasione perduta. Ian Anderson,
invece, si è detto felice di non essere andato al festival, ritenendo che i
partecipanti avrebbero per sempre legato il loro nome a quell’unico evento. Cosa
avvenuta forse anche per Joe Cocker, con la sua strepitosa interpretazione di
“With A Little Help From My Friends”: forse l’unico caso di una cover migliore
dell’originale (un’innocua marcetta dei Beatles cantata da Ringo Star).
Per inciso, la chitarra della
versione di Cocker su disco (1968) era, manco a dirlo, di Jimmy Page.
Quest’ultimo prese invece a prestito il Beck’s Bolero per inserirlo all’interno
di “How Many More Times”, il brano che avrebbe chiuso l’album d’esordio dei Led
Zeppelin, registrato nell’ottobre del 1968 agli Olimpic Studios di Londra, per
una spesa irrisoria.
Il già citato Ozzy Osbourne non
ricorda affatto come il suo vero nome, John, avesse potuto trasformarsi in
“Ozzy”. Ad ogni modo, si tolse lo sfizio di tatuarsi quelle quattro lettere
sulle nocche di una mano, quando era ancora adolescente. E sono lì ancora oggi.
Disegnò pure una faccina
sorridente sopra una delle sue ginocchia, perché lo aiutasse a tirarlo un po’
su mentre se ne stava comodamente seduto sulla tazza del water. Abitava ad
Aston (come tutti gli altri membri dei futuri Black Sabbath) insieme alla
famiglia, in una casetta incastrata tra tante altre, tutte in fila lungo una
via che all’epoca gli sembrava lunghissima, ma che non lo era affatto. Coi suoi
amici andava a giocare in una casa bombardata dai tedeschi, ed era convinto che
fosse tutto diroccato apposta per permettere ai ragazzini di giocarci dentro. A
scuola faceva lo scemo (e fu in questa “veste” che lo conobbe Tony Iommi
(intimo amico di John Bonham). Osbourne inoltre era un po’ dislessico, veniva
trattato male dai professori e preso in giro dai compagni. Il suo senso di
auto-stima era molto, molto basso. Se ne andava in giro senza scarpe e con un
rubinetto appeso al collo, perché non avrebbe potuto permettersi una collana.
Non gli riuscì bene neanche la carriera di ladro (!) visto che venne subito
“beccato”, e a 17 anni era già in prigione: l’esperienza si rivelò talmente
traumatica che decise di non ricaderci mai più. La sua fortuna fu quella di
appendere un manifestino in un negozio di Birmingham, frequentato da tutti i
musicisti della zona: con questo foglietto di “Ozzy” annunciava di essere un
cantante in cerca di una band. E, soprattutto, di essere in possesso di
un’amplificazione propria (quella appena compratagli dal padre). Una frase
magica da quelle parti, in grado di catturare l’attenzione di molti, al di là
delle sue effettive qualità canore.
E infatti tutti i futuri Black
Sabbath finirono per bussare presto alla porta di casa sua: prima “Geezer”, il
bassista (che allora suonava la chitarra), quindi Bill Ward, il batterista, che
comparve insieme a Tony Iommi. Il tutto in una successione quasi surreale,
perché, dalla finestra di casa sua, John
Osbourne vedeva quei personaggi che sembravano tutti uguali: baffi e capelli
lunghi, abiti trasandati. Tony però lo riconobbe subito come lo scemo della
scuola, e disse a Bill Ward di lasciarlo perdere, senza neppure metterlo alla
prova. Iommi era già un chitarrista molto stimato nella zona, ed era anche un
po’ più grande. Bill però insistette perché ad Ozzy fosse concessa almeno una
possibilità e, sorpresa, alla prima prova cantò bene: era intonato e sapeva
trovare linee vocali interessanti ed azzeccate. “Geeser” passò al basso, si
unirono altri musicisti, si cambiarono un po’ di nomi per la band (compreso quello di una marca di borotalco!)
e si cominciò ad andare in giro a suonare. Quando infine decisero di rimanere
in quattro, alla fine degli anni ’60, il nome del gruppo divenne “Earth”. In
seguito videro il manifesto di un film, in bella vista davanti alla loro sala
prove: era un horror italiano che si intitolava “Black Sabbath”.
Così Tony Iommi, notando che la
gente faceva la fila e pagava per essere spaventata, pensò che quello sarebbe
diventato il nome definitivo del gruppo, e che la loro musica avrebbe virato
verso atmosfere più tenebrose ed inquietanti. Già in una lettera spedita mentre
rientravano da Amburgo, Ozzy annunciava entusiasta che al ritorno a casa si
sarebbero chiamati Black Sabbath. Ad Amburgo si erano sentiti quasi arrivati
perché suonavano allo “Star Club”, lo stesso locale che aveva visto abituali
protagonisti i primi Beatles: proprio il quartetto di Liverpool che aveva cambiato la vita di Osbourne, quando
alla radio aveva ascoltato per la prima volta “She Love You”, e aveva capito
che voleva far parte di quel mondo. Ma, dopo tanti anni, quel locale era
diventato ormai un postaccio.
E loro si ritrovarono pure a
derubare le gentili fanciulle con le quali si intrattenevano dopo i concerti
pur di “arrotondare”: mentre uno di loro si appartava con qualche tipa, l’altro
entrava di soppiatto nella stanza e frugava nella borsetta della
malcapitata. Non sarebbero andati fieri
di tutto questo, ma, come diceva Ozzy, dovevano pur mangiare…
Si spostavano da una città
all’altra con un furgone scassato: pioveva, nevicava, ed i tergicristalli non
funzionavano. Così uno di loro si affacciava da un finestrino, l’altro da
quello opposto, e tiravano i tergicristalli con le mani, ora in un verso, ora
nell’altro, per permettere a chi guidava di vedere qualcosa attraverso il parabrezza (!).
Un escamotage che utilizzavano
pur di suonare era tanto bizzarro, quanto logorante: si piazzavano con il
furgone carico della strumentazione davanti ai locali nei quali era previsto il
concerto di un gruppo già affermato, e, nel caso il gruppo in questione non
avesse potuto esibirsi, si sarebbero proposti loro. Incredibilmente, intorno
alla fine del 1968, la cosa riuscì.
In una data imprecisata del 1968
i Jethro Tull, infatti, non furono in
grado di raggiungere il locale davanti al quale si erano “appostati” i Sabbath,
e Ozzy e compagni riuscirono a suonare al loro posto. Ian Anderson riuscì ad
arrivare sul posto e a mescolarsi tra il pubblico, mandando in estasi il
giovane Osbourne perché, mentre questi cantava sul palco, intravedeva Anderson
muovere la testa seguendo la musica. In effetti il sound dello sconosciuto
gruppo di Aston era ancora più pervaso dal blues che dai suoni funerei che li
avrebbero caratterizzati di lì a poco. E c’era molto blues anche nel primo
disco dei Jethro Tull (“This Was”, l’unico che avevano pubblicato fino a quel
momento).
Ma ad attrarre l’attenzione di
Ian Anderson doveva essere stata soprattutto la performance di Tony Iommi: Ian
doveva trovare il sostituto di Mick Abrahams, il chitarrista, e Iommi sembrava
essere l’uomo giusto. Del resto, se si ascoltano certi pezzi dei primi lavori
dei Black Sabbath, quando Tony Iommi suona da solo, con la stessa Gibson SG
rossa che utilizzava Abrahams, sembra assomigliargli molto. In qualche caso,
quando la chitarra ha un sound più blues e carico di reverbero, accompagnata
solo da un tumultuante sottofondo di basso e batteria, sembra proprio di
ascoltare “Cat’s Squirrell”, dal disco d’esordio dei Tull. Tony ricevette la
proposta di entrare nella band di Anderson, e con la morte nel cuore, dovette
comunicare ai compagni che avrebbe dovuto lasciarli. Ozzy e gli altri sentirono
in quel preciso momento i loro sogni di gloria andare in pezzi: non sarebbero
potuti andare da nessuna parte senza il talento di Tony Iommi. Sarebbero dovuti
tornare a lavorare in fabbrica, o a fare gli altri i lavori frustranti (o
veramente schifosi) che facevano prima. E questo proprio quando le cose
sembrava cominciassero a funzionare. Eppure, in una maniera che può anche
essere ritenuta commovente, trattennero le lacrime e si congratularono con il
loro amico, felici per lui. Di lì a poco, tanto per cominciare, Tony avrebbe
partecipato coi Jethro Tull al programma televisivo “The Rolling Stones Rock
And Roll Circus” insieme a gente del calibro di John Lennon (allora ancora nei
Beatles), The Who, Mitch Mitchell (il batterista di Jimi Hendrix) e,
naturalmente gli stessi Stones (ancora con Brian Jones, poi ritrovato morto
nella piscina di Mick Jagger nell’estate del 1969).
Iommi, lavorando in fabbrica,
tempo prima si era visto tranciare di netto la parte superiore delle dita della
mano destra da un macchinario che non sapeva ancora usare bene. E dal momento
che era mancino, si trattava proprio delle dita che avrebbero dovuto scorrere
sulla tastiera. La sua carriera di musicista sembrava già finita. E invece si
era fabbricato da solo delle protesi simili a ditali che gli avevano permesso
di riprendere a suonare (protesi che utilizza ancora oggi). E adesso, con quel
nuovo ingaggio, aveva l’occasione di passare, in pochi anni, dalla triste
certezza di aver chiuso per sempre con la musica alla concreta possibilità di
diventare il chitarrista di un gruppo importante. Le cose sarebbero in effetti
andate così, ma non nel modo che sembrava aver prefigurato il destino.
Tony Iommi, infatti, partecipò
alle riprese del “Circus” coi Jethro Tull, il 10 dicembre 1968; ma lasciò
quella band dopo un paio di settimane, preferendo tornare coi suoi vecchi
compagni: troppo strette erano risultate per lui la disciplina, la professionalità e la
serietà che Ian Anderson imponeva alla band (a dispetto dei suoi 21 anni), e
ben presto avrebbe preso il sopravvento la nostalgia per il divertimento, le
follie e le risate con Ozzy e compagni. Il suo posto nei Jethro Tull sarebbe
stato infine preso da Martin Barre (che non lo avrebbe mollato per 40 anni!),
mentre gli Earth, divenuti Black Sabbath, avrebbero sfondato al primo colpo con
l’omonimo disco d’esordio, uscito nel 1970. Lo registrarono praticamente dal
vivo, in 12 ore, scappando via subito dopo per un tenere un concerto a Zurigo.
Quando poi lo ascoltarono, quasi
svennero per la felicità: il suono era pazzesco, erano state aggiunte campane e
pioggia all’inizio del disco, e la copertina (alla quale non avevano in alcun
modo preso parte) era strepitosa. All’interno della copertina dell’album
(intitolato semplicemente “Black Sabbath”) tutti e quattro portavano al collo
grosse croci di ferro, fabbricate dal padre di Ozzy. E a quel punto fecero
addirittura il bis, ottenendo ancora più successo con il successivo “Paranoid”:
questo secondo lavoro avrebbe dovuto in realtà chiamarsi “War Pigs”, come uno
dei brani contenuti nel disco (e come voleva suggerire la stessa copertina). Ma
la casa discografica aveva preferito evitare problemi con quella che sarebbe
stata facilmente interpretata come un’aperta denuncia contro la guerra in
Vietnam, e preferì attribuire all’album il titolo di un brano che la band aveva
registrato all’ultimo momento, giusto perché c’era ancora spazio per un’altra
traccia: il pezzo era “Paranoid”, che sarebbe diventata la loro hit più famosa
in assoluto, e avrebbe gettato le basi per quello che sarebbe diventato l’heavy
metal. Se anche i Black Sabbath si fossero sciolti subito dopo quei primi due
dischi, avrebbero comunque marchiato con indelebili lettere di fuoco il libro
della storia del rock.
La triade classica dell’hard rock
con radici blues rimane alla fine quella rappresentata da Led Zeppelin, Black
Sabbath e Deep Purple. Nel 1969, dopo un loro concerto, a questi ultimi si era
presentato un giovane commesso chiamato David Coverdale, che chiese a Jon Lord
di essere preso in considerazione come vocalist del gruppo. Gli fu gentilmente
risposto che i Purple stavano provando Ian Gillan, il nuovo cantante, ma che,
nel caso non avesse funzionato, si sarebbero ricordati di lui. Invece Gillan
andò alla grande, fin quando, per puro caso, Coverdale diventò davvero la voce
dei Deep Purple, nel momento in cui Gillan lasciò la band, nel 1973. Ad ogni
modo, durante quel primo incontro, la band britannica aveva già sfornato tre
dischi ed una hit (“Hush”, grande successo negli USA) con Rod Evans alla voce e
Nick Simper al basso. Gli altri non erano però soddisfatti del corso intrapreso,
e decisero di sostituire Rod e Nick con due componenti degli Episode Six: Ian
Gillan, appunto, e Roger Glover. Oltre a Lord alle tastiere i Purple avevano
Ian Paice alla batteria (unico dei componenti originari rimasto oggi del gruppo
originario), più il talentuoso Ritchie Blackmore alla chitarra. Quest’ultimo
comunicò a Simper che, come bassista, Glover non era in realtà più bravo di
lui, ma che la decisione era ormai presa.
E infatti, qualche anno dopo, lo
stesso Blackmore pose come condizione che Roger Glover venisse a sua volta
sostituito, altrimenti avrebbe abbandonato egli stesso i Deep Purple. Ancora
prima di Coverdale, arrivò così Glenn Hughes, già cantante e bassista dei
Trapeze: Ritchie e gli altri andarono a vederlo mentre si esibiva, e gli proposero
di unirsi alla band. A Roger Glover cadde il mondo addosso nel momento in cui
venne a sapere della sua estromissione, proprio quando la band raggiungeva il
massimo della sua popolarità, a seguito di “Made in Japan”. Per inciso
Blackmore, che non aveva nulla di personale contro Roger, non ebbe il coraggio
di comunicargli la sua esclusione, e fu uno dei due manager dei Purple ad
assumersi l’onere. Glenn Hughes aveva anche una voce strepitosa, ricca di
“soul” e in grado di raggiungere acuti impressionanti: avrebbe dunque potuto
anche essere lui la nuova voce della band.
Si preferì comunque un cantante
che, come Gillan, avesse una bella immagine e nessuno strumento appeso al
collo: Ritchie avrebbe voluto Paul Rodgers, ma questi, dopo lo scioglimento dei
Free, si era ormai impegnato con i Bad Company (in seguito l’unica band di
successo della label “Swan Song” degli Zeppelin), e dunque “ripiegò” su David
Coverdale, che aveva una vocalità in qualche modo simile. Alla fine, con questa
nuova formazione (denominata Mark III), finirono per alternarsi alla voce (o ad
unirsi nei cori) sia Glenn che David, dal vivo come sui dischi del periodo
’74-’75 (“Burn”, “Stormbringer” e “Come Taste the Band”). Se l’essenza più
“funky” è documentata soprattutto sul live “Made in Europe”, quella della
precedente line up con Gillan e Glover (la “classica” formazione Mark II) è
invece immortalata sul leggendario “Made in Japan”, uno dei dischi dal vivo più
celebri della storia del rock.
Paradossalmente, i Deep Purple
non si resero subito conto del potenziale straordinario di quest’ album, e
quasi se ne disinteressarono: concessero che venisse pubblicato solo in
Giappone, e solo a patto che fossero utilizzati i loro fonici (Martin Birch in
particolare). Inoltre, il disco non sarebbe uscito affatto, se a loro non fosse
piaciuto. Solo qualcuno della band si degnò di partecipare ai missaggi. Le
registrazioni erano state effettuate durante tre spettacoli, tra Tokyo e Osaka,
nell’estate del 1972, e catturavano i Deep Purple al massimo del loro
splendore: non appena “Made in Japan” venne importato negli USA, nel 1973, il
gruppo esplose davvero. Si trattava quasi di un’esecuzione live del nuovo disco, “Machine Head”, ma con una
potenza ed una personalità quasi sfacciata che sembrava sbattere in faccia al
mondo un perentorio “I più grandi siamo noi!”. La versione dal vivo di “Smoke
on the Water” divenne ancor più celebre di quella in studio, e questo brano è
passato alla storia come il brano rock più famoso di sempre, conosciuto
praticamente da tutti. Il testo racconta la storia di quel che successe
effettivamente ai Deep Purple: la band si era recata a Montreaux, in Svizzera,
per registrare quello che sarebbe divenuto “Machine Head” (1971) con uno studio
mobile, all’interno del Casino di Montecarlo. Andarono a vedere Frank Zappa and
The Mothers esibirsi in quello stesso luogo, che era anche una sala da
concerto.
Ad un certo punto, però, a qualcuno del
pubblico venne la bella idea di lanciare un bengala (o qualcosa del genere)
verso il soffitto, e l’intero locale andò a fuoco, con conseguente interruzione
del concerto ed un generale “si salvi chi può”: i Deep Purple non avevano più a
disposizione la location nella quale registrare il nuovo disco. Dalla finestra
dell’albergo, Ian Gillan si ritrovò ad osservare mestamente il fumo (“Smoke”)
del Casino andato in cenere alzarsi sopra (“on”) le acque del lago (Water). Il
gruppo non si perse d’animo e registrò comunque il nuovo materiale, utilizzando
lo stesso albergo nel quale era alloggiato: i cavi dello studio mobile
posteggiato all’esterno percorrevano i corridoi, e nelle varie camere
dell’hotel si piazzarono Lord, Paice, Gillan, Glover e Blackmore, che portarono
alla fine la registrazione del lavoro. Se Il primo album con Ian Gillan alla
voce (il concerto per gruppo e orchestra, registrato e filmato alla prestigiosa
Royal Albert Hall di Londra nel settembre del 1969) non aveva permesso a Ian
Gillan di esprimersi in tutta la sua potenza,
con i successivi “In Rock”, “Fireball” e “Machine Head” i Deep Purple
definirono il nuovo concetto di hard rock, estremo, eppure contrappuntato da
momenti di grande classe, venato di blues, contaminato da influenze di musica
classica e caratterizzato da grandiosi momenti di pura improvvisazione, con lo
spettacolare e continuo incrociarsi tra la chitarra elettrica di Ritchie
Blackmore e l’ organo Hammond di Jon Lord. Sfortunatamente la magica alchimia
si ruppe quando i rapporti personali tra Ritchie e Gillan si guastarono: già
alla fine del ’72 il vocalist inviò una lettera ai manager Edwards e Coletta,
nella quale manifestava la sua intenzione di lasciare i Deep Purple.
Concluse comunque il tour in
corso (un po’ come avrebbe fatto in seguito Peter Gabriel coi Genesis), e
infine annunciò al pubblico giapponese che quello che si era appena concluso
era il suo ultimo show con la band. Ma i Purple non potevano sciogliersi
proprio mentre, specie dopo il sopracitato successo di “Made in Japan”, era in
classifica con più dischi e più singoli contemporaneamente.
Jon Lord ammise che Gillan e
Blackmore non potevano stare insieme non solo nello stesso gruppo, ma neanche
nella stessa città (!). E così, messo alla porta Roger Glover, e con Ian Gillan
dimissionario, i Deep Purple si “reinventarono” con David Coverdale e Glenn
Hughes, sfornando l’ottimo “Burn”: l’unica testimonianza filmata di un concerto
con questa nuova line-up rimane l’incredibile partecipazione della band al
gigantesco festival americano denominato “California Jam” e svoltosi
nell’aprile del 1974, con il nuovo disco uscito da poche settimane. Il pubblico però avrebbe preferito vedere
sul palco Ian Gillan, e non lo sconosciuto David Coverdale.
Ritchie Blackmore, inoltre, era
nervoso perché non avrebbe voluto esibirsi prima del calar del sole. Nè
sopportava le telecamere sul palco, quando queste si avvicinavano troppo a lui:
alla fine di Space Truckin’ ne prese una a colpi di chitarra, causando danni
considerevoli, mentre una carica d’esplosivo eccessiva concludeva il loro
pirotecnico (e comunque bellissimo show) mandando a fuoco mezzo palco con un
rumore assordante, che stordì gli stessi musicisti, rischiando anche di
arrostirli sul posto!
La band scappò via con lo
sceriffo della Contea alle calcagna, e fu in grado di ripagare i danni
provocati solo coi proventi che ricevette per la concessione dei diritti TV.
“Made in Europe” avrebbe documentato invece gli ultimissimi concerti (aprile
’75) di Blackmore con i Deep Purple degli anni ’70, prima della sua decisione
di lasciare i suoi compagni per formare i Raimbow insieme a Ronnie James Dio,
il cantante degli Elf, gruppo spalla di quell’ultimo tour. Oggi, anche
riascoltando “Made in Europe” o “Live in Paris”, sembra impossibile pensare che
un musicista possa decidere di abbandonare un gruppo di quella levatura per
lanciarsi in un possibile salto nel buio: ma Blackmore era (ed è) un’artista, e
lo stile che la “sua” band stava abbracciando collimava sempre meno con i suoi
gusti: Ritchie non amava il “funky”, e questa componente stava prendendo sempre
più spazio tra le pieghe della musica dei Purple: caratteristica che si sarebbe
accentuata ancora di più con l’arrivo del nuovo chitarrista, Tommy Bolin (già
con Billy Cobham), nel quale Hughes e Coverdale trovarono un ottimo alleato per
il nuovo corso del gruppo. “Come Taste The Band”, pur eccelso nella sua miscela
di hard rock, soul e funky, ai vecchi fans non sembrò neanche un disco dei Deep
Purple. Né le cose vennero facilitate dal fatto che Bolin dovesse spesso
sentire urlare qualcuno del pubblico che voleva Ritchie Blackmore sul palco.
Ancora meno fu d’aiuto il fatto che Tommy Bolin fosse purtroppo
tossicodipendente, particolare del quale gli altri del gruppo, pur buoni
bevitori, non erano a conoscenza.
Iniziò male e finì peggio: il
disco non sfondò, il tour in Giappone (degli ultimi mesi del ’75) vide un Tommy
Bolin spesso in cattive condizioni, e, in un caso, addirittura a rischio della
vita. Più volte non era in condizione di suonare. Nel febbraio del ’76, durante
il tour americano, i Purple riuscirono a tornare a livelli accettabili. Ma poco
dopo, in Patria, i loro ultimi concerti finirono tra i fischi, e a Liverpool
David Coverdale lasciò il palco in lacrime. I Deep Purple si sciolsero, e Tommy
Bolin morì a causa di un overdose alla fine di quello stesso 1976: ancora una
volta, un talento che si butta via (un po’ come Paul Kossoff dei Free, Jim
Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin e tanti altri). Ad ogni modo Blackmore
vinse la sua scommessa coi Raimbow, mentre Coverdale resuscitò alla grande con
gli Whitesnake (fra i quali militarono, fra l’altro, anche alcuni dei vecchi
amici dei Purple, a cominciare da Jon Lord). Ma, nel 1984, i tempi erano
maturi per un ritorno del gruppo nella formazione Mark II (proprio quella di
“Made in Japan”), con il sorprendente disco “Perfect Strangers”. Il
sottoscritto ha avuto modo di vedere questi Deep Purple a Cava dei Tirreni nel
1988, e altre due volte in anni più recenti. A parte una “temporanea
estromissione” di Ian Gillan nel 1990, è stato poi Blackmore ad abbandonare di
nuovo il gruppo nel bel mezzo del tour del 1993, costringendo i suoi compagni
ad ingaggiare provvisoriamente Joe Satriani, e, dal 1996 ad oggi, Steve Morse.
Jon Lord ha dovuto lasciare prima i Deep Purple per motivi di salute all’inizio
degli anni 2000. E successivamente tutti noi, purtroppo, nel corso del 2012.
Don Airey (già con Raimbow, Ozzy
Osbourne e Jethro Tull) ha preso il suo posto. Dei “vecchi” sono rimasti Ian
Gillan, Roger Glover e Ian Paice. Una storia ancora senza fine, con dischi
nuovi, concerti in tutto il mondo e la riproposizione dei vecchi, immortali
“cavalli di battaglia”.
Il sopracitato Don Airey potè
diventare il nuovo tastierista del gruppo solo perché si salvò da una brutta
(quanto assurda) avventura agli inizi degli anni ’80: era in tour con Ozzy
Osbourne (che, coi suoi primi due dischi, stava riscuotendo più successo
rispetto ai Black Sabbath senza di lui), ed il bus sul quale in quei giorni
viaggiava la band negli USA fece una sosta in un un prato. L’autista conosceva
un tizio che possedeva un piccolo aeroplano, era in grado di pilotarlo, e
propose a vari componenti della band e dell’entourage di fare un giro. Don
Airey partì con il primo gruppetto, ed atterro’ poco dopo sano e salvo. Ma nessuno sapeva che
quell’autista-pilota era in realtà un alcolizzato privo anche del patentino per
volare. Ed al secondo gruppo non andò altrettanto bene. Dopo qualche evoluzione
il piccolo aereo squarciò il tetto del tour bus ed andò a schiantarsi un po’
più lontano, in una nuvola di fuoco. Tutti gli occupanti, compreso Randy Rhoads
(il chitarrista di Ozzy) persero la vita. Lo stesso Ozzy, che stava dormendo
nel bus con la moglie (figlia del suo manager) fu svegliato di soprassalto da
quella botta sul tetto e, tra le fiamme, si gettò fuori, portando con sé la sua
signora (che tale è ancora oggi), certo che si fosse trattato di un incidente
stradale: non sapeva che il bus era fermo in un campo, e rimase sorpreso dal il
fatto di non essersi ritrovato sull’asfalto della strada. Fece comunque in
tempo a vedere l’aeroplano esplodere, senza capire e senza credere ai propri
occhi. Ancora più difficile fu riuscire ad accettare la perdita di Randy: Ozzy
aveva trovato in lui il partner ideale, ed era rimasto senza parole quando
aveva assistito alla sua audizione, quando era alla ricerca di un chitarrista.
Inoltre Randy Rhoads era un bravo ragazzo e non (per ammissione dello stesso
Osbourne) uno di quei tipi “fuori di testa” (a cominciare da lui stesso!) che
erano soliti gravitare nell’orbita dell’ hard rock. Giusto la sera prima,
addirittura, lo stesso Randy aveva comunicato all’ex Sabbath che avrebbe
lasciato la band (insieme ai lauti guadagni annessi) per dedicarsi allo studio
e all’insegnamento della chitarra. Era legatissimo alla madre, e a lei aveva
dedicato un brano molto toccante. John “Ozzy” Osbourne si era molto affezionato
a lui, e non riusciva a capire perché quella fine fosse dovuta capitare proprio
a Randy. Da allora non smise mai, ogni anno, di mandare fiori sul luogo del suo
ultimo riposo.
Anni prima, nel settembre del
1970 Phil Collins riuscì ad entrare nei Genesis: Peter Gabriel capì che Phil
era bravo non appena vide come si sedette sul seggiolino della batteria. Phil
leggeva di continuo che questi Genesis, nonostante avessero pubblicato due
dischi dalle vendite piuttosto modeste (“From Genesis To Revelation” e
“Trespass”) suonavano da tutte le parti. Cosa che non riusciva alla sua band, i
Flaming Youth. Dunque teneva molto ad entrare
nella band, e si recò alla casa dei genitori di Peter Gabriel, dove si tenevano
le audizioni per tutti gli aspiranti batteristi, insieme al suo amico Ronnie
Caryl, che sperava di essere preso come chitarrista, dal momento che Anthony
Phillips aveva lasciato i Genesis qualche mese prima. Mentre aspettava il suo
turno, gli venne offerto di fare un bagno in piscina: e così, sguazzando in
acqua, Phil Collins, a 19 anni, in quell’estate del 1970, ebbe modo di
ascoltare gli altri batteristi, capendo al volo cosa volevano i Genesis, quello
che avrebbe dovuto fare, e soprattutto quello che avrebbe dovuto evitare.
Tornando verso casa il suo amico Ronnie si disse convinto di aver ottenuto lui
il posto. E invece le cose andarono esattamente al contrario. E quando i
Genesis telefonarono a casa Collins per comunicargli che il posto era suo, lui
fu felice al punto da abbracciare sua madre! Il gruppo aveva già avuto tre
batteristi prima di lui: Chris Stewart sul singolo “The Silent Sun”, John
Silver sul disco d’esordio (registrato durante le vacanze estive del 1968,
quando andavano ancora tutti a scuola) e John Mahyew su Trespass. I Genesis
erano nati proprio dalla fusione di due gruppi scolastici, gli Anon e i Garden
Wall. Ma le severe regole della Charterhouse, riservata ai figli delle famiglie
più facoltose, li aveva resi ragazzi piuttosto chiusi ed infelici. Solo la
musica era in grado di dar loro entusiasmo e di salvarli da quell’ambiente
tanto austero: la scuola somigliava ad una cattedrale gotica, e i familiari
erano sempre lontani. Inoltre suonare la chitarra elettrica veniva considerato
più o meno un atto rivoluzionario! Phil Collins portò nel gruppo quella ventata
di allegria e spensieratezza che erano necessarie. Oltre, naturalmente, ad un
sound molto più preciso e professionale, che trasformò la band dalle
fondamenta.
E così fu con lui che i Genesis
intrapresero il tour di “Trespass”, il 2 ottobre 1970, nonostante non avessero
ancora trovato qualcuno che sostituisse Anthony Phillips alla chitarra. Ant era
un elemento importantissimo per la band, al punto che si pensò seriamente allo
scioglimento quando, subito dopo la registrazione di “Trespass”, Phillips annunciò
che avrebbe mollato tutto. Era lui, alla 12 corde, l’elegante tessitore delle
delicate trame chitarristiche caratteristiche dei primi Genesis ed il loro
motore trainante.
Affiancava inoltre la sua voce a
quella di Gabriel, e poteva anche scatenarsi con l’elettrica in un brano come
“The Knife”, che chiudeva sia il disco che i concerti dal vivo. Nonostante non
avrebbe poi partecipato alla registrazione del successivo “Nursery Cryme”,
persino l’immortale “The Musical Box” era in buona parte farina del suo sacco.
Paradossalmente Phillips, che lasciò perché veniva colto da crisi di panico al
momento di esibirsi, pur vivendo ancora oggi di musica, non si è mai più
esibito in pubblico (dunque dal 1970!).
Alla fine comunque il gruppo decise di
proseguire in quartetto: Peter Gabriel, Tony Banks, Mike Rutherford e Phil
Collins. Tony simulava le parti di chitarra applicando un distorsore alle
tastiere. L’amico di Phil, Ronnie Caryl, riuscì a fare con loro qualche
concerto. E per un paio di mesi il loro chitarrista fu Mick Barnard, che
comparve anche in TV durante l’esecuzione di “The Knife”(filmato purtroppo
andato perduto). Ma tutti sapevano che era una soluzione provvisoria e, a
seguito di un annuncio di Steve Hackett sul Melody Maker, andarono ad ascoltare
il nuovo aspirante chitarrista a casa sua, mentre suonava tre stili diversi
accompagnato dal fratello John al flauto.
Capirono subito che quello era il
musicista che faceva al caso loro, abile sia nelle parti “bucoliche”, alla
chitarra classica, che in quelle più aggressive, alla chitarra elettrica,
strumento dal quale riusciva a tirare fuori suoni particolarissimi, utilizzando
con gusto vari effetti a pedale, senza cercare mai di stupire con “assolo” alla
velocità della luce: cosa che loro non avrebbero gradito affatto. Così, quando
Steve andò a vedere i Genesis al Lyceum, alla fine del 1970, con Mick Barnard
ancora alla chitarra, sapeva già di essere lui il loro nuovo chitarrista. Per
il nuovo album,“Nursery Cryme”(1971), ai due nuovi arrivati, Phil e Steve, fu
concesso di inserire un loro brano, intitolato “For Absent Friends”. Quello era
anche il primo pezzo cantato da Phil Collins invece che da Peter Gabriel. Un
altro sarebbe stato “More Fool Me”, su “Selling England By The Pound”, (1973),
pezzo che avrebbe visto Collins in piedi, al microfono, anche durante il
relativo tour.
Si trattava comunque di due
canzoni molto brevi e quiete: nulla avrebbe lasciato presagire che un giorno
Phil Collins sarebbe diventato il cantante dei Genesis, dopo che anche Peter Gabriel,
nel 1975, avrebbe lasciato la band, alla
fine del tour di “The Lamb Lies Down On Broadway”.
Personalmente ho visto i Genesis
a Nizza nel 1992: ricordo che prima del concerto la folla aveva accolto con un
gran boato un video del Gabriel solista, ed ho sentito un giovane chiedere alla
sua ragazza il perché di quella reazione entusiastica: il tipo in questione non
sapeva che Peter Gabriel era stato il cantante dei Genesis! E probabilmente
sono ancora in tanti a non saperlo.
Riavvolgendo il nastro, per l’assolo di “The Musical Box” Hackett (che avrebbe
lasciato a sua volta nel 1977) utilizzò anche qualche idea di Mick Barnard. Ed
utilizzò la tecnica del “tapping”, diversi anni prima di Eddie Van Halen.
All’inizio del 1971 i Genesis partirono con la nuova formazione (poi divenuta
quella “classica”) in un tour insieme ai Van Der Graaf Generator e agli
Audience, tutti facenti parte dell’etichetta “Charisma”.
Sul tour bus, come amava
rammentare scherzando Peter Hammill, leader dei Van Der Graaf Generator, ai
primi posti erano seduti i Genesis coi loro cestini da pic-nic, al centro gli
Audience con le birre, e in fondo gli stessi VdGG con le droghe (!). In quel
momento erano proprio i Van Der Graaf il gruppo di maggior richiamo. Fino a
quando, concerto dopo concerto, i Genesis riuscirono a conquistarsi sul campo
(anzi, sul palco) il titolo di attrazione principale. Semplicemente perché era
diventato impossibile fare meglio di loro, come ammise lo stesso Hammill.
All’inizio del 1972 vennero filmati per mezz’ora di musica dal vivo alla TV
belga, consegnandoci il documento (peraltro di ottima qualità, e a colori) più
“datato” che sia possibile reperire. Esistono in realtà altri due brani ripresi
in occasione dell’Atomic Sunrisre festival tenuto alla Roundhouse di Londra nel
1970, con Phillips e Mayhew ancora in formazione: ma è un filmato senza sonoro,
con l’audio dei pezzi (“Looking For Someone” e “The Knife”) sovrapposto in un
secondo tempo, e non provenienti da quell’evento (al quale partecipava anche
David Bowie).
Altri documenti (solo audio) dei
Genesis del 1970 riemersi dall’oblio dopo decenni sono i “Jackson Tapes”, più le registrazioni effettuate alla
trasmissione radiofonica “Nightride”, rispettivamente del gennaio e del
febbraio del 1970, entrambi realizzati per la BBC. I primi risalgono più
precisamente al 9 gennaio: cioè alla stessa sera che vedeva i Led Zeppelin
filmati in concerto alla Royal Albert Hall, da un’altra parte di Londra, il
giorno del ventiseiesimo compleanno di Jimmy Page, che dietro le quinte,
avrebbe conosciuto proprio in quell’occasione la sua futura moglie (per inciso,
quel film degli Zeppelin, ritenuto troppo scuro nelle immagini, rimase nel
cassetto, per essere finalmente pubblicato nel doppio dvd antologico del 2003,
con un fantastico suono stereo).
Le registrazioni dei Genesis di
quel 9 gennaio ‘70, recuperate miracolosamente in tempi recenti, risultano
interessantissime, per quanto brevi: si possono ascoltare infatti i Genesis,
ancora senza Collins e Hackett, suonare non solo spezzoni di “Looking For
Someone” (poi su “Trespass”, 1970), ma anche di “The Fountain Of Salmacis”,
“The Musical Box” (entrambe su “Nursery Cryme, 1971) e addirittura di “Anyway”
(in seguito su “The Lamb Lies Down On Broadway”, 1974). I Genesis dei primi anni
ebbero più successo in Italia che in Patria: così vennero in tour nel nostro
Paese nell’aprile e nell’agosto del 1972. All’inizio con un semplice furgone,
in seguito con una strumentazione più “ingombrante”, mentre in sala stavano
registrando “Foxtrot”, il disco che permise loro di cominciare a vendere e ad
essere considerati anche in altri Paesi.
In Italia suonarono anche con gli
Osanna, e forse i costumi di scena ed i volti truccati del gruppo partenopeo
ispirarono Gabriel per i suoi successivi travestimenti. Tornarono in occasione
del “Charisma Festival” nel gennaio del 1973, e ancora per il tour di “Selling
England by the Pound”, nel 1974; quindi per quello di “The Lamb” con l’unica
data di Torino, nel 1975. Tornarono nel nostro paese (naturalmente senza
Gabriel) solo nel 1982 (tour in cui tornò in scaletta “Supper’s Ready”, per
festeggiare i 10 anni dell’epica suite contenuta su “Foxtrot”) e nel 1987 (anno
nel quale io vidi Peter Gabriel a Roma). Saltò invece la data del 1992 a
Torino, spostata a Nizza, dove, ebbi modo di vederli per l’unica volta. Essendo
Phil Collins divenuto il vocalist della band già dalla metà degli anni ’70, si
era resa necessaria la presenza di un secondo batterista: prima Bill Bruford
(ex Yes e King Crimson), per la tournèe di “A Trick Of The Tail” del 1976;
quindi Chester Thompson, dal 1977 in poi. In realtà, quando Peter lasciò,
vennero provati moltissimi possibili sostituti, che dovevano seguire la “guida
vocale” cantata da Phil. Ma, alla fine, ci si accorse che nessuna voce era
migliore di quella dello stesso Collins e così, nonostante la sua riluttanza,
divenne lui il nuovo cantante dei Genesis.
Alla chitarra (ma anche al basso)
il sostituto di Steve Hackett divenne invece Daryl Stuermer (americano come
Thompson), che esordì con loro in occasione del tour di “And Then There Were
Three”, del 1978. Con questo quintetto i Genesis si esibirono in tour fino al
1992. E, dopo 15 anni di “stop”, tornarono in pista con questa stessa
formazione nel 2007, per una serie di concerti in Europa e negli Stati Uniti.
Il DVD del concerto gratuito al
Circo Massimo di Roma (di fronte a mezzo milione di persone) avrebbe
documentato questa reunion. Si era in effetti parlato di tornare “on stage” con
Peter Gabriel, ma la cosa non andò in porto. Un vero peccato che Peter non
abbia pensato di tornare coi suoi vecchi compagni almeno per il bis finale di
Roma: il pezzo sarebbe stato “The Carpet Crawlers”, e sentirglielo cantare
(anche sul DVD) coi Genesis sarebbe stato molto emozionante. Invece, a conti fatti,
l’unica volta di Peter Gabriel di nuovo con la sua vecchia band, per un
concerto intero (e con Steve Hackett nel bis) sarebbe rimasto soltanto quello
dell’ottobre 1982 a Milton Keynes, in Inghilterra, sotto la pioggia.
Riascoltando la scaletta di quella sera, si potrebbe pensare che i Genesis
avessero dovuto riprovare dopo tanti anni tutti quei brani: in effetti non è
del tutto vero, perché molto del materiale dell’era Gabriel veniva ancora
portato in tour nel corso dei primi anni ’80. Però che veniva omesso in
occasione delle pubblicazioni ufficiali (come “Three Sides Live”), per lasciare
posto al nuovo corso intrapreso dalla band.
Così, in occasione della reunion, le iniziali “Back in N.Y.C.”, il
medley tra “Dancing With The Moonlit Knight” e “The Carpet Crawlers” venivano
suonate nel 1980; Firth Of Fifth nel 1981, così come “The Lamb Lies Down On
Broadway”. Anche la versione ridotta di “The Knife” chiudeva i concerti
del 1980, mentre l’intera “Supper’s Ready” veniva eseguita proprio durante la
tournèe di quello stesso 1982. Per non parlare di “In The Cage”, sempre
presente in scaletta, pur senza Gabriel, dal 1978 in avanti.
Alla fine i brani che vennero
davvero “riesumati” dopo tanto tempo furono la versione integrale di “The
Musical Box” e qualcosa da “The Lamb”. Ma il bello, naturalmente, era sentire
di nuovo Peter alla voce e Phil alla batteria su tutto questo materiale. La
registrazione di una prova precedente questa reunion rivela un Gabriel un po’
impacciato, che dimentica anche alcuni testi. Ed è qui che si può sentire Phil
Collins “suggerire” da dietro la batteria: proprio come a scuola!
A Milton Keynes Gabriel tirò di nuovo fuori i
costumi ed il vecchio flauto traverso, mai utilizzato durante la sua carriera
solista. Aveva indossato per la prima volta dei costumi sul palco a Dublino,
durante il tour di “Foxtrot”: sulla copertina di quel disco era riportata
l’illustrazione di una figura in abiti femminili rossi, con una testa di volpe.
E questo fu esattamente l’abito di scena che Gabriel decise di indossare alla
fine di “The Musical Box”, cambiandosi nei camerini mentre il resto della band portava
il brano alla sua sezione finale.
Lo shock fu collettivo nel vero
senso del termine, perché Peter non aveva avvertito nemmeno i suoi compagni,
che rimasero di sasso almeno quanto gli spettatori nel momento in cui lui
comparve sul palco con quel vestito da donna (che era di sua moglie Jill) e la
testa di volpe, per cantare la parte conclusiva del brano. Del resto lui sapeva
benissimo che, se avesse chiesto il loro parere, si sarebbe sentito rispondere
di no. Ad ogni modo gli altri quattro non ebbero più nulla da obbiettare quando
quei travestimenti portarono i Genesis direttamente sulle copertine delle
principali riviste britanniche!
Nel 1975 alcuni membri dei
Genesis ascoltarono in macchina il pezzo nuovo di un gruppo che non riconobbero
subito: erano i Led Zeppelin, ed il brano in questione era “Kashmir”. Phil
Collins impazzì per il suono massiccio e l’incedere imponente di quella
batteria, e provò a fare qualcosa del genere in una canzone che stavano
provando per il primo disco dell’era post-Gabriel: Il pezzo, intitolato
“Squonk”, si rivelò perfetto sia per l’inizio dei concerti del 1977 che per
l’apertura del doppio dal vivo pubblicato quello stesso anno, intitolato
“Seconds Out”. Fu questo il disco che mi introdusse nel mondo dei Genesis,
quando ero ancora adolescente. Nel 1988 telefonai ad Armando Gallo, autore
della foto di copertina di quel disco (nonché amico personale dei Genesis fin
dai primi anni ’70), parlai con lui e mi feci spedire una copia del suo (ormai
davvero mitico) libro a loro dedicato. Gli chiesi un autografo per me e per i
Malibran, il mio gruppo, che all’epoca muoveva i suoi primi passi. Fu una vera fortuna riuscire a
“beccare” Armando nella sua casa romana, dal momento che viveva (e vive) anche
a Los Angeles, e che stava partendo (sempre in qualità di fotografo) per
l’Australia al seguito degli INXS, band di successo di quegli anni ’80.
Un altro importante “riferimento
Genesis” per l’Italia sarebbe poi divenuto Mario Giammetti: sulla prima pagina
di un numero della sua fanzine “Dusk”, mentre io mi trovavo in condizioni
critiche all’ospedale, nel 2012, volle gentilmente rivolgermi un saluto,
definendomi “musicista raffinato”,
“leader dei Malibran”, e aggiungendo che “tutto il mondo del Prog” mi aspettava
“a braccia aperte”. Davvero un bell’attestato di stima, fortunatamente non
isolato.
Nel 1975, in macchina, i Genesis
non avevano riconosciuto i Led Zeppelin, perché questi, nel frattempo, erano
cambiati un bel po’. Con il nome di “New Yardbirds” nel 1968 avevano intrapreso
un tour in Scandinavia, che si era rivelato utilissimo per mettere a punto i
brani per il disco d’esordio sotto la nuova denominazione.
Degli Yardbirds rimaneva non il
solo Jimmy Page, ma anche il manager Peter Grant, ed il tour manager Richard
Cole, che ai tempi delle tournèe con la vecchia band divideva la stanza con lo
stesso Page. Nel film “The Song
Remains The Same” del 1976 Cole, tra l’altro,
è la prima faccia che compare, interpretando il gangster barbuto che viene fuori da una
casa, seguito dalla mole immensa di Peter Grant e da un altro tizio, tutti
armati di mitra a tamburo. Jimmy pagò di tasca sua la registrazione del primo
album degli Zeppelin, avvenuta in sole trenta ore nell’ottobre del 1968, e con
pochissime sovra-incisioni. A Robert Plant non sembrava
neanche vero di trovarsi in uno studio, e quando ascoltò la musica in cuffie
andò letteralmente in estasi. John Paul Jones e Jimmy Page, invece,
registravano già da anni, ma fu Page a
guidare le operazioni, sapendo perfettamente cosa voleva ottenere, e come
ottenerlo. Si occupò in prima persona anche del fenomenale suono della batteria
che sarebbe venuto (benchè in buona parte generato dalla stessa potenza di John
Bonham), tenendo i microfoni a distanza per “generare profondità” (come era solito
asserire). Peter Grant adorava e rispettava Jimmy.
Soltanto una volta John Bonham
ebbe a polemizzare con Page, durante le
registrazioni, sempre a proposito della batteria. E Grant intimò a “Bonzo” di
fare quello che diceva Jimmy Page, perché, in caso contrario, l’avrebbe
sbattuto fuori dal gruppo (e probabilmente anche dalla finestra). Per inciso,
nessun altro si sarebbe potuto permettere di parlare in quel modo a John Bonham
senza rischiare di farsi male sul serio! Ma lui fece buon viso a cattivo
gioco, perché aveva capito che quello era il gruppo giusto per combinare
qualcosa di veramente importante. E per questo aveva rinunciato a possibili
lavori con gente del calibro di Chris Farlowe e Joe Cocker. Lo stesso John Paul
Jones disse che di lì a poco avrebbe fatto un sacco di soldi: e infatti, in
poco tempo guadagnò due milioni di sterline! Gli Zeppelin, dopo la Scandinavia,
fecero ancora qualche data inglese (anche al noto Marquee di Londra) come “New
Yardbirds”. Quando infine esordirono con il nuovo nome “Led Zeppelin” (in un
primo tempo scritto “Lead Zeppelin”, da un’idea di Keith Moon, il batterista
degli Who, che intendeva formare un “super-gruppo” con membri degli stessi Who
e dei futuri Zeppelin), la scritta “ex Yardbirds” era comunque più grande della
scritta “Led Zeppelin” sull’insegna del locale dove si sarebbero esibiti. Ma la
mente di Grant e Page era già rivolta agli States, e, ottenuto un
vantaggiosissimo contratto con l’Atlantic Records, proprio nei giorni di Natale
volarono in America, accolti all’aereoporto da Richard Cole. Quella fu anche
l’unica volta in cui Peter Grant non partì con loro, con suo successivo grande
rammarico: decise che non sarebbe successo mai più.
Quello con gli USA fu amore a
prima vista: all’inizio il nome del gruppo compariva anche storpiato sulla
insegna dei club dove avrebbero suonato. Ma poco dopo i ragazzi impazzirono sia
per il disco appena uscito, sia per le loro esibizioni dal vivo. Jones raccontò
di essersi reso conto dell’effetto che avevano sul pubblico quando notò che
c’erano giovani che battevano addirittura la testa contro il palco, mentre loro
ci davano dentro. Steve Tyler, in seguito cantante degli Aereosmith, racconta
di aver pianto dopo aver visto gli Zeppelin in azione per la prima volta. E di
aver pianto di nuovo quando vide la sua ragazza uscire dalla stanza di Jimmy
Page!
Mentre a Plant e a Bonham non
sembrava vero di essere in America, Jimmy camminava impettito, sicuro di sé,
già ben nota star degli Yardbirds anche a quelle latitudini. Ma il gruppo stava
comunque bene insieme: era sempre unito, non solo sul palco, ma anche nei
locali dove andavano a mangiare e a bere. Al contrario di quanto si potrebbe
pensare, le due “coppie” interne alla band non erano erano Page e Plant da un
lato e la sezione ritmica dall’altro, bensì i ragazzi delle “Midlands” da una
parte (Plant e Bonham), e i più esperti “meridionali” di Londra (Page e Jones)
dall’altra, con conseguenti (affettuose) prese in giro reciproche. Robert e
“Bonzo” litigavano spesso, ma solo per stupidaggini, proprio come fratelli. E
si intendevano a meraviglia, anche senza parlare, cosa che non sarebbero stati
capaci di fare con gli altri della band.
L’intesa perfetta tra tutti e
quattro era in ogni caso soprattutto quella che si accendeva sul palco:
un’alchimia magica, che li portava ad andare nella stessa direzione e a fare le
stesse cose, gli stessi stacchi, anche senza averle mai provate prima. Fu così
che le versioni live dei brani assunsero una vita propria, con versioni diverse
(e molto dilatate) rispetto a quelle incise sui dischi.
Il secondo LP, intitolato “Led
Zeppelin II”(solo con “The House Of The Holy”, registrato nel ’72 ed uscito nel
’73, si sarebbero decisi a pubblicare un disco con un vero titolo) fu
praticamente registrato in vari studi sparsi qua e là, mentre erano in tour
negli USA.“Hearthbreaker”, addirittura, venne registrato in una sala, mentre
l’assolo di Page, contenuto nel brano,
fu inciso altrove (e infatti il suono è diverso). Plant compose finalmente il suo primo pezzo (“Thank You”),
anche se a farla da padrone sarebbe stato il micidiale riff di apertura
dell’album: quello di “Whole Lotta Love”, divenuto ben presto uno dei brani
hard rock più famosi della storia: Jimmy
Page l’avrebbe suonato anche in occasione della cerimonia di chiusura dei
giochi olimpici di Pechino, nel 2008, con il “passaggio di testimone” per
quelli di Londra del 2012, a rappresentare lo stesso Regno Unito! Per il terzo
disco (“Led Zeppelin III”) la band decise di cambiare registro: si trasferì con
famiglia, tecnici e strumenti a Bron-Yr-Aur, una tranquilla dimora in una zona
sperduta del Galles, senza corrente
elettrica né acqua corrente, e con le chitarre acustiche cominciò a comporre
brani più tranquilli, di matrice decisamente folk. Pezzi di questo tipo erano
in realtà presenti anche sugli album precedenti: solo che questa volta
occupavano una buona metà del lavoro! Ciò nonostante, il disco si
apriva con “Immigrant Song”, uno dei brani più devastanti della discografia
Zeppelin, utilizzato anche come inizio dei concerti del periodo ’71-’72. Tra
parentesi, nei loro 12 anni di carriera gli Zeppelin non tennero alcun concerto
negli anni 1974, 1976 e 1978. Solo quattro show nel 1979.
Su quel terzo disco erano presenti anche altri
brani “elettrici”, quali “Celebration Day” e “Out On The Tiles” (il cui inizio
si rivelò poi utile come apertura delle versioni live di “Black Dog”. E c’era
anche il lento, straziante, epico blues “bianco” intitolato “Since I’ve Been
Loving You”: catturato praticamente dal vivo, non si preoccupava di nascondere
qualche pecca (una nota dei bass pedals di Jones sbagliata, la cinghia della
cassa di Bonham che si sente fin troppo distintamente), in favore di una
spontaneità e di un’enfasi fuori dal comune: la voce di Plant comincia sui toni
bassi, per lanciarsi verso la fine in acuti da paura; l’organo di John Paul
(niente basso elettrico su questo pezzo) è straordinario; ogni colpo di cassa o
rullante di “Bonzo” suona come una sentenza, possente, implacabile. Page alterna arpeggi e
contrappunti delicatissimi ad un assolo sfrenato, a velocità forsennata, eppure
emozionante in ogni sua nota. il semplice (si fa per dire) controllo delle
dinamiche da parte di tutta la band per ottenere un risultato strepitoso. Anche
“Bron-Yr Aur Stomp” era nato come brano elettrico, per essere poi trasformato
in un incalzante “stomp” (appunto) acustico, utile anche per i concerti. Anche
“That’s The Way” (durante la registrazione della quale pare che Jimmy abbia
concepito la sua prima figlia) e “Tangerine” erano contraddistinti dalle
chitarre acustiche. E così l’ultimo brano (chitarra con il “bottleneck” e voce
con effetto “tremolo”), dedicato già nel titolo al cantautore Roy Harper. Quest’ultimo si era esibito ad
Hyde Park con i Jethro Tull e i Pink Floyd il 29 giugno 1968 (lo stesso giorno
in cui usciva il secondo LP di questi ultimi, “A Saucerful Of Secrets”, con
David Gilmour al posto di Syd Barrett). Roy avrebbe anche cantato “Have A
Cigar” su “Wish You Were Here” dei Floyd nel 1975, e avrebbe suonato con Page
nel 1984, sia su disco che dal vivo. Dal canto suo, Peter Grant, non permetteva che gli Zeppelin pubblicassero
singoli, né che andassero in TV. E così i filmati professionali che li
riguardano sono pochi: qualche pezzo ripreso alla TV danese, poco altro dalla
trasmissione francese “Tous en Scene”, un brano per il film “Supershow”: tutto
materiale dei primi mesi del 1969, tra l’altro.
Poi, su pellicola, la Royal
Halbert Hall del ’70 ed il Madison Square Garden del ’73 (quest’ultimo per il
film “The Song Remains The Same”). E qualche frammento di Sidney ’72. Per
fortuna esistono le riprese effettuate per i maxischermi durante i concerti di
Earl’s Court ’75, Seattle ’77 e Knebworth ’79. In ogni caso, filmati a parte, la
vera “pietra miliare” della discografia Zeppelin sarebbe venuta fuori sul
quarto album (di fatto senza titolo): piazzata spesso al primo posto nei
sondaggi riguardanti le canzoni più belle di tutti i tempi, “Stairway To
Heaven” si staglia imperiosa tra gli altri brani (comunque eccellenti): anche
qui, un grande lavoro di dinamiche, dall’inizio quieto e quasi celtico, con il
delicato, evocativo (e conosciutissimo) arpeggio di Page, il mellotron di Jones
(a simulare i flauti) e la voce morbida di Plant, fino all’esplosione
dell’assolo di chitarra (una Fender Telecaster sul disco, la mitica “doppio
manico” dal vivo), fino alla conclusione, con l’acutissima linea vocale di
Plant, che torna soffice solo sull’ultimissima frase, che suggella il brano
proprio con quello che è il suo titolo: “And she’s buying a stairway to
heaven”.
Fu proprio nel 1971 (il 5 luglio)
che gli Zeppelin suonarono per l’unica volta in Italia. Ma solo per 20 minuti!
Al velodromo Vigorelli di Milano era prevista infatti una delle tappe del
cosiddetto “Cantagiro” (con gruppi e cantanti che attraversavano il Bel Paese
al posto dei ciclisti del “Giro d’Italia”). Alla “tappa” di Milano il celebre
gruppo inglese, dopo una conferenza stampa, si sarebbe esibito in qualità di
ospite della serata. Quando però Page e soci cominciarono il loro show (un po’
in anticipo rispetto ai tempi previsti), i ragazzi ancora fuori dal velodromo
cominciarono a pressare per riversarsi all’interno della struttura.
La polizia reagì sparando i gas
lacrimogeni. Plant dovette interrompere lo show e, ignaro di quanto stesse
accadendo, sollecitò il pubblico a “smettere di accendere fuochi”. In quel
periodo gli Zeppelin, tra parentesi, portavano tutti la barba. Plant sfoggiava
una tunica colorata, e Page dei vistosi pantaloni a quadri. Sarebbe stato un bellissimo
spettacolo, ma la gente, ancora prima degli incidenti, era già ammassata non
solo sotto il palco, ma anche attorno e dietro (come testimoniano le foto di
quel giorno). Quando il fumo dei lacrimogeni
costrinse tutta quella massa di giovani ammassata nel velodromo a cercare
scampo in direzione del palco, la strumentazione finì per essere travolta, con
i roadies che tentavano disperatamente di salvare il salvabile. Gli Zeppelin
provarono una sola volta a riprendere lo show, ma la situazione era ormai fuori
controllo, e dovettero cercare rifugio nei camerini. In quell’occasione si
erano esibiti anche i New Trolls e i Pooh, ed anche questi ultimi dovettero
rinchiudersi nei camerini, senza per questo riuscire a sfuggire alle esalazioni
dei gas.
Robert Plant andò via in lacrime
(più per la rabbia che per i lacrimogeni), giurando “Mai più in Italia” (come
avrebbe titolato anche qualche giornale, dopo quegli sciagurati eventi). E
purtroppo così fu. Io stesso avrei visto Page e Plant, sempre a Milano, solo nel
giugno del 1995: ma non erano più i Led Zeppelin, appunto. Anche se suonarono
quasi tutti brani del vecchio “dirigibile” (con qualche sorpresa, come “Dancing
Days” e una “The Song Remains The Same” con tanto di chitarra “double neck”
rossa, come ai bei tempi).
Gli scontri tra polizia e
pubblico (soprattutto contro quelli che reclamavano “la musica gratis”)
finirono per protrarsi per tutti gli anni ’70, con scontri in occasione del
concerto dei Jethro Tull a Bologna nel ’73, i palchi di Lou Reed e Santana dati
alle fiamme (rispettivamente nel 1975 e nel 1977), più i “processi politici” a
Francesco De Gregori ed Antonello Venditti. I manager italiani (soprattutto
Zard, Mamone e Sanavio), che portavano in Italia i grossi gruppi stranieri,
venivano accusati di arricchirsi a spese dei giovani. Soprattutto, si
pretendeva che la musica fosse “di
tutti”, e che non si dovesse pagare per ascoltarla.
Gianni Nocenzi (del Banco Del
Mutuo Soccorso) si disse d’accordo, a patto che fosse il pubblico ad onorare le
cambiali per gli strumenti acquistati! I Gentle Giant, spesso in Italia,
cercarono di far capire che, tolte le spese, anche i musicisti dovevano poter
mangiare, e che la musica era il loro lavoro. La PFM subì un’aggressione, con
Franco Mussida pronto a fronteggiare i più esagitati stringendo la chitarra per
il manico, come fosse una clava. Nell’occasione Franz Di Cioccio, il batterista
della stessa “Premiata” (come veniva chiamato all’epoca la band) la mise sul
ridere: chiamò sul palco uno dei contestatori,
gli consegnò le bacchette e gli disse: “Ah, la musica è di tutti? E
allora suona tu”. Il risultato di tutto questo trambusto fu comunque che
l’Italia venne praticamente cancellata dai tour di tutti i grandi gruppi
inglesi e americani. I Van Der Graaf Generator, riformatisi nel ’75 (dopo lo
scioglimento del ’72) si fecero vedere solo perché riuscirono ad esibirsi sulla
riviera romagnola, in un clima di vacanze ed ombrelloni. Quando suonarono a
Roma, nel dicembre del 1975, però, tanto per gradire subirono il furto del
furgone con tutti gli strumenti dentro, e, nonostante fossero riusciti a
recuperare quel materiale, se ne tornarono a casa; sarebbero dovuti venire a
suonare anche a Catania, ma, dopo i fatti di Roma, tutte le date rimanenti di
quel mese vennero cancellate. E così il
sottoscritto li avrebbe visti solo 30 anni dopo, nel 2005, a Roma e a Taormina.
Di fatto il nostro Paese perse l’occasione di vedere i gruppi più grandi della
storia del rock proprio nel momento del loro massimo fulgore. I Genesis ed i
Jethro Tull si sarebbero rifatti vivi solo nel 1982, quando le acque si
calmarono. Ma ecco venirmi in mente qualche aneddoto un po’ più piacevole e
divertente riguardante i Malibran.
Una volta Jerry stava provando
una chitarra in un negozio di strumenti,
in Veneto, accennando qualche pezzo nostro: un cliente del posto, fan dei
Malibran, gli ha chiesto come facesse a conoscere quei pezzi, non
riconoscendolo come un componente del gruppo: Un po’ come se ( senza fare
paragoni! ) un fan degli Zeppelin sentisse un tizio suonare “Stairway To
Heaven” in un negozio, per poi scoprire che il tipo che suona è Jimmy Page in
persona! Una persona dal Brasile mi ha scritto di aver comprato per 7 volte il
nostro primo disco, perché, essendo
questo in vinile, rovinava tutte le copie a furia di ascoltarlo!
Un altro fan dal Messico, a
proposito del nostro live “In Concerto”, mi ha scritto che per lui noi siamo
come i Genesis, i King Crimson, o altri gruppi prog di questo livello:
esagerato! Un altro, dagli Stati Uniti, non si aspettava che il sottoscritto rispondesse
personalmente ad una sua mail, e solo per questo, mi ha confessato di essere
andato in giro tutto il giorno con un gran sorriso stampato in faccia. Un
giapponese mi comunica di aver appena visto il nostro disco d’esordio in un
negozio di Tokyo: lui comunque l’aveva già a casa. Ad un mio amico, in vacanza
in Messico, un tizio che vendeva dischi ha proposto il nostro primo album,
parlando di un’ottima prog band italiana.
Nel 1991 eravamo nel negozio
Black Widow di Genova (oggi anche etichetta discografica), pieno di nostri
estimatori che ci chiedevano di autografare il nostro primo disco (in vinile),
che era anche in vetrina: un ragazzo aveva già la sua copia a casa, ma pur di
averne una autografata, ne ha comprata un’altra sul posto; un altro aveva il
personaggio di quella copertina tatuato sul braccio (!).
Mentre eravamo sul palco negli
USA, tutti i cd nostri che ci eravamo portati dietro sono stati venduti in
pochi minuti. Quando abbiamo suonato alla Festa dell’Unità di Catania, nel
settembre del 1991, Carmen Consoli a fine concerto è salita sul palco ad
abbracciarci, urlando “ma dove (bip) la prendete tutta questa grinta?”.
Un fan dalla Germania ed uno dal
Nord Italia, pur avendo già tutti i nostri dischi, mi hanno richiesto “in
blocco” anche i 50 concerti inediti che avevo messo su CD! Arturo Stalteri dei
Pierrot Lunaire ( gruppo prog italiano anni ’70 ben noto ai cultori del genere
) ha scritto:”Mi piacciono i Malibran: oggi conduce programmi di musica
classica su Radio Rai 1, ma non ha affatto rinnegato il progressive.
Nel 1988 avevo registrato un suo
speciale in tre puntate tutto dedicato ai Jethro Tull, sempre sulla RAI. Mentre
suonavamo prima del Banco del Mutuo Soccorso, vedevo Vittorio Nocenzi godere
muovendo la testa, sul palco, dietro di noi, durante l’incalzante sezione
finale di “On The Lightwaves”: sulla mia macchina ha poi avuto bellissime
parole nei nostri confronti. Qualche ora prima con me in macchina c’era
Francesco Di Giacomo, in cerca di dolci da portare alla famiglia. Come, per un
fan degli U2, andare in giro con Bono e The Edge, per poi cenare insieme! Un
libro sulla PFM, poi, ci paragona a loro, riguardo la spettacolarità sul palco:
La PFM per gli anni ’70 e i Malibran per gli anni ’90.
Ian Anderson ha apprezzato il CD
italiano di tributo ai suoi Jethro Tull: come pezzo di apertura era stata
scelta la nostra versione di “Bourèe”, che è dunque il primo brano che ha
ascoltato. Un nostro estimatore romano ci ha visti suonare vicino Roma nel
1989: aveva 12 anni, ed era il primo concerto della sua vita! Due anni dopo è
venuto a vederci ancora, all’Alpheus (oggi “Planet”), sempre a Roma. E ci segue
ancora oggi.
Un fan dal Costarica, poi, pur avendo tutti i nostri dischi, mi ha chiesto
anche un bel pò di materiale inedito. Franz Di Cioccio mi ha inviato una e-mail
di congratulazioni per la nostra prevista partecipazione ad un festival in
Francia. Con il suo caratteristico slang “anglo-lombardo” si diceva "very
gasato", perchè stava partendo per Tokyo con la PFM (ne avrebbero tratto
"Live in Japan", 2002), preannunciandomi che avrebbe di nuovo
indossato il kimono, come negli anni '70...E l’ha fatto davvero! Un fan dal Belgio paragona la nostra suite,
“Le Porte del Silenzio” a “Supper’s Ready dei Genesis (!?). Ed il nostro dallo
stesso titolo (1993) viene inserito tra i 10 migliori del progressive italiano
degli anni ’90.
Tornando di nuovo indietro nel tempo, nei pensieri di Ian Anderson, agli inizi della
carriera dei Jethro Tull, c’era la presenza un po’ ingombrante di Mick
Abrahams. Quest’ultimo era un eccellente chitarrista, ma anche un cantante ed un’autentica “prima
donna”, che avrebbe voluto guidare la band e lasciare Anderson un po’ sullo
sfondo, durante i concerti, giusto per qualche intervento al flauto o
all’armonica. Ma fu Ian a divenire la vera figura di riferimento della band
(nata alla fine del 1967): un po’ per il suo carisma, e un po’ per quella
sua bizzarra idea di inserire il flauto
traverso (strumento utilizzato solitamente in contesti jazz o di musica classica)
in un gruppo rock-blues. Ian Anderson aveva in realtà cominciato con la
chitarra, ma, dopo aver visto Eric Clapton, si era reso conto che non sarebbe
mai riuscito a fare di meglio. Così rivolse la sua attenzione a quello strano
strumento argentato, esposto in un negozio, che non aveva mai visto prima.
Imparò “Serenade To A Cuckoo” (un brano strumentale di Roland Kirk) e migliorò
tantissimo nel giro di pochi mesi, utilizzando l’aggressiva tecnica di
“cantare” con la voce “dentro” le note che suonava, agitandosi davanti all’asta
del microfono e reggendosi su una gamba sola, tenendo l’altra sospesa a
mezz’aria: uno spettacolo nello spettacolo, che avrebbe contribuito non poco
alla fortuna sua e del gruppo.
I
Jethro Tull esordirono disco graficamente con un 45 giri accreditato
erroneamente ai “Jethro Toe”. E, fin dall’inizio del 1968, cominciarono a farsi
le ossa come band live suonando in giro per i locali ed i club
dell’Inghilterra. Soprattutto al ben noto “Marquee” di Londra, fino a quando
non riuscirono a conquistarsi lo “status” di attrazione principale: per
questo dedicarono un pezzo in bilico tra jazz e swing al proprietario del
locale (“One For John Gee”), al quale dovettero molto, al tempo dei loro primi
passi. Durante l’estate di quello stesso anno registrarono “This Was”, il loro
primo LP (nonché l’unico con Mick Abrahams alla chitarra): un lavoro
piacevolissimo, con poche sovra-incisioni, intriso di blues e di venature
vagamente jazz, con Ian e Mick a scambiarsi i ruoli di cantanti e di solisti,
ciascuno al proprio strumento.
Questo
è l’unico album della band a contenere due brani nei quali Ian Anderson non
compare: “Move On Alone” (cantata da Mick) e “Cat’s Squirrell”, che lascia
spazio alla chitarra distorta e di Abrahams, con il solo supporto della sezione
ritmica di Glenn Cornick al basso e Clive Bunker alla batteria: in questo pezzo
i Jethro Tull si trasformano in una sorta di “Power Trio”, tipo i Cream, la
Jimi Hendrix Experience o i Taste. Ed il lavoro del chitarrista di Luton è
comunque pregevole e raffinato su tutto “This Was”, tra assoli pregevoli ed eleganti
e sofisticati accordi jazz-blues. Non
era questa però la strada che la band avrebbe continuato a percorrere.
Abrahams
aveva ottenuto il suo spazio, “Cat’s Squirrel” era la sua passerella personale
per i concerti dal vivo; ma il gruppo stava per cambiare direzione, affidandosi
completamente alla guida (e al flauto) di Ian Anderson. L’ultima incisione di
Mick con la band è degli ultimissimi mesi del 1968, con il brano “Love Story”:
un singolo che, dall’altro lato (“A Christmas Song”) vede Ian Anderson
impegnato alla voce e al mandolino (strumento mai utilizzato su “This Was”),
accompagnato dai soli Clive e Glenn, oltre che da un bell’arrangiamento
d’archi. Oltre a Tony Iommi la band proverà anche il chitarrista dei Nice (il
gruppo di Keith Emerson prima degli ELP). Ma, alla fine, opterà per il
tranquillo e malleabile Martin Barre, dopo un’audizione (con “Nothing is Easy”,
in seguito sul loro secondo album) avvenuta alla fine del 1968.
All’inizio
la scelta non sembrò rappresentare un gran passo avanti rispetto all’abilità e
alla sicurezza di Mick Abrahams: nella registrazione del concerto insieme a
Jimi Hendrix (Stoccolma, 9 gennaio 1969) il nuovo chitarrista, un po’
impacciato (e ancora senza barba) non appare del tutto convincente. Poco dopo,
però, dopo il primo tour in USA, Martin Barre acquista sempre maggior
sicurezza, e per 40 anni (!) diverrà la fidata “spalla” di Ian Anderson.
Nel
1969 i Tull sono in giro per gli States
anche con i Led Zeppelin (Mick Abrahams non amava viaggiare: altro punto a suo
sfavore!): esiste anche una bella foto, coi Jethro Tull che impazzano sul palco
e John Bonham, seduto dietro di loro, intento a seguire il lavoro di Clive
Bunker alla batteria. Mentre erano in tour in America, fu Joe Cocker ad
annunciare loro che in Inghilterra erano arrivati primi in classifica con il
singolo “Living In The Past”. I Jethro Tull continuarono a suonare negli States
anche per tutto il 1970 (senza però mancare all’appuntamento dell’ Isola di
Wight, alla fine di agosto di quello stesso anno). Quando
però si concluse l’ultimo tour americano, a novembre, Ian Anderson decise di
“scaricare” Glenn Cornick: erano tutti all’aeroporto, in procinto di tornare a
casa, e Ian prese da parte Glenn, annunciandogli senza mezzi termini che era
fuori dal gruppo, e che sarebbe addirittura rientrato con un altro volo.
Possiamo immaginare con che stato d’animo quello che era stato fino a quel
momento il bassista dei Jethro Tull avrà fatto quel viaggio, da solo, dopo gli
anni di gavetta trascorsi insieme ai suoi compagni della band, i concerti, gli
hotel, i viaggi e le risate insieme…Ho parlato con lui di persona nel 2006, ma
ho preferito non toccare l’argomento, perché sapevo che Glenn Cornick non aveva
ancora dimenticato. E si può anche capire.
Glenn
anche riuscito a “sfiorare” il colpo grosso, arrivato con il successivo album
“Aqualung”, perché aveva fatto in tempo a registrare alcuni pezzi di quel
disco, poi rifatti nel febbraio del 1971 dal vecchio amico di Anderson, Jeffrey
Hammond Hammond, che sarebbe rimasto nella band fino al 1975. Uno dei ricordi
più belli per Glenn rimase comunque il festival gratuito di Hyde Park, come
detto, insieme a Pink Floyd e Roy Haper, il 29 giugno 1968. In
quei giorni non avevano pubblicato neanche il loro primo disco, ma, avendo
raccolto tanti estimatori suonando al Marquee ed in altri mille piccoli locali
britannici, ecco che avvenne qualcosa di inaspettato: tutti i loro fans si
raccolsero a quel festival, e quando un roadie salì sul palco, poggiando una
borsa, dal pubblico partì un boato: tutti sapevano che quella era la borsa
nella quale Ian Anderson teneva i suoi vari strumenti a fiato: era dunque “il segnale” che stavano per suonare i Jethro
Tull!
Gerry
Conway, un batterista amico di Clive Bunker (poi a sua volta nei Tull del
periodo ’81-’82), aveva saputo da quest’ultimo che suonava in una band che si
esibiva solo in piccoli locali, vedendo tutto questo, pensò di essere stato
preso in giro da Clive. La verità era invece che neanche gli stessi Jethro Tull si sarebbero
aspettati un successo simile a quel festival. E, in un giorno, passarono dallo
“status” di piccolo gruppo a quello di band importante sul serio. Per
inciso ad Hyde Park ‘68 i Jethro Tull (che stavano registrando il primo album
in quello stesso periodo) si esibirono di giorno, vestiti come nelle foto che
li ritraggono al Marquee il 3 maggio 1968, per quella che fu la loro prima data
come gruppo principale in cartellone (Ian con un giubottino corto, Glenn con il
cappellino, il nome del gruppo stampato in caratteri gotici sulla cassa della
batteria).
Qualche
mese dopo, al Sanbury Jazz Festival (agosto 1968) appariranno invece con gli
stessi abiti della copertina di “This Was” (escluso il trucco da vecchietti),
con Ian Anderson in cappottone verde e Glenn Cornick in gilet giallo e bombetta
rossa. Così come appaiono anche durante le riprese del “Rolling Stones Rock And
Roll Circus”, alla fine di quello stesso anno, con Tony Iommi alla chitarra.
Stranamente,
come nel caso degli Zeppelin, anche dei Jethro Tull non esiste molto materiale filmato degli “anni d’oro”: quasi niente, in
pratica, tra il 1970 ed il 1977 (finchè non è apparso metà dello show del 1976
a Tampa). Neanche per quanto riguarda gli anni del loro massimo successo, e
cioè quelli di Aqualung e Thick As A Brick, tra 1971 e 1972. Dopo aver
“liquidato” Glenn Cornick, Ian Anderson aveva fatto entrare nella band il suo
vecchio amico Jeffrey Hammond, al quale aveva già dedicato tre brani sui dischi
precedenti. Nel dicembre del 1970 i Tull registrarono con Jeffrey alcuni brani
per “Aqualung”, rifatti poi nel febbraio del 1971 direttamente per il disco,
che sarebbe uscito a marzo. Quando
dunque il gruppo arrivò in Italia per la prima volta, nel febbraio ’71 (con i
Gentle Giant come “gruppo spalla”), al teatro “Smeraldo” di Milano e al
Brancaccio di Roma, il disco non era ancora uscito, anche se quei pezzi
venivano suonati “on stage”. Ian Anderson iniziava il concerto con “My God”,
voce e chitarra acustica, quasi al buio, dicendo che i Jethro Tull si erano
sciolti e che avrebbe tenuto il concerto da solo. Frattanto gli altri del
gruppo scivolavano ai loro posti, nascosti nell’oscurità. E quando il brano
esplodeva, si accendevano le luci, partiva la batteria insieme a tutti gli
altri strumenti e Ian Anderson gettava per aria la sedia sulla quale aveva
iniziato lo show, aggredendo in piedi il microfono con il flauto e lasciando di
stucco gli spettatori con un impatto sconvolgente.
Due mesi dopo il batterista Clive Bunker lasciò la band e, con l’ingresso di
Barriemore Barlow, si ricostituì di fatto quella che era stata negli anni ’60
la John Evan’s band, sotto la nuova sigla di Jethro Tull, che era in realtà il
nome di un’agronomo del ‘600 inventore di una nuova macchina seminatrice. La
prima registrazione di Barlow coi Tull avvenne in occasione dell’EP “Life Is A
Long Song”, contenente quattro brani, quando era ancora il 1971. E, a seguito
del successo di Aqualung, Barlow si vide catapultato di colpo dai piccoli pub
inglesi alle grandi arene americane, di fronte a migliaia di persone. Quel disco,
per inciso, avrebbe dovuto intitolarsi “My God” (e a questo brano si
riferiscono le note di copertina, vergate in caratteri gotici): ma la vasta
diffusione di un bootleg dallo stesso titolo portò al cambiamento del nome, e
l’album si chiamò come il brano d’apertura, che parte con uno dei riff di
chitarra più conosciuti del rock dei seventies. In seguito, sempre nel 1972,
uscì la raccolta “Living In The Past”, contenente rarità, inediti ed
estratti dal concerto alla Carnegie Hall
di New York del 4 novembre 1970 (in seguito pubblicato per intero).
I
due album successivi, Thick As A Brick (1972) e A Passion Play (1973) erano
entrambi due concept album contenenti ciascuno un solo brano lungo quanto tutto
il disco (!). A seguito delle aspre critiche (ingiustamente) rivolte a
quest’ultimo lavoro, Ian Anderson decise di prendersi una pausa, ed i Tull si
ripresentarono (con look rinnovato) solo in occasione della conferenza stampa
(con annessa “photo-session”) del gennaio 1974 a Montreaux, per presentare il nuovo
progetto denominato “War Child”, che avrebbe dovuto essere sia un disco che un
film.
Il
film però non si fece mai, e rimasero solo alcuni brani orchestrali che
avrebbero dovuto far parte della sua colonna sonora. Un paio di brani di questo
nuovo disco (“Skating Away” e “Only Solitaire”) provenivano in effetti da
alcune registrazioni che la band aveva effettuato in Francia nel settembre del
1972, ma che aveva deciso di lasciare nel cassetto. Qualcosa di questo
materiale era anche stato utilizzato per “A Passion Play”. Quel disco inedito
registrato nei pressi di Parigi (un doppio album incompleto, di fatto rimasto
senza titolo) uscì solo in parte in occasione dei 20 anni della band, e quasi
per intero in occasione dei 25 (ma con un flauto aggiunto per l’occasione).
Infine, con il remix di Steven Wilson del 2014, il lavoro è stato finalmente pubblicato
nella sua interezza. Su War Child e Passion Play Ian Anderson fa per la prima
(ed ultima!) volta largo uso del sax (soprattutto di quello “soprano”, cioè
quello “dritto”, per intenderci). Utilizzerà il sax dal vivo fino al 1975, e lo
riesumerà solo per la (rara) traccia “Beltane” del 1977.
Anche
il suo costume di scena cambia completamente: non più il giaccone a scacchi
rossi e neri, per gli spettacoli del periodo ’74-’75, bensì un elegante quanto
surreale costume da principe del ‘500, con un sospensorio in bella vista,
capelli meno folti e barba più curata. Barlow adesso siede alla batteria con
canottiera e pantaloncini corti, John Evan con abito bianco e cravatta rossa (a
pallini bianchi!). Barre invece alterna una giacca “floreale” ad un'altra di un
rosso smagliante, mentre Jeffrey, come detto, fa sfoggio di abiti e strumenti “zebrati”. E se prima era
soprattutto Anderson a “fare scena” sul palco, adesso sono i componenti di
tutta la band a dimenarsi e a correre su e giù per il palco, nonostante la
difficoltà sempre maggiore delle partiture da eseguire. Sul palco viene anche
portato un quartetto d’archi tutto femminile, che viaggia con loro da una città
all’altra, in varie parti del Mondo, Australia compresa.
L’album
“Minstrel In The Gallery” (1975), registrato con il supporto di uno studio
mobile installato su un furgone rosso: è un ottimo lavoro, ma, a parte la
“title track”, non viene mai eseguito in concerto. Con “Too Old To Rock’n’
Roll, Too Young To Die” il bassista John Glascock (proveniente dai “Carmen”)
prende il posto del dimissionario Jeffrey Hammond (che preferisce tornare alla
sua antica passione per la pittura!) e rimarrà nei Jethro fino al 1979. Con lui
la band entra nel suo “periodo folk-rock”, registrando “Songs From The Wood (1977)
ed “Heavy Horses” (1978), in coincidenza con il trasferimento di Anderson (e
consorte) dalla vita di città a quella di campagna. Oltre alla musica, anche
l’aspetto del leader dei Tull subisce un nuovo quanto inaspettato cambiamento,
con Ian Anderson che si presenta in abiti da signore della campagna inglese,
con bombetta e gilet, capelli più corti, basette e pizzetto. Nonostante ci si
trovi in piena epoca punk, questa svolta folk viene salutata con favore dalla
critica. Ed
il suggello a questo periodo felice avviene sia con la pubblicazione del live
“Bursting Out” che con il concerto al Madison Square Garden di New York,
trasmesso in diretta “trans-oceanica” a beneficio di vari Paesi (Italia
esclusa!). Questo concerto (e questa tranche americana del tour) vedono però
Tony Williams al bassoal posto di John Glascock: quest’ultimo soffre infatti di
problemi al cuore, e, anche se tornerà con la band per i concerti negli States
dei primi mesi del ’79, riuscirà a registrare solo qualche pezzo per l’album
“Stormwatch”, di quello stesso anno. E in questo caso a sostituirlo sarà spesso
lo stesso Anderson. Glascock purtroppo morirà poco tempo dopo nel corso di un
intervento al cuore, e Barriemore Barlow, a lui molto legato, si ritroverà a
suonare piangendo quando il gruppo viene raggiunto dalla notizia mentre è in
tour. Il suo posto viene preso dal Dave Pegg, bassista dei Fairport Convention,
band amata da Page e Plant, che avevano voluto la loro cantante Sandy Denny
per “The Battle Of Evermore” sul quarto
album degli Zeppelin. A sua volta Pegg, come detto, era amico di John Bonham
fin dagli anni ’60.
Pegg
si divise tra i due gruppi fino al 1995. Poi decise di lasciare, rimpiazzato da
Jonathan Noyce. Ma quando entrò nei Jethro Tull, nel 1979, fece in tempo a far
parte della formazione che schierava ancora John Evan, Barriemore Barlow e
David Palmer. Quest’ultimo aveva arrangiato e diretto le sezioni orchestrali
dei brani di Ian Anderson fin dal 1968, ma solo dal 1976 era diventato un
componente del gruppo a tutti gli effetti. Ad ogni modo, nel 1980, Ian mischiò
le carte in tavola e cambiò la formazione per il disco “A” ed il relativo tour.
In effetti quello avrebbe dovuto essere un suo disco solista (“A” stava per
Anderson), ma la casa discografica lo convinse a farlo uscire come il nuovo
disco dei Jethro Tull, con Eddie Jobson e Mark Craney (violino e tastiere il
primo, batteria il secondo). E così Barlow, Palmer ed Evan appresero solo dai
giornali che non facevano più parte della band (!). Gli anni ’80 erano appunto iniziati,
e questo disco, come i successivi “Broadsword And The Beast” (1982), il primo
disco solista di Anderson (1983) e “Underwaps” (del 1984) sono più o meno
infarciti di suoni elettronici, a discapito del flauto, che quasi scompare. Un
disco avrebbe anche potuto uscire nel 1981, data la gran quantità di brani
registrati quell’anno: ma non sarà così, e tutto quel materiale riemergerà in
occasione delle celebrazioni dei 20 e 25 anni di attività del gruppo.
“Broadsword”
è un buon disco, ed il relativo tour è anche l’ultimo a vedere Anderson con la
voce e l’aspetto dei vecchi tempi. La sua voce comincia infatti ad avere
problemi dopo il tour di “Underwraps”, e nel 1985 i Jethro Tull tengono un solo
concerto, dedicato a J. S. Bach, a Berlino, con Eddie Jobson (lui e Craney
rimasero nella band solo nel periodo ’80-’81) in veste di ospite alle tastiere
per quella sola serata. Per inciso, questa è anche l’ultima occasione in cui
possiamo vedere Martin Barre con la barba. Anche
nel 1986 non ci fu altro che un breve tour estivo (denominato infatti “Summer
Raid”), compresa una data diurna a Milton Keynes (proprio il luogo della
reunion dei Genesis con Peter Gabriel) prima dei Marillion, che all’epoca, dopo
l’uscita dell’esplosivo “Mispaced Childhood” (1985) erano davvero sulla cresta
dell’onda (con conseguente beneficio per tutto il “movimento prog”, che vedeva
finalmente un gruppo suonare quel genere musicale riuscendo anche a vendere e a
scalare le classifiche).
I
Tull sembravano viceversa ormai sul viale del tramonto: anche fisicamente Ian
Anderson, pur non avendo ancora compiuto 40 anni, appariva come un vecchione
imbolsito, barba imbiancata, cappellino, pantaloni rigonfi ed un giubbotto di
pelle senza maniche a renderlo ancora più appesantito. Dopo “A” sia Jobson che
Craney erano stati sostituiti da Peter Vettese e Gerry Conway, a sua volta
rimpiazzato dietro i tamburi da Doane Perry (che, arrivato nel 1984, sarebbe
divenuto il batterista più “longevo” della storia del gruppo). Don Airey fu
alle tastiere per il tour del 1987, ma non sul disco di quell’anno, “A Crest Of
a Knave”, che segnò il “ritorno” dei Tull in grande stile, con brani
accattivanti quali “Budapest” e “Farm On The Freeway”, nuovi classici per gli
spettacoli dal vivo. E, dopo il tour del 1988 per il ventennale del gruppo, e
l’album “Rock Island” del 1989, coi Tull premiati quale migliore band heavy
metal (!?), ecco la rinascita: nel 1991 i Jethro Tull tornano in scena
incredibilmente ringiovaniti: Ian Anderson con un semplice gilet sul torso
nudo, muscoloso e scattante, coi pantaloni attillati come negli anni ’70;
Martin Barre, che pochi anni prima appariva come un attempato impiegato di
banca, di nuovo coi capelli lunghi, dimagrito e agile anche lui, con un
bellissimo suono di chitarra.
All’album
e al tour di “Catfish Rising” di quello stesso anno (con più strumenti acustici
e salutari folate di blues) seguì il triplo tour (!) nel 1992, il disco
semi-acustico dal vivo “A Little Light Of Music” e l’arrivo dell’ottimo Andy
Giddings alle tastiere. Quindi le varie celebrazioni per i 25 anni della band,
fra 1993 e 1994: box set, il doppio CD “Nightcup”, tour mondiale e Ian e Martin
ancora vivaci e con un look di accattivante. Brillanti, poi, gli inizi dei
concerti con la rivisitazione dei brani di inizio carriera: “My Sunday
Feeling”, in apertura, poi “For A Thousand Mothers”, quindi “Living In The
Past”, con Ian Anderson che irrompeva sul palco con una gioiosa giacca
multicolori. Questo periodo scintillante fu però anche l’ultimo per i Jethro:
l’album “Roots To Branches” del1995 fu seguito da un tour più dimesso, senza
più Dave Pegg al basso e con Anderson e Barre meno in forma.
Nel
1996 Anderson fu addirittura vittima di un’embolia ad una gamba che lo
costrinse alla sedia a rotelle per diverse date:durante il tour dei 20 anni,
all’inizio del concerto (quando io ebbi modo di vederli per la prima volta, nel
1988) usava per scherzo la carrozzina ad inizio concerto (a voler sottolineare
che erano diventati ormai troppo vecchi), per liberarsene subito dopo, alzandosi
in piedi per cantare una scoppiettante
“Cross-eyed Mary”. Adesso, invece, doveva usarla sul serio! L’album
successivo uscì solo 4 anni dopo, nel 1999: si intitolava “Dot Com”, era buono,
registrato bene, e con ottime spruzzate di prog. Ma sarebbe rimasto l’ultimo
disco dei Jethro Tull. Sarebbero seguiti altri lavori, su CD o DVD, in studio e
dal vivo, ma non si sarebbe più trattato di veri album composti da materiale
interamente inedito. Negli ultimi tempi, poi, anche l’inossidabile Martin Barre
ha lasciato la band, ed il suo leader si presenta ormai sotto la sigla “Ian
Anderson’s Jethro Tull”, lasciando intendere che il gruppo in quanto tale ha
chiuso i battenti. Dischi, foto e documenti filmati rimarranno a testimoniare
la grande forza che aveva questo gruppo.
Quando
apprendo che i Jethro Tull avrebbero suonato a Palermo l’8 luglio 2003 (prima
volta in Sicilia) al Teatro di Verdura (anfiteatro all’aperto, sorta di
“appendice estiva” del Teatro Massimo), mi attivo subito per “piazzare” i
Malibran come gruppo di apertura del loro show. Li avevo visti dal vivo
numerose volte, in giro per l’Italia, fin dall’estate del 1988. E, soprattutto,
erano da sempre il mio gruppo preferito. Dunque, esibirmi con loro sullo stesso
palco, magari conoscerli di persona, e poterlo fare davanti ad un pubblico
numeroso, presumibilmente “affine” al nostro tipo di proposta musicale, sarebbe
stato quanto di meglio avrei potuto chiedere!
Un’
operazione simile mi era già riuscita con il Banco del Mutuo Soccorso, 4 anni
prima, e dunque mi metto subito “al lavoro” per rendere concreta anche questa
possibilità: contatto Aldo Tagliaferro, presidente del “fan club” italiano dei
Tull, che conosce di persona Ian
Anderson & Co. Anzi, da semplice loro fan, Aldo è diventato un po’ il “referente
italiano” del gruppo: durante i tour, va a prenderli all’aeroporto, li
“scarrozza” in macchina da una città all’altra, li porta nei vari hotel,
ristoranti e tutto il resto. Tra
l’altro conoscevo Tagliaferro ancora prima che fondasse il “fan club” (e la
relativa rivista “Itullians”, cui ero abbonato), perché era lui (insieme ad
Aldo Pancotti, amico del Banco, e mio primo “gancio” per riuscire a suonare
insieme allo storico gruppo romano nel 1999) a farmi avere rare registrazioni
dei Jethro Tull. E Tagliaferrro conosceva già i Malibran. Mi metto anche in
contatto con la “Blue Sky”, l’agenzia che porta i Tull (e Steve Hackett) in
Italia: loro sono sempre gentilissimi, e, “in sinergia” con Aldo Tagliaferro si
cerca di rendere concreta la cosa: Malibran e Jethro Tull insieme a Palermo.
Passano mesi di telefonate, con conseguente alternanza di speranze e delusioni:
“si può fare”, “anzi no, ci sarebbe questo problema”, e così via. Alla fine
Aldo mi chiama, non mi trova, ma parla coi miei, ed io, al mio rientro a casa,
trovo un biglietto sul tavolo: “suonerete con i Jethro Tull”: wow, meglio del
biglietto vincente della lotteria di Capodanno! Si entra nei dettagli: Ian
Anderson ha apprezzato il CD di tributo ai Tull (“Songs for Jethro”), aperto da
una nostra versione di Bourèe. Ma pone delle condizioni: innanzitutto, non
dobbiamo essere una cover band dei Jethro Tull, ma un gruppo con una
discografia propria- E in effetti è così. In secondo luogo, io non posso
suonare il flauto: Ian Anderson non vuole infatti altri gruppi che suonino
questo strumento, tanto peculiare per il suono e l’immagine dei Jethro Tull,
prima che sia lui a salire sul palco.
La
cosa mi sembra comprensibile sotto vari punti di vista, e per noi non è un
problema: di fatto sono pochi i brani nei quali, dal vivo, io utilizzo il
flauto: dopo che Benny (il tastierista) ha lasciato i Malibran insieme a
Giancarlo (flauto e sax), io, oltre a cantare, con la chitarra devo anche
coprire i vuoti lasciati dai due “transfughi”. E dunque, dal momento che non
dovremo neanche tenere un concerto intero, sarà sufficiente non mettere in
scaletta alcuni brani. Ecco però in arrivo un altro guaio: Alessio, il nostro batterista (nonchè mio
fratello), quel giorno potrebbe non essere disponibile, e cominciamo a considerare
l’ipotesi di un sostituto. Ma come? Eravamo in sei e adesso diventiamo in tre,
più un batterista “esterno” che non conosce ancora i nostri pezzi? E questo
proprio nell’occasione più importante?
Comunque
la cosa si risolve: Alessio ci sarà, e si comincia ad entrare nei dettagli
tecnici: noi dovremo suonare 40 minuti e lasciare il palco ad una certa ora. Non
potremo usare la strumentazione dei Jethro, dal momento che verremo solo collegati
all’impianto principale. Dunque il mio amico Riccardo (del service “Moonlight”)
mi presterà i microfoni, mentre Ignazio (un altro amico) sarà al mixer per noi.
In cambio chiede solo se sarà possibile far entrare la moglie senza farla
pagare: giro la richiesta, che mi viene accordata. Per Ian Anderson, per lo
storico tour manager inglese della band e per quello italiano (Massimo) è tutto
ok, la cosa si farà.
Noi
ci limitiamo a fare una sola, normale prova, constatando che il nostro show
funzionerà anche senza il flauto. Sul giornale “La Sicilia” esce un paginone tutto
dedicato a questo concerto che abbina i siciliani Malibran e i leggendari
Jethro Tull, con belle foto a colori e biografie di entrambi i gruppi. Ma,
appena un paio di giorni prima della data tanto attesa, ecco una laconica
e-mail da parte del tour manager italiano, che mi comunica semplicemente quanto
segue: “per motivi tecnico-burocratici non potrete suonare con i Jethro Tull”. Ma
come, era tutto definito nei minimi dettagli, c’era l’ok di Ian Anderson e di
tutto l’entourage della band, e non
possiamo suonare? Chiamo il tour manager italiano, poi anche l’organizzatore
dell’evento a Palermo. E mi sento dire,
addirittura, che se suoneremo noi, non suoneranno neanche i Jethro Tull!
Alla
fine si scopre che l’agenzia “Blue Sky”, purtroppo, aveva pensato più che altro
al benestare di Ian Anderson, ma non a comunicare la partecipazione dei
Malibran agli organizzatori di Palermo, i quali avevano probabilmente saputo
della cosa proprio dal giornale, sentendosi “scalzati”, e senza essere in
possesso della necessaria documentazione (EMPALS, ecc.) riguardante noi. Otteniamo
solo il “contentino” di assistere gratis al concerto dei Jethro Tull, senza
gruppo di apertura (!).
Ci
andiamo comunque, con il macchinone di Jerry, e arrivati sul posto (dove vedrò
Steve Hackett l’anno seguente) sento Tagliaferro al telefono: lui è lì, ma non
riusciamo ad incontrarci. Riesce comunque a farci entrare senza pagare (e
vorrei vedere!). Il bello (si fa per dire) è che un tipo seduto davanti a me si
lamenta del fatto che non c’è un gruppo ad intrattenere il pubblico in attesa
dei Jethro Tull (!!!). Scherzando, quando qualcuno mi chiedeva se non ero
emozionato per il fatto che avremmo suonato insieme al mitico gruppo di Ian
Anderson, io, scherzando, rispondevo che
sarei stato soddisfatto solo quando i Jethro Tull avessero fatto da “gruppo
spalla” a noi! Ad ogni modo sul giornale del giorno dopo scrissero che i
Malibran avevano suonato prima dei Jethro Tull. Ma come li scrivono certi
articoli? Da casa? E’ vero, noi c’eravamo, ma tra il pubblico!
Personalmente,
in seguito, ho davvero suonato prima di Ian Anderson a Novi Ligure, nel 2006,
nel corso della Convention annuale di “Itullians”. La nostra versione di
“Bourèe si sentiva in diffusione, mentre io partecipavo come flautista a due
brani dei Jethro (“We Used To Know” e “Weathercock”, in qualità di ospite del
cantante-chitarrista Andrea Vercesi. C’erano anche gli ex Jethro Glenn Cornick,
Clive Bunker e Dave Pegg, più l’ex batterista dei Gentle Giant. Tutti avrebbero
suonato in serata, su un palco più grande.
Sempre
a proposito dei Jethro Tull, vorrei concedermi qualche considerazione a
proposito di Jeffrey Hammond, il bassista del loro periodo 1971-1975, vecchio
amico di Ian Anderson prima ancora di entrare a far parte di quella band che
decise poi di abbandonare, solo per tornare a dipingere (!). Ho letto più volte
che Jeffrey Hammond Hammond (con il secondo “Hammond” aggiunto all’epoca per
puro sfizio) sarebbe stato un bassista “mediocre”: ebbene, mi permetto di
dissentire: ascolto molta musica, suono io stesso, e proprio non riesco a
capire questo giudizio quantomeno affrettato: Quelli erano gli anni nei quali
la band si sbizzarriva nelle composizioni più difficili ed articolate: nessun
bassista “mediocre”, pur non componendo in prima persona quelle partiture,
avrebbe mai potuto eseguirle. E non solo in studio, ma anche dal vivo. La sola
“A Passion Play”, suite lunga un intero album, era una cosa complicatissima da
ricordare e suonare tutte le sere, senza una parte che si ripetesse due volte,
con una infinità di note e di passaggi
complicati. Eppure
Jeffrey suonava tutto con disinvoltura
ad ogni concerto, nonostante si muovesse come un pazzo sul palco, correndo su e
giù e incrociandosi di continuo con Martin Barre: perché, proprio in quegli
anni, non era il solo Ian fare lo show, bensì tutti e cinque i Jethro Tull,
impegnati a saltellare a destra e a sinistra sul palco come indemoniati. E con
Jeffrey abbigliato in quel suo modo assurdo: abiti di scena, basso e
contrabbasso, tutti a strisce bianche e nere durante il tour ’74-’75. Bassista
mediocre? Anche il basso del disco “War Child” è strepitoso. Così come quello
di “Thick As A Brick”. E che dire di “Minstrel In The Gallery?”: Tutti
ricordano che quest’ultimo suona quasi come un album “solo” di Ian Anderson,
nelle sue parti più acustiche. Ma in quelle elettriche? “Black Satin Dancer”,
“Cold Wind To Valallah” e la stessa “Minstrel in The Gallery” sono tre le cose
piu’ potenti che i Jethro abbiano mai fatto, con un suono di basso e batteria
poderoso, una vera macchina da guerra. Bassista mediocre? Per qualunque grande
bassista di oggi non sarebbe per niente facile suonare quei brani, facendo anche
spettacolo sulla scena. La verita’ è che i primi tre bassisti dei Jethro Tull,
Glenn Cornick (che ho conosciuto nel 1996), Jeffrey Hammond Hammond e John
Glascock sono stati tutti musicisti
meravigliosi e personaggi incredibili!
Tornando
ai Malibran, partiamo per gli USA dall’aeroporto di Catania i primi di ottobre
2000: lì trovo Carmen Consoli, che va a suonare a Bari: ci conosciamo da anni,
e la riprendo con la telecamera, facendole una finta, scherzosa intervista.
Lei, come sempre, mi chiama “Scaravilli”. Poi la lascio a farsi un po’ di foto
con un nugolo di ragazzine. C’è anche un mio ex compagno di banco del Liceo che
parte per il viaggio di nozze! Tra andata e ritorno, per suonare negli States,
dobbiamo prendere 6 voli (Catania-Roma-Newark-Raleigh, e poi Raleigh-Newark-Milano-Catania).
Ma
è bello attraversare l’Atlantico per andare a suonare la propria musica. E
pagati! Jerry porta con sé moglie e figlia di 7 mesi (così, in effetti, non
abbiamo un aspetto molto Rock…). Lui e Angelo sono gli unici a partire con i
propri strumenti personali, mentre io e gli altri utilizzeremo quelli che
troveremo in America. Per arrivarci voliamo per 9 ore sull’Oceano. Quando
arriviamo fa un gran caldo, e quelli del ProgDay Festival vengono a prenderci e
a trasferirci in hotel. Il palco è collocato in un prato verde, con una tettoia
di tipo Chiesa: la location si chiama “Storybook Farm”, ed è a Chapel Hill. La
gente, proveniente da vari Stati, ascolta i gruppi che si alternano,
provenienti da varie parti del Mondo (anche dall’India, o dalla Svezia…);
oppure passeggiano sull’erba, o comprano qualche CD negli stand sparsi qua e
là…alcuni ci conoscono e ci chiedono un autografo. Noi ci sdraiamo sul prato,
chiacchierando con Leonardo Pavcovich, che 2 anni dopo porterà la PFM in
Giappone (comparirà anche sul loro DVD, e verrà ringraziato al microfono da Franz
Di Cioccio). C’è un bel sole, ma per il giorno dopo (quando toccherà a noi) è
previsto un peggioramento: gli organizzatori chiedono a tutte le band se
preferiranno suonare in un luogo chiuso, ma tutti rispondono di no. Il giorno
dopo, in effetti, il clima è completamente cambiato: dall’estate all’inverno in
24 ore! Freddo, giubbotti, cappucci in testa e cioccolate calde.
Senza
la nostra strumentazione non abbiamo un gran suono, e fa talmente freddo che il
basso si scorda spesso; mentre io, dopo qualche pezzo, mi vedo costretto ad
indossare il giubbotto che avevo con me! Io, naturalmente, devo anche parlare
in inglese al microfono, improvvisando sul momento, presentando i brani, il
gruppo, e ringraziando per gli applausi, che non mancano. Il giorno dopo
andiamo a New York, questa volta in veste di semplici turisti: saliamo in cima
all’Empire State Building, entriamo nelle Twin Towers (senza immaginare che
verranno giù meno di un anno dopo) e vediamo più a distanza la Statua della
Libertà, il Madison Square Garden ed il Radio City Music Hall. Per
pura coincidenza incontriamo i Mary Newsletter, l’unico gruppo italiano
presente al festival oltre noi. E anche (ci eravamo divisi) Alessio e l’amico
Alfredo (che vendeva i nostri CD mentre suonavamo) al Central Park (!). Un tassista sudamericano
(anche lui musicista) ci porta in giro, e riesco a comunicare con lui
utilizzando un mix tra inglese e…il messicano dei fumetti di Tex Willer!
Il
tipo si dimostra una grande persona: dopo che ci ha lasciati all’aeroporto,
mentre il nostro volo per il rientro a casa sta per partire, Jerry si accorge
di aver dimenticato la sua chitarra sul taxi (!). Ma il tassista, invece di
tenerla per sé (era anche un musicista), appena si accorge di avere ancora con
sé lo strumento, fa il giro dell’aeroporto e riesce a raggiungere Jerry, che
correva di qua e di là, cercando
disperatamente di contattarlo (ci aveva lasciato il suo numero di telefono).
Alla fine l’abbraccio fra i due è quasi commovente!
Mentre
sono ricoverato in ospedale, nel 2012, apprendo della morte di Jon Lord, il
tastierista dei Deep Purple: un brutto colpo per me, che ascolto questo gruppo
fin da piccolo: li avevo visti per la prima volta a Cava dei Tirreni (1988),
nella formazione di “Made in Japan”, e suonavo i loro pezzi ad ogni concerto
coi Deep South. Ion Lord, a parte la sua vena blues e hard rock, aveva anche composto l’intero “Concerto For
Group and Orchestra”, occupandosi delle partiture di tutti gli strumenti, per
il famoso concerto alla Royal Albert Hall del settembre 1969 (con Ian Gillan
alla voce al posto di Rod Evans). Era rimasto nella band fino allo scioglimento
del 1976; ed era di nuovo al suo posto quando i Purple avevano di nuovo acceso
i motori, nel 1994, per poi lasciare nei primi anni 2000. Ma, ancora più triste
per me, si rivelerà la scomparsa di Francesco Di Giacomo, voce del Banco Del
Mutuo Soccorso, nel febbraio del 2014.
Il
29 agosto 1999 i Malibran avevano diviso infatti il palco con il Banco. La data
avrebbe dovuto in verità essere solo nostra: con più tempo per il nostro show,
ed un compenso maggiore. Ma mi era stata offerta l’occasione di suonare insieme
ad un gruppo di rilievo: io avevo sempre amato il Banco, ed avevo anche un
contatto a Roma che avrebbe potuto portarmi fino a loro: dunque non avevo avuto
dubbi nella scelta. In effetti, tramite questa persona, infatti, che conosce
personalmente sia me che i componenti del Banco, riesco a tessere la tela che
renderà fattibile quello che un tempo avrei creduto irrealizzabile: poco tempo
dopo, eccomi al telefono con il loro manager. E,
successivamente, con Vittorio Nocenzi e Rodolfo Maltese, che sono in macchina:
la cosa è quasi surreale, perché parliamo come se ci conoscessimo già. “Ti
passo Vittorio”mi dice Rodolfo. Ed ecco quella voce bassa e pastosa: La stessa
che recitava “Lascia lente le briglie del tuo Ippogrifo, O Astolfo”, proprio
all’inizio del primo disco del gruppo (A.D. 1972). Con la piccola differenza
che adesso sta parlando con me, mentre io sono a casa. La cosa ancora più
strana è che io, forse proprio per la cordialità e la semplicità con la quale
Vittorio mi parla, non mi sento emozionato più di tanto, e comunico con lui e
Rodolfo come se fossimo “colleghi di musica” da anni. Ci risentiamo, e parliamo
dell’aspetto tecnico del concerto: naturalmente suoneremo prima noi, e Vittorio
Nocenzi mi chiede se sarà possibile fargli trovare qualcosa per reggere le
tastiere, o non so cos’altro. La mattina del 29 andiamo a prenderli all’aeroporto,
io e Giancarlo dei Malibran, più un amico, che si presta gentilmente ad
ospitare qualcuno della band nella sua macchina.
Avevo
conosciuto Rodolfo Maltese prima del concerto del Banco alle Ciminiere di
Catania, nel 1997. In quell’occasione era rimasto un po’ sorpreso, qunado lo
avevo anticipato, dicendo di sapere della loro esibizione al teatro Malibran di
Venezia del 1975. Ma non credevo che mi avrebbe subito riconosciuto, due anni
dopo. E invece, appena mi vede, il suo volto barbuto si illumina in un ampio
sorriso, ed alza il braccio per salutarmi, segnalandomi così che sono arrivati.
Quella stessa estate hanno suonato in Messico, accolti come star. Qui nessuno
ci importuna ed io, oltre a parlare con loro e con Carlo Di Filippo, il loro
fidato fonico (eccezionale il suono di “Nudo”, nella parte live registrata a
Tokyo), mi metto pure a fare le riprese. Chissà
perché, temo che Vittorio Nocenzi possa infastidirsi. E invece lui saluta! Fa
un gran caldo, e mentre viaggiamo in macchina alla volta di Belpasso (dove si
suonerà la sera stessa), il cielo è tutto azzurro. Li lasciamo a riposare in un
albergo del paese, ma chiacchierando ancora un po’ nella hall. Lì Francesco mi
racconta che suo suocero gli diceva: “Si, vabbè, ho capito, tu suoni…ma di
mestiere…che fai?”. Il tutto sottolineando la parola “mestiere”, come se la
musica non potesse essere anche questo, ma solo un passatempo. Solo quando
aveva realizzato che il cantante del Banco si era comprato casa sua coi
proventi di quel “passatempo” si era finalmente reso conto che di musica si
poteva anche vivere!
Nel
frattempo io ricordavo quando, da piccolo, avevo visto il Banco in TV ed avevo
appreso nome del cantante dalla sua stessa voce, al microfono, quando,
presentando uno per uno i componenti del gruppo, aveva concluso dicendo: “Ed
io, Francesco Di Giacomo”. Doveva essere più o meno il 1980 e Rodolfo suonava
anche la tromba. Adesso “Big” Francesco indossa una maglietta nera con la
copertina del disco in cui si vede lui stesso lanciare per aria una scarpa
(“Banco”, 1975, coi testi in inglese di brani del primo e terzo disco, edito
dalla “Manticore” degli E.L.P.): un ricordo della recente trasferta messicana.
Nel 2006, invece, prima di un loro concerto a Cittanova (in Calabria) mi
racconterà di essersi ritrovato ad alloggiare in un postaccio senza doccia,
vedendosi costretto a lavarsi con un secchio d’acqua e, credo, usando un
detersivo per lavare i piatti al posto del bagnoschiuma! Sempre nel 2006 saremo
di nuovo con il Banco al festival di Andria, ma loro suoneranno la sera dopo di
noi, che divideremo il palco con Il Balletto di Bronzo. Ad ogni modo, a
Belpasso torno a casa e mi riposo.
Nel
pomeriggio, ecco la sorpresa del brutto tempo. Ma come, di mattina il sole
spaccava le pietre e adesso, a poche ore dal concerto, si mette a piovere? Non
solo: è arrivato il camion con tutta la loro strumentazione, e ha trovato il
palco “recintato” da assi di legno, che impediscono di scaricare il tutto. Mi
chiama il manager e mi intima che, se il palco non sarà facilmente accessibile,
il Banco non suonerà. Giusto per stare tranquilli! Così contatto un addetto al
Comune, il quale, per fortuna, riesce a far rimuovere quelle stupide ringhiere
di legno e ferro. Il tempo è ancora incerto, ma adesso non piove e porto Francesco
Di Giacomo ad un bar che conosco, non lontano dalla piazza dove in serata
terremo il concerto: vuole prendere dei dolci tipici da portare a casa. E nel
frattempo mi racconta un sacco di cose. Anche che, mentre suonava in un locale
in Germania (presumo con “Le Esperienze”) ha conosciuto un tipo chiamato Richie
Blackmore (!). Il tutto prima della nascita sia del Banco che dei Deep Purple. Mi
manifesta stima nei confronti di Piero Pelù, mentre torniamo dal bar alla mia
vecchia Panda grigia. Ed è in quel momento che noto un particolare cui non
avevo fatto caso, vedendolo sul palco: trascina un piede. E non è più grosso ed
imponente come una volta. Un’immagine che mi aveva colpito fin da bambino,
quando non lo avevo neanche mai ascoltato. E che anche mio padre riconosce, pur
ascoltando esclusivamente musica classica: Vede quell’immagine e dice: “Banco”. E
anche mio padre li vedrà, quella sera, e alla fine commenterà, semplicemente,
che il paese neanche se lo sarebbe neanche meritato un gruppo di quel livello. D’altro
canto sento anche alcune ragazzine sedute dietro il palco, lamentarsi
confabulando tra loro e dicendo “Ma chi sono questi? Non potevano portarci
Nek?” Peggio in un’altra occasione, a Centuripe: Banco Del Mutuo Soccorso sul
palco, e altre ragazzine a strillare: “Respiri piano per non far rumore…”.
E’
stata l’unica volta in cui ho visto Francesco, davvero stizzito, voltarsi verso
Vittorio Nocenzi e sbottare in un “A Vittò…” che diceva tutto. A Belpasso,
invece, l’unico problema può essere rappresentato da un’eventuale, malaugurato
acquazzone, dal momento che il cielo non promette niente di buono. Comunque io
sono sul palco e filmo le prove del Banco, e il Di Giacomo che si intrattiene
con alcuni fan del posto, compreso qualche amico mio. Anche a Cittanova 2006
riprenderò le loro prove, oltre a parlare con Tiziano Ricci (il bassista) del
loro show pomeridiano al concerto del 1° maggio 2002 in Piazza S. Giovanni, con
Morgan E John De Leo ospiti. A Cittanova avevo anche consegnato a Francesco un
CD contenente una mia versione di “Canto di Primavera”, e poi avevo filmato
tutto lo show, che si sarebbe aperto da “Metamorfosi” (e che dunque avrebbe
visto Francesco entrare in scena solo dopo 10 minuti di musica esclusivamente
strumentale). Avevo parlato con lui già dopo un loro concerto del 1991, mentre
mi facevo fare un autografo per me e la band: a quel punto lui mi aveva
chiesto: “Ma tu lo sai chi era la Malibran?”, riferendosi alla cantante d’Opera
dell’800, aggiungendo: “E pare che morì cadendo da cavallo…Ah, se allora ce
fossero stati i taxi…”.
All’interno
del teatro Nino Martoglio di Belpasso ci cambiamo, sia noi che i componenti del
B.M.S: i camerini sono diversi, ma le porte non sono chiuse e possiamo anche
guardarci a vicenda, senza problemi. Quando mi ritrovo sul palco, so che
suonerò la chitarra utilizzando l’amplificatore di Rodolfo Maltese, mentre
Alessio suonerà la batteria di Maurizio Masi. Dovevamo essere noi a prestare
qualcosa al Banco, e invece, sta succedendo il contrario!
In
una cosa, però, siamo loro d’aiuto: proprio per il bis finale (“Non mi
Rompete”) Rodolfo Maltese ha bisogno del capotasto per la chitarra, ma non lo
trova: chiede se ne abbiamo uno noi, e Jerry gli consegna subito il suo.
Rodolfo è salvo! Dietro di me Vittorio Nocenzi mi sollecita a partire
immediatamente con il nostro show: se piove e non si è ancora iniziato a
suonare, nessuno verrà pagato! Così cominciamo, praticamente senza fare sound
check (del resto mi fido di Carlo Di Filippo al mixer). La piazza è piena, ma
non quanto avrebbe potuto esserlo, se il tempo fosse stato migliore.
Laura,
la mia ex ragazza, vorrebbe fare le riprese con la mia videocamera, ma
quest’ultima è chiusa in macchina, e non ho il tempo per cercare le chiavi:
attacchiamo, e suoniamo bene. Durante la parte finale di “On the Lightwaves”, sul tempo dispari, con Jerry che
si scatena nel suo assolo, intravedo Vittorio Nocenzi accovacciato dietro di
noi, che gode come un pazzo muovendo la testa a tempo ed agitando i capelli: un
grande! A fine concerto (nostro e del Banco) sarà lui a salire sulla mia
macchina, per andare a mangiare qualcosa nel pub poco più sopra della piazza:
si congratula con noi, parla bene di Jerry, aggiungendo che siamo comunque
tutti bravi. Detto da lui, devo crederci per forza! Mentre
suonavano loro, invece, io cantavo tutte le canzoni insieme a Laura:
bellissimo! Al tavolo del pub, nel cortile interno, sono con Vittorio
accanto, e Rodolfo di fronte: dunque
parlo a lungo con entrambi. Rodolfo è una splendida persona, e non mi nasconde
la sua gioia per il privilegio di poter vivere facendo della sua passione il
suo lavoro (tempo dopo mi invierà i suoi auguri di Natale). Al pub non mangiamo
molto, perché a quell’ora la cucina del locale è ormai chiusa.
Ci
rifaremo l’anno dopo: io e Giancarlo andremo a vedere Francesco cantare pezzi
dei Beatles (e qualcosa del Banco) a Caltanissetta, accompagnato da un semplice “duo” acustico
(compreso Rodolfo Maltese): alla fine dello show, gentilmente, Di Giacomo
ringrazierà anche “i Malibran”. E questa volta ceniamo insieme come si deve,
parlando di musica e di qualsiasi altra cosa. E’ in questa occasione che lui
sbotta in un simpatico: “E mò basta cò stò Darwin, vojo cantà Papaveri e
papere!”. Durante il Festival di San Remo del febbraio 2014, quando Fabio Fazio
comunica in diretta che Francesco ci ha lasciati quello stesso giorno (un
malore mentre guidava, con conseguente incidente stradale), io avevo appena
spento la TV, e apprendo il tutto la mattina dopo.
Il
pubblico dell’Ariston, alla notizia, si era alzato in piedi ad applaudire,
mentre veniva mostrata una sua immagine. Vittorio, che lo aveva visto poco
prima dell’incidente, viene a conoscenza del fatto attraverso una telefonata, e
in un primo momento aveva pensato ad uno scherzo. “Non mi svegliate, ve ne
prego, ma lasciate che io dorma questo sonno”, sembrava invece cantarci già da
altri luoghi Francesco Di Giacomo, soprannominato da quanti gli erano più
vicini “Capitano, mio capitano”(dal film “L’attimo fuggente”). Il Banco
deciderà di proseguire perché, citando ancora una loro canzone, quel progetto è
“Un’idea che non puoi fermare”. Nonostante sia a tutti ben chiaro che “Dopo,
niente è più lo stesso”.
Viceversa,
pur essendo parte a tutti gli effetti del cosiddetto “progressive rock”, i Van
Der Graaf Generator hanno fatto (e continuano a fare) semplicemente musica dei
Van Der Graaf Generator. Il primo disco, “The Aerosol Grey Machine” (1969)
avrebbe dovuto essere pubblicato come disco solista del giovane cantante
(nonché chitarrista e pianista) Peter Hammill, ma, alla fine, uscì a nome della
band. Per anni, in Italia, si nutrirono anche dubbi se questo lavoro esistesse
davvero (!), e divenne reperibile solo nel 1974.
Nell’album
successivo al bassista Keith Ellis subentrò Nic Potter e, soprattutto, il
sassofonista e flautista David Jackson, che divenne una sorta di icona non solo
“sonora”, ma anche “visiva” della band, con la sua caratteristica precipua di
suonare due sax elettrificati contemporaneamente, seminascosto dai capelli
lunghi che venivano fuori da un berretto di pelle con visiera e dagli occhiali.
Quando
Potter abbandonò il gruppo, i VdGG non lo sostituirono, utilizzando per le
frequenze basse i pedali dell’organo di Hugh Banton. Si costituì in questo modo
la formazione “classica” che schierava Hammill, Banton, Jackson ed il
funambolico batterista Guy Evans. Il brano “Killer” fece furore soprattutto in
Italia, e la band rappresentava l’attrazione principale del “Six Bob Tour” del
1971, che portava in giro per il Regno Unito
sia loro che Audience e Genesis (nei quali si era aggiunto da poco Steve
Hackett). Scherzando Peter Hammill amava ricordare che su quel “tour bus” davanti
sedevano i Genesis coi loro cestini da pic-nic, al centro gli Audience con le
birre, e in fondo loro, con le droghe! Vero o no che sia l’aneddoto, la loro
musica alternava momenti di caos ad altri molto melodici, se non addirittura
strazianti. E a Peter capitava davvero di avere le lacrime agli occhi, mentre
cantava in sala di registrazione.
Per
il resto la sua voce, a volte soffusa, veniva più spesso travolta da un’enfasi
rabbiosa, con note tenute lunghe e potenti, in grado di mandare in frantumi i
bicchieri. O i timpani, a seconda dei gusti. Il punto era comunque che si
trattava di un gruppo rock senza né la chitarra elettrica, né il basso (una
specie di contraddizione in termini), ma capace di sprigionare un fragore ed un
impatto mai sentiti prima. Lo stesso Jackson, quando imparò a collegare i suoi
sax all’impianto di amplificazione, era rimasto impressionato (e quasi
travolto) dalla potenza che riusciva a sprigionare coi suoi strumenti, facendo
quasi fatica a gestire e controllare quei suoni!
Ancora
in Italia il grande successo arrivò con l’album “Pawn Hearts”: il disco
conteneva solo tre brani (altri sarebbero riemersi in ristampe successive), ma
uno di questi era la lugubre suite “A Plague of Lighthouse Keepers”: una
lunghissima cavalcata sonora ricca di stacchi, cambi di dinamiche, timbriche e
indovinati chiaro-scuri, che indusse Peter Hammill a ritenere, quando il gruppo
ascoltò per la prima volta l’intero pezzo, che a quel punto avrebbe anche
potuto morire.
Stranamente,
però, i Van Der Graaf non misero mai in scaletta questa suite, se non durante
l’apparizione alla TV Belga del 1972. Decidendosi a farlo, infine, solo nel
2013 (!!!). Durante il loro primo tour italiano, nel 1972, mentre si recavano
in macchina al luogo nel quale si sarebbero esibiti, videro una folla enorme e
chiesero dal finestrino cosa accidenti stesse succedendo. “Suonano i Van Der
Graaf Generator!” fu la risposta. Non se lo aspettavano. Come già i Genesis e i
Gentle Giant, fu nel nostro Paese che raccolsero i primi grandi consensi di
massa. Nonostante ciò quello stesso anno decisero di sciogliersi (per motivi
mai chiariti del tutto).
Peter
Hammill proseguì con la sua carriera solista (mai abbandonata, in verità), e
nel dicembre di quello stesso 1972 aprì i concerti de Le Orme, mentre David
Jackson, l’anno successivo, accompagnò in tour un Alan Sorrenti non ancora
“figlio delle stelle”. Nei lavori solisti di Hammill, comunque, gli altri
componenti della band continuavano a partecipare, e nel 1975 il gruppo tornò
insieme, su disco e in tour: Godbluff (1975), Still Life (1976), World Record
(ancora 1976: il disco che li ha fatti conoscere al sottoscritto, e che li ha
portati per la prima volta negli USA.
Dopo
questo breve ma intenso “tour de force” di fatto il gruppo si scioglie di
nuovo: per lo meno, perde Banton, Jackson ed anche la parola “Generator” nel
proprio nome. Torna la chitarra acustica di Hammill (abbandonata nel periodo
’75-’76), mentre il violino sostituisce il sax, con conseguente, inevitabile
mutamento del sound complessivo. Il maestoso organo di Banton, in ogni caso, in
quella che era ormai diventata l’era del punk, sarebbe risultato probabilmente fuori
luogo.
I
Van Der Graaf Generator manterranno negli anni il loro felice rapporto con
l’Italia: mentre sono in tour dalle nostre parti, nel ’72, ascoltano volentieri
in macchina i gruppi rock italiani: come detto, Peter Hammill aprirà da solo il
tour de Le Orme nel dicembre di quello stesso anno, e nel 1973, oltre a tornare
a farci visita in veste da solista, curerà la versione inglese del disco
“Felona e Sorona”, delle stesse Orme. David Jackson vi aggiungerà anche un sax,
ma le sue registrazioni verranno sciaguratamente cancellate.
Paradossalmente,
invece, David Jackson, pur fuori dalla formazione del gruppo con violino e
violoncello, è presente su entrambi i dischi pubblicati dai nuovi “Van Der
Graaf”: i suoi strumenti a fiato (anche se poco e male) possono sentirsi
infatti sia sul disco in studio (1977) che in quello dal vivo (1978), mentre il
gruppo riesce a conservare una sua credibilità pur con il cambiare dei tempi
(il cantante dei Sex Pistols, che usava esibire la maglietta con la scritta
“odio i Pink Floyd”, verrà notato fare la fila per uno show dei Van Der Graaf),
mentre gli altri “dinosauri” del rock più “magniloquente” venivano massacrati o
dimenticati dalle nuove leve della critica musicale. Anche se, in verità, erano
sempre i Pink Floyd, Genesis e Led Zeppelin a riempire gli stadi, e non certo i
Sex Pistols, i Damned o i Clash. Con tutto il rispetto, si intende.
Ad
ogni modo anche questa incarnazione del gruppo guidato da Peter Hammill cessa
la sua attività nel 1978, per decidersi a riprenderla quasi trent’anni dopo
(!), nel 2005, con nuovo disco e relativo tour, nella classica formazione di
“Pawn Hearts” (io riuscirò a vederli a Roma e a Taormina). Quello però è anche
l’unico anno che vede David Jackson far parte della squadra: per motivi mai del
tutto chiariti (di nuovo!) i Van Der Graaf Generator proseguiranno fino ad oggi
in trio. Rimanendo insieme, a volerci far caso, più in tempi recenti che negli
anni ’70!
I
Van Der Graaf Generator hanno mantenuto negli anni il loro rapporto speciale
con l’Italia: mentre sono in tour dalle nostre parti, nel ’72, ascoltano
volentieri in macchina i gruppi rock italiani: Peter Hammill aprirà da solo il
tour de Le Orme nel dicembre di quello stesso anno. E nel 1973, oltre a tornare
a farci visita in veste da solista, curerà la versione inglese del disco
“Felona e Sorona”, delle stesse Orme. David
Jackson vi aggiungerà anche un sax, ma le sue registrazioni verranno
sciaguratamente cancellate. Inoltre farà parte degli Osanna per qualche tempo,
qualche decennio dopo (!). L’uomo “dal doppio sax”, come detto, non ha mai
capito perché il pubblico italiano degli anni settanta andasse pazzo per i
gruppi inglesi, dal momento che ha sempre ritenuto quelli italiani di livello
addirittura superiore.
E
le band italiane dell’epoca (solo successivamente ricondotte nell’alveo del
cosiddetto “rock progressivo”) vedevano infatti tra le loro fila gruppi di
successo internazionale, quali Premiata Forneria Marconi e Banco Del Mutuo
Soccorso. Ma anche innumerevoli altri gruppi di grande qualità, che incidevano
dischi (a volte uno solo, in seguito “oggetto di culto” per appassionati e
collezionisti), quali Biglietto Per L’Inferno (che, a dispetto del nome,
avrebbe visto il suo istrionico cantante, Claudio Canali, diventare in seguito
frate cappuccino), Trip, New Trolls, Delirium (con Ivano Fossati sul disco
d’esordio). E ancora Quella Vecchia Locanda, Acqua Fragile, Raccomandata con
Ricevuta di Ritorno (ebbene si, andavano di moda i nomi corti), Balletto Di
Bronzo, Rovescio Della Medaglia, Metamorfosi, i Saint Just con la grande voce
di Jenny Sorrenti, Celeste e tanti altri. Oltre ai già citati Osanna e Le Orme.
I
Semiramis avevano in formazione un giovanissimo Michele Zarrillo, in seguito
cantante di successo in ambito di musica leggera. Ed anche Giampiero Artegiani,
che avrebbe poi scritto il testo di “Perdere l’amore” per Massimo Ranieri.
Buoni ultimi, ma solo in ordine di tempo, i componenti de “La Locanda Delle
Fate”, che, con il loro “Forse Le Lucciole Non Si Amano Più, 1977) avrebbero di
fatto chiuso la stagione di questo genere musicale (prima della sua rinascita
). Come detto, anche il primo Alan Sorrenti era parte di questo “movimento”
(non solo musicale), al pari del Franco Battiato dei dischi più sperimentali.
Michele
Zarrillo partecipò ai vari festival dell’epoca coi Semiramis, con il loro unico
album, “Dedicato a Frazz” (nome composto dalle iniziali dei cognomi dei singoli
componenti): aveva solo 15 anni, ma sembrava
più grande della sua età: alto, con la sua Gibson SG ed una gran massa
di capelli ricci. Fece anche in tempo a diventare il cantante del “Rovescio
della Medaglia”, prima che questa formazione si sciogliesse.
Il
Biglietto Per L’Inferno pubblicò l’album omonimo nel 1973, caratterizzandosi
per gli accenti più hard rock, la voce e la presenza scenica del sopracitato
Claudio Canali (anche al flauto e al flicorno), ed il discreto successo del
brano “Confessione” (“Non posso salvarti dal fuoco eterno, hai solo un
biglietto per l’inferno”). Registrarono
anche un secondo disco, prima del definitivo scioglimento del 1975. Era “Il
Tempo Della Semina”, che però vide la luce solo nel 1992, pubblicato dalla Mellow
Records (l’etichetta di gran parte dei dischi dei Malibran) in una versione che
non era quello che avrebbe dovuto rappresentare il prodotto definitivo, con
suono e missaggio non all’altezza. Un lavoro comunque apprezzabile, anche se
inferiore al primo. Non esistono filmati d’epoca del “Biglietto”: erano stati
ripresi dalla TV svizzera, ma non è stato possibile recuperare quel documento.
Una registrazione dal vivo del 1974 (solo audio) è però riemersa qualche tempo
fa, mentre si esibivano nella loro città natale (Lecco) di spalla agli UFO.
Un
episodio divertente vide Claudio Canali prendersi un grande spavento quando,
risvegliatosi in macchina al posto del passeggero, vide il suo collega di band
dormire beatamente al volante: terrorizzato, gli urlò di svegliarsi subito, ma
non si era accorto che la loro auto, avendo subito un guasto mentre lui
dormiva, giaceva sopra un carro-attrezzi
che procedeva tranquillamente sulla strada!
Un
altro episodio esilarante riguardò i Metamorfosi: con il loro ottimo album “Inferno”
avevano trasposto in musica episodi dalla “Divina Commedia”, “aggiornando” i
dannati descritti da Dante in più moderni spacciatori di droga, politicanti,
ecc. Alla fine della rappresentazione il
cantante Jimmy Spitaleri (ancora oggi
con gli stessi capelli lunghi, lisci e biondi che sfoggiava all’epoca) doveva
finire sulla sedia elettrica: ma in un’occasione, quando scese sotto il palco (
per poi ricomparire sulla sedia elettrica) si smarrì in un meandro di corridoi,
non trovando più la strada per tornare in scena: e così l’esecuzione avvenne
senza di lui! A parte questo piccolo “infortunio” quel disco era molto valido,
guidato dalla voce possente e minacciosa dello stesso Spitaleri, e da lugubri e
maestosi suoni d’organo, senza che si sentisse affatto la mancanza della
chitarra elettrica. Anche la copertina, con le figure dolenti dei dannati
disseminate non nel fuoco, bensì in un paesaggio ghiacciato, è molto bella,
indovinata e ricercatissima dai collezionisti. Come
molti gruppi dei rock progressivo italiano degli anni ’70, anche i Metamorfosi
si sono riformati, e coi Malibran eravamo allo stesso festival di Andria nel
2006. Tra le “vecchie glorie” c’erano anche gli Osanna, il Balletto di Bronzo
ed il Banco Del Mutuo Soccorso. Jimmy Spitaleri, tra l’altro, sarebbe diventato
(ma solo per qualche anno) il cantante de Le Orme. Anche La Locanda Delle Fate
è tornata sulla scena, realizzando nel 2010 il suo DVD ufficiale al Bloom di
Mezzago (Milano), dove coi Malibran io stesso ero stato nel 2003. Ed anche il
Museo Rosenbach si è riunito, sempre con Giancarlo Golzi (dei Matia Bazar) alla
batteria.
I
Goblin conobbero il successo soprattutto grazie alle colonne sonore che resero
ancora più tenebrosi i film di Dario Argento (“Profondo Rosso”in primis). Insomma,
tante di quelle band degli anni ‘70 sono tornate, mentre alcune non si sono mai
sciolte. C’è però da chiedersi se siano ancora sufficientemente credibili Le
Orme senza la voce ed il basso di Aldo Tagliapietra, il Banco senza la voce ed
il volto di Francesco di Giacomo o la PFM senza Franco Mussida. Figure troppo
“identificative” perché la loro assenza (avvenuta per ragioni diverse) possa
non lasciare un segno. E questo, beninteso, senza nulla togliere al rispetto
dovuto alla voglia di continuare e di rimettersi in gioco di tutti questi
storici gruppi.
Del
1973 è anche il terzo album del Banco, “Io Sono Nato Libero” (il primo con
Rodolfo Maltese alla chitarra, seppure in veste di ospite), ispirato, nel suo
splendido “Canto Nomade Per Un Prigioniero Politico”, al golpe militare
avvenuto quello stesso anno in Cile. Ma ricordato soprattutto per il successo
della più accessibile (ma pur sempre bellissima) “Non Mi Rompete”.
Fuori
dal coro, non possiamo dimenticare gli incredibili (e non facilmente
etichettabili) Area, guidati dalla stupefacente voce di Demetrio Stratos
(purtroppo spentasi per sempre nel 1979). E, in ambito più accostabile al jazz
rock, gruppi quali Il Perigeo (che i Weather Report non vollero più come gruppo
spalla, perché ritenuti troppo bravi!), Il Baricentro e Napoli Centrale (con il
sax di James Senese, che avrebbe introdotto nella band un giovane Pino Daniele
come bassista, per poi seguirlo a sua volta negli anni del grande successo di
quest’ultimo).
Tornando
per un attimo a Demetrio Stratos (già ne “I Ribelli” all’epoca del “beat” anni
‘60), quando si ammalò e venne ricoverato a New York nel 1979, all’Arena Civica
di Milano si tenne un concerto (poi divenuto anche un disco) che riuniva una
moltitudine di artisti per raccogliere fondi al fine di pagare le cure mediche
necessarie. Quando però la notizia della morte di Stratos (a sentire Mauro
Pagani, Demetrio era il cognome e Stratos il nome, contrariamente a quanto si
potrebbe pensare) quel concerto si trasformò in una raccolta fondi per la
vedova. Anche in quell’occasione non mancarono né il Banco, né la PFM.
La
Premiata Forneria Marconi (PFM) aveva mosso i suoi primi passi già negli anni
’60, con il nome di “I Quelli”, suonando nei brani di grande successo di Mina e
Battisti, ma ottenendone molto poco a proprio nome. Curiosamente, anche il
futuro comico Teo Teocoli fu per un breve periodo il loro cantante. E furono
sempre loro (non ancora PFM) a suonare su “La Buona Novella” di Fabrizio De
Andrè, nel 1970 (prima del loro rinnovato connubio per il tour a cavallo tra
’78 e ’79, di enorme successo (così come il disco dal vivo che ne sarebbe stato
tratto). Con l’ingresso di Mauro Pagani (flauto e violino), e l’esplosione del
nuovo “verbo” musicale (in seguito denominato “Prog”), la band prese il nome di
“Forneria Marconi”, con l’aggiunta di “Premiata” (quella forneria esisteva
davvero, tra l’altro) e cominciò ad aprire i concerti dei grossi gruppi
stranieri di passaggio in Italia (Yes, Deep Purple, ecc.). Erano soliti suonare
pezzi famosi di gruppi stranieri quali King Crmson e Jethro Tull, più loro
improvvisazioni strumentali. Quando finalmente eseguivano il loro unico pezzo
cantato in italiano, e dalla struttura ben definita (“La Carrozza Di Hans), il
pubblico capiva che non si trattava di una band inglese, ma italianissimo!
Nel
1971 quel pezzo sarebbe uscito come lato B del loro primo singolo: il lato A
conteneva invece quello che si sarebbe rivelato il loro più grande successo di
sempre: quella “Impressioni di Settembre” che, con il suo celebre motivo di
“Moog” al posto di un più canonico “ritornello”, ed il bellissimo testo di
Mogol, sarebbe diventata il simbolo stesso di un’epoca irripetibile. Nel 1972
sarebbe uscito il loro primo disco, contenente entrambi i titoli del singolo,
ma anche “E’ festa” (più nota nella versione inglese, ribattezzata
“Celebration”), vale a dire l’altro inno immortale (una sorta di trascinante
tarantella prog-rock) della PFM. Era ancora il 1972 quando uscì anche il
secondo lavoro, “Per un amico”, altrettanto bello. Ed anche il gruppo romano
Banco del Mutuo Soccorso, nel corso di quello stesso 1972, riuscì a pubblicare
entrambi i suoi capolavori: “B.M.S.” (con la famosa copertina a forma di
salvadanaio) e “Darwin”: un periodo di creatività veramente incredibile!
Per
il tema “chiave” di “Impressioni di Settembre” quelli della PFM cercavano uno
strumento adatto, che non poteva essere né la chitarra, né il flauto o il
violino. Trovarono questo strumento appunto nel neo-nato “Moog” (dal cognome
del suo inventore), un piccolo strumento con tastiera e manopole varie, in
grado di creare anche questo suono arioso, sintetico, eppure ricco di vivacità
e gioia. Lo scoprirono ascoltando “Lucky Man” degli ELP, ma non avevano i soldi
per acquistarlo.
Proposero
dunque al rivenditore di farglielo utilizzare per il brano: se dopo la
pubblicazione del singolo il tipo fosse riuscito a venderne almeno dieci
esemplari, avrebbero potuto tenere lo strumento. E così fu. Anche il mellotron,
che, viceversa, simulava soprattutto “tappeti” d’archi o di ottoni (una sorta
di orchestra simulata, tutta dentro una tastiera molto pesante da portarsi
dietro in tour) fu utilizzata in Italia dalla PFM “in anteprima”, rispetto agli
altri gruppi. Anche se poteva già ascoltarsi sui primi lavori di King Crimson e
Genesis. Ad ogni modo, con “Photos of Ghosts” la band italiana cominciò ad
acquisire la sua “statura internazionale”, con la versione inglese di alcuni
brani dei primi dischi. A quel punto Patrick Djivas, bassista del primo disco
degli Area, rimpiazzò Giorgio Piazza: durante una jam session all’Altro Mondo
di Rimini, infatti, Franz Di Cioccio si trovò talmente bene con lui sul palco,
da proporgli su due piedi di passare armi e bagagli con loro. E Djivas, più
interessato alla musica (e al crescente successo della PFM) che all’impegno
politico degli Area, accettò, suonando su “l’Isola di Niente”, del 1974, e
andando con loro in tour negli Stati Uniti quello stesso anno. Il disco “Live
in USA” documentò questa esperienza incredibile, con un gruppo italiano, che, senza
pizza e mandolini, era in grado di fare bene quanto gli artisti coi quali si
ritrovò a confrontarsi nel corso di vari festival americani. E anche meglio.
Diversi
pezzi di quel disco dal vivo furono registrati al Central Park di New York,
proprio durante il festival che vide anche l’ultimo concerto dei King Crimson
degli anni ’70. Già nel 1973 la PFM aveva partecipato al noto festival di
Reading, in Inghilterra (coi Genesis in cartellone): ma quella volta
“sforarono” coi tempi, e la corrente elettrica venne staccata dal palco senza
tanti complimenti, prima che il gruppo
riuscisse a portare a termine il proprio show (!). Oltre
che in Italia continuarono a suonare all’Estero (Giappone compreso) fino al
1977. E, tra il 1975 (con l’album “Chocolate Kings”) e i primi giorni del 1979
ebbero Bernardo Lanzetti (già vocalist degli Acqua Fragile) come cantante “di
ruolo”. Viceversa, Mauro Pagani lasciò la PFM senza astio nel 1976 (per inciso
l’astio ci fu invece con Lanzetti), sostituito prima da Greg Bloch (solo per
l’album “Jet Lag” e relativo tour, nel 1977), e in seguito da Lucio Fabbri (dal
1979 in avanti). Furono quasi sempre presenti ai vari festival che si svolsero
in Italia in quegli anni: uno dei più noti fu quello del Parco Lambro, tenutosi
dal 1974 al 1976.
Ma,
PFM a parte, i festival di musica “progressiva” che si susseguirono nel nostro
Paese furono tantissimi. Solo per citare i più noti: Terme di Caracalla, Re
Nudo, Avanguardia e Nuove Tendenze (a Viareggio nel 1971 e a Roma nel 1972) e
Villa Pamphili. Con la possibilità per tantissimi gruppi di mettersi in mostra
(alcuni pur senza essere riusciti a pubblicare un solo disco) anche a fianco di
ospiti stranieri quali i Van Der Graaf Generator. In qualche modo l’edizione
1976 del Parco Lambro sancì la fine di tutto, con politica, droga, scontri,
polemiche e “cattive vibrazioni” a
prendere il sopravvento sulla musica. Proprio come era avvenuto nel 1970
all’Isola di Wight rispetto al festival di Woodstock dell’anno precedente.
Beppe
Crovella, tastierista degli “Arti e Mestieri” (apprezzata band in bilico tra
jazz-rock e prog, appartenente al giro degli Area e della loro etichetta
“Cramps”) ebbe modo, per qualche bizzarra coincidenza, di vedere nel 1972, in
Italia, sia i Genesis che i Van Der Graaf Generator proprio nelle loro due più
“strambe” esibizioni: era infatti tra il pubblico proprio in occasione del
concerto che i Genesis tennero praticamente senza Tony Banks (in cattive
condizioni di salute), quando riuscirono ad eseguire solo quattro pezzi. Ed
assistette anche all’esibizione dei VdGG che vide la band di Peter Hammill
costretta ad un improvvisato show acustico
a causa della mancanza della corrente elettrica (!). In seguito Crovella
avrebbe fondato l’etichetta “Electromantic”, pubblicando anche qualcosa dei
Malibran (un CD ed un DVD).
Gli
Area erano dei talentuosi musicisti che si erano ritrovati a suonare insieme
per un brano dell’album solista di Alberto Radius (chitarrista dei Formula 3,
il gruppo che accompagnava Lucio Battisti). Il brano si intitolava proprio
“Area”. E da lì partì il progetto. Con
Patrizio Fariselli alle tastiere, Giulio Capiozzo alla batteria, Paolo Tofani
alla chitarra, Patrick Djivas al basso, più Stratos alla voce e Busnello ai
fiati, diedero alle stampe il loro primo LP nel 1973, intitolandolo con la
stessa scritta (“Arbeit Macht Frei”) che campeggiava sopra il campo di
concentramento di Auschwitz (che, tradotto, significava beffardamente “Il
lavoro rende liberi”). Schierati apertamente a favore della causa palestinese,
composero subito quello che sarebbe diventato il loro inno: “Luglio, Agosto,
Settembre (nero)”.
Quando
Djivas passò alla PFM venne sostituito dall’altrettanto bravo Ares Tavolazzi
(che in seguito avrebbe lavorato anche con Francesco Guccini). La musica degli Area era complessa e spaziava
tra jazz-rock, musica elettronica, balcanica, etnica (la futura “world music”)
e popolare (“International Popular
Group” era la dicitura posta sotto il nome del gruppo). Viceversa, la band non
avrebbe mai amato di vedersi ricondotta nell’alveo del “progressive rock”.
Inoltre, come la PFM, anche gli Area si riferivano a sé stessi in terza persona
(“Area ha detto”, “Area ha fatto”…). Quel tipo di composizioni molto articolate
non avrebbe potuto lasciare in teoria molto spazio alla voce di Demetrio
Stratos, figura imponente e dai lunghi capelli sfilacciati Ma lui riusciva ad
inserirsi comunque, anche perché spesso si esprimeva con vocalizzi senza
parole, come se la sua voce fosse uno strumento come gli altri. Aveva studiato
(ed insegnato) tutte le possibilità e le potenzialità della voce umana, e, dopo
aver lavorato sugli antichi canti delle popolazioni mongole, era anche in grado
di emettere due voci contemporaneamente (!). Di
certo è stata la voce maschile più impressionante della musica italiana.
Stratos era di origini greche, ma si era trasferito in Italia da piccolo, ed
aveva uno spiccato accento romagnolo. Ne “La Luna Rossa” però cantava in greco,
mentre ne “La Mela Di Odessa” (con tanto di mele “vere” morsicchiate sul palco)
raccontava la storia di cui parla il brano, più che cantarla.
Sempre
impegnati politicamente, gli Area si presentavano in scena con il pugno alzato
prima di cominciare a suonare, e terminavano lo show con una stralunata versione de L’Internazionale: e
questa volta era il pubblico ad ascoltarli con il pugno alzato. Spesso si
esibivano gratis alle numerose Feste dell’Unità. Durante
il brano “Lobotomia” (come testimoniato dal film sul Parco Lambro ’76) Patrizio
Fariselli scendeva tra il pubblico portando con sé un cavo, collegato alle
“diavolerie” elettroniche di Tofani: quando le persone toccavano questo cavo,
venivano emessi suoni di diversa “altezza” ed intensità, permettendo così alla
band di “interagire” con il pubblico e di farlo in qualche modo partecipare in
prima persona alla propria performance.
Il
disco “Crac!”, del 1974, con un uovo rotto da un cucchiaino in copertina,
rimase il loro disco più accessibile e con brani più strutturati in maniera
“canonica”, soprattutto con la scanzonata (almeno nella musica) “Gioia e
Rivoluzione”, nella quale Stratos cantava “il mio mitra è un contrabbasso che
ti spara sulla faccia…”, ed una chitarra acustica che suona pochi accordi,
allegri ed “orecchiabili”. Molto complesso, ma formidabile, invece, il basso di
Tavolazzi sui brani di altri dischi, come “Il bandito del Deserto” (sull’ultimo
LP degli Area con Demetrio) e L’Albero Di Canto (sul disco solista di Mauro
Pagani). Nel
1977 la RAI TV trasmise uno speciale in bianco e nero con gli Area impegnati a
presentare il loro album “Maledetti!”, pubblicato l’anno precedente. Però non
c’erano più né Tavolazzi al basso, né Capiozzo alla batteria: al posto di
quest’ultimo compariva un giovane Walter Calloni, che pochi anni dopo sarebbe
entrato nella PFM, quando Di Cioccio passò dai tamburi al microfono (proprio
come nel caso di Phil Collins coi Genesis!). Demetrio suonava anche l’organo
Hammond, e spesso, quando gli Area suonavano insieme agli Arti e Mestieri, lui
e Beppe Crovella (che il sottoscritto conosce bene) si prestavano a vicenda i
rispettivi strumenti. Anche Francesco Di Giacomo mi ha parlato con nostalgia
delle conversazioni avute insieme a Demetrio dietro il palco di qualche
concerto. L’ultimo album degli Area con la voce di Stratos fu “Gli Dei Se Ne
Vanno, Gli Arrabbiati Restano”, del 1978. E quello stesso anno gli Area
parteciparono al primo disco di Mauro
Pagani. Quest’ultimo in seguito collaborò con Fabrizio De Andrè, tornando con la
PFM solo per il “Concertone” romano del 1998 in Piazza S. Giovanni, e poi per
la speciale reunion di Siena del 2003: uno spettacolo intero in Piazza del
Campo, pubblicato sia su CD che su DVD.
Gli
Area andarono a suonare in Portogallo (esiste un disco che documenta questa
loro “trasferta”) e con Mauro Pagani furono anche a Cuba. Di recente si sono
esibiti di nuovo con l’ex PFM in veste di ospite, dal momento che anche loro si
sono riformati: Fariselli, Tavolazzi, un giovane batterista e Tofani. Quest’ultimo,
Hare Krishna dagli anni ’70, appare oggi calvo e piuttosto ingrassato, ma molto simpatico. Io ho avuto modo di vederli
nella formazione in trio, con Giulio Capiozzo, ma senza Paolo Tofani. Nel 1995,
in un’altra occasione mi sono fatto fare una foto con lo stesso Capiozzo, il
batterista originale degli Area, purtroppo scomparso qualche anno dopo. Memorabile rimane comunque il gigantesco
concerto organizzato all’Arena Civica di Milano nel 1979, che vide sul palco,
tra gli altri, gli stessi Area omaggiare il talento e la personalità del loro
vecchio compagno.
Lasciando
l’Italia, come già avvenuto nel caso di Ian Gillan con i Deep Purple, anche
Peter Gabriel, coi Genesis, annunciò con largo anticipo che avrebbe lasciato la
band alla fine del tour in corso. In questo caso, come accennato sopra, si
trattava dei concerti che promuovevano il disco “The Lamb Lies Down on
Broadway”: dal vivo il doppio album veniva presentato nella sua interezza, come
una sorta di musical rock multimediale (una storia unica con le immagini dei
tre maxischermi dietro la band, i costumi di Peter, ecc.). Il disco però uscì
in ritardo e, soprattutto negli USA, il pubblico non riusciva a raccapezzarsi
con quella musica mai sentita prima e quella storia claustrofobica e poco
comprensibile. Soltanto in seguito si sarebbe compreso che si trattava di un
autentico capolavoro.
All’epoca,
però, la gente avrebbe voluto ascoltare i pezzi degli album precedenti. E
veniva accontentata soltanto durante il bis finale, con “The Musical Box” e
“Watcher of the Skies ( solo in qualche occasione anche con “The Knife”).
Alla
fine di ogni concerto, tutti andavano dietro le quinte a complimentarsi con
Peter Gabriel per la sua grande performance, ignorando del tutto il resto della
band. E lasciando Phil Collins a rimuginare: “Ehi, ma che succede? Siamo un
gruppo, abbiamo suonato bene, io ci ho dato dentro dando il massimo… e ora
vanno tutti da Peter? In qualche modo la carriera solista di quest’ultimo era
già cominciata, e nella band qualcosa si ruppe. La tensione era nell’aria. Io
stesso ho avuto modo di vedere un manifesto d’epoca recante la scritta: “Peter
Gabriel e i Genesis” (!).
Purtoppo
nessuno dei circa cento concerti del tour di “The Lamb” venne filmato
professionalmente. Tra l’altro quel tour partì tempo dopo la data inizialmente
prevista a seguito di uno strano incidente occorso a Steve Hackett: questi,
durante un party, udì qualcuno dire che il tale gruppo non sarebbe valso nulla
senza il suo leader: nella sua mente fu come sentir dire che i Genesis non
sarebbero stati nessuno senza Peter Gabriel. Il pugno di Steve si chiuse con
rabbia sul bicchiere che teneva in mano, ed il chitarrista si ritrovò in
ospedale. Fra l’altro, al parto difficile di quel disco si sovrappose quello
(non in senso figurato) della moglie di Gabriel: la loro figlia neonata
rischiava di non sopravvivere. Era finita in un’incubatrice, e Peter mise al
primo posto la famiglia rispetto al gruppo.
E
non trovò la comprensione che si sarebbe aspettato da parte degli altri. Doveva
guidare per un sacco di chilometri tra l’ospedale e lo studio di registrazione,
in Galles, per portare a termine il nuovo disco. E si sobbarcò la stesura di
tutti i testi, dal momento che l’idea dell’intero progetto era sua. Qualcosa
tra lui ed il gruppo (ed in
particolare tra lui e Tony Banks) si ruppe proprio in quei giorni. La
separazione era di fatto già avvenuta. La carriera solista di Peter Gabriel
avrebbe avuto inizio nel 1977. Quella di Steve Hackett nel 1975, mentre era
ancora nella band. Quella di Phil Collins, con un successo planetario, nel
1981.
Uno
show in qualche modo assimilabile a “The Lamb” (un’unica storia, un doppio
album portato per intero in concerto come una sorta di musical rock, con
immagini proiettate, personaggi vari, ecc.) fu “The Wall” dei Pink Floyd,
portato in tour tra il 1980 ed il 1981 (diversi spettacoli in poche città). A
differenza dei Genesis, però, i Floyd non avrebbero concesso alcun bis, e dopo
il roboante crollo finale del muro (costruito man mano durante lo spettacolo,
fino a nascondere gli stessi musicisti al pubblico) si andava tutti a casa.
Di
fatto fu questo l’atto finale della band insieme a Roger Waters (autore di
tutto il progetto), con il tastierista Rick Wright ormai “stipendiato” come gli
altri musicisti (o coristi) esterni alla band, ed i componenti di questa che,
dietro le quinte, nemmeno si parlavano. Il successivo “The Final Cut”, pur
pubblicato a nome Pink Floyd, può infatti essere considerato quasi un album
solista di Waters, con l’apporto di Gilmour (che canta in un solo brano) e
Mason (che non suona neanche su tutti i pezzi). E il disco non fu supportato da
alcun tour.
Molto
diversa la situazione quando la band mosse i suoi primi passi, dopo la metà
degli anni ‘60: David Gilmour non c’era ancora (sarebbe entrato nei Floyd solo
con il secondo disco, “A Saucerful of Secrets”), ed il gruppo era guidato dal
geniale Syd Barret, chitarrista, cantante e compositore. Fu con Barret che il
gruppo firmò per la EMI e pubblicò i primi singoli e, nel 1967, il caleidoscopico
album d’esordio: una spruzzata di colori e creatività psichedelica tradotta in
musica. Fu lo stesso Syd a dare alla band il nome Pink Floyd, dai nomi dei
bluesman di colore Pink Anderson e Floyd Council (famosi solo per questo, in
verità!).
Il
gruppo si esibiva spesso al club “Ufo” di Londra, dalla notte all’alba, davanti
ad un pubblico di giovani che vivevano appieno l’era della “Swinging London”,
tra diapositive colorate, droghe di ogni tipo, abbigliamenti stravaganti (o
nudità artisticamente dipinte): insomma, la cornice ideale per la musica
ipnotica dei primi Floyd, che sarebbe bastata da sola a portare i presenti in
un altro mondo, senza neanche che si capisse quale strumento creasse un suono
piuttosto che l’ altro: lunghissime improvvisazioni strumentali, volutamente
poco intellegibili e del tutto fuori dai canonici schemi della forma canzone,
che portavano via con sé gli stessi musicisti, oltre che il pubblico presente
in sala.
Poi
però avvenne qualcosa: semplicemente (e tristemente) il giovane, bello e
talentuoso Syd Barret impazzì. Forse qualche dose di troppo di LSD (che
comunque in quei contesti era di uso comune) aveva enfatizzato una qualche
latente forma di malattia mentale. Nessuno lo ha mai capito con certezza. Fatto
sta che, quando a qualcuno fu chiesto di andare a cercare Syd, che sembrava
scomparso, questi fu trovato a casa. E non era più lui. Il suo sguardo si era
spento, come se all’interno della sua testa qualcuno avesse premuto un
interruttore: “click”, ed il giovane Barrett, talentuoso, creativo e simpatico,
non c’era più. E mai sarebbe tornato.
Gli
altri del gruppo tentarono di tenerlo ancora nella band, ma il loro vecchio
compagno magari non si presentava ad un concerto, rispondeva in modo sconnesso
durante qualche intervista televisiva. O non muoveva le labbra quando avrebbe
dovuto mimare un brano in playback. Durante qualche concerto lasciò il braccio
a penzolare sulla chitarra senza prendere accordi, facendo risuonare le corde a
vuoto, producendo solo un gran rumore. Così, una volta, quando arrivò il
momento di andarlo a prendere per una serata, gli altri Floyd decisero che
sarebbe stato meglio lasciarlo a casa e sbrigarsela da soli, liberandosi
dall’ansia di non sapere quel che avrebbe potuto combinare. Waters e Mason studiavano
insieme architettura al Politecnico di Cambridge, mentre Syd e David Gilmour
erano amici, ed avevano fatto un viaggio insieme in Francia. Così
fu Gilmour “ a prendere il posto di Barrett. Come si disse allora, “i Pink
Floyd non sarebbero mai nati senza Syd Barrett, ma non avrebbero potuto
continuare con lui”. Eppure uno schiacciante senso di colpa avrebbe per sempre
graffiato l’anima degli altri componenti del gruppo, che sentirono di aver
abbandonato l’amico nel momento del bisogno. E,
nonostante Syd compaia solo sul primo disco dei Floyd (“The Piper at the Gates
of Dawn”, 1967), la sua eredità avrebbe in qualche modo “contaminato” tutta la
loro carriera, contribuendo al loro successo planetario: Gilmour cominciò a
suonare nella band utilizzando lo stile ed i “trucchi” chitarristici di Syd
(venati, però, da uno stile più blues e, con il tempo, più personale); la
follia della quale si parla in “The Dark Side Of The Moon” (1973) è quella di
Syd. In “Wish You Were Here” (1975) si parla di lui; lo stesso per quanto
riguarda “The Wall” (sia il disco che il successivo film del 1982).
Proprio
durante le registrazioni del disco “Wish You Were Here” ad Abbey Road (i famosi
studi delle strisce pedonali sulle quali sfilavano i Beatles nella loro
famosissima copertina) i Floyd videro Barrett per l’ultima volta. E all’inizio
nemmeno lo riconobbero. Il bel giovanotto dai capelli ricci e dallo sguardo
ammaliante era diventato un uomo grasso e calvo, con le sopracciglia rasate
(come il protagonista del film “The Wall”), lo sguardo perso nel vuoto ed una stupida busta di plastica in mano. “Ma
lo sai chi è quello?”. “No, chi accidenti è?”. E’ Syd”. Roger Waters si mise a
piangere. Gli fecero ascoltare in sala regia “Shine on You Crazy Diamond”
(“Brilla, diamante pazzo”), che era dedicata a lui. Ma Syd non capì molto. E
quando andò via, vedendo che stava cercando un passaggio, qualcuno
dell’entourage dei Floyd si abbassò nella macchina per non farsi notare: come
sostenere una conversazione con quello strambo soggetto, mentre lo riportava a
casa? Non lo rividero mai più.
Nel
1982 un giornalista tedesco riuscì con una scusa ad introdursi in casa sua e a
rivolgergli delle domande, ma ottenne solo delle risposte prive di senso. I
negozi di tutto il mondo continuavano a vendere i dischi dei “suoi” Pink Floyd,
divenuti frattanto uno dei gruppi più famosi della storia della musica (non
solo rock), e lui non era più consapevole di nulla. Sarebbe morto nel 2006. Nel
2005, ad Hyde Park, in occasione del “Live 8”, Bob Geldof riuscì a convincere i
Pink Floyd a riunirsi per un ultima volta: Dopo “The Final Cut” infatti Waters
aveva scatenato una guerra legale contro i suoi ex compagni, al fine di
impedirgli l’utilizzo del nome del gruppo dopo che lui aveva deciso che era
tutto finito. Ma aveva perso la causa, e gli altri Floyd riuscirono a
registrare ancora qualche disco, in studio e dal vivo, questa volta sotto la
guida di Gilmour. Il sottoscritto ha avuto modo di vederli a Roma nel 1988 (la
stessa estate nella quale ho potuto anche vedere, per la prima volta, Deep
Purple e Jethro Tull). Purtroppo, ai concerti dei Pink Floyd si sentiva la mancanza di Roger Waters, e
viceversa, per quanto riguardava i tour di quest’ultimo.
Ma
al Live 8 avvenne il miracolo: Gilmour, Waters, Mason e Wright furono di nuovo
insieme sul palco (per la prima volta dai tempi di “The Wall”), ed eseguirono
“Breath”, “Money”, “Wish You Were Here” e “Comfortably Numb”, con abbraccio
finale (un po’ forzato, ma sollecitato dallo stesso Waters) a favore dei fotografi.
E naturalmente non mancò neppure in questa occasione la dedica a Syd Barrett.
L’anno
seguente, durante la seconda parte della
scaletta del tour solista di David Gilmour per la promozione del suo “On a
Island”, si sarebbe potuto ancora assistere a qualcosa di simile ad uno show
dei Pink Floyd, con una formazione non troppo diversa da quella del tour di
“Division Bell”. E con un’emozionante versione di “Echoes”, con le voci di
Gilmour e Wright di nuovo fuse insieme, proprio come nel film “Pink Floyd a Pompei”,
girato nell’anfiteatro dell’antica città nel corso dell’ottobre 1971 ed uscito
l’anno seguente. Purtroppo
anche Rick Wright, così in forma durante quella tournèe del 2006, sarebbe
venuto a mancare due anni dopo. E in tempi più recenti, in omaggio allo stesso
Wright, sarebbe uscito “The Endless River” (di fatto una raccolta di “avanzi
strumentali” provenienti dalle sessions di “The Division Bell”), che avrebbe di
fatto scritto la parola fine alla storia dei Pink Floyd.
I
Led Zeppelin, invece, avrebbero potuto andare avanti dopo la morte di John
Bonham, avvenuta nel settembre del 1980. Ma decisero di non farlo,
semplicemente perché ritennero che “Bonzo” non fosse sostituibile. Il loro
talento, unitamente all’ inspiegabile aura magica che permea i loro brani rende
la loro musica attuale ancora oggi. In
realtà già dal 1994 al 1998 Jimmy Page e Robert Plant avevano unito le forze,
mettendo da parte le reciproche incomprensioni, pubblicando due dischi, un fantastico video e
girando il mondo in tra il 1995 ed il 1996 (con orchestre al seguito), e ancora
nel 1998 (solo in quattro). Mancava John Paul Jones, ma fu qualcosa di molto
simile ad una reunion degli Zeppelin prima di quella “ufficiale” del 2007:
nonostante si presentassero sotto il nome di “Page & Plant”, infatti (per
non far torto a Jones, e soprattutto a Bonham) la scaletta comprendeva quasi
interamente brani del vecchio repertorio, a partire dal devastante inizio di
“Immigrant Song”, per concludersi con l’epica “Kashmir”.
Non
mancava neanche una lunga versione di “Whole Lotta Love”, compresi gli
stregoneschi giochetti spaziali di Page al Theremin. Fu invece rigorosamente
esclusa “Stairway To Heaven”, probabilmente per volontà di Robert, che ebbe con
quel brano un rapporto sempre controverso.
In
Giappone, all’inizio del ’96, tirarono fuori anche brani come “Achilles Last
Stand”, “Tea For One” “Custard Pie” e “The Rain Song”, con Robert e Jimmy in
forma davvero smagliante. Tra parentesi, i brani “Tea For One”, Wearing And
Tearing” (a Knebworth ’90, con Page ospite di Plant) e “For Your Life” (alla
reunion del 2007) non erano mai stati eseguiti dai Led Zeppelin ancora in
attività. E per la reunion del dicembre 2007 (un unico concerto), con il figlio
di Bonham alla batteria, ricevettero 20 milioni di richieste per i 20 mila
posti che poteva offrire la O2 di Londra, la location che avrebbe ospitato il
loro show.
Ma
la loro carriera non fu tutta rose e fiori: il tour del 1975 (l’ultimo in cui
eseguirono “Dazed and Confused”) fu interrotto a causa di un incidente
stradale nell’isola di Rodi, che avrebbe
costretto Plant prima sulla sedia a rotelle e poi alle stampelle (e fu in
queste condizioni che il vocalist avrebbe registrato l’album “Presence”). Il
tour del 1977 venne funestato da una brutta rissa avvenuta ad Oakland
(California), che vide coinvolti sia Bonham che Peter Grant, con conseguenti
strascichi legali. E fu definitivamente cancellato poco prima della data
successiva, quando Robert Plant apprese dalla moglie della morte improvvisa del
figlio Karak. Infine, il tour americano previsto per il 1981 non si svolse mai
a causa della prematura scomparsa di John Bonham. Un batterista che era stato
in grado di lasciare a bocca aperta lo stesso Jimi Hendrix.
Gli
Zeppelin tornarono sul palco in qualche rara occasione, ma solo per suonare
pochi pezzi (soprattutto al “Live Aid”, nel 1985, e per i 40 anni
dell’Atlantic, nel 1988). L’unico vero concerto sarebbe rimasto proprio quello
del 2007, immortalato su DVD. Phil Collins fu uno dei nomi inutilmente tirati in ballo come possibile sostituto di “Bonzo”,
nel 1980. Suonò comunque con loro al “Live Aid” e sui primi dischi di Plant
solista, oltre a seguire quest’ultimo in tour negli USA nel corso del 1983.
Barriemore Barlow, batterista dei Jethro Tull dal 1971 al 1980, si ritrovò
invece dietro ai tamburi sui lavori solisti sia di Page che di Plant.
Nonostante le offerte milionarie seguite alla reunion del 2007, e alle
insistenti richieste di Jimmy Page, Robert Plant non avrebbe mai accettato di
riformare i Led Zeppelin.
Personalmente,
ho voluto scrivere le pagine di questo “Crossroads” per il piacere di
intrecciare le storie di vari gruppi rock degli anni ’70 che mi piacciono (a
parte i Malibran, che sono successivi e mille volte meno importanti) proprio perché
avevo questa idea: gli incroci (“crossroads”, appunto, che è anche
un’espressione molto simile al titolo di un “classico” del blues composto da
Robert Johnson negli anni’30) tra le storie di varie band, e non quella di una
sola di queste, come pure avrei potuto fare. Ma non sarebbe stata una grande
novità. Ho
dunque sintetizzato la biografia di ciascuna band, soffermandomi soprattutto
sui primi anni delle rispettive carriere (solitamente i più affascinanti) e
sugli aneddoti e gli episodi forse meno noti. Ho cercato di rendere il tutto
scorrevole lavorando “per sottrazione” (sarei stato in grado di dilungarmi
molto di più riguardo alle vicende e alla discografia di ciascuna formazione,
in verità). E, soprattutto, ho voluto farlo affidando il tutto alla mia
memoria. A quella e solamente a quella: dunque niente bibliografia, carta
stampata, libri, riviste o internet. Nulla da consultare. Solo quello che
ricordavo, che mi era rimasto in mente, per poi scrivere, avendo davanti
nient’altro che una pagina bianca. Il bello era proprio questo!
Per
quanto riguarda me, dopo una delicata operazione di pancreatite acuta,
un’emorragia interna (con conseguente coma, e diversi mesi in ospedale), oggi
mi ritrovo sulla sedia a rotelle, ma sto facendo molta fisioterapia per non
rimanerci. Ho qualche difficoltà nel parlare, e non sono più in possesso della
capacità di suonare e cantare che avevo prima. Ma i Malibran sono ancora
attivi, ho trovato molto affetto e la mia passione per la musica è più viva che
mai. Preferisco comunque lasciare che a “fare il punto” sulla mia condizione
attuale sia un’intervista che ho rilasciato a Mauro Selis, psicologo e
giornalista sul web:
Come prima cosa, come stai dopo il grave problema fisico del 2012?
Direi molto meglio, considerato il fatto che ho rischiato sul serio di
andarmene! Ho subito l’asportazione del pancreas, ma, soprattutto, una
successiva emorragia interna che mi ha mandato in coma per un mese, con
conseguente lesione al cervelletto. Per questo oggi sono sulla sedia a rotelle,
ho tremori alle gambe (se mi alzo in piedi) e alle mani, e non parlo più in
modo scorrevole. Però stavo molto peggio qualche tempo fa: oggi parlo e riesco
a camminare, se sostenuto da qualcuno o qualcosa
Ho ricominciato a suonare, sono in
grado di salire le scale di casa (con il supporto delle ringhiere), mangio da
solo e sono abbastanza autonomo. I medici hanno parlato di miracolo, dunque
direi che non ho ragione di lamentarmi!
Quanto sono stati importanti i tuoi cari in questo periodo?
Moltissimo. Venivano a trovarmi ogni giorno in ospedale: e questo per mesi
interi. Anche in sala di rianimazione, nonostante io fossi in un altro mondo, e
non sapessi nemmeno che loro fossero lì. Quando sono “tornato”, poi, loro dormivano
una notte ciascuno nella mia stanza d’ospedale, per assistermi in ogni momento.
Al mio ritorno a casa hanno continuato a prodigarsi, senza lasciarmi mai solo.
Mio padre è diventato in pratica uno dei miei fisioterapisti, il mio barbiere
ed il mio infermiere. E, soprattutto, uno stimolo continuo ad osare di più.
Pensa lui a procurare e a prepararmi le varie medicine, giorno per giorno. A
controllarmi la glicemia e a farmi le quotidiane somministrazioni di insulina
(naturalmente, non avendo più il pancreas, ho il diabete!). E’ sempre in giro per
qualcosa che mi riguarda, o per portarmi nei vari centri di fisioterapia. E
pure in piscina, per qualche tempo. Di mia madre non parliamo nemmeno. Si sa
come sono le mamme per i figli:la mia di più!
Alcune persone uscite dal coma raccontano esperienze di percezione del
mondo esterno nonostante il loro stato incosciente, a te è capitato?
Si. Mi hanno fatto ascoltare musica in cuffia, mentre ero in coma, e non ho
sentito niente. Però in qualche momento devo aver percepito e visualizzato le
persone che mi stavano intorno, infermiere ed infermieri. Tanto è vero che
entravano nei miei sogni (non sempre piacevoli), seppur trasfigurate in altri
personaggi. Fatto sta che, in seguito, ho scoperto che quelle persone erano
reali. Nel mio mondo mi trovavo su una sorta di traghetto-ospedale, che
attraversava di continuo lo Stretto di Messina, avanti e indietro. Sopra
c’erano non solo le attrezzature ospedaliere, ma anche grandi videogiochi per i
figli dei pazienti. Veramente assurdo! Il direttore dell’ospedale era anche il
comandante della nave, figurati.
Facciamo un salto a ritroso, alla tua infanzia, il tuo sogno nel cassetto
da bambino qual’era?
Facevo disegni a fumetti, e certamente mi sarebbe piaciuto se questo fosse
diventato un giorno il mio lavoro. La passione per la musica è arrivata dopo.
Avevo anche scritto e mandato alcune mie tavole a Sergio Bonelli (Tex, ecc.),
che gentilmente aveva risposto: invitandomi però, pur apprezzando, a non
rischiare, e a pensare prima agli studi, perché il settore era in crisi, e
anche disegnatori esperti trovavano difficoltà ad inserirsi. Così mi sono
diplomato al Liceo Classico e in seguito laureato in Legge. Ma non era questo
il mio sogno nel cassetto. Sono avvocato ed ho insegnato Diritto.
Sfortunatamente, però, la mia passione era la Storia, e quella è la materia che
avrei voluto insegnare! Credo proprio che sarei stato felice, al di là del
tanto vituperato stipendio esiguo. Sono a mio agio coi ragazzi, specie se parlo
di cose che mi piacciono. Non di Diritto, dunque! E la sera avrei continuato a
suonare in giro. Ad ogni modo, oggi, senza poter più guidare, camminare e
parlare bene, oggi sarebbe stato un bel problema in ogni caso, per quanto io
possa ancora migliorare.
Andiamo avanti un po' di anni e sei adolescente, avevi un desiderio
predominante in quella delicata ma affascinante fase di crescita?
La passione per il disegno, della quale parlavo sopra, si poneva a cavallo
tra infanzia e adolescenza. Leggevo i fumetti, e dunque ne volevo realizzare di
miei. Poi mi ha preso l’ascolto della musica, e allo stesso modo ho voluto
anche farla. Ad un certo momento questi miei due interessi si sono incrociati,
quando ho realizzato la storia dei Led Zeppelin a fumetti. A quel punto, però
(siamo nel 1988) erano già nati i Malibran, e la mia attenzione si era rivolta
di più al gruppo. Oltre a comporre, cantare e suonare diversi strumenti, ero
anche un po’ il manager della band: trovavo le serate, i contatti per fare i
dischi, organizzavo le prove e andavo in giro ad attaccare locandine per
pubblicizzare i nostri concerti. Abbiamo fatto otto dischi ufficiali (compresi
due “live” ed uno di rarità varie), più un DVD antologico, altre cose devono
ancora uscire, e non mi sarei mai aspettato tanto.
Il tutto sempre nell’ambito del rock progressivo, traendo ispirazione dai
grandi gruppi degli anni ’70, ma creando un sound che ritengo sia tutto nostro.
Abbiamo suonato con il Banco Del Mutuo Soccorso, gli Osanna, Il Balletto di
Bronzo, Anekdoten e tanti altri. La nostra musica ci ha portati a suonare anche
in America, altra cosa che sarebbe stata davvero inimmaginabile quando abbiamo
cominciato. Avremmo anche aprire il concerto dei Jethro Tull a Palermo
(nel 2003), e della PFM a Catania (nel 2004), ma entrambe le occasioni sono
sfumate all’ultimo minuto. Sempre a Catania, nel 1996, ci siamo esibiti di
fronte a ventimila persone, salendo sul palco subito prima di Gino Paoli ed
Edoardo Bennato.
Parliamo dell’oggi, hai un sogno musicale che ti piacerebbe realizzare?
Il sogno si è già realizzato, ed è quello di riuscire a suonare ancora, sia
a casa mia che con i Malibran. Un neurologo aveva confidato ad un amico comune
che difficilmente sarei stato più in grado di farlo: la lesione al cervelletto,
che sovraintende ai movimenti, le dita tremanti, deboli e non coordinate tra
loro: all’inizio, infatti, non riuscivo più a fare una sola nota, con la
chitarra. Neanche una. Insomma, la suono dal 1980, e non ero più in grado di
fare niente! Del resto, non riuscivo neppure a chiudere le mani. Invece, poco
alla volta, sono riuscito a suonare di
nuovo. Non come prima, certo, ma suono la chitarra acustica e quella elettrica,
da solo o accompagnando i dischi. Anche se non riesco più a fare arpeggi, parti
soliste veloci e accordi complessi. Con
il gruppo mi è risultato più facile suonare il basso, e ci esibiamo di nuovo in
giro.
Hai materiale inedito ancora a disposizione dopo il disco, di fatto
“solista” (“Trasparenze”) del 2009?
Si, moltissimo materiale. Vari CD inediti già pronti, tra brani registrati
in studio, live e cover. Molto di questo materiale è reperibile sul nostro
“Malibran Official Blog” e su You Tube, insieme a tanti video, con la band in
concerto o in TV. La Mellow si sta occupando della ristampa (con mix diverso)
del nostro secondo disco. Ma sarà pubblicato anche “Straniero”, una corposa
raccolta di nostri “rari ed inediti”, tutti registrati bene, lungo 80 minuti,
che sarebbe un peccato tenere solo per me.
Hai riformato il gruppo chiamandolo “Malibran ensemble”: puoi illustrarci
in sintesi questo progetto?
Si tratta sempre dei Malibran. Ho aggiunto “ensemble” perché oggi la
scaletta è tutta strumentale, come se si trattasse di un gruppo jazz, che
invece suona prog. Inoltre la formazione è cambiata, ed era giusto dare il
segno di un nuovo corso. Ma io, Alessio e Jerry siamo sempre presenti, dal 1988
ad oggi, e dal 2013 si è aggiunto Alberto alle tastiere. Così, oggi, siamo
due coppie di fratelli!
Quali brani del Prog Internazionale e /o Italiano ti sarebbe piaciuto
comporre e per quale motivo?
Dovrei fare un elenco troppo lungo. “Starless” dei King Crimson, “Maggio”
de Le Orme, “Firth of Fifth” dei Genesis, “Man-Erg” dei Van Der Graaf
Generator, “Minstrel in the Gallery” dei Jethro Tull, “La Conquista della
Posizione Eretta” del Banco, “River Of Life” della PFM, “I Love You so” dei
Free, giusto per citare qualche titolo.
Il motivo per me risiede solitamente nella bellezza della musica, mentre
bado meno ai testi. Però di recente ascoltavo “Figure di Cartone” de Le Orme, e
notavo che ha un testo davvero toccante. Mi sono reso conto dell’importanza dei
testi solo quando la PFM ha accompagnato De Andrè, alla fine degli anni ’70. E
il testo più bello della stessa PFM rimane sempre quello di “Impressioni di
Settembre”, che però è di Mogol: un vero dipinto in parole, evocativo e descrittivo insieme.
Anche qualcuno dei miei testi non mi dispiace, ma, ripeto, faccio più
attenzione alla musica, agli arrangiamenti. E, da questo punto di vista, ascoltando
un brano, “sento” la voce stessa come uno degli altri strumenti: devono
attirarmi timbro, interpretazione e linea melodica. Poi, se il testo è anche
bello, meglio!
Se dovessi inviare tre dischi di progressive rock nello Spazio per
diffonderli nell’universo, quali sceglieresti e perché?
Ma nello Spazio andrebbero perduti! Di solito si parla di dischi da
portarsi sull’isola deserta… Scherzi a parte, è difficile dare una risposta,
per il semplice fatto che riempirei lo Spazio di dischi! Invierei comunque i
primi tre lavori del Banco, quelli della PFM fino al 1977, più “Stati di Immaginazione”.
Ancora, i dischi dei Jethro Tull, dal 1968 al 1978. I King Crimson del primo
disco e del periodo ’73-‘74. I Genesis da “Trespass”(1970) fino a “A Trick of
the Tale” (1976). Le Orme dal 1971 al 1977, con speciale menzione per il brano
“Sera” (1975). Ancora “Forse Le Lucciole Non si Amano Più” (1977) de La Locanda
delle Fate, ed il brano “Vorrei incontrarti” dell’Alan Sorrenti periodo “progressive”.
“Dolce Acqua” (1971) e “Viaggio negli Arcipelaghi del Tempo” dei Delirium.
Poi tutti i dischi anni ’70 dei Van Der Graaf, con speciale citazione per
“World Record” (1976), che me li ha fatti conoscere. “Vemod” degli Anekdoten,
coi quali abbiamo suonato nel 1994. Le cose meno ostiche degli Area, e quasi tutti
i Pink Floyd, con menzione speciale per “il disco perfetto”, cioè “The Dark
Side Of The Moon” e del brano “Echoes”. Fuori dal Prog, molte cose dei Deep
Purple anni ’70, sia con Gillan che con Coverdale. Tutti i Led Zeppelin almeno fino
a “Presence” (1976”). Ancora, i pochi dischi dei Free, i primi due dei Black
Sabbath (1970), più “Sabbath Bloody Sabbath”, del 1973.
Ti propongo un gioco, scegli una tra queste due opzioni e se hai voglia di
commentare brevemente lo puoi fare:
Mare montagna?
Abito in Sicilia, ma non vado mai al mare. In media ci andavo una volta
ogni estate! Non amo il caldo, né le spiagge con gli ombrelloni. E ancora meno
il viaggio per arrivarci! Non invidio chi si mette disteso a cuocere per
abbronzarsi: io soffrirei. E mi annoierei pure a morte. Né mi piacciono le
ragazze troppo abbronzate! Mio fratello (il batterista dei Malibran) è l’esatto
opposto: d’estate va al mare tutti i giorni, anche da solo!
A me piaceva solo quando ero piccolo. Posso dire che sono stati piacevoli,
quanto sporadici, alcuni bagni notturni. Mi piace il mare dei documentari e
delle navi, o quello degli antichi velieri nei film. Ma, d’altra parte, non
posso dire di andare neanche in montagna! Sto bene a casa mia. Ed è un bene,
considerata la mia condizione attuale! Anche viaggiare non mi piaceva più,
quando ero ancora in piena salute. E in realtà, a parte le gite scolastiche,
partivo solo per andare a suonare, o per andare a vedere i miei gruppi
preferiti (i Jethro Tull li ho visti otto volte, i Deep Purple tre (anche nella
formazione di “Made in Japan”). Ma ho fatto in tempo anche a vedere i Pink
Floyd, Page & Plant, i Genesis, Peter Gabriel nel tour di “So” (1987), Joe
Cocker e tanti altri. A pensarci bene non ho mai fatto viaggi “di piacere”,
come semplice turista.
Sole o luna?
Direi luna, dopo quanto detto sopra! Sole soltanto se devo suonare
all’aperto, per non avere l’ansia di eventuali piogge che possano rovinare
tutto! Mi è piaciuto tanto suonare di giorno, quando è capitato,davanti a tanta
gente. E, in questo caso, evviva il sole!
Realtà o fantasia?
Per il tipo che sono io, direi certamente fantasia. Ti parlavo dei miei
fumetti, ed amo scrivere. Anche la musica è un mondo di fantasia. Ho frequenti
contatti con la realtà, questo è vero. Seguo documentari, ed anche TG e talk show
politici. Ma di solito galleggio in un mondo di pura fantasia, e queste sono
solo provvisorie interruzioni.
Essere o avere?
Sicuramente essere. Mi è sempre bastato quello che ho avuto, mentre ho
sempre cercato di alimentare spirito e cultura. Non solo quella musicale.
Probabilmente tutto questo non mi ha giovato granchè, ma sono fatto così. Non
ho mai avuto interesse per soldi o macchine veloci. Magari per molti è così.
Per me no.
Psiche o Soma?
Direi Psiche.
Chitarra o flauto?
Mi sento soprattutto un chitarrista. Il flauto per me è arrivato dopo. Ho
imparato entrambi gli strumenti suonando sui dischi, e affinando l’orecchio
musicale. So quale è la nota giusta, e come suona, ancora prima di toccare il
relativo tasto. Una volta, a casa di un mio zio, c’era il rumore di un trapano,
e ho detto che, a mio avviso, quel suono era un re: ho suonato il pianoforte
che era lì accanto, ed era effettivamente un re. E’ come un dono. Orecchio
musicale. Per altre cose magari sono negato!
Jazz o blues?
Blues. Anche l’hard rock che ascolto (o suono) ha radici blues. Per questo
non arrivo al metal. Nonostante un mio
pezzo, “Vento d’Oriente”, sia stato definito “prog-metal”, a me ricorda
piuttosto cose tipo “Kashmir” degli Zeppelin. Con il jazz ho provato, e mi sono
pure abbonato ad alcune rassegne, anni fa, perché voglio essere aperto a tutto.
Ma se è jazz puro, non contaminato, non capisco niente: riesco solo a seguire
la batteria. Intuisco che i musicisti sono bravi, ma niente emozionie. E mi
dispiace, perché vorrei godere di tutta la musica che esiste. Mi “arriva”
qualcosa di più con la musica classica, anche perché amo il suono dell’orchestra.
Mio padre ascolta Mozart da quando sono nato, e dunque è musica per me
familiare, anche se poi non vado a comprarmi i dischi.
Cd o vinile?
Dicono che il vinile si senta meglio, che il CD appiattisca certe frequenze
e che abbia un suono meno caldo. Sono grande abbastanza da aver vissuto in
pieno l’era del vinile (era in vinile anche il nostro primo disco, uscito nel
1990). Ma, ormai, non ho più modo di ascoltare i vecchi dischi, anche se sono
ancora nella mia stanza: ho solo lettori CD, e dunque non ho modo di cogliere
la differenza. So che gli “audiofili” ascoltano solo dischi in vinile. E mi fa
piacere che stia tornando a circolare. Il CD, invece, sembra destinato a durare
meno del previsto, rimpiazzato da altri “supporti”. Però a me piace: Io voglio
avere non solo la musica, ma anche la copertina (che magari preparo io, se non
si tratta di un disco originale), i titoli, i nomi dei musicisti, sapere dove è
stato registrato il lavoro, ecc.
Live o Studio?
Ascolto più musica live che in studio, in effetti. Amo i concerti dei
gruppi che preferisco, che siano registrazioni ufficiali o meno. Una volta ascoltavo
cassette registrate dal pubblico, di pessima qualità.
Adesso preferisco procurarmi registrazioni dal mixer, e magari migliorarne
io stesso il suono, per mezzo di un programma che ho sul PC. Mi piace
personalizzare queste cose, e fare da me le copertine, mettendo foto del
periodo in questione, se non proprio di quella concerto specifico. Cerco di
avere almeno una data registrata dal mixer per ogni tour delle band che
apprezzo di più.
Carmen Consoli o Vincenzo Bellini?
Ho frequentato Carmen Consoli per molto tempo, negli anni ’90, prima che
divenisse veramente famosa. Non posso dire lo stesso di Vincenzo Bellini, dal
momento che non ho avuto la ventura di vivere nei primi decenni del 1800. Ho
conosciuto Carmen dopo un nostro concerto del 1991, quando è venuta da me per
congratularsi per il mio modo di suonare la chitarra. Non era una di quelle
ragazze che avvicinano il cantante perché è “carino”. E parlava di musica con
cognizione di causa. Rimasi sorpreso, anche perché lei aveva 16 anni, o poco
più. Il chitarrista nostro davvero bravo è Jerry, ma a suo parere, quando
entrava la mia chitarra, era come se si accendesse un motore che faceva
decollare il gruppo, dandogli più grinta e mordente.
In realtà lei non amava il prog, ma i Malibran sono stati sempre molto rock,
e così veniva a vedere noi, ed io a
vedere lei, quando suonava con la sua blues band (i “Moondogs”), oppure
accompagnata solo da un chitarrista. A volte, mentre si esibiva, si avvicinava
a me per chiedermi come stava andando il tipo. Mi dedicava al microfono “Mr
Big” dei Free, perché sapeva che era un pezzo che mi piaceva. La prima volta
sua voce mi ha sorpreso: era intrisa di soul e blues ed era molto potente,
considerata l’età e l’aspetto minuto. Ricordo che si trasferì a Roma, ma che tornò
delusa. Era ancora alla ricerca di una sua vocalità. E, in effetti, la sua voce
poi è cambiata, ha trovato una “chiave” tutta sua. All’epoca, quando finivamo
di suonare coi Malibran, saliva pure sul palco per abbracciarci, entusiasta. Al
telefono mi diceva che i miei testi erano come poesie, e che stavamo per
“esplodere”. Noi eravamo nel periodo tra il primo ed il secondo disco. Ma ad
esplodere davvero poi è stata lei!
Era davvero determinata. Si andava a casa sua, tra pizze e chitarre
acustiche. Le ho prestato una VHS dei Free, che le piacevano, ma che non aveva
mai visto. Ho ancora un suo libro di E. A. Poe che mi aveva prestato. Purtroppo
ci siamo persi di vista e non ho potuto restituirglielo. Ci siamo incontrati nel
2000, all’aeroporto di Catania, mentre noi partivamo per gli USA e lei per Bari.
In anni più recenti la stavano premiando nel teatro di Belpasso, ed era
circondata da fans e giornalisti: quando mi vide, devo dire che scansò tutti
per venire a salutarmi.
Ma anche con Vincenzo Bellini i Malibran hanno un punto di contatto: Maria
Malibran, mezzo-soprano dell’800, cantava le sue Opere. E qualcuno dice che
avesse una passione nei suoi confronti, al punto che, alla notizia della morte
di lui, si uccise a sua volta, lanciandosi follemente al galoppo, fino a cadere
malamente. Non so se sia vero, ma anche Francesco Di Giacomo, la voce del
Banco, una volta mi disse che la Malibran era morta proprio cadendo da cavallo.
Ma non è chiaro se si sia trattato di un incidente o meno.
Solista o band?
Diciamo che sono stato anche “solista nella band”, se parliamo di me.
Infatti diversi dischi dei Malibran contengono brani composti e suonati solo
dal sottoscritto. Pezzi che spesso gli altri non avevano neanche mai sentito,
fino alla pubblicazione (!).
Lo stesso “Trasparenze”, come dicevi, è in realtà un mio lavoro solista, con
alcuni ospiti, tra i quali qualcuno del gruppo. Ma l’etichetta ha insistito
perché uscisse a nome “Malibran”, e alla fine, dal momento che il sound era
quello, e tre su quattro di noi erano presenti (più l’ex Giancarlo al sax), ho
acconsentito. Ma avevo già composto e suonato
tutto il disco, e gli altri hanno (ottimamente) contribuito, ma venendo
in sala solo una volta ciascuno, e seguendo le mie “istruzioni”. Ricordo
comunque con più piacere i tempi dei primi dischi, quando era più un lavoro di
squadra. Però già con “Oltre L’Ignoto” (2001) ad essere presente in sala con il
fonico spesso c’era solo uno di noi. E indovinate chi era? Non parliamo poi del
lavoro per la grafica di ogni disco, del quale mi sono sempre occupato in prima
persona.
Magari con l’aiuto di qualche amico, ma senza nessuno della band. Peccato,
perché mi sarebbe piaciuto. Oltre al nome stesso della gruppo, inoltre, sono
anche miei i titoli di tutti i nostri dischi e quelli dei singoli brani, oltre
al loro ordine sui dischi. E i testi, naturalmente, oltre che un bel po’ delle
musiche. Alla pubblicità, ai dischi, a procurare date e ad internet ha sempre
badato il sottoscritto.
In ogni caso, ritengo che i veri talenti dei Malibran siano Alessio alla
batteria e Jerry alla chitarra solista. Soprattutto considerato il fatto che
non suonano mai, se non quando abbiamo una concerto in vista! Io ho invece una
maggiore visione d’insieme, una passione certamente più maniacale, e la fortuna
di essere anche compositore, polistrumentista ed arrangiatore.
Cinema o televisione?
Entrambi. Andavo al cinema ogni martedì con una ex compagna di Liceo, per
non so quanti anni. Ma tutto si è bruscamente interrotto qualche anno fa,
quando sono stato male. Adesso non sarei più nelle condizioni, e mi rimane la
TV. Anche per vedere quei film che altrimenti avrei visto al cinema. Per
fortuna ho un bel TV Color nella mia stanza, collegato pure alle casse dello
stereo. E’ grande e si vede benissimo. Così non è il cinema quello che mi manca
di più, ad essere sinceri. E magari, più in là, sarò nelle condizioni di
andarci di nuovo.
Pittura o scultura?
Direi pittura, anche per via dei miei “trascorsi” di disegnatore. Ma
dipende anche da quale pittore e da quale scultore. In Italia abbiamo avuto
artisti eccelsi in entrambe le forme d’arte. Specie nel Rinascimento.
Romanzo o racconto?
Ho apprezzato entrambi, ma in genere leggevo di più prima di stare male.
Soprattutto riviste e libri attinenti alla Storia o ai gruppi rock, con belle
foto a colori. Io stesso ho scritto un mio racconto riguardante le mie
“vicissitudini ospedaliere”. Ma la musica è presente anche lì. Leggevo molti
romanzi, adesso non più. Magari ricomincerò, chi può dirlo? Da piccolo ho
divorato tutti quelli di Salgari attinenti al
“Ciclo Malese”(Sandokan & Co.) e a quello del Corsaro Nero. Poi Ho
letto tutti i racconti di Poe, traducendone qualcuno a fumetti, compreso
l’unico romanzo che aveva scritto, “Le avventure di Gordon Pym”. Divoravo i
fumetti di Tex, poi quelli di Ken Parker. Gli ultimi sono stati quelli di Dylan
Dog.
Pasta con le sarde o Granita alla siciliana?
Sono goloso di dolci, ma adesso ho il diabete! Granita, comunque. La
prendevo al bar ogni mattina, in estate, con gli amici. Ora non dovrei, ma
qualcosa di dolce me la concedo ancora, e ci scapperà anche la granita, con quegli
stessi amici! Ogni tanto, la sera, passano a prelevarmi a casa, e andiamo a prendere la pizza!
Giuseppe Scaravilli, 2015
The Magical Hospital Tour
Apro un occhio. Uno solo. Sto
uscendo dal coma, è un grande segnale di ripresa. I medici disperavano, e
dicevano ai miei: “Questo ragazzo non si sveglia, temiamo che possa non venirne
fuori”. Mio padre è presente: è proprio lui a vedere quell’unico occhio che si
riapre. Dopo un mese, cioè dopo più o meno una vita a vagare nel nulla da parte
del sottoscritto, tra maggio e giugno 2012. Adesso lui può finalmente gioire,
richiamando l’attenzione di mia madre. In verità io non ricordo niente di tutto
questo. Me lo racconteranno loro in seguito. In realtà non potrei neanche
definirmi propriamente un “ragazzo”: forse medici ed infermieri mi chiamavano
così perché tutti gli altri, nel reparto della sala rianimazione dell’ospedale,
erano più anziani. Però mi chiamavano così anche quando ero ancora sveglio, al
quinto piano.
A fine gennaio di quello stesso
anno ero stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Vittorio Emanuele di Catania:
pancreatite acuta. Prima, a casa, avevo improvvisamente sofferto di dolori
sempre più lancinanti, che alla fine che mi avevano letteralmente messo in
ginocchio ad urlare. E sono uno che fa musica, non teatro. Non stavo
esagerando: quel dolore al ventre era diventato davvero fortissimo,
insopportabile. In un primo momento avevo pensato ad una qualche forma di intossicazione: ero stato ad una
festa di compleanno, e, come di consueto, non mi ero lasciato pregare
nell’indulgere nei piaceri del desinare e del bere varie bibite gassate.
Mi era capitato qualche altra volta, ma in
questo caso era diverso. Dovevo sedermi, poi alzarmi di nuovo, camminare. E non
riuscivo neanche a rimettere. Il problema, molto semplicemente, non era quello.
Niente intossicazione: un calcolo (li chiamano così: forse perché amano
“calcolare” se e quando farti fuori) aveva ostruito non so quale condotto
interno, ed il pancreas era andato “in tilt”, prendendo allegramente a divorare
se stesso invece che il cibo assunto. Un problemino da niente che qualche
decennio fa usava la cortesia di mandare all’altro mondo i malcapitati dieci
volte su dieci. Oggi tre volte su dieci, stando a quello che mi ha riferisce un
chirurgo in pensione amico di famiglia. La sera in cui sto male sul serio viene
lui a visitarmi a casa: mi fa stendere sul divano della cucina, mi visita,
quindi sollecita papà a portarmi subito al Pronto Soccorso dell’ospedale
Vittorio Emanuele di Catania. Viene con noi anche mio fratello Alessio, che mi
incoraggia dicendomi che mi metteranno subito “a nuovo”: nessuno immagina
minimamente l’odissea che mi aspetta. Tanto meno il sottoscritto. Del resto non
avevo mai sofferto di niente. In passato andavo in farmacia solo per prendere i
tappi per le orecchie e qualche pillola, in entrambi i casi solo per dormire
meglio la notte. E soprattutto, non avevo mai avuto dolori che potessero indurmi
a farmi visitare da qualcuno, a darmi almeno un campanello d’allarme. Di solito
le cose vanno così.
Come era capitato a mio nonno
(mio omonimo) e, più di recente, a mio cugino Ivan. Il nonno era diventato
tutto giallo (!), mentre il cugino aveva accusato forti dolori. In questi casi,
è sufficiente sottoporsi ad una piccola operazione, ed ecco che i calcoli non
ci sono più. Solo due o tre giorni in
ospedale, e tutto si riduce ad un vecchio ricordo. Non nel mio caso, però.
Quando l’equipe medica stabilisce che bisogna operarmi, decidiamo di
trasferirci al nuovo ospedale Garibaldi, perché sia un certo professore,
specializzato in casi delicati come il mio, ad occuparsi dell’intervento.
Andiamo con l’ambulanza. E anche questa si rivela una bella sofferenza! Del
Vittorio Emanuele non ricordo molto, ma per un po’ di giorni ci sono rimasto.
Una volta una dottoressa, che ricordo come una bella ragazza che portava gli
stivali sotto il camice bianco, mi spingeva sulla barella (quella con le ruote) insieme ad un’infermiera. Entrambe in
mi trasportavano quasi correndo, scherzavano e ridevano come bambine, senza
pensare alla “gerarchia” o a cose del genere. Rischiando anche di sbattermi di
qua o di là. No, non stavo bene, eppure quella volta mi sono divertito. Credo
sia stato il momento più simpatico di quello sbiadito periodo, prima di
cambiare ospedale. Al Vittorio Emanuele devo anche essere stato sedato. Fatto
sta che ricordo di aver sognato di essere da solo su un battello, in alto mare.
L’atmosfera era tranquilla. Poi però l’atmosfera è cambiata, ed io ho rotto
tutto. Non so bene cosa, nel sogno, ma nella realtà ho strappato via dalle
braccia tutti i cerotti e gli aghi delle flebo. Non sarei il tipo incline a
sfuriate di questo tipo, ma credo che questo sia successo davvero. Ricordo un
infermiere che si lamentava, sorpreso, ripetendo (in dialetto siciliano): “Ma
guarda cosa ha combinato”…
All’ospedale Garibaldi Nesima
rimango coricato per un mese, al quinto piano, prima di poter fare l’operazione
al pancreas: non so in che senso, ma il mio corpo doveva essere preparato prima
all’intervento, e dovevo aspettare. Avevo altri compagni di stanza. Ma nel
tempo ne avrei avuti tanti, che non ricordo più chi e quanti fossero i primi,
se non in maniera molto vaga. Alla fine tutti venivano dimessi, andavano via,
venivano sostituiti da altri. Io invece no, sono rimasto lì per mesi, per i
motivi che spiegherò meglio.
E dunque avevo finito ormai per
essere parte dell’arredamento: c’erano gli armadietti, le poltroncine, la tv,
il crocifisso di fronte a me…e c’ero io. Anche con gli infermieri avevamo ormai
fatto amicizia: ci chiamavamo per nome, e me li ricordo un po’ tutti. Enzo e
Linda lavoravano sempre in coppia: stranamente lui non portava il classico
camice bianco, ma una maglietta nera, coi muscoli in evidenza, ed un fisico
asciutto. I capelli erano bianchi e corti, aveva famiglia, ma era ancora
giovane. Organizzava pure serate in discoteca: decisamente un contesto diverso,
rispetto a quello ospedaliero!
Mi opero il giorno dopo la morte
di Lucio Dalla. Questa triste notizia non mi aveva messo esattamente di buon
umore, e l’operazione in sé sarebbe stata comunque estremamente delicata. Per
dirla tutta, circa 30 anni fa era mortale dieci volte su dieci. Oggi tre volte
su dieci. Eppure non avevo paura. Si scendeva in sala operatoria venendo
trasferiti sopra un altro lettino più piccolo, con le rotelle. Praticamente
nudi, a parte un camice di sottilissima plastica trasparente verde. E anche con
qualcosa in testa (una cuffietta, o qualcosa del genere) sempre verde. Mi hanno
“posteggiato” in una stanza, al caldo, e stavo piuttosto scomodo. Dovevo avere
delle cinghie che mi trattenevano, ed anche la flebo addosso: in pratica non
vedevo l’ora che si decidessero a farmi quell’accidente di intervento!
Finalmente è il mio turno, sono nella stanza nella quale mi faranno un bel
taglio, per asportare pancreas e cistifellea: quest’ultima con tutti i suoi
dannati calcoli all’interno. Sorpresa, l’anestesista è un compagno del Liceo!
Anche l’altra persona che è lì mi conosce perché è di Belpasso, il paese dove
vivo. Ma anche e soprattutto per via dei Malibran, la mia band dal 1987. E
considerato che all’intervento assisterà anche Roberto, il medico mio ex
compagno di banco, potrebbe definirsi una bella rimpatriata!
Certo, se le circostanze fossero
diverse, dal momento che, ridendo e scherzando, sto per giocarmi la pelle (un
altro mio coetaneo siciliano, in quello stesso periodo, si sottopone allo
stesso giochetto e non ne esce vivo). La siringa per l’anestesia mi sembra
enorme e mi fa anche un po’ male. Naturalmente, poi, non ricordo più niente. Mi
aprono e quindi mi ricuciono. Ed io mi ritrovo nella stanza del mio reparto al
quinto piano. Non avverto alcun dolore. Né sento i punti che “mi tirano”, come
sentirò dire ad altri. Con il tempo questi punti spariranno, e poi le
“graffette” le rimuoverà un infermiere con barba e codino (che mi ricorda tanto
Carmelo, il fratello Di Jerry, il chitarrista del mio gruppo).
Mi accorgo che mi hanno rasato il
petto. In seguito la stessa sorte toccherà a barba e capelli, che portavo
lunghetti. Ma questo per un problema successivo, che racconterò in seguito. La
dottoressa “capo” del reparto a volte è spigolosa, in altre occasioni ha
qualche slancio più affettuoso (?).
Non si capisce bene che tipo è,
in effetti: riceve telefonate al cellulare solo da sua madre. Va bene, ma in
fondo chi se ne frega? In ogni caso mi invita sempre a bere due bottiglie
d’acqua al giorno (!) e a camminare di più. Io non riesco a fare solo un po’ di entrambe le cose. Posso
“deambulare”, ma a fatica. E devo tirarmi dietro l’asta con le rotelle che
sostiene le flebo. Io la chiamo “l’albero di Natale”. La mia, poi, sembra
bloccata, rispetto a quella degli altri, le rotelle non girano bene. Anche
persone anziane, nella mia stanza, fanno su e giù di continuo con quell’affare,
volitive. Ma io non ci riesco. Cammino molto lentamente.
E, soprattutto, quando stacco la
testa dal cuscino, è come se dei cavi rimanessero su quest’ultimo, ed altri
dietro la mia testa: così non sto bene, fino a quando, coricandomi di nuovo,
non permetto a questi cavi (immaginari) di connettersi di nuovo tra loro. Non
so a cosa sia dovuta questa sensazione, ma è così. Papà e mamma (spesso insieme
a mio fratello Alessio) vengono a trovarmi ogni giorno, sia a pranzo che a
cena, con la pioggia o con il caldo. Con papà al mio fianco qualche passo lo
faccio, sempre tirandomi dietro l’asta con le flebo attaccate. Ma la cosa è
talmente rara che, quando mi vedono in piedi, le infermiere mi tributano un
sentito applauso. Quello che chiamo
“l’albero di Natale”, con tutte le flebo attaccate, devo tirarmelo dietro anche
in bagno.
Rimango al Garibaldi fino
all’ultimo giorno del marzo 2012. Due mesi mi sono già sembrati una vita, ma,
ahimè, il bello (si fa per dire) deve
ancora venire. Al momento rientro a casa sulle mie gambe, in macchina, con la
famiglia al completo. Salgo le scale a fatica, e, come “bentornato”, rimetto in
un sacchetto di plastica appena entro. Sono stati fatti dei lavori, cambiati
gli infissi, e anche la mia stanza è un po’ diversa. Sempre con le pareti
azzurre, comunque, ma in parte ritinteggiate. Anche alcuni dei manifesti alle
pareti sono stati spostati. Comunque, “home sweet home”, finalmente! Ciò
nonostante, non può certo dirsi che io stia bene: l’ospedale sembra un ricordo
da lasciarsi alle spalle, ma cammino un po’ a fatica, e ho bisogno di sdraiarmi
sul letto in continuazione. Per salire le scale mi aiuto con la ringhiera, e
anche quando faccio la barba devo sedermi a riposare almeno una volta. Neanche
stessi scalando l’Everest! Trascorro a casa tutto il mese di aprile ed i primi
giorni di maggio. A fine aprile riesco a suonare la chitarra elettrica, con
Alessio alla batteria. Temevo peggio, perché le dita sembrano incastrarsi un
po’ tra loro. Ma Alessio trova che vado bene. E’ presente anche Jerry, chitarra
solista dei Malibran. Suoniamo insieme con questa band di progressive rock dal
1987, e abbiamo pubblicato otto dischi ed un dvd antologico. Lui però è solo in
visita con il fratello Carmelo, senza strumenti, e loro due sono il nostro
pubblico. Facciamo pezzi del disco “Trasparenze” (lavoro più mio che del
gruppo, in verità’), e secondo Carmelo sembra che non manchi niente, anche se
siamo solo in due a suonare. La cosa mi conforta, e già si parla di fare una
prova “vera e propria” da Jerry, che ha una sala apposita. Purtroppo le cose
non andranno così.
Il giorno del Primo Maggio 2012
lo trascorro a casa dell’amico Ignazio, ma non riesco a gustare tutte le cose
buone che ci sono (ahimè!”, non riesco proprio a mangiare niente). Negli ultimi
giorni il ventre mi si è inspiegabilmente gonfiato, e cammino come più o meno
una donna incinta. Così, mentre gli altri (grandi e piccoli) giocano allegramente
sul prato, dopo pranzo, io me ne sto seduto in un angolo all’ombra, e poco dopo
mi faccio accompagnare a casa. Collasso all’istante sul letto e mi addormento.
No, decisamente non sto bene. Passo il resto del tempo a leggere nel terrazzino
che abbiamo sotto le scale. Anche se è aprile, fa fresco, ed io me ne sto
coperto e allungato sopra una sdraio, godendomi, se non altro, gli alberi ed il
verde che abbiamo da noi. Un’altra cosa, rispetto al bianco “ospedaliero”.
Riesumo anche un po’ di fumetti
da leggere: per circa dieci anni, fino al 1988, ne disegnavo io stesso,
rilegandoli in volumi. L’ultimo era la storia dei Led Zeppelin. Per il resto si
trattava per lo più di racconti di avventura. A volte trasponevo film o
racconti di Edgar Allan Poe. In seguito, però, avevo smesso sia di realizzare
che di leggere fumetti, se non sporadicamente.
Così questa “riscoperta”
dell’aprile 2012 era stata una sorta di salto indietro nel tempo. A proposito
di Poe, ho ancora un libro di Carmen Consoli che lei mi aveva prestato tanti
anni fa. A quei tempi ci frequentavamo: suonavamo insieme a casa sua, prendendo
le pizze, io andavo ai suoi concerti con la sua band (i “Moondogs”), mentre lei
veniva a vedermi coi Malibran, durante i primi anni ’90. Da quando è diventata
una cantante famosa a livello nazionale, però, ci siamo persi di vista. E quel
libro coi racconti di Edgar Allan Poe non sono ancora riuscito a
restituirglielo! Lei amava il blues e lo cantava con una voce sorprendente,
quasi da nera americana. Soprattutto considerato il fatto all’epoca aveva solo
16 o 17 anni, e che aveva un fisico davvero minuto. Sembrava impossibile che
quella voce fosse la sua. Non amava il progressive, ma, per qualche motivo,
apprezzava molto i Malibran. Probabilmente perché allora avevamo un sound molto
rock, potente, pieno di passione. E facevamo anche spettacolo sul palco,
divertendoci.
Come detto, io rimango in
ospedale fino alla fine di marzo 2012. Due mesi che sembrano un’eternità. Dal
momento che fatico ad alzarmi dal letto, un medico mi chiama scherzosamente
(senza riuscire a farmi ridere più di tanto, in verità) “sacco di patate”. E’
amico e collega di quel mio ex compagno di banco, Roberto, patito dei Pink
Floyd (li vediamo assieme a Roma nel 1988) e medico anche lui. Ma, come detto,
ad aprile sono a casa, e l’ospedale sembra un ricordo ormai alle spalle. Però
continuo a muovermi a fatica, e, ad un certo punto, il ventre mi si gonfia
sempre più.
Così torno al Garibaldi (ci
andavo comunque ogni lunedì a fare dei controlli), e, con l’assistenza di
Roberto, verifichiamo che bisogna intervenire per tirare fuori questo liquido
che mi appesantisce. La cosa in sé si rivela poca cosa: mi tirano fuori questo
liquido dall’esterno, con un tubicino che va a finire in una sacca, che man
mano si riempie. E allo stesso tempo io mi “sgonfio”, com’è ovvio. Dunque sono
anche contento: tornerò come prima, e mi avvierò alla guarigione completa entro
l’estate! Tutti gli infermieri mi chiedono che ci faccio di nuovo lì in
ospedale. Ricevo la telefonata di un amico, mentre sono a letto (se ne era
liberato uno, e dunque faccio tutto “al volo”, un venerdì, mentre avevo pensato
di dover tornare in un secondo momento).
Quando la telefonata finisce,
vedo con una certa sorpresa che ho riempito due sacche di questo liquido: sono
come due grandi palloni trasparenti, che l’infermiera deve portare fuori
trascinandoli per terra, perché da sola non riuscirebbe a sollevarli (!). Mi
dicono che potrò tornare a casa due giorni dopo, ed io già pianifico una prova
con il gruppo. Si, bravo. Invece comincio a rimettere sangue. Prendo un sacco
di plastica, e ogni tanto appoggio la testa sul cuscino. Ma dura poco: ogni due
minuti devo risollevarmi per rimettere altro sangue, mentre il mio vicino di
letto (un anziano) mi porge il rotolone di carta per pulirmi. Solo che sembra
non finire mai. Vado in bagno, ma alla fine devo chiamare il vicino, perché mi
aiuti. Naturalmente le porte degli ospedali non possono essere chiuse
dall’interno, nel caso qualcuno dovesse avere problemi, e ritrovarsi chiuso
dentro. Nel caso specifico quel “qualcuno” sono io. Il compagno di stanza mi
aiuta a sollevarmi, ma non riesco a rimanere in piedi. Questa volta sembro
davvero un “sacco di patate”. Vuoto, però. Durante il mio primo ricovero ero
svenuto (prima volta della mia vita) mentre mi facevano una radiografia, una
lastra, o non ricordo cosa. Dovevo stare solo in piedi, reggendomi con le mani
su dei pomelli, mentre i medici “in sala regia” mi facevano una specie di foto
all’addome.
Ma avevo sentito subito che non
avrei resistito più di qualche secondo. L’immagine successiva che ricordo è
quella di me per terra, con dottori ed infermieri tutti attorno a me.
L’infermiere che mi aveva portato fin là con la sedia a rotelle (per fare
prima) assicura che, vedendomi crollare, sono accorsi facendo in tempo a non
farmi battere la testa sul pavimento. Ma io ho la sgradevole sensazione di
averla sbattuta comunque. Adesso, in bagno, ho la stessa sensazione, non riesco
a stare in piedi, mi sento svuotato, sto andando giù. Arrivano gli infermieri,
con il solito Enzo in maglietta nera, mi sorreggono e mi sdraiano sul letto. A
quel punto sto già molto meglio.
Si, non desideravo altro. Ma
ricomincio a rimettere sangue. E’ strano, mi piace il colore rosso vivido di
questo sangue che sgorga a fiotti, sono sereno, non sento niente. Reclino la
testa sul lato sinistro, mi mettono dei tovaglioli di carta sulla spalla, ma
non serve a niente: sto vomitando un fiume di sangue a getto continuo, sto
inondando il pavimento della stanza: qualcuno dovrebbe procurare delle
scialuppe di salvataggio, siamo sul Titanic. Enzo mi dice di non addormentarmi.
Gli chiedo per quale motivo, dal momento che così mi risparmierei almeno un po’
di questo brutto momento. Ma lui insiste, e mi chiede di parlargli:”Parlami,
Giuseppe, parlami, dimmi qualcosa, quello che ti passa per la testa”.
Mi sembra di intuire che, se
dovessi addormentarmi, potrei non risvegliarmi più. E così dico qualcosa, anche
se gli argomenti per un amabile conversazione, arrivati a quel punto, sembrano
terribilmente scarseggiare.
Sono nel letto d’ospedale a
rimettere sangue, con la testa rivolta da una parte. Linda, l’infermiera
collega di Enzo, all’inizio tenta di raccogliere quel flusso rosso continuo.
Poi rinuncia, dal momento che quello non accenna a smettere. Si sta allagando
tutta la stanza, e più che una bacinella od uno straccio, servirebbe una
scialuppa di salvataggio. Ora sono sdraiato sopra una barella, mentre
infermieri e dottori corrono tutti, portandomi non so dove. A a fare una tac,
credo, ma i miei ricordi non sono chiari.
Vedo i cerchi delle luci sul
soffitto del corridoio scorrere sopra di me: sembra di essere alla fine del
film “Carlito’s Way”, dove Al Pacino in una situazione molto simile, ripensa
agli ultimi avvenimenti della sua vita, per l’ultima volta. Ma non capisco lo
stesso il motivo di tanta concitazione: non mi sento male. Ho sempre preferito
vedere calma intorno a me. E qui invece, dottori ed infermieri che mi
trasportano il più velocemente, le flebo si muovono oscillando, le parole sono
concitate. Sto forse morendo? Penso: ok, purchè si faccia piano, senza tutto
questo chiasso! Qui finiscono i miei ricordi da persona cosciente di sé, ed
entro nel tunnel senza tempo del coma. Durerà un mese, tra maggio e giugno
2012. Ma io non so niente. Non so nemmeno di essere di nuovo in sala
rianimazione. Ho barba e capelli ormai lunghissimi, e alla fine mi sbarbano e
mi radono a zero.
Ma non ho nessuna memoria di
questo: non so chi sia stato, come e quando. Mi racconteranno anche che i miei
riceveranno una telefonata, per sentirsi chiedere se acconsentono a questa mia
“tosatura”. Figuriamoci, una chiamata dalla sala rianimazione, mentre non si sa
se ne uscirò vivo o morto: papà e mamma rischieranno un infarto. Nel frattempo
io non ci sono: settimane di nulla, a galleggiare tra sogni ed incubi, vita e
non vita. Nella mia mente l’ospedale è
montato sopra una chiatta che attraversa lo Stretto, da Messina a Reggio
Calabria, e viceversa. In continuazione. Non si sa per quale motivo. Ci sono
sopra le attrezzature sanitarie, i letti, i dottori, gli infermieri; ma anche
grandi videogiochi, tipo quelli di una volta, per i figli dei degenti. E’ come
una stramba via di mezzo tra una nave ospedale ed una nave da crociera. Ogni
tanto colgo delle figure reali, infermiere o infermieri, che si trasfigurano
nel mio dormire in personaggi diversi, che popolano questo mondo a parte, che
esiste solo nella mia testa, e che non posso controllare.
Il mio amico Roberto mi fa
ascoltare musica in cuffia, ma io non sento niente. Non ci sono proprio. Ho
chiuso con tutto e con tutti. Ad un
certo punto, come verrò a sapere in seguito, lui, che mi è sempre accanto,
chiederà agli amici stretti e agli ex compagni di liceo di pregare tutti
insieme per me: ho raggiunto una fase critica, sono sopravvenuti altri
problemi, compresa una febbre altissima. Me ne sto andando.
Si sparge la voce,via telefonate,
via Facebook. Tutti pregano. Io sono in un altro mondo, eppure il mio corpo
vuole proprio rimanere in questo, non vuole saperne di lasciarlo. Poi avverrà
un miracolo. Un vero miracolo.
Esco dal coma. Ma non del tutto.
Nella sala rianimazione mi trovo in una stanza a parte, rispetto agli altri
degenti. Un po’ perché sono il più grave; forse anche perché sono il più
giovane. Intorno a me, solo respiri nel silenzio. Ho la sgradevole impressione
di essere circondato da malati in fase terminale. Senza realizzare bene che
anche io sono uno di loro.
Quando ho bisogno di qualcosa, è
un grosso problema, perché non si vede nessuno. Per lo meno, non dal mio letto.
E neanche riesco a pronunciare una parola, ad emettere un suono, per richiamare
l’attenzione di qualcuno: ho avuto un tubo in gola per respirare (anche se
questo è un particolare che non ricordo per niente), e dunque ho perso la voce.
Per farmi notare posso solo sollevare un braccio, se intravedo un qualunque
essere deambulante. Mi piacerebbe avere qualcosa da sbattere, per farmi
sentire, ma non ho niente di niente. E sono quasi del tutto immobile.
Non riesco neanche a tirarmi su
le lenzuola, quando sento freddo per via dell’aria condizionata; il mio sogno
sarebbe riuscire a girarmi su un fianco, ma mi sento come un bambolotto
inchiodato, avvitato contro il letto: posso stare solo a pancia in su. Riesco a
farmi capire un po’ solo con il labiale. Ma certi giorni c’è un’infermiera che
non capisce nulla di quel che cerco di esprimere.
A parte il fatto che chiunque, in
quelle condizioni, non potrebbe che chiedere le solite cose (un po’ d’acqua, o
cose del genere), lei segue il mio labiale, e ripete cose surreali: magari che
ho la necessità urgente di andare sulla luna a cavallo di un ornitorinco, tanto
per dire.
In rianimazione di solito viene a
trovarmi papà: può farlo una sola volta al giorno, con camice e cuffia verdi,
sempre sorridente. Mamma spesso deve rimanere fuori, e può solo guardarmi da
una finestrella. Quando mi vede per la prima volta con il cranio rasato, le
ricordo mio fratello Alessio. Di frequente viene anche mio zio Carlo (il
fratello più piccolo di mio padre), direttamente da Bronte: tutto quel viaggio,
solo per guardarmi da quella minuscola finestrella! E’ stato lui, quando era un
capellone barbuto (ed io un ragazzino) a farmi conoscere i Doors e i Jethro
Tull, e ad insegnarmi i primi accordi di chitarra. Quando loro sono alla
finestra, possono vedermi solo di spalle. E per permettermi di salutarli con la
mano, papà deve mettere davanti a me un piccolo specchio. E’ così che scopro di
avere i capelli rasati a zero, il volto smunto e gli occhi di fuori. Insomma,
di avere l’aspetto di un detenuto in un campo di concentramento! Qualche volta,
possono entrare mamma, Alessio o lo zio, al posto di papà. Ad Alessio chiedo di
portarmi un libro (“Io sono Ozzy”) che è a casa, nella mia stanza: ma scopro
presto di non essere in grado di sfogliare le pagine. Neanche una. Ed è sempre
ad Alessio (architetto, nonché batterista dei Malibran dal 1988) che tutti
telefonano per avere mie notizie.
Mentre sono in quelle condizioni,
lui si avvilisce non meno dei miei genitori: si trascura, dimagrisce
(nonostante sia sempre andato in palestra a fare “body building”), si lascia
crescere la barba. Un infermiere napoletano, Luigi, mi aiuta moltissimo, e gli
devo tanto. E anche lui risentirò qualche anno dopo su Facebook.
Stranamente, quando sono in
quell’altro mondo, sogno lui che mi fa la doccia spruzzandomi addosso acqua
gelata con un tubo di gomma, mentre io mi rannicchio completamente nudo sopra
una roccia, sperando che giunga presto il momento di essere avvolto in un morbido
accappatoio (!?). Un altro aiuto mi viene amorevolmente offerto da Fiammetta:
in realtà lei si occupa dei bambini, in un altro reparto. Ma suo marito, medico
e chitarrista del gruppo “Metatrone”, mi conosce. E quando lei gli parla di me,
lui fa: “Ah, Peppe dei Malibran!”. Così passa a trovarmi spesso, mi parla, e
qualche volta mi porta pure il gelato.
In seguito ci risentiremo anche
con lei su Facebook, quando sarò finalmente a casa (ebbene si: poi sono
sopravvissuto!): io non ero neanche certo se me la ero sognata, Fiammetta,
oppure no; e invece lei mi scrive: “Ma ti ricordi tutto!”. Si rincuora, a
vedermi (tanto tempo dopo) sul pc, con un aspetto decisamente migliore. Un suo
collega dice che sono “bellissimo”!. In effetti per lei è molto frustrante
prodigarsi tanto, e poi non riuscire a salvare le vite che accudisce.
Soprattutto lei, che si occupa di bambini. Così ha quasi l’impressione di
impegnarsi per niente.
Vedere coi propri occhi che io ne
sono venuto fuori, invece, sarà per lei motivo di enorme felicità e
gratificazione. Addirittura verrà a vedermi suonare (per quanto io sia sulla
sedia a rotelle), con il marito ed i colleghi della rianimazione.
E sono io a rianimare loro, dal
momento che mi vedono vitale, felice e completamente preso dalla musica. Come
se non fosse successo niente (anche se non suono certo con la scioltezza di un
tempo). Durante il coma (o mentre sono un po’ di qua e un po’ di là) la figlia
del comandante-primario della surreale nave-ospedale è una ragazza che si
chiama Federica.
Io non riesco mai a ricordarmi
questo nome (non chiedetemi perché), e per riuscirci utilizzo sempre un
“escamotage”: penso a quella che immagino potrebbe essere l’etimologia latina
del nome: tradotto in italiano, “ricca di fede”. E da qui, ecco Federica! E’
anche un tipo che mi piace, occhi blu e capelli lunghi neri. A volte è
un’amazzone a cavallo.
Però scompare sempre, non si vede
mai. Inoltre, nella veste di figlia del “comandante”, è fidanzata con un
giovane medico che è a bordo. Il padre però è contrario, e i due sono sempre
lontani l’uno dall’altra, ai due lati opposti della nave. Anche queste due
persone sono reali, intraviste in un momento di veglia, accanto al mio letto,
per poi “infiltrarsi” nel film che inconsciamente sto girando nella mia testa.
Alla fine mi riportano su, in
reparto, sempre al quinto piano. Sono lucido, ma praticamente immobile. Non
vedo l’ora, e dunque rifiuto l’ultima visita di fisioterapia che stavano per
farmi, perché voglio salire al più presto. Solo che mi ritrovo in una stanza
singola, con la TV che neanche funziona. Viceversa, dopo tanta solitudine,
avrei voluto tornare in una stanza (magari la stessa di prima) con almeno altre
due persone, sentire qualcuno parlare. Ed avere anche dei compagni di stanza
(al di là degli infermieri) a cui poter chiedere di porgermi questo o quello,
dal momento che da solo non riesco a prendere niente. Ancora non lo so, ma
purtroppo sono uscito dal coma con una lesione al cervelletto. Di qui, a parte
lo stare a letto per un tempo lunghissimo, i tremori alle mani e
l’impossibilità di alzarmi. Papà e mamma sembrano contenti della stanza, dicono
che si vedono gli alberi dalla finestra. Ma io non sono in grado di vederli,
questi alberi, questo verde. E quando rimango solo, combino pure un guaio:
muovendo male le mani, faccio rovesciare la bottiglietta d’acqua (senza tappo)
sul ripiano che fa da comodino, accanto al letto. Ed il mio telefonino, che è
lì sopra, annega miseramente in quest’acqua. Mi basterebbe tirarlo fuori con
due dita, ma non ci riesco.
Rubrica, messaggi, tutto può
andare perduto, e non riesco a fare niente. Il campanello per chiamare gli
infermieri sembra non funzionare: non arriva nessuno, si accende solo la luce.
Chiamo il solito Enzo con tutta
la voce che ho (stranamente mi viene fuori), ma la porta è chiusa, la stanza è
in un corridoio deserto, e mi metto a piangere di rabbia. Perché capisco in
quel momento che non sono autonomo, che non posso rimanere da solo. Per fortuna
dopo un po’ arriva un infermiere, che tira fuori il cellulare dall’acqua e
asciuga tutto. Era venuto per conto suo, non perché avesse sentito suonare: ero
io che non avevo individuato il pulsante giusto, abilmente nascosto alla base
del pomello coi vari tasti!
Quando mamma e papà ritornano nel
tardo pomeriggio, decidono di rimanere con me una notte ciascuno, dormendo
sulla poltrona allungabile (e certo non comodissima) che è lì. Lui smonta il
telefonino e, asciugandolo a lungo con un phon, riesce insperatamente a
salvarlo. All’inizio sembra di no, ma poi riprende a funzionare. Così portano
una piccola tv da casa, e continuano a venire a trovarmi di giorno. Poi uno di
loro si trattiene anche di notte. Anche se, non avendo più il pancreas, ho
ormai il diabete a vita, mi faccio portare spesso un ghiacciolo: riscopro
quello al gusto Coca-Cola, del quale avevo dimenticato l’esistenza. Oppure mi
accontento di quello al limone. Non assaggiavo più ghiaccioli da decenni, ma è
estate, e ho bisogno di qualcosa che mi rinfreschi, e mi tiri un po’ su. Ho una
tosse violenta, e, soprattutto di notte, ho bisogno di qualcuno che mi porga un
tovagliolo di carta. In questo mio padre è sorprendente: nonostante stia
dormendo aggrovigliato su quella stupida poltrona, con un guizzo si alza e in
un secondo è già da me.
La sera ci addormentiamo presto,
e dunque, quando ci svegliamo, di solito è ancora buio: accendiamo la tv e
seguiamo il TG di Rai News 24. Solo qualche volta mi sveglio con la luce del
giorno, e quasi non mi pare vero. Io in
ogni caso io non sono in grado di utilizzare il telecomando, non essendo in
grado di premere un solo tasto!
Ogni tanto viene un
fisioterapista (che si fa chiamare “Pablo”): prova a farmi almeno sedere sul
letto. Ma non ci riesco, per me è una fatica immane, tremo tutto e devo
sdraiarmi di nuovo, spossato, come se avessi appena scalato l’Himalaya!
Sempre all’ospedale apprendo dai
TG della scomparsa di Jon Lord, tastierista dei Deep Purple: dovrei pensare
alla mia vita, al momento, ma è una notizia che mi addolora profondamente. Per
non parlare poi, di quella di Francesco Di Giacomo del Banco, della quale
apprenderò quando sarò tornato a casa.
Si parla di trasferirmi in elicottero ad un
centro neuro-lesi che si trova a Messina. E’ una cosa della quale i dottori
discutono davvero con mio padre, ma io, ancora tra post-coma, sonno e veglia,
trasfiguro tutto ed immagino che mi portino con un grande elicottero in un
posto bellissimo: è riservato solo ad un “elite” di ragazzi (e io che
c’entro?), le stanze sono singole, ed ognuna ha la sua TV con un braccio mobile
che consente di metterla alla distanza
che si preferisce (!). Inoltre si gioca fuori a pallone, passandosi la palla su
collinette verdi: ma, a ripensarci, come sarebbe possibile palleggiare su un
terreno non pianeggiante? E come farlo, se non riusciamo neanche a camminare, e
siamo lì proprio per questo? Mistero. Inoltre, visto che all’ospedale riesco a
stare sdraiato solo sulla schiena, sogno
che in questo posto mi mettano subito a letto con la pancia sul materasso, e
che poi mi coprano. Non chiederei di meglio, sul serio! Il bello è che non siamo
neanche a Messina, bensì in Svizzera (?), con un bel freschetto che mi
rigenera.
Dopo i mesi trascorsi al
Garibaldi mi sposto in ambulanza al Centro “Villa Sofia” di Acireale. Ma non mi
trovo a mio agio, e rimango lì solo quattro giorni. Non funziona la TV,
l’atmosfera è grigia, ed ho pure un vicino di letto, anziano, che di tanto in
tanto lancia urla fortissime: senza motivo, così, tanto per gradire. Come
speravo, vengo spostato al “Calaciura” di Biancavilla, che è tutt’altra cosa:
sembra quasi un Hotel a 5 stelle, le infermiere sono attente, giovani e
graziose, le fisioterapiste pure, gli infermieri simpatici e l’ambiente
luminoso.
Inoltre è molto più vicino casa!
A Biancavilla avevo visto suonare la PFM (Franz Di Cioccio mi aveva richiesto
anche le riprese che avevo fatto da sotto il palco) e inseguito Franco
Battiato. Naturalmente avrei mai pensato di doverci tornare in ambulanza, per
passarci due mesi a letto; ma non ho ragione di lamentarmi: come detto, la
struttura è accogliente. Io ho solo un “vicino di letto”, che cambia
periodicamente (prima due giovani, poi due anziani), man mano che viene
spostato o dimesso. Ma mi trovo bene con tutti. E detengo anche il possesso del telecomando, per guardare in
televisione quello che preferisco. Praticamente tutto il giorno!
Non mi va di leggere, né (udite,
udite!) di ascoltare musica con il piccolo lettore mp3. E questo per i miei,
che mi conoscono bene, è fonte di notevole preoccupazione. Se tento di girarmi
di lato sul letto, a parte la fatica immane, le gambe mi si tendono pure “a
molla”, senza che io possa controllarle, ed i piedi nudi vanno a shiantarsi
contro le barre metalliche ai piedi del letto, facendomi un bel male. Per fare la
fisioterapia si scende in palestra un’ora di mattina ed un’altra di pomeriggio.
Ma io sono uno scheletro quasi immobile, e non posso fare granchè, a parte il
lettino e lo “Standing” (un affare che ti fa stare in piedi, immobile). A
seguirmi sono di più Daniela e Valentina. Il problema, però, è già “ab
origine”: essere cioè tirato su dal letto per il trasferimento sulla sedia a
rotelle: a quel punto, quando le ragazze mi mettono a sedere sul letto
(sollevandomi la testa dal cuscino), partono i tremori (le clonìe) a tutto
spiano, e sgambetto come una marionetta impazzita (sono io stesso a definirmi
così), rifilando calcioni ad ogni sfortunato essere umano che abbia la sfortuna
di trovarsi nelle immediate vicinanze. Il tutto dura circa un minuto, ma
qualcuno deve piantarmi bene i piedi a terra, come se volesse conficcarli nel
pavimento. Solo allora mi calmo, ed è possibile farmi passare sulla carrozzina.
A quel punto, anche una sola
fisioterapista è in grado di prelevare più “degenti” (età media 90 anni) e di
accatastarli tutti nell’ascensore, per scendere a fare fisioterapia. E di
solito uno di loro, sulla sua sedia a rotelle, viene abilmente utilizzato per
tenere aperta la porta dell’ascensore, così da fare entrare tutti gli altri!
La palestra è ampia, e anche se
io sono uno dei più giovani, ecco che devo guardare signori e signore in età
avanzata fare molto meglio di me: salgono e scendono imperterriti, su e giù per
la scaletta, camminano agevolmente con il deambulatore e vanno avanti e
indietro alle parallele. Ma porca
miseria! Io fatico anche a rimanere seduto sulla carrozzina, e quando mi
spostano per il lettino o lo “Standing” partono di nuovo quelle maledette
clonìe, che mi scuotono dai piedi in sù…
Non riesco neanche a chiudere le
mani, che rimangono sempre semi-aperte, tipo artiglio. Altro che riprendere a
suonare! Una volta Daniela, cercando di farmi chiudere a forza il pugno, mi fa
urlare di dolore, neanche stessero torturandomi durante il regime di Pinochet
in Cile. L’amico Ignazio mi porta in stanza la sua chitarra acustica, ma non
riesco più a fare una nota: Mano destra e sinistra non si coordinano tra loro,
e sono troppo deboli. Avrei tutto in testa, saprei cosa fare, ma il corpo non
mi segue. Il mio sogno, dopo aver suonato da una vita le cose più complicate,
sarebbe soltanto quello di riuscire a fare un sol maggiore, oppure un re. Quel
tempo arriverà, ma, mentre sono ricoverato a Biancavilla (agosto e settembre
2012), è ancora troppo presto. Anche per mangiare mi imboccano come un bambino.
Una volta mi ritrovo per caso
davanti ad uno specchio, e mi atterrisco: senza più barba, smunto, con gli
occhi e le spalle che sembrano voler venire fuori. Mi atterrisco: meglio
evitare gli specchi! A di Biancavilla
dove trascorrerò gli ultimi due mesi del lungo “tour ospedaliero”, prima di
tornare a casa. Mi trovo bene, come dicevo, ma non tutto va per il meglio:
innanzitutto, se dal letto chiami con il pulsante gli infermieri, qui ti
risponde una voce gracchiante al citofono, chiedendoti di cosa hai bisogno.
Ora, voglio dire, se chiamo
significa che di qualcosa ho bisogno: che mi chiedi a fare “di cosa”,
esattamente? Altrove arrivava l’infermiere e basta. Giustamente. Inoltre, come
ti rispondo (e ti spiego), a distanza, quando non riesco nemmeno a parlare? Tra
l’altro, se a chiamare è uno dei due pazienti della stanza, di notte, quella
voce gracchiante deve necessariamente svegliare anche il compagno di stanza.
Non solo: qualunque sia la tua
necessità, rispondono comunque che gli infermieri stanno per arrivare, ma che
“devono finire il giro”. Ma quale giro? Se mi è solo andata qualcosa di
traverso (dico per dire), e mi serve solo qualcuno che mi batta la mano sulla
schiena, devo morire soffocato perché loro devono “finire il giro”? Inoltre non
è affatto vero che stanno per arrivare: a volte passano pure dopo tre quarti d’ora.
E un mio vicino di letto (un anziano di Bronte) li odia per questo,
mandandogliene a dire di tutti i colori. Nell’ultimo periodo accuso forti
dolori causati dal catetere: sento che stanno per arrivare, questi dolori, e so
già che si placheranno solo quando saranno in grado di praticami
l’infiltrazione di non so che cosa, con un siringone spaventoso solo a
guardarlo. E il bello è che l’infermiere meno simpatico (uno giovane) mi
ripete, petulante, di non gridare. Non gridare? Ma perché, tu pensi che io grido
a comando, perché è “chic”, perché è “trendy”, o perché mi fa sentire più
importante? “Non gridare”...Cosa significa? Mandami subito qualcuno ad aiutarmi,
piuttosto. O no?
Di contro, ci sono due signore
(prima una e subito dopo un’altra!), non più presenti a sè stesse, che urlano
di continuo senza motivo alcuno. Una situazione difficilmente sopportabile, dal
momento che non smettono mai. Io fatico a dormire la notte, e quando finalmente
ci riesco, ecco che una di loro mi sveglia, strillando a tutta forza,
nonostante io faccia chiudere la porta della mia camera, ed abbia pure i tappi
per le orecchie (unico motivo per il quale, un tempo, ero al corrente riguardo
all’ esistenza delle farmacie). Una volta rispondo a mia volta ad una di loro
urlo (cosa che in condizioni “normali” non mi sognerei mai di fare), e le urlo
“Stai zitta, stronzaaaa! Zittaaaa!” Ad una persona anziana, e con evidenti
problemi: evidentemente sono fuori di testa pure io, e non ne posso più di
ospedali, belli o brutti che siano. La palestra, è solo un’ora la mattina ed
un’altra il pomeriggio. La domenica neanche quello: niente da fare, niente di
niente, se non stare a letto tutto il giorno (e poi, naturalmente, tutta la
notte), tra sonno e veglia, indigestione di TV e ascolto del lettore mp3.
Durante tutti i pasti vengo sempre imboccato come un bimbo. E così sarà anche
per i primi tempi a casa, dove papà e Alessio mi trascineranno ogni volta dal
divano della cucina al mio letto prendendomi di peso, per le gambe e per le
braccia (allegria!).
A Biancavilla, come già al
Garibaldi, vengono a trovarmi amici, parenti ed ex compagni di classe. Tutti
dicono di trovarmi molto meglio rispetto alla volta precedente: non posso
dunque fare a meno di chiedermi una cosa: come accidenti ero messo “la volta
precedente”, dal momento che continuo a non essere certo il ritratto della
salute?
Di contro, sia a Catania che a
Biancavilla ho sempre la fortuna, come accennato, di ritrovarmi quali compagni
di stanza brave persone, che si tratti di giovani o di anziani. Dal momento che
ci si trova tutti nella stessa barca, ecco scattare come per incanto la
solidarietà reciproca, la gentilezza, la disponibilità. E questo anche coi
rispettivi parenti che vengono in visita. Alla fine si fa quasi amicizia. E
importa poco che si tratti quasi sempre di gente molto diversa da me o dai
miei: nella vita non avrei certo trovato molta intesa con tutta questa
variegata umanità. Sarei stato prevenuto: molti provengono da cittadine come
Gela o Bronte, e sembrerebbero non avrebbero molto a che spartire con me:
parlano dialetti variopinti, in TV prediligono le cose Mediaset che io non
guarderei neanche sotto tortura, e cose del genere. Ma le circostanze mi fanno
capire che tutto questo non conta niente. Alla fine si rivelano brave persone e
basta.
Mamma e papà, come al solito,
vengono ogni giorno: mi fanno cenare e mi portano fuori (naturalmente sulla
sedia a rotelle) a prendere un pò d’aria. A fine settembre, dopo mesi di
ospedale ( faccio in tempo a “visitarne” altri due, uno a Paternò e un altro a
Catania: altrimenti, che “Hospital tour” sarebbe?), torno finalmente a casa. In
ambulanza, tanto per cambiare. Eppure,
anche se mi trovo sdraiato lì dentro, traballante, senza poter vedere fuori (e
rivolto pure al contrario rispetto al senso di marcia), riesco a dare
indicazioni all’autista per arrivare a destinazione. E non vedo l’ora.
Quando arriviamo, mi piazzano
sopra una specie di seggiolino e, salite le scale e attraversati salotto e
corridoio, mi adagiano finalmente sul letto. Il mio letto, questa volta, nella
mia stanza, tra i miei poster, i miei CD, DVD, libri, TV e tutto il resto.
Cominceranno presto anni di riabilitazione, per riprendere (nei limiti del
possibile) a camminare, parlare, muovermi, suonare. Ma l’importante è che sono
a casa, nella mia camera azzurra, tra le mie cose, con la mia famiglia, e non
più tra camici bianchi. Mi scappa una lacrimuccia. Di felicità, questa volta.
Giuseppe Scaravilli, 2015
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